Copertina
Autore Tomás Ibañez
Titolo Il libero pensiero
SottotitoloElogio del relativismo
EdizioneEleuthera, Milano, 2007 , pag. 222, cop.fle., dim. 12,5x19x1,3 cm , Isbn 978-88-89490-35-8
OriginaleContra la dominación. Variaciones sobre la salvaje exigencia de libertad que brota del relativismo y des las consonancias entre Castoriadis, Foucault, Rorty y Serres
EdizioneGedisa, -, 2005
TraduttoreMarta Milani
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe filosofia , politica , relativismo-assolutismo
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Indice


     Prologo                                    7

     PARTE PRIMA
     DIFESA DEL RELATIVISMO                    11

  I. Contestualizzazione filosofica            13
 II. Argomenti relativisti                     39

     PARTE SECONDA
     CASTORIADIS, FOUCAULT, RORTY, SERRES:
     CONFRONTANDO L'INCONFRONTABILE            83

     Prolegomeni: un progetto irrealizzabile   85
III. Cornelius Castoriadis                     95
 IV. Michel Foucault                          121
  V. Richard Rorty                            145
 VI. Michel Serres                            183
VII. Connessioni                              195

     Appendice — Nota su John Dewey           203
     Riferimenti bibliografici                215


 

 

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Pagina 13

I
CONTESTUALIZZAZIONE FILOSOFICA



A mo' di prolegomeni


Esplorare la questione del relativismo ha il difetto di coniugare le divagazioni con il frutto proibito. Da una parte è seducente, dall'altra è pericoloso, soprattutto se non si ha la precauzione di esprimere previamente una professione di fede antirelativista. In effetti, manifestare una certa simpatia verso il relativismo non è innocuo e ci espone, di fatto, alla minaccia di una doppia esclusione.

In primo luogo, è esclusa ogni prospettiva di portare avanti una comoda carriera accademica, perché il relativista è visto dall'Accademia come uno impegnato a tagliare il ramo su cui sta seduto, come uno che fa traballare la stabilità dell'intero edificio.

Dal momento che l'Accademia si sostenta producendo, accumulando e trasmettendo conoscenze che hanno sufficiente garanzia di veridicità, è ovvio che mettere in dubbio il concetto stesso di «verità» non può essere ben visto e che produrre argomentazioni in chiave relativista significa guadagnare punti per essere scacciato dall'invidiabile status di accademico serio e rispettabile.

In secondo luogo, esclude ogni prospettiva di essere pienamente accettato nella comunità sociale nella quale ci è toccato vivere.

Produrre un'argomentazione in chiave relativista conduce a fare affermazioni del tipo che l'atto di mettere una bomba e uccidere duecento persone non è intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Un tale atto risulta spregevole, anche totalmente spregevole, a partire dai valori nei quali ci riconosciamo. Ma questi valori, che a volte siamo disposti a difendere con le unghie e con i denti, non hanno un maggior o minor grado di fondatezza ultima rispetto ai valori cui si rifanno i terroristi. Intrinsecamente, non sono né migliori né peggiori dei valori opposti.

Dire cose come quella che abbiamo appena detto ci assicura, nel migliore dei casi, serie difficoltà a essere compresi, o rischia, nel peggiore dei casi, di procurarci un'accusa di «apologia del terrorismo».

Costi accademici, costi sociali... perché diavolo arrischiarci a scoperchiare il vaso di Pandora del relativismo?

Forse, attratti dal frutto proibito (dopo tutto Giovanni Paolo II si impegnava ostinatamente a dirci che «nel relativismo sta il male»), è difficile resistere alla tentazione di avvicinarci al relativismo per vedere che aspetto abbia. Ma forse anche perché sospettiamo che le «pratiche di libertà» possano trovare sproni negli argomenti relativisti. In ogni caso, la problematica del relativismo si presenta senza dubbio avvolta da una tempestosa nube di intense polemiche.

Le polemiche riguardo al relativismo sono antiche quasi quanto la stessa storia della filosofia occidentale. Ci troviamo dunque di fronte a un dibattito che ha alle spalle circa 2500 anni di storia della filosofia. Ma, sebbene il relativismo sia stato discusso durante l'intera storia della filosofia occidentale, è ugualmente certo che questa discussione ha conosciuto alti e bassi, e che si è presentata con intensità molto variabili. Uno dei periodi, o forse delle epoche, in cui questo dibattito ha acquisito una speciale intensità è proprio il periodo contemporaneo, in particolare durante gli ultimi tre o quattro decenni. Ludwig Wittgenstein (1889-1951), Willard van Orman Quine (1908,2000), Nelson Goodman (1906-1998), Michel Foucault (1926-1984), Donald Davidson (1917-2003), Hilary Putnam (1926-), Thomas Nagel (1937-), John Searle (1932-) Richard Rorty (1931-2007) Jürgen Habermas (1929-), Charles Taylor (1931-) sono alcuni dei pensatori che hanno portato argomenti per questo dibattito, senza contare buona parte dei pensatori che sono stati definiti, o che si autodefiniscono, postmoderni.

Nonostante le sue origini remote, la controversia sul relativismo è pertanto tremendamente attuale e si trova, dal mio punto di vista, nell'epicentro della tensione tra fenomeni storici del Moderno e del Postmoderno, sia dal punto di vista sociologico, sia dal punto di vista ideologico. Riflettere oggi sul relativismo è anche un modo per cercare di capire meglio i cambiamenti che stanno avvenendo nell'epoca in cui viviamo.

Sebbene il dibattito sul relativismo si presenti spesso a partire da una prospettiva epistemologica, in relazione alla domanda sullo status della conoscenza, esso riguarda anche aspetti ontologici (cos'è il reale?) e, soprattutto, presenta forti implicazioni nel campo dell'etica e della politica. Non bisogna dimenticare che sono state preoccupazioni etiche, e preoccupazioni legate al vivere bene, che incoraggiarono inizialmente la formulazione degli argomenti relativisti. Cosa significa essere libero? Come riuscire a essere libero? Sono queste alcune delle domande originariamente sottese alla formulazione del relativismo.

Se i dubbi relativisti scandiscono la storia della filosofia occidentale, screditare il relativismo e lanciare schiaccianti anatemi contro le posizioni relativiste costituiscono anch'essi una costante storica. Troviamo questi discrediti già in Platone (427-347 a.C.) quando ridicolizza Protagora (485-410 a.C.) e anche nella famosa enciclica di Giovanni Paolo II intitolata Veritatis Splendor (1993), in cui si proclama che la problematizzazione relativista della «verità» è una delle peggiori minacce incombenti sull'umanità. Opinione, quest'ultima, riaffermata con forza dal cardinale Ratzinger due giorni prima di diventare Benedetto XVI, nell'omelia della messa Pro Eligendo Pontifice. È abbastanza frequente sentire voci conservatrici che ci mettono in guardia con veemenza dagli effetti devastanti del relativismo sui valori morali della nostra civiltà. Non meno frequente è ascoltare voci progressiste che proclamano che il relativismo è pericoloso addirittura per la semplice convivenza pacifica e civilizzata, dato che ci porterebbe a considerare la forza bruta come la risorsa ultima per risolvere le nostre controversie.

