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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione di Luisa Bienati 37 Ibuse Masuji: la vita, le opere 51 LA PIOGGIA NERA 397 Note 401 Glossario |
| << | < | > | >> |Pagina 9L'amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L'ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio ogni volta che se ne presenta l'occasione, ma [...] non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. [...] Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso «per conto di terzi», il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta non l'ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. Primo Levi, I sommersi e i salvati La definizione stessa di genbaku bungaku è problematica: il termine include infatti un'area molto vasta di opere sia di reportage, con intento quindi documentario o socio-politico, sia di dichiarata finzione, quindi con una prevalenza della finalità artistica. L'individuazione del genere ha suscitato dubbi e discussioni tra gli scrittori stessi. C'è chi ne ha negato l'esistenza criticando l'insensatezza del termine e chi invece si è interrogato sulla liceità di utilizzare una tragedia così attuale, così «vera», in un'opera d'arte: la verità si concilia con la rielaborazione fittizia o la finzione letteraria tradisce l'autenticità dell'esperienza, tanto che la rielaborazione del vero risulta essere bugia, pura falsità? Il dolore e la sofferenza propria non sono comunicabili perché chi non li ha provati sulla propria pelle non può averne la stessa percezione – hanno sostenuto in molti. Ma allora davvero le parole non possono colmare la distanza tra le vittime e le non vittime, tra chi c'era e chi no? Su questo dilemma si sono accaniti per molti anni gli scrittori, soprattutto quelli che hanno avuto un'esperienza diretta della bomba e che nel periodo immediatamente successivo si sono interrogati sul senso che per «gli altri» poteva avere la loro scrittura. Ota Yòko, autrice nel primo dopoguerra di alcune delle opere più famose e di più preziosa testimonianza, da un lato avvertiva l'urgenza dello scrivere («Devo assolutamente scrivere – dice la protagonista di Shikabane no machi. – È il dovere dello scrittore che ha visto»), dall'altro confessava l'inadeguatezza della parola: «Siamo al di fuori della categoria della letteratura. [...] La narrativa ha di solito modelli e categorie: letteratura per bambini, romanzi romantici ecc. Ma per l'esperienza della bomba atomica non ci sono né modelli né categorie. È stata così forte, così enorme, così potente che uno non può trovare le parole per descriverla». [...] Immagini metaforiche ricorrono con insistenza a fermare l'attimo dell'esplosione: Ibuse non ci dà la descrizione del momento cruciale, l'unico che non ammette l'osservazione esterna. Lui non l'ha visto e anche noi non c'eravamo. Non possiamo così averne una nostra personale immagine ma solo una parziale e indiretta rappresentazione, la somma di spezzoni riflessi negli occhi di coloro che hanno visto, mediati dalle loro stesse parole. Una somma di racconti diluiti e sparpagliati qua e là nel testo: la bomba «cade» già nella prima pagina, ma è solo un cenno su cui l'autore non vuole indugiare. Chi ha visto non racconta, o chi riporta il fatto censura: così noi non vediamo perché l'autore ha dilazionato per noi quel momento. Poco più avanti la prima scarna descrizione di Yasuko: ... un lampo e un rumore assordante. Un fumo nero come da un'eruzione sulla città di Hiroshima. Ripresa poi in dettaglio: In quel momento, fuori, un bagliore spaventoso bianco-verdastro. Sembrò spostarsi nel cielo da est a ovest, cioè dalla città di Hiroshima verso le alture dietro Fume. Come una meteora grande centinaia di volte il sole. Una frazione di secondo e risuonò un'assordante detonazione. La luce dell'esplosione ha caratteristiche diverse che variano a seconda di chi l'ha vista o dell'angolo di visuale. È paragonata a un fuoco fatuo che squarcia il cielo, oppure è una «palla di luce fortissima, accecante», o «una palla di fuoco»,,«qualcosa simile a una scintilla blu pallido» che saetta nel cielo, o ancora «una luce bianca come un lampo o come il flash emanato da una grande quantità di magnesio bruciata tutta insieme». Ancora più cangiante nelle sue molteplici descrizioni è la nube che si sprigiona dallo scoppio, quella nuvola a forma di fungo che è anche ai nostri occhi la più diretta rappresentazione dell'esplosione atomica. La vediamo dapprima in lontananza: «Sembrava il fumo di un vulcano, o un cumulo di nubi dai contorni nitidi...», un «mostro di nuvola»; poi una più diretta descrizione