Prima o poi dovremo farci delle domande sui motivi di tale avversione, così intensa e palese, suscitata dal relativismo. Anticipo già le mie convinzioni: il relativismo è attaccato duramente perché mina alla radice, alla base stessa, ogni principio di autorità.

A ogni modo, il risultato di una persecuzione filosofica del relativismo così sostenuta è che assai pochi pensatori accettano di definirsi relativisti. Si tratta tutt'al più di una definizione da scagliare contro gli altri, di un'accusa dalla quale tocca solo difendersi, affermando di non aver mai commesso il peccato relativista.

Proseguendo su questa linea di discredito, ci sentiamo dire persino che il relativismo è completamente insensato e aberrante e che nessuno in possesso delle sue piene facoltà mentali può difendere un'impostazione relativista. Già il vecchio Platone aveva messo tutto in chiaro: contro un relativista non serve nemmeno impegnarsi ad argomentare. Basta lasciarlo parlare, visto che il suo stesso discorso si distrugge e si confuta da sé in un superbo esercizio di autocontraddizione.

In effetti, se la verità non esiste, non può nemmeno essere vero che la verità non esista. Pertanto, l'affermazione la verità non esiste non è vera, e se non è vero che la verità non esiste, allora l'affermazione che la verità esiste è vera e il relativismo è, per questo, falso.

Semplice. È una questione di logica elementare. La questione relativista non si può enunciare senza che tale enunciazione non risulti letale per l'argomentazione relativista stessa. E dunque il relativista si vede ridotto al silenzio perché, se parla, le sue stesse parole annullano ciò che dice; chiaramente nemmeno il silenzio lo salva dato che, se tace, l'argomentazione non sussiste.

L'argomento dell'autocontraddizione sembra definitivo, schiacciante, demolitore.

Ciononostante, invece di tranquillizzarci, è proprio il fatto che l'argomento dell'autoconfutazione sia tanto schiacciante che ci dovrebbe portare a sospettarne. Perché, se le cose sono così chiare, se il relativismo è una posizione così insensata, così ridicola, così inconsistente e così ovviamente insostenibile come diceva Platone, sarebbe stato logico che la questione si fosse conclusa definitivamente nell'istante stesso della sua formulazione. Invece come si spiega che sia sopravvissuta nei secoli, che sia arrivata fino ai giorni nostri e che addirittura abbia registrato un boom spettacolare negli ultimi decenni? Forse i pensatori che hanno sostenuto in passato, o che sostengono adesso, posizioni relativiste, soffrano di una oligofrenia profonda?

Le impostazioni relativiste non si sono estinte definitivamente nell'istante stesso della loro formulazione, né tanto meno è giustificato considerare deficienti tutti i suoi difensori. Quindi sembra piuttosto ragionevole ipotizzare che non siamo di fronte a una posizione che si possa screditare tanto facilmente e che i relativisti non sono così insensati come lasciava intendere Platone.

Infatti, come vedremo, non è troppo complicato formulare il relativismo in modo da eludere completamente la figura logica dell'autocontraddizione; per ora suggeriamo soltanto di considerare, in via provvisoria, che la causa istruita contro il relativismo forse non dispone di prove così evidenti e definitive come potrebbe sembrare.

Inoltre, l'unicità e la semplicità dell'argomentazione dell'autocontraddizione si scontra con una difficoltà legata all'enorme varietà dei relativismi.

Effettivamente, nella sua formulazione più condensata, il relativismo afferma semplicemente che X non è «incondizionato». Cioè che X è sempre relativo (in relazione) a Y, cioè a una cosa che non è X. Si afferma ad esempio questo quando si dice che «i nostri valori» (la X) sono condizionati dalla «nostra cultura» (la Y).

X può rappresentare i valori, ma anche le nostre opinioni, le nostre convinzioni, la conoscenza, gli oggetti fisici, ecc. E, ovviamente, uno può essere relativista per quanto riguarda i valori senza esserlo per la conoscenza. O può esserlo rispetto alla conoscenza ma non rispetto agli oggetti fisici, ecc. L'enorme varietà di tutto ciò che possiamo mettere al posto della X permette di distinguere diversi relativismi: il relativismo epistemologico, il relativismo etico, il relativismo ontologico, ecc. Le argomentazioni relativiste sono diverse l'una dall'altra e non pare troppo verosimile che un'unica argomentazione contraria, come quella dell'autocontraddizione, possa rendere giustizia a tutte quante.

Dunque si dispiega una gran varietà di relativismi a seconda di ciò a cui si riferisce la X, ma si dispiega una gran varietà di relativismi anche a seconda di ciò che mettiamo al posto di Y. Si può accettare che X sia relativo, ma relativo in relazione a cosa? Può essere in relazione alla nostra mente, in relazione alla nostra cultura, in relazione al linguaggio, in relazione alla storia, in relazione al sociale, ecc. E, per ognuno di questi casi, ci troveremo di fronte a un relativismo differente. Quindi non c'è un relativismo, ma piuttosto molti tipi diversi di relativismo, e forse la cosa insensata è pretendere di distruggerli tutti quanti in base all'unico e schiacciante argomento di Platone.

Addentrarci, come stiamo per fare, nello spazio discorsivo del relativismo significa addentrarsi, inevitabilmente, nello spazio della retorica della verità. Ricorrendo a un vocabolario dalle chiare risonanze foucaultiane, potremmo dire che stiamo per occuparci dei «regimi della verità», dell'«economia della verità» e, più precisamente, della veridizione. Per veridizione intendiamo l'aspirazione a dire la verità rivendicata da un discorso. Oppure la legittimità che può essere concessa, da un determinato pubblico, a enunciare la «verità».

Come dobbiamo intendere tale aspirazione? Cosa può significare questa aspirazione in quanto tale? In cosa consiste il fatto di dire la verità?

Sebbene lo status della verità sia una questione chiave nel dibattito sul relativismo, tale dibattito mette a confronto molte altre questioni. È un dibattito che si addentra nel campo della metafisica, o dell'ontologia, e che genera altre impostazioni metafisiche contrapposte, quali il realismo, l'idealismo o il materialismo. È un dibattito che si addentra anche nel campo epistemologico e che provoca altre impostazioni epistemologiche, quali il razionalismo, l'empirismo, il positivismo, la fenomenologia, il pragmatismo, ecc.

Ciò significa che per discutere la questione del relativismo è imprescindibile prestare una certa attenzione al discorso filosofico, anche se solo sorvolando la storia della filosofia in relazione a questa questione. Possiamo scegliere il punto finale del nostro sorvolare la storia, ma per iniziarlo dobbiamo per forza ritornare ai tempi di Socrate e dei sofisti; cioè quasi cinque secoli prima della data che la religione cristiana ha imposto come anno zero del nostro calendario.

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Per concludere questa breve contestualizzazione filosofica, è forse il caso di riassumere in poche righe le tappe principali del pensiero che, a partire dalla sua elaborazione nella Grecia antica, è arrivato fino alle porte dell'oggi.

Abbiamo visto che appena venne secolarizzata la questione della «verità», cioè appena fu strappata dalle mani degli dèi la facoltà di pronunciarsi riguardo alla «verità» per riportarla sul terreno della semplice argomentazione razionale tra esseri umani, si costituirono due schieramenti antagonisti. Da un lato, chi negava che fosse possibile stabilire proposizioni il cui «valore di verità» non fosse «condizionato»: i relativisti, e anche chi dubitava che fosse possibile stabilire il «valore di verità» di una proposizione: gli scettici. Dall'altro, chi partendo da convinzioni opposte, ossia partendo dall'affermazione del «carattere non condizionato della verità», tentava di mettere a tacere la negazione relativista, mostrandone l'inconsistenza logica, oppure tentava di controbattere i dubbi scettici sforzandosi di trovare delle proposizioni con un «valore di verità» che non potesse essere messo in discussione.

Una volta scartata, in maniera sbrigativa, la posizione relativista basandosi sull'argomento della sua evidente incoerenza logica, tutti gli sforzi dispiegati dai fautori del secondo schieramento si orientarono a bloccare la spirale della regressione infinita promossa dagli scettici, facendole toccare il fondo, cioè formulando proposizioni la cui assoluta certezza permettesse di configurare uno strato di roccia dura sul quale porre le fondamenta dell'edificio della «vera conoscenza».

Paradossalmente, le diverse strategie chiamate in gioco per costruire le fondamenta della nostra capacità di veridizione, della nostra capacità di dire la verità, il razionalismo da una parte e l'empirismo dall'altra, e anche il tentativo della sintesi kantiana, ci forniscono argomenti per alimentare una difesa del relativismo. Questa difesa può poggiare sugli argomenti razionalisti contro l'empirismo, sugli argomenti empiristi contro il razionalismo, sugli argomenti scettici contro entrambi, e su questa bomba a orologeria filorelativista che Kant costruì senza volerlo, nel suo sforzo inteso a consolidare il dogmatismo.

La lunga guerra tra il dogmatismo e lo scetticismo continua ancora oggi. Ma forse ora si comprende meglio perché le offensive lanciate negli ultimi decenni contro il fondazionalismo filosofico, e gli sforzi dispiegati per introdurre la storicità (ossia per introdurre la contingenza in tutto ciò che concerne la conoscenza), siano visti come stimoli per lo scetticismo e pericolosamente propensi al relativismo. Richard Rorty da una parte e Miche] Foucault dall'altra ci sembrano, a partire da questa prospettiva, i due principali responsabili dello smantellamento del dogmatismo nell'epoca attuale.

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Pagina 39

II
ARGOMENTI RELATIVISTI



Il polimorfismo del relativismo


Come dimostreremo in seguito, l'avversario con il quale si deve confrontare un Platone del XXI secolo presenta i tratti piuttosto sconcertanti di un Protagora polimorfo.

Infatti, il relativismo non si compone di un orientamento unico, ma è formato da una gamma di formulazioni assai diverse. Unicità e omogeneità non sono caratteristiche salienti del relativismo; lo sono invece la pluralità e l'eterogeneità. L'argomentazione contro il relativismo dovrebbe prender forma in funzione delle differenti tipologie, dal momento che ci troviamo di fronte a impostazioni differenti.

È possibile intuire la fondamentale pluralità del relativismo anche solo prendendo in considerazione le notevoli differenze che separano alcuni dei pensatori solitamente bollati, piu o meno a ragione, con l'etichetta relativista. Pensatori come Friedrich Nietzsche (1844-1900), Ludwig Wittgenstein, Thomas S. Kuhn (1922-1996), Paul Feyerabend (1924-1994), Nelson Goodman, Willard van Orman Quine, Richard Rorty, Michel Foucault o Jacques Derrida (1930-2004) hanno certo qualcosa in comune, ma allo stesso tempo molti aspetti li differenziano.

Al di là di questa intuizione, è la formulazione stessa del relativismo a fornirci la ragione di tale vasta pluralità. Ricordiamo infatti che, nella sua espressione più condensata, il relativismo sostiene che:

- X non è incondizionato (dove X è qualunque cosa desideriamo prendere in considerazione);

- ogni X è condizionato;

- X è relativo a Y (dove X è ciò che viene relativizzato mentre Y è l'istanza che pone la condizione di relatività).

Abbiamo già visto che il catalogo delle specificazioni di X è molto ampio e che i «valori» di X sono molteplici. X può essere le credenze, la verità, la conoscenza, i principi etici, eccetera. Ma anche il catalogo delle specificazioni di Y è vario: infatti, l'istanza che pone la condizione di relatività può essere il linguaggio, la cultura, le forme di vita, eccetera.

Il risultato di questa varietà è che una persona può essere, al tempo stesso, relativista riguardo ai principi etici – affermando, ad esempio, che i principi etici sono relativi alla cultura – e difendere una posizione antirelativista riguardo alla conoscenza scientifica, affermando, ad esempio, che «il valore di verità delle proposizioni scientifiche è incondizionato».

I valori di X menzionati più sovente nei dibattiti sul relativismo sono: i concetti o gli «schemi concettuali», le credenze, le pratiche, la percezione o gli «schemi percettivi», le norme epistemiche, l'etica, la semantica, la verità e la realtà.

Dal canto loro, i «valori di Y» che appaiono con maggior frequenza nell'argomentazione relativista sono: il linguaggio, la struttura cognitiva, la cultura, i paradigmi scientifici, l'individuo, la religione , la storia e le categorie sociali.

La lista delle combinazioni possibili è molto lunga, ma aumenta ancora di più se consideriamo che alcuni dei valori dell'istanza X di cui si afferma la condizione di relatività possono essere utilizzati anche come valori dell'istanza Y che pone la condizione di relatività (ad esempio, possiamo sostenere che la «percezione» è relativa agli «schemi concettuali»).

Ne consegue, peraltro, che alcune versioni del relativismo si rivelano incompatibili con altre versioni del relativismo. Ad esempio, se affermiamo che i nostri «schemi concettuali» sono condizionati dalla nostra «architettura cognitiva», biologicamente determinata, stiamo creando serie difficoltà a quei relativisti che sostengono l'idea che i «nostri schemi concettuali» dipendono dalle «culture»; tuttavia, entrambe le impostazioni sono ugualmente relativiste.