dal Diario del bombardamento (Hibaku nikki) di Shigematsu, il protagonista dell'opera: Quando mi rialzai da terra, ciò che ebbi davanti agli occhi fu un grande, mostruoso cumulo di nubi. Assomigliava, nella sua struttura, ai nembi che avevo visto in una foto del grande terremoto del Kantò. Ma questo cumulo si allungava alto nel cielo lasciandosi dietro un largo gambo. Sulla cima si andava allargando, spesso, come un fungo che dischiude il suo ombrello. «Bimbo, guarda che nuvola». Il bambino guardò il cielo e restò a bocca aperta. La nube sembrava ferma ma non lo era. Distendeva il suo ombrello verso est, poi si allargava verso ovest, poi di nuovo verso est. Ogni volta, in qualche punto del fungo si sprigionava una luce terribile che cambiava colore, rosso, violetto, azzurro, verde. Allo stesso tempo si espandeva sempre più ribollendo senza sosta dall'interno verso l'esterno. Il suo gambo, come veli attorcigliati a mazzo, continuava a ingrossarsi veloce, con affanno. La nube incombeva minacciosa sulla città di Hiroshima. [...] Luisa Bienati | << | < | > | >> |Pagina 51Da molti anni a questa parte, Shizuma Shigematsu, che abitava nel villaggio di Kobatake, sentiva su di sé un pesante fardello per via di sua nipote Yasuko. Aveva la sensazione che, come negli anni passati, anche per quelli a venire avrebbe dovuto sopportare questo peso indescrivibile che raddoppiava, triplicava, il carico della sua responsabilità. La ragione era semplice in apparenza: Yasuko non aveva prospettive di matrimonio. Alla fine della guerra si era diffusa la voce che lei, in quanto membro del contingente femminile, aveva lavorato nelle cucine del Corpo ausiliari della Seconda scuola media della città di Hiroshima. Perciò gli abitanti di Kobatake, che si trova a circa centosessanta chilometri a est di Hiroshima, dicevano che Yasuko era rimasta vittima della bomba atomica. Shigematsu e sua moglie, aggiungevano, tenevano nascosto il fatto che fosse malata. Per questa ragione non c'era nessun matrimonio in vista. Le persone, che nella prospettiva di sposarla, venivano a prendere informazioni dai vicini, non appena sentivano questa diceria, diventavano evasive e rompevano le trattative. La mattina di quel sei di agosto, gli scolari del Corpo ausiliari della Seconda scuola media di Hiroshima in riga al posto di blocco ovest dello Shinòhashi o su un qualche altro ponte nel centro della città, stavano ascoltando le istruzioni del maestro, quando la bomba cadde. In quell'attimo furono investiti dal fuoco. L'insegnante tuttavia li fece restare fermi a cantare in coro, pianissimo, la canzone patriottica «Se si combatte sul mare...». Appena finita diede l'ordine: «Rompete le righe», e per primo prese l'iniziativa di gettarsi nell'alta marea del fiume. Gli scolari lo imitarono. Il fatto fu riportato da uno studente, uno solo, che riuscì a scappare e a ritornare a casa. Dicono che anche lui però sia morto quasi subito. Sembra che questa storia sia stata raccontata da uno dei membri del Corpo di patrioti volontari del villaggio di Kobatake fuggito da Hiroshima e ritornato a casa. Ma che Yasuko lavorasse nella cucina del Corpo ausiliari della Seconda scuola media di Hiroshima, era privo di fondamento. Se anche avesse lavorato in cucina non poteva certo una donna essere fuori nel luogo dove cantarono «Se si combatte sul mare...». Yasuko lavorava nella fabbrica della Società tessile giapponese nella città di Furuichi, fuori Hiroshima, e svolgeva la funzione di segretaria del direttore Fujita. Non c'era nessuna connessione tra la Società tessile giapponese e la Seconda scuola media. Da quando era stata assunta nella fabbrica di Furuichi, Yasuko aveva vissuto a casa di Shigematsu e della zia a Hiroshima, Sendamachi, 2 chóme, 862. Andava avanti e indietro dalla fabbrica con lo stesso treno diretto a Kabe che prendeva anche Shigematsu. Non aveva assolutamente nessun legame né con la Seconda scuola media né con il Corpo ausiliari. Solo che un soldato, diplomatosi in quella scuola e partito per il fronte nella Cina del nord, le aveva mandato una lettera di ringraziamento, fin troppo gentile, per un pacco dono ricevuto. Dopo un po' le aveva spedito anche cinque o sei poesie che aveva scritto per lei. Shigematsu ricordava che Yasuko le aveva mostrate a sua moglie e lei era arrossita innocentemente. «Si direbbero poesie d'amore», aveva soggiunto. | << | < | > | >> |Pagina 92Shigematsu decise di ricopiare con il pennello il suo Diario del bombardamento. Fece ricopiare a Shigeko la parte che già aveva scritto con l'altro inchiostro e lui stesso ricopiò la continuazione con il pennello su carta giapponese.