In definitiva, la gamma di combinazioni possibili dei vari valori di X e di Y ci indica che lo spettro delle diverse modalità del relativismo è considerevolmente ampio. L'ampiezza stessa di questo spettro indebolisce seriamente la pretesa di screditare il relativismo sulla base di un unico semplice criterio, quale può essere il criterio dell' inconsistenza logica o dell' autocontraddizione.

Per costruire un'argomentazione contro un relativista, bisognerà domandargli almeno tre cose: qual è il valore di X di cui si intende affermare la condizione di relatività: relativamente a cosa lo si pone in condizione di relatività; e, infine. qual è il modus operandi del condizionamento di X da parte di Y.

In funzione delle differenti entità che vengono poste in condizione di relatività, o che servono da elemento che pone la relatività, si danno varie modalità di relativismo. Tra queste evidenziamo quelle che si menzionano più spesso: il relativismo etico, il relativismo epistemico, il relativismo concettuale, il relativismo culturale, il relativismo linguistico, il relativismo percettivo, il relativismo ontologico, il relativismo della verità e il relativismo storico. All'interno di queste modalità, le versioni più polemiche e anche le più interessanti, a nostro parere, sono: il relativismo ontologico (per i critici, irreale), il relativismo epistemico (per i critici, irrazionale), il relativismo della verità (per i critici, falso) e il relativismo etico (per i critici, immorale).

In caso non fossimo ancora sufficientemente convinti che il relativismo è ben più complesso, vario e sofisticato di quanto non si dica, possiamo menzionare un'ulteriore differenziazione, trasversale a tutte le modalità del relativismo, che possiamo definire in questi termini: «descrizione» contro «normatività».

Il relativismo descrittivo si compone di un insieme di proposizioni empiriche sulle differenze effettivamente osservate tra diversi gruppi umani per determinati valori di X. Ad esempio, osservazioni empiriche sulle variazioni degli «schemi percettivi» secondo le diverse culture.

Il relativismo normativo si compone di un insieme di proposizioni teoriche sulle ragioni che ci portano a pensare che determinati valori di X siano condizionati da determinati valori di Y.

Sebbene il relativismo descrittivo risulti, in generale, più adeguato a catturare l'attenzione, noi metteremo a fuoco esclusivamente il relativismo normativo.

Una seconda differenziazione, anch'essa trasversale alle varie modalità del relativismo, riguarda l' intensità della condizione di relatività. Questa intensità varia dalla semplice influenza alla determinazione completa. Si può affermare, ad esempio, che un determinato valore di X è parzialmente condizionato da un determinato valore di Y (come quando si dice che i nostri valori subiscono una qualche «influenza» dai fattori culturali): oppure affermare che X è completamente condizionato da Y (come quando si dice che i nostri valori sono semplici prodotti culturali).

Il relativismo di bassa intensità è, di solito, accettato abbastanza facilmente, ma non solleva questioni particolarmente interessanti. Il problema sorge con le impostazioni radicali, e qui ci concentreremo esattamente sulle impostazioni di questo tipo.

Non presenteremo certo tutte le modalità del relativismo, ma ci limiteremo a discutere tre di quelle che suscitano le polemiche più violente. Prima però è indispensabile accantonare due modi di presentare il relativismo cui ricorrono piuttosto di frequente gli anti-relativisti. Il primo presenta il relativismo, attribuendogli l'affermazione secondo cui:

Tutti i punti di vista sono ugualmente validi, o ugualmente veri.

Tale formulazione esclude la possibilità per un relativista di accettare che «certi punti di vista siano migliori di altri, o che siano preferibili ad altri».

Questo enunciato mette il relativista nell'assurda posizione di dover esporre il proprio punto di vista sul relativismo accettando fin dall'inizio che non c'è ragione di considerarlo migliore di altri, né c'è motivo perché qualcuno, e nemmeno lui, debba preferire tale punto di vista piuttosto che un altro.

Definire in questa maniera il relativismo è assurdo tanto quanto invitare qualcuno a un dibattito, ponendo contemporaneamente la condizione che non apra bocca.

Effettivamente, o si evita, a priori, di concedere una qualche possibilità di argomentare il relativismo, e pertanto non si può nemmeno attribuirgli questa o quell'affermazione; oppure è necessario sospendere il giudizio sul relativismo finché non si sia proceduto all'esame dell'argomentazione. In questo secondo caso si sta riconoscendo, implicitamente ma necessariamente, che tale argomentazione potrebbe essere «migliore» o «preferibile» a un'altra, e si sta riconoscendo che il relativista deve condividere questa stessa convinzione, anche solo per poter costruire la propria argomentazione e scegliere i propri argomenti. Ergo, considerare che «certi punti di vista» sono «migliori» o preferibili ad altri è parte del relativismo stesso.

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Pagina 44

Relativismo ed etica: la questione politica


Precisiamo fin dall'inizio che, in questo libro, l'interesse manifestato verso il relativismo non ha origine da una riflessione puramente epistemica, non proviene da un'indagine sulla natura della conoscenza, né ha motivazioni di ordine accademico. La propensione al relativismo qui manifestata nasce da una preoccupazione di carattere politico, segnata dal desiderio di esplorare le condizioni di possibilità di ciò che Foucault chiamava «le pratiche di libertà» e che, in questo caso, si inseriscono all'interno delle coordinate politiche tratteggiate da alcune scelte personali radicalmente antiautoritarie o libertarie.

Non è casuale, pertanto, che questa esposizione del relativismo cominci dall'esame delle sue implicazioni politiche, sebbene ciò ci obblighi ad affrontare subito una delle questioni che hanno suscitato maggior sospetto verso il relativismo: la relativizzazione dei valori etici. Questo modo di iniziare la discussione può sorprendere quanti ritengono che converrebbe chiarire la questione del relativismo in primo luogo sul piano epistemologico, giacché un suo eventuale invalidamento su tale piano comporterebbe l'inutilità di discuterlo su qualunque altro piano, sia su quello etico che su quello ontologico. Invece, la volontà di situare la discussione del relativismo al di fuori dello spazio discorsivo che è stato sistematicamente privilegiato dalla filosofia occidentale (lo spazio discorsivo della conoscenza pura) appartiene in toto alla scelta relativista stessa che qui si difende.

È risaputo che, fin dai tempi di Platone, l'ordine del giorno della filosofia occidentale è stato segnato dal privilegio concesso all'indagine sulla natura della conoscenza vera e sulle sue condizioni di possibilità.

Dunque l'ordine del giorno della filosofia ha sviluppato in maniera ipertrofica una delle varie relazioni che abbiamo con il mondo. Questa unica relazione, la relazione della conoscenza, è senza alcun dubbio tremendamente importante, ma non per questo può eclissare il fatto che il nostro «essere-nel-mondo» sia costituito anche di relazioni di azione, di sentimenti, di sensazioni, di cose vissute, di esperienze piacevoli o sgradevoli, e di «forme di vita». Il nostro «essere-nel-mondo» passa in maniera profonda attraverso la relazione della conoscenza, tuttavia la oltrepassa in maniera considerevole.

Se però si conviene con la filosofia occidentale che non solo è possibile raggiungere la «conoscenza vera», ma addirittura che questa conoscenza è la via privilegiata per accedere sia alla «verità delle cose», sia alla «verità del bene», allora risulta perfettamente comprensibile e ragionevole proporre il sapere epistemologico come quel campo nel quale bisogna dirimere tutte le questioni rilevanti per l'esistenza umana.

Potremmo, beninteso, continuare a giocare con Platone e porre la discussione in merito al relativismo sul terreno epistemico, subordinando la nostra valutazione del relativismo in base alla sua capacità di superare o meno le prove di coerenza definite in quel terreno. Ma non siamo obbligati a farlo. Possiamo anche mettere in discussione lo status privilegiato concesso all'ambito epistemico e trasferire su un altro terreno la nostra decisione sull'accettabilità o meno del relativismo.

Nulla ci impedisce di scegliere, ad esempio, il terreno etico-politico, o prassico-assiologico, per dirimere la questione del relativismo e giungere, eventualmente, alla conclusione che su tale terreno il relativismo costituisce un'opzione migliore dell'opzione assolutista.

Possiamo argomentare che la questione del relativismo non deve essere esaminata necessariamente e primariamente alla luce dei «valori di verità», ma che si può perfettamente discutere questa questione alla luce del «valore dei valori», ossia delle opzioni etiche.

Possiamo anche invertire l'argomentazione di quanti sostengono che il dibattito epistemico è prioritario, in quanto la sua soluzione condiziona la pertinenza di un'analisi del relativismo in altri ambiti, e affermare che non abbiamo motivo di dibattere il relativismo su un piano diverso da quello etico-politico. In primo luogo perché il dibattito su qualunque altro piano si conclude sempre mettendo in gioco implicazioni etico-politiche e dunque rinviandoci all'ambito etico. In secondo luogo perché nulla ci impedisce di ritenere che l'ambito etico-politico sia più rilevante del piano epistemico nella discussione delle grandi questioni che riguardano la nostra esistenza.

Inoltre, una delle maniere per combattere l'eccessivo privilegio concesso alla conoscenza, ossia una delle maniere per farla finita radicalmente con il gioco di Platone, consiste esattamente nel non sentirsi obbligati a entrare nel dibattito epistemico sul relativismo, a rifuggire questa tentazione e semplicemente rifiutarsi di farlo, perché facendolo si contribuisce de facto a consolidare, o a legittimare, quello stesso privilegio che si sta mettendo in discussione.

Eppure, questo movimento verso un altro terreno di gioco, questo spostamento dall'epistemico al normativo, può apparire a prima vista una mossa totalmente suicida, che mette il relativismo di fronte a un inevitabile scacco matto.

Effettivamente, è proprio il terreno dell'etica quello in cui si dice comunemente che il relativismo è la peggiore delle opzioni possibili. Un'opzione che aprirebbe completamente le porte alla barbarie, alla legge della giungla e alla pura ragione della forza.

Ci viene detto che se non possiamo dare fondamento ai valori in modo indiscutibile, se non esistono valori che siano obiettivamente superiori ad altri, e se non possiamo fare appello a determinati imperativi morali, allora non potremmo che pervenire a tre conseguenze inevitabili:

1. ci priveremmo di ogni legittimità a opporci o condannare determinate pratiche, per quanto spregevoli o offensive possano risultare sul piano morale: l'Olocausto e l'azione di Medici senza Frontiere sarebbero poste sullo stesso piano, a un medesimo livello di accettabilità etica;

2. provocheremmo una demotivazione e smobilitazione di ogni tipo di interesse e impegno politico per la semplice ragione che svanirebbero le esigenze che li stimolano;

3. lasceremmo che il ricorso alla forza diventi l'unica procedura per appianare il conflitto tra opzioni conflittuali.

È chiaro che, se il relativismo implicasse queste tre conseguenze, la sua difesa potrebbe realizzarsi solo nel cinismo più spudorato. Invece, la tesi che qui si sostiene è che il relativismo non solo non implica le prime due conseguenze menzionate, ma che, in più, si trova a essere meglio munito del suo avversario, l'antirelativismo o assolutismo, per affrontarle. Per quanto riguarda la terza, vedremo più avanti che non è una caratteristica specifica del relativismo.

In effetti, nell'ambito etico, l'argomento antirelativista si basa su un'estrapolazione del tutto gratuita. È evidente che per il relativista nessun valore etico è «incondizionato», è evidente che il relativista sostiene la stretta equivalenza di tutti i valori etici per quanto riguarda la qualità della loro fondatezza ultima. Essa è semplicemente nulla in tutti i casi ed è proprio dal punto di vista dell'assenza di una qualsiasi fondatezza ultima che si traccia una relazione di stretta equivalenza tra tutti i valori etici. I valori alla base dell'azione di Medici senza Frontiere non hanno un maggior grado di fondatezza dei valori alla base di pratiche genocide.

Se il relativista dovesse ricorrere al criterio della fondatezza dei valori per stabilire quali valori siano migliori di altri, giungerebbe effettivamente alla conclusione che nessuno è migliore e che tutti sono equivalenti tra loro. Ma ciò che caratterizza il relativismo è proprio il più totale rifiuto del criterio della fondatezza come discriminante tra i valori. Nonostante questo, nulla obbliga il relativista ad affermare che non ci sono valori migliori di altri.

Dall'equivalenza riguardo al grado di fondatezza non si può estrapolare la conclusione dell'equivalenza tout court, dell'equivalenza senza altre specificazioni.

Dall'affermazione secondo cui non ci sono valori che siano oggettivamente migliori di altri perché tutti quanti mancano di fondatezza ultima, non si può estrapolare l'affermazione secondo cui non è possibile far differenza tra i valori.

Inoltre, se la fondatezza o l'oggettività fosse il criterio decisivo, come affermano gli assolutisti, e si giungesse a dimostrare che i valori che autorizzano il genocidio hanno una fondatezza più salda dei valori opposti, l'assolutista, per coerenza con questo suo criterio, si troverebbe obbligato ad accettarli, mentre il relativista potrebbe continuare a rifiutarli, dato che nega l'idea stessa di una fondatezza ultima dei valori.

Proprio come l'assolutista, il relativista proclama che certi valori sono migliori di altri, che preferisce certe forme di vita ad altre e che è disposto a lottare per esse se necessario. Ma allo stesso tempo, al contrario dell'assolutista, il relativista proclama che quei valori riconosciuti migliori mancano di ogni fondatezza ultima e sono equivalenti a qualunque altro valore, ma esclusivamente dalla prospettiva di questa assenza di fondatezza ultima.