«Quel giorno avevo molta sete, un desiderio insopportabile di bere
dell'acqua. Ma quando aprii un rubinetto dell'acquedotto lungo la strada ne uscì
dell'acqua bollente che emanava vapore. Non vi si poteva avvicinare la bocca né
prenderla con le mani», con questo ricordo nella mente, prese in mano il
pennello.
A est della stazione di Yokogawa si trovava un tempio e, del padiglione principale, non era rimasto niente se non delle colonne. Quanto all'esterno proprio nulla: tutto raso al suolo. Le persone nelle stradine dentro il recinto del tempio erano tutte ricoperte di qualcosa simile a cenere o polvere. Non ce n'era una che non sanguinasse. Dalla testa, dal viso, dalle mani, e, quelli che erano nudi, dal petto, dalla schiena, dalle cosce, da ogni dove usciva sangue. C'era una donna, le guance tanto gonfie da ricadere come pesanti saccocce, che camminava con le mani avanti a mo' di fantasma. C'era anche un uomo senza niente addosso che procedeva con il corpo piegato proprio come se stesse entrando nella vasca di un bagno pubblico. C'era poi una donna che correva esausta, con indosso solo una camicia, e che si lamentava. Un'altra donna con un bambino in braccio: «Dell'acqua, datemi dell'acqua» gridava, e tra un grido e l'altro continuava ad asciugare gli occhi del bambino. I suoi occhietti erano pieni di qualcosa che pareva cenere. Un uomo gridava con tutto il fiato, donne e bambini correvano urlando, altri si lamentavano per il dolore, un uomo seduto lungo il ciglio della strada agitava furiosamente le braccia levate verso il cielo. Una vecchia era tutta intenta a pregare con le mani giunte, accanto a un cumulo di tegole cadute. Un uomo mezzo nudo che veniva correndo la investì insultandola. Un altro proseguiva a casaccio. Un uomo con i pantaloni bianchi si trascinava lentamente carponi, lamentandosi. Questo è quello che vidi camminando per meno di cento metri lungo la linea ferroviaria dalla stazione di Yokogawa al parco di Mitaki. La strada era affollata, come la stazione nelle ore di punta, e io mi lasciai trascinare dalla folla. Allora, in mezzo a grida di ogni genere, mi sentii chiamare da una voce stridula: «Signor Shizuma, signor Shizuma». «Dove sei, dove sei?» chiesi, fendendo la folla in direzione della voce, quando qualcuno mi afferrò il braccio e mi abbracciò: «Sono contenta di vederla». Chissà da dove era sbucata. Era la proprietaria della ditta di spazzole da filanda Takahashi. Cominciò a tremare stringendosi a me. Per sfuggire alla confusione la spinsi verso le case in rovina lungo i binari. Era pallida in volto e ancora tremante. «Signor Shizuma, cosa è successo? Tutta questa confusione!». «C'è stato un bombardamento». «Dove?». «Chissà, ma certo è che siamo stati bombardati». «Signor Shizuma, ha il volto ferito. La pelle viene via e ha cambiato colore. Le fa male, vero?». Portai le mani al viso e sentii su quella sinistra qualcosa di appiccicoso. Guardai il palmo delle mani e quello sinistro aveva su tutta la superficie come delle strisce accartocciate di carta bluastra. Quando mi toccai di nuovo, ancora qualcosa di appiccicoso mi restò attaccato. Era davvero strano: non ricordavo di essere stato colpito in volto. Pensai che fosse cenere o polvere che veniva via sotto le dita, come sporco. Riprovai di nuovo ma la signora mi afferrò il polso: «No, no non deve passarci sopra la mano. Fino a che non potrà metterci qualche medicamento lasci stare così. Se lo tocca, si può infettare». Non sentivo nessun particolare dolore ma provavo un senso di inquietudine e dei brividi mi correvano giù per la schiena. Sulla guancia sinistra avvertivo una sensazione spiacevole come se tante minuscole particelle vi si fossero attaccate. Quando provai a tirare la pelle della guancia spalancando la bocca e poi richiudendola, avvertii ancor più