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Si è visto che al relativismo etico vengono mosse tre accuse:

1. il relativismo etico rende incapaci di scegliere tra i valori;

2. il relativismo etico rende incapaci di impegnarsi per determinati valori;

3. il relativismo etico, in ultima istanza, lascia il ricorso alla forza come unica alternativa per risolvere i conflitti.

Ovviamente, la terza accusa si presenta come l'infamia più schiacciante, tanto più che il relativista riconosce, senza il minimo imbarazzo, che le cose stanno proprio così, che nel momento in cui si esauriscono tutte le risorse argomentative, rimangono solo, in ultima analisi, i rapporti di forza per appianare le differenze.

Ma il relativista domanda: quali differenze mi separano dall'assolutista su questo punto?

E la risposta è... che non esiste alcuna differenza.

In effetti, nonostante l'assolutista esibisca la sua posizione come quella che permette di evitare l'esercizio della forza, in realtà anche lui ricorre alla forza per appianare le differenze con quanti non aderiscono alle sue regole del gioco. Anzi, lo fa con due circostanze aggravanti, scaturite proprio dalla sua volontà di occultare la forza che esercita.

La prima circostanza aggravante è la seguente: se i criteri etici non dipendono da decisioni nostre, se hanno un valore oggettivo responsabile del fatto che «sono validi per tutti» e «obbligano tutti ugualmente», è chiaro che il fatto di dissentire da tali valori non solo è erroneo, cosa che si può sempre correggere, ma è anche irrazionale nel momento in cui ci ostiniamo a perseverare nel nostro errore. In effetti, se ci rifiutiamo di accettare ciò che e stato stabilito oggettivamente come moralmente buono, non siamo del tutto normali e una qualche perversione ci rende incapaci di partecipare al dialogo della convivenza umana. Tale perversione ci esclude dal trattamento che si applica ai membri della comunità degli esseri razionali: siamo selvaggi, o una qualche sorta di bestia ripugnante, e bisognerà dunque curarci con le terapie più adeguate, ricorrendo alla forza visto che non sentiamo ragioni.

In definitiva, anche in questo caso rimane solo la forza come ultima risorsa. Ma la pretesa di mascherare questo fatto, di nasconderlo dietro il proclama che il bene è oggettivamente tale e che quando lo si scopre l'unica alternativa è quella di accettarlo, aggiunge un'ulteriore violenza. Si tratta di quella violenza che consiste nel mettere in discussione la razionalità stessa di chi non condivide un sistema di valori, che non solo è il nostro, ma che, oltretutto, essendo oggettivo, è ugualmente obbligatorio per qualsiasi membro della comunità degli esseri razionali, ossia per l'intera comunità umana.

La seconda circostanza aggravante consiste nel fatto che, quando l'assolutista occulta i rapporti di forza mobilitati nelle sue stesse impostazioni, di fatto sta rivendicando per se stesso il monopolio dell'uso della forza.

Infatti, trasformare una situazione effettivamente esistente implica, quasi sempre, l'articolazione di nuovi rapporti di forza per squilibrare, o sovvertire, i rapporti di forza che la sorreggono. Lo stesso accade nell'ambito dei valori. Ad esempio, potremmo considerare che i valori che attualmente ci governano non sono i più adeguati, e potremmo volerli cambiare. Ma i valori etici sono oggettivi, quindi l'idea stessa di agire per alterare i rapporti di forza che li sorreggono nel tentativo di crearne di nuovi non ha senso.

L'unica forza investita di indiscutibile legittimità è quella da impiegarsi, eventualmente, contro l'iniquità, per impedire che si trasgrediscano i valori esistenti; cioè per mantenere la situazione esistente. Curiosamente, come capita quasi sempre, nel momento esatto in cui uno si trova al polo dominante di un rapporto di forza si affretta a lanciare anatemi contro ogni velleità di ricorrere alla forza per cambiare l'ordine stabilito delle cose.

In definitiva, per difendere i propri valori o il proprio «modo di vivere», sia il relativista che l'assolutista ricorrono all'esercizio della forza quando tutte le altre risorse si sono esaurite. Ma la differenza sta nel fatto che il relativista ricorre all'esercizio della forza e basta, mentre l'assolutista ha bisogno di aggiungere che è pienamente legittimato a farlo. Non si tratta certo di una differenza di sfumature, poiché in questo modo si naturalizza l'uso stesso della forza, escludendolo dall'ambito, sempre opinabile, delle semplici decisioni e rivestendolo con gli attributi di una necessità estranea alla propria volontà.

La coscienza pulita, la tranquillità di spirito, l'assenza di ogni sospetto e dubbio costituiscono il patrimonio di chi sa che non deve rendere conto della propria azione dato che questa non rimanda alla propria responsabilità personale, né alle proprie scelte, ma gli è stata dettata dalla Legge, ossia, in questo caso, dalla Legge morale.

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Con questo percorso attraverso le implicazioni pratiche della concezione della verità si può considerare indiscutibile il fatto che, sul piano pragmatico, l'assolutista e il relativista non sono affatto diversi per quanto riguarda l'uso del predicato vero. Entrambi usano questo predicato con le stesse regole semantiche che lo definiscono e che sono di natura assolutista.

Ecco dunque che un relativista e un assolutista possono in tutta tranquillità sedersi a giocare una partita a scacchi senza che si notino le loro rispettive convinzioni, così come possono anche intavolare un dialogo sulle questioni rilevanti per la vita quotidiana senza che tali convinzioni lo impediscano.

Si potrebbe allora concludere che la divergenza manifestata sul piano teorico non comporti differenze sul piano pratico. Ma questa conclusione ci lascerebbe con una grave preoccupazione. Infatti, una parte del pragmatismo filosofico ritiene che se una differenza sul piano teorico non comporta differenze sul piano pratico, allora questa differenza teorica è irrilevante e si può prescindere da essa.

Non che gli assolutisti nutrano la benché minima simpatia per il pragmatismo, ma non esitano a mettere mano all'argomento pragmatico per arrivare alla conclusione che, in virtù del pragmatismo, l'argomento teorico del relativismo è irrilevante e risulta del tutto prescindibile.

Il problema è che la differenza teorica tra assolutismo e relativismo ha conseguenze pratiche: per quanto poche siano, si tratta di differenze di prima grandezza; ne citeremo due.

La prima conseguenza sta nel fatto che l'assolutismo è tra le condizioni che rendono possibile l'Inquisizione; in altre parole, il dispositivo inquisitorio è intrinsecamente relazionato al credo assolutista. Solo chi è convinto dell'esistenza di verità assolute ha il diritto, e persino l'obbligo morale, di attuare una coazione verso quanti si rifiutano di riconoscere queste verità.

La convinzione di essere in possesso della verità squalifica automaticamente ogni altro punto di vista, legittimando qualunque azione protesa all'abbandono delle false credenze, addirittura per il bene stesso di chi si trova immerso nell' errore.