quel qualcosa di appiccicoso. Dato che la signora non mi lasciava il polso della mano, di nascosto con la mano destra provai a tastare la guancia sinistra. Sul palmo, rimasero di nuovo attaccati pezzetti di quello sporco. Provai a sfregarli con la sinistra e avvertii qualcosa di simile ai rimasugli di una gomma da cancellare, ma più viscido. Un brivido mi attraversò il corpo. Fu come se tutta la confusione intorno a me svanisse. Non svenni ma in quell'istante ebbi uno shock impossibile a descriversi. Mi ricordai all'improvviso la frase di un volantino che il nemico aveva lanciato la prima o la seconda decade dello scorso mese: «Un giorno di questi faremo un piccolo regalo ai cittadini di Hiroshima», così pare ci fosse scritto. Io non l'avevo visto ma me l'aveva riferito Tashiro, un vecchio tecnico della fabbrica di conserve di Ujina. Anche Yasuko mi disse che l'aveva sentito sul lavoro. | << | < | > | >> |Pagina 160Shigematsu continuò a ricopiare il Diario del bombardamento.
Questo mese era un susseguirsi di feste: finito il Bòshu e il
mushi kuyó,
l'undici c'era la festa del trapianto del riso, poi il quattordici, secondo il
vecchio calendario lunare, quella degli iris; il quindici la festa dei
kappa,
il venti quella del taglio del bambù. Tutte queste feste; in apparenza modeste,
simboleggiavano l'importanza che i contadini del passato, benché poveri, davano
alla vita. E mentre Shigematsu continuava a copiare e gli ritornavano alla mente
le scene di quell'inferno, cominciò a pensare che i riti dei contadini, per
quanto umili, fossero cose da tenersi ben care.
Raggiungemmo la fermata di Kamiyachò, un incrocio di linee; i cavi tagliati e i fili elettrici pendevano in un groviglio e avevo paura che ci fosse ancora della corrente. Erano quei cavi che di solito emettono scintille bianco-bluastre. Anche i pochi sfollati che andavano e venivano, vi passavano sotto strisciando. Avrei voluto seguire la sinistra della strada che va dal ponte Aioi a Sakanchò ma non sembrava possibile avanzare per il calore che le braci ancora emettevano. Provai a girare a destra ma un getto d'aria bollente mi sferzò e mi ributtò indietro. Era un calore in grado di far barcollare un uomo. Inoltre, se ci si avvicinava a delle grandi costruzioni all'occidentale, cadevano tizzoni ardenti, resti delle cornici delle finestre. Non si poteva far altro che passare nel mezzo della strada. Dato che i cavi erano tagliati qua e là, non avrebbe dovuto esserci corrente ma i fili che si incrociavano e si toccavano sembravano rivelare strani fenomeni elettrici. Sotto un filo che pendeva, c'erano tre corpi carbonizzati, un uomo e due donne. Come noi. «Dai, passate sotto come me. Non toccateli assolutamente. Li sposto io. Se cado a terra, non toccate niente se non i vestiti. Va bene? Tiratemi per l'orlo dei pantaloni». Imitai gli altri. Con un bastone spostavo a destra e a sinistra i fili, a volte avanzavo carponi altre strisciando, a seconda dei casi. «Fate come loro, arrotolate la salviettina sul gomito sinistro. Mettetevela perché con quello toccherete terra», più e più volte fu necessario strisciare. Alla fine, passato il pericolo, ci guardammo tutti e tre in viso. Shigeko non si era ferita da nessuna parte, invece Yasuko che si era avvolta male la salviettina, si era fatta una dolorosa escoriazione al gomito sinistro. Shigeko si sedette accanto a Yasuko su una pietra al margine della strada e le medicò il gomito con il Mentholatum e una benda triangolare. Mi accorsi all'improvviso che eravamo davanti all'entrata della casa del signor Omuro. «Guardate, la pietra laggiù sembra quella del giardino di Omuro». Dicevano che la sua famiglia fosse molto antica, che risalisse al periodo Edo. L'attuale capo faceva studi sul trattamento chimico del filato ritorto ed era proprietario