Solo i dogmatici hanno creato inquisizioni; e se si ritiene che la possibile esistenza o meno di inquisizioni comporti una differenza rilevante nella pratica, è chiaro che tale differenza non è meno prescindibile nella teoria.

La seconda conseguenza pratica è che il relativismo costituisce un dispositivo teorico che agevola il cambiamento, mentre l'assolutismo tende a bloccarlo. Se le verità sono assolute, è ovvio che nulla può alterare la loro condizione di verità. Così, ad esempio, se 2+2=4 è assolutamente vero, continuerà a esserlo qualunque cosa accada: ma se la verità è relativa alla cornice che la istituisce come tale, la sua eternità non e più garantita. Anche una proposizione così archetipicamente vera come 2+2=4 può cessare d'essere vera se si altera a sufficienza la cornice all'interno della quale risulta indubbiamente vera. Questo non significa affatto che si sappia quali alterazioni bisognerebbe introdurre affinché 2+2=4 non sia più vero, ma significa piuttosto che, come sottolineava Quine, nessuna proposizione è immune per sempre alla revisione, almeno in linea di principio.

Per concludere la nostra disanima della linea di attacco al relativismo basata sul piano della prassi, riassumiamo in tre punti il complesso dell'argomentazione fin qui sviluppata.

La prima strategia teorica tentata dall'assolutismo è molto potente perché condanna a morte il relativismo e arriva addirittura a sostenere che l'unico relativista coerente è il relativista morto. Il che sarebbe una conclusione logicamente impeccabile se il relativista dicesse effettivamente ciò che l'assolutista «dice che dice». Invece la logica di questa conclusione si disfa non appena il relativista inizia a parlare in prima persona: il relativista non dice che la verità è un concetto prescindibile e, dato che non lo dice, non ha motivo di prescindere da esso. È evidente che, se prescindesse dal concetto di verità, non potrebbe sopravvivere e nemmeno intavolare un dialogo con i suoi simili. Quando il relativista prende parte al gioco della verità, lo fa come lo fanno tutti quanti, ovvero applicando le regole semantiche di carattere assolutista che presiedono tale gioco. Dunque, dov'è il problema?

Ciò che il relativista mette in discussione non è il valore pragmatico del credere nella verità, ma quei presupposti filosofici che l'assolutista pretende si debbano assumere per sostenere tale credenza. Se il relativista non mette in discussione l'utilità della verità, com'è possibile sostenere che si contraddice quando utilizza la verità?

La prima strategia dell'assolutista vorrebbe essere distruttiva, ma alla fine si rivela inoffensiva. La seconda consiste nell'affermare che, se il relativista usa effettivamente la verità e lo fa all'interno della semantica assolutista, allora è vero che la verità è assoluta ed è contraddittorio sostenere nella pratica ciò che si nega nella teoria. Ma la replica è facile: il valore d'uso non presuppone nient'altro che questo: il valore d'uso; e non esiste nessun ponte logico che permetta il passaggio dall' utilità alla verità. Dire che una cosa è utile, e persino imprescindibile per raggiungere determinati fini (ad esempio un proposito importante come quello della sopravvivenza), non comporta alcun giudizio riguardo al suo valore di verità, e può anzi risultare chiaramente falso. Dunque, l'imputazione della contraddizione è completamente priva di sostanza: anche la seconda strategia dell'assolutismo finisce per far acqua da tutte le parti.

La terza strategia assolutista consiste addirittura nel metter mano al registro argomentativo degli avversari per arrivare a sostenere che, essendo le divergenze teoriche manifestate dai relativisti prive di conseguenze nella prassi, allora tali discrepanze sono irrilevanti e del tutto prescindibili. Per dare un taglio netto a questa terza strategia, basta ricordare quale importanza pratica abbia la possibilità di stabilire inquisizioni, in ambito religioso o politico o di pensiero, e basta ricordare le conseguenze che potrebbero verificarsi, per la nostra vita pratica, bloccando il cambiamento.

In definitiva, l'accusa di autocontraddizione che è stata lanciata contro il relativismo sul piano pratico non riesce a trasformarsi in sentenza.

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Per concludere, vorrei sottolineare ciò che mi sembra soggiacere al vigore con il quale si difendono posizioni realiste o relativiste. Mi riferisco alla questione politica.

Molti realisti si comportano come se fossero gli eredi diretti degli esiti dell'Illuminismo e i guardiani dei loro grandi principi emancipatori. In effetti, l'Illuminismo riuscì a sottrarre al cielo la legittimità della veridizione, trasferendola agli essere umani. Non solo, lo ha fatto in modo tale da permettere, almeno apparentemente, di evitare che le divergenze tra esseri umani dovessero necessariamente risolversi con il conflitto e l'imposizione della legge del più forte. Il procedimento stabiliva semplicemente un principio di arbitraggio, situato al di sopra delle contingenze dei punti di vista e degli interessi dei vari gruppi umani. Il posto dell'arbitraggio fu occupato dalla realtà stessa, indipendente, oggettiva e conoscibile dalla ragione, in particolar modo dalla ragione scientifica; e in questo modo si mise fine alla tentazione dell'arbitrarietà.

Buona parte dei realisti vede nel relativismo ontologico un tentativo di smantellare i risultati dell'Illuminismo, per soddisfare così una smisurata volontà di potere. Infatti attribuiscono ai difensori del relativismo ontologico la pretesa di non voler rimanere in balia del mondo così com'è e di volergli sottrarre, a proprio beneficio, quella capacità di arbitraggio che l'illuminismo gli aveva conferito. Perché se è vero, come affermano i relativisti ontologici, che in un certo senso siamo noi a costruire la realtà, allora siamo noi, e non il mondo, a detenere il potere di stabilire i criteri con cui si accettano o si rifiutano le affermazioni sulla realtà.

Secondo molti realisti, in questo modo i relativisti vorrebbero solo farci credere che possiamo costruire la realtà a seconda delle nostre decisioni e dei nostri desideri. Secondo loro, questa megalomania relativista sfocia direttamente nel pericolo di un ricorso alla pura forza che soltanto l' arbitraggio del mondo così com'è risulta invece capace di evitare.

Credo che, al di là delle convinzioni epistemologiche e ontologiche, è proprio questa preoccupazione politica, basata sulle migliori intenzioni, a dare impulso agli attacchi di tanti realisti contro il relativismo.

Da parte loro, i relativisti insistono a portare a termine il processo di secolarizzazione intrapreso dall'Illuminisino denunciando gli inganni tesi da questa secolarizzazione a metà che l'Illuminismo ha favorito. Diciamo secolarizzazione a metà perché, anche se il privilegio della veridizione fu sottratto a Dio (cioè ai suoi rappresentanti), in seguito è stato attribuito a nuove istanze sovrumane, quali ad esempio la ragione universale o le rietà intrinseche del mondo, invece di essere rimesso direttamente nelle mani dei gruppi umani.