di tre fabbriche tessili. Era anche un esperto di calligrafia, di pittura e d'oggetti d'arte antica. Da un anno a questa parte ero andato più volte a fargli visita per avere suoi consigli in merito a prodotti tessili. Era una splendida residenza con un magnifico giardino all'antica, ora completamente bruciata; dove c'erano la casa principale e il magazzino adesso c'era un campo di sabbia cosparso di tegole. La pietra su cui erano sedute doveva essere volata qui dal giardino. Pietra era, eppure un sottile strato era stato scorticato via, bruciato. «Quella è di granito. Fino a questa mattina doveva essere ricoperta di musco». «Vuoi dire che la casa di Omuro è stata completamente distrutta?». Che desolazione! Al posto del laghetto del giardino ora c'era una corrugata distesa di fango nero e sul bordo di una collinetta rotonda di terra, giacevano tre grandi pini, carcasse carbonizzate. Accanto al più grosso si ergeva, miracolo, una colonna quadrata e oblunga di pietra di Saga. Chissà perché solo quella non era caduta a terra! Una volta Omuro mi aveva raccontato che un suo antenato di tante generazioni fa aveva eretto questa colonna di pietra. Era alta più di tre metri e all'altezza di settanta, ottanta centimetri vi era incisa una sola parola: «sogno». Dicevano che quell'iscrizione fosse stata fatta da un monaco famoso ma, a vederla ora, non aveva né stile né eleganza. Sia Shigeko che Yasuko erano pallidissime in volto. Avevo la gola attanagliata dalla sete. Mentre camminavo, di tanto in tanto sentivo un leggero spasmo all'occhio. Giungemmo all'ingresso del campo ovest di manovra. L'erba dell'argine sulla riva occidentale era bruciata e non restava che la terra nuda e piatta. Anche gli alberi parevano essersi carbonizzati lì in piedi e sui rami neanche più una foglia. La residenza del generale della divisione, l'ospedale militare provvisorio, il santuario Gokoku e la torre del castello di Hiroshima non c'erano più. Gli occhi mi dolevano e mentre camminavo mi massaggiavo le palpebre con le dita. Bruciavano con un dolore sordo, continuo. | << | < | > | >> |Pagina 227Il treno mi portò fino alla stazione di Yamamoto. Da lì in poi il traffico non era ancora ripreso. I passeggeri erano circa cinquanta, sessanta, ma nessuno a Yamamoto uscì dalla stazione. Tutti si incamminarono in fila verso Hiroshima seguendo la ferrovia. Come dice il proverbio, la compagnia rende piacevole il viaggio e quelli di Hiroshima, poi, pisciano addirittura insieme: ora invece camminavamo uno dietro l'altro, calpestando le traversine, senza che nessuno si dicesse una parola. Oltre a me c'erano solo due donne che portavano un fagotto sulle spalle; indossavano dei pantaloni e mi camminavano proprio davanti. Non erano nemmeno un quarto del totale quelli che tenevano in mano qualcosa che potesse assomigliare a un bento. Questo dimostrava in modo evidente che la carestia affliggeva anche i villaggi contadini dei dintorni. Quante volte al giorno, mi chiesi, i treni trasporteranno alle rovine di Hiroshima queste folle taciturne?Man mano che si entrava nella zona delle macerie un vento umido e fetido si alzava verso di noi. Quelli che camminavano in fila a uno a uno erano diminuiti e solo alcuni andavano nella mia stessa direzione. Lì intorno ormai era già tutta una distesa di tegole rotte e la strada un deserto pieno di asperità. «Chissà che ponte era quello che ho attraversato prima» mi chiesi, e quando mi guardai indietro riconobbi il ponte Yokogawa dall'intelaiatura di ferro ad arco che era stata risparmiata dalle fiamme. Il giorno sei mentre fuggivo avevo visto da queste parti lungo la strada tre donne morte, quasi nude, in una grossa riserva d'acqua contro gli incendi, piena fino a circa otto decimi della sua capacità. In quei momenti avrei voluto passar via senza rivolgere