Viceversa, lo sforzo per eliminare ogni istanza sovrumana non trasforma gli esseri umani in dèi con la possibilità di modellare il mondo in funzione dei propri desideri. La volontà di porre fine al processo di secolarizzazione risulterebbe quanto meno paradossale se, per eliminare la figura di Dio, o dei suoi doppioni, non ci fosse altra alternativa se non quella di moltiplicarla. Se i relativisti cadessero in questo paradosso, è ovvio che i realisti avrebbero ogni ragione di denunciare i pericoli sottesi ai loro discorsi. Ma, proprio all'opposto, la rivendicazione relativista di un'istanza semplicemente umana comporta necessariamente il riconoscimento di una finitezza, di una contingenza e in definitiva di una fragilità agli antipodi di qualunque prepotenza.

Il relativismo non nutre quindi alcuna certezza riguardo alle possibilità di cambiare il mondo. E non ha nemmeno alcuna certezza riguardo a cosa bisognerebbe fare per cambiarlo. Semplicemente si rifiuta di accettare che esistano ragioni di principio per le quali si debba rinunciare a cercare di cambiare il mondo.

In conclusione, buona parte dei realisti sono convinti che accettare il realismo faccia parte delle condizioni di possibilità della libertà. Alcuni relativisti sono convinti, come me, che accettare il realismo sia un ostacolo all'esercizio della libertà. La discussione ci pone di nuovo nel bel mezzo del dibattito politico, mostrando che è impossibile ovviare alla sua preminenza.

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VII
CONNESSIONI



Adesso, dopo aver attraversato queste quattro opere, possiamo forse accettare la sfida lanciata all'inizio: confrontare l'inconfrontabile. Prima di iniziare è opportuno rimarcare che uno dei risultati del nostro cammino attraverso il pensiero di Cornelius Castoriadis, Michel Foucault, Richard Rorty e Michel Serres è stato proprio quello di accentuare ancora di più la loro incomparabilità. In effetti, la nostra esplorazione non ha affatto esaurito i contributi di ognuno dei nostri quattro pensatori; al contrario, abbiamo potuto intravedere l'enorme ricchezza e l'eccezionale originalità delle loro opere che è impossibile ridurre a eventuali punti in comune: nel discorso di ognuno di loro, quello che supera i confini dei discorsi degli altri tre è, semplicemente, smisurato.

Dunque il confronto è messo a repentaglio? Certo, tanto più che le somiglianze diminuiscono man mano che cresce il numero di elementi che si confrontano. Ciò che possono avere in comune, ad esempio, Foucault, Rorty e Serres corre il rischio di rimanere schiacciato da ciò che unisce il pensiero dei primi due. Ma noi, ricorrendo sfacciatamente al vocabolario di Serres, cercheremo lo stesso di ridurre l'apparente «dispersione» delle quattro opere mettendo in gioco qualche «operatore connettivo» che ci permetta di disegnare quella struttura grazie alla quale ciò che percepiamo come indubbiamente «separato» si riempie di «interferenze». In questo modo, la dispersione apparirà come un insieme di variazioni e sfumature certamente differenti per l'aspetto che assumono e per l'intensità con cui sono presenti in ogni opera, ma in fin dei conti proprie a uno stesso tipo di pensiero.

È forse in una stessa esigenza quasi sconfinata — «selvaggia», suggerisce Serres — di libertà che troviamo la chiave fondamentale per individuare e comprendere la somiglianza esistente tra le quattro opere. È forse in una comune ipersensibilità rispetto a tutto ciò che mette in pericolo la possibilità stessa della libertà che risiede il principio fondamentale, per così dire, che ispira, dà energia e struttura profondamente i quattro percorsi intellettuali. In un certo senso Castoriadis, Foucault, Rorty e Serres, nelle rispettive riflessioni, non fanno altro che ribellarsi contro tutto ciò che vorrebbe ostacolare l'esercizio della libertà. Con una passione comune, tentano di smantellare quei presupposti millenari che hanno reso impensabile, nel vero senso della parola, la possibilità stessa della libertà e si lanciano tutti nell'ardua impresa di esplorare e rendere esplicite le condizioni necessarie per poter pensare la libertà. Come vedremo, sono queste condizioni che li conducono, per vie indipendenti, ad affrontare gli stessi avversari, a stringere le stesse alleanze, a denunciare gli stessi inganni e a rivendicare, a partire dalle stesse convinzioni, le stesse fratture con il pensiero istituito.

Pensare la libertà esige, come condizione obbligatoria, la libertà di pensiero, ed è prima di tutto nell'attività stessa del pensare che si manifesta e si concretizza questa «esigenza di libertà» cui ci riferiamo. Non ci sorprende, quindi, che l'«esigenza di libertà» abbia stimolato i quattro filosofi verso un comune e intenso impegno nello sviluppo di un pensiero critico, come suggerisce Edgar Morin, per il quale «il solo pensiero che vive è quello che si mantiene alla temperatura della propria distruzione». Infatti pensiero critico significa esercitare un pensiero capace di mettere in evidenza i suoi stessi vincoli, per poterli così dissolvere; un pensiero capace di percepire quelle stesse cose che lo costituiscono, per poterle così mettere in discussione e cambiare ciò che lo definisce. In ultima istanza, un pensiero critico è un pensiero capace di modificare se stesso e capace di lasciare le strade già tracciate da ciò che lo costituisce per cercare di inventare, letteralmente, nuovi sentieri. In altre parole, il pensiero non può essere una semplice restituzione di ciò che è già stato pensato, non può essere assorbito da ciò che già esiste.

Il che significa semplicemente che, per rendere possibile il pensiero critico, deve anche essere possibile creare, far accadere ciò che non esiste ancora e che non è nemmeno pre-contenuto in ciò che attualmente esiste. Evidentemente, questo è possibile solo se non ci atteniamo a un ferreo principio di determinazione che regola il mondo, solo se non esistono essenze costitutive di tutto ciò che si manifesta come mera esistenza, e solo se non esistono istanze trascendenti che si sovrappongono alle decisioni banalmente umane. In definitiva, il pensiero critico è possibile solo ammettendo che le cose non stanno come Platone e i suoi innumerevoli eredi assolutisti hanno voluto farci credere. Ridare legittimità intellettuale alla possibilità della creazione radicale, mettere in discussione il principio di determinazione, smantellare il presupposto essenzialista, far piazza pulita di ogni traccia di trascendenza e avventarsi contro l'assolutismo: ecco alcuni degli aspetti che collegano tra loro le quattro traiettorie intellettuali che stiamo percorrendo. Tuttavia, lo ripetiamo, l'unico punto in comune di tutti questi aspetti è la conseguenza diretta di una stessa volontà di libertà.

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