nemmeno uno sguardo alle taniche ma, mio malgrado, non potei farne a meno. Dalle natiche di una donna che giaceva riversa spuntava fuori quasi un metro di intestino, dilatato a un diametro di dieci centimetri. Galleggiava sull'acqua formando un cerchio ingarbugliato e, a ogni soffio di vento, ondeggiava qua e là come un pallone. Sui resti di un tempio di Teramachi c'era una tavola con una iscrizione, scritta a carbone di legna, che diceva «Centro di raccolta dei cadaveri di Nekoyachò». Quando guardai oltre il muro di creta vidi che in un angolo erano ammucchiati dei corpi fino a un'altezza di circa due metri: morti schiacciati, o mezzi bruciati o ridotti a sole ossa. Poiché il muro era crollato, bastava avere gli occhi aperti perché la scena entrasse anche senza volerlo nella propria visuale. Il mucchio dei cadaveri era nero di mosche; disturbate forse dal vento o da qualcos'altro, si erano alzate in volo con un ronzio per poi subito raggrumarsi di nuovo sui corpi. In quel momento fui assalito da un odore fetido, soffocante. Trattenendo il respiro accelerai. Poi ripresi il passo normale coprendomi le nari con una salviettina, ma il tanfo mi inseguiva e mi faceva girare la testa. Attraversate le rovine di Teramachi, si era un po' affievolito. Ma solo per un momento perché man mano che i cadaveri e gli scheletri lungo la strada aumentavano, di nuovo mi assaliva un fetore terribile. Era un inferno di odori senza un attimo di tregua. All'improvviso sentii che il puzzo si era diradato: ero sul ponte Aioi e una brezza soffiava dal fiume. Finalmente, pensai e, appoggiato il carico che avevo sulle spalle alla balaustra di pietra, mi riposai per un po'. Si coglieva fino in lontananza la vista della città rasa al suolo dalle fiamme; a sud si vedevano le colline di Ogawamachi, di un verde nerastro; a sud-ovest la foresta vergine di alberi di canfora di Mukòujina e proprio di fronte il monte Shumi di Miyajima; a ovest le colline di Eba; a est la montagna sacra del tempio Tòshògú. Sulla landa bruciata della città solo la carcassa di qualche edificio e a perdita d'occhio resti di legni bruciati e pezzi di tegole. I puntini bianchi o neri che si muovevano qua e là erano uomini in cerca dei resti dei loro cari. Che desolazione! Ai piedi del ponte un uomo giaceva supino a braccia spalancate. Benché il viso fosse diventato nero, a momenti sembrava che le guance si gonfiassero con un ampio respiro. Sembrava che anche le palpebre si muovessero. Non credevo ai miei occhi. Appoggiai il mio fardello alla balaustra e mi avvicinai impaurito al cadavere; dalla bocca e dal naso fuoriusciva un esercito di vermi. Si addensavano sul globo dell'occhio e quando si muovevano sembrava un batter di palpebre. | << | < | > | >> |Pagina 326Il sei di agosto ci fu un allarme aereo alle sei e mezza del mattino e due o tre B29 sfrecciarono verso sud senza lasciar cadere nemmeno una bomba. Una cosa del genere, dall'esperienza avuta fino a quel momento, non era inconsueta. Passate le sette cessò l'allarme; alle sette e cinquanta durante un nuovo allarme fu celebrata la cerimonia della lettura del Rescritto imperiale nell'anniversario della sua promulgazione. Il comandante, i medici militari, gli infermieri, i membri della riserva, tutti si allinearono in fila nel cortile della caserma e si inchinarono verso oriente, nella direzione cioè del palazzo dell'Imperatore. In prima fila c'erano i medici di grado superiore, gli infermieri e poi i medici di riserva reclutati dalle prefetture di Yamaguchi e di Shimane, nella loro divisa da parata; in quella dietro i medici di riserva della regione di Hiroshima con una uniforme scadente. Quando erano stati arruolati, dato che il loro arrivo non era stato comunicato, avevano dato loro divise quasi da lavoro senza stellette, né altro.
Alla fine della cerimonia il vicecomandante iniziò a dare le sue istruzioni
e fu in quell'attimo che il B29 sganciò la bomba.
Ecco come Iwatake descrisse le sue impressioni di quel momento: «La cerimonia durò venti minuti. Accadde prima che rompessimo le fila mentre il vicecomandante ci stava rimproverando di non essere abbastanza allerta nell'eventualità di un allarme aereo. Si sentì il rombo che ci era familiare di un B29. Arrivava da sud ed era proprio sopra di noi: alzai gli occhi al cielo senza rendermene conto, e mi accorsi che al di là del tetto della caserma era caduta lentamente una cosa, simile a un pallone frenato. L'istante successivo una luce bianca come un lampo o come il flash che una grande quantità di magnesio bruciata tutta insieme potrebbe emanare. Sentii in tutto il corpo una fortissima vampata di calore. In quello stesso momento, un pauroso tremore della terra. Di quello che avvenne dopo, di quanto tempo passò, non ricordo. Non so nemmeno se, falciato dall'esplosione, sia caduto privo di sensi. Se ritornai in me fu perché qualcuno aveva cominciato a muoversi, calpestandomi la testa e le spalle con i suoi stivali da militare. «Giacevo in un buio pesto, imprigionato sotto dei legni. In quello spazio così stretto da non potermi muovere, man mano che, lentamente, recuperavo i sensi vidi una debole luce e con tutte le forze che avevo in corpo cominciai a strisciare in quella direzione. Ero sotto un tetto senza più tegole. «Ebbi la sensazione di impiegarci molto tempo ma alla fine mi ritrovai in piedi. A ripensarci ora, quel luogo era tra l'Ufficio affari generali e la cucina. Anche considerando la distanza che avevo percorso strisciando, dovevo essere stato proiettato molto lontano. «L'infermeria e l'edificio a un piano dell'unità di addestramento non esistevano più. Tutto era crollato: "raso al suolo" è la parola più adatta a descrivere la scena. Non c'era traccia umana, solo silenzio. Tutt'intorno era buio come se fosse sceso il crepuscolo. Dalla parte della cucina e dell'infermeria saliva già un fumo nero.
«La metà di destra della mia uniforme bruciacchiava fumando, il portafogli
che avevo nella tasca destra, il mio Longines al polso sinistro e gli occhiali,
spariti. Solo dopo un po' riuscii a spegnere il fuoco dell'uniforme. Il dorso
della mano destra era scorticato e la pelle di un colore grigio cenere; sulla
carne viva si era attaccato uno strato di terra nera. Avevo la sensazione
che tutto il mio viso fosse in fiamme e le dita della mano sinistra che non
erano scorticate erano diventate bianche come se fossero state cauterizzate.
Dalle natiche in giù non sentivo male anche se camminavo. La schiena, forse
colpita da un pezzo di legno, era invece molto dolorante. Non potendo fare
altro, raggiunsi un lavatoio e provai ad aprire il rubinetto. L'acqua uscì, con
mio stupore, e la colonna del lavabo era ancora in piedi. Per prima cosa lavai
via la terra dal dorso della mano e la fasciai con un panno che qualcuno aveva
dimenticato lì ad asciugare. Sono miope e così non potevo vedere
bene lontano, tutto era offuscato.
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