Copertina
Autore Christos Ikonomou
Titolo Qualcosa capiterà, vedrai
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2012 , pag. 224, cop.fle., dim. 13,5x19,5x1,5 cm , Isbn 978-88-359-9160-1
TraduttoreAlberto Gabrieli
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa greca
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Indice


Ehi Elli dài da mangiare al porcellino                    7

Soldatino di piombo                                      19

Mao                                                      27

E un ovetto kinder per il bambino                        57

Un cartello su un manico di scopa                        71

Il sangue della cipolla                                  83

Qualcosa capiterà, vedrai                                93

Le cose che si portavano appresso                       107

Baffetti di carbone                                     123

Cose estranee. Esotiche                                 135

Per la povera gente                                     151

Il congiungimento dei corpi                             165

Esci e bruciale                                         177

People are strange                                      191

I pinguini fuori dall'ufficio contabilità               201

Un pezzo alla volta mi rubano il mio mondo              209


 

 

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Pagina 7

Ehi Elli dài da mangiare al porcellino



Pulisce le lattughe. Venti euro per il resto della settimana e una pila di bollette sul piano di lavoro della cucina. Ma è venerdì pomeriggio, il migliore della settimana, ed Elli Drakou lava nel lavandino la lattuga romana che le piace molto perché ha un cuore molto tenero e bianco. Stacca le foglie a una a una e le mette sotto l'acqua e le lava con cura e le accarezza e ne taglia le punte che si sono annerite o che hanno quei buchini marrone e dopo scrolla la foglia con delicatezza per eliminare l'acqua e la lascia nella bacinella.

Le piace da matti pulire le lattughe. Staccare le grandi foglie verdi e lavarle una a una. E mentre avanza verso l'interno arriva alle tenere foglie meno verdi, quelle che brillano si direbbe inviolate dal tempo. È come aprire con lentezza, attenzione e trepidante attesa un regalo avvolto in svariati fogli di carta verdognola. E poi arriva al cuore della lattuga e il suo cuore esulta non appena scorge le foglioline fresche, le bianche e croccanti foglioline – il cuore della lattuga, un piccolo miracolo, un segreto ben celato, preservato dal tempo e dall'usura del tempo e le piace pensare che qualunque cosa sia successa ieri notte, nonostante i soldi persi ieri notte, qualunque cosa possa succedere domani e nei giorni a venire, nonostante tutti i Sotiris che attraverseranno la sua vita come soldati invasori o come migranti braccati, il cuore della lattuga, la sua parte più intima, le foglioline che adesso tremano tra le sue mani bagnate rimarranno per sempre bianche e tenere e vive, quasi fosse l'unica cosa l'unica cosa al mondo che non muore, che non morirà mai.

È piovuto, ha smesso, tra poco pioverà di nuovo. Guarda dalla finestra. Laggiù a Occidente tutto è rosso – l'aria, il cielo, le nuvole. Stasera pioverà sangue, dice Elli e rabbrividisce. E distoglie lo sguardo dalla finestra e guarda il cuore della lattuga che sembra palpitare tra le sue mani – non è il cuore della lattuga che palpita, sono le sue mani che tremano – e ciò che vede sprofonda dentro di lei come il sorriso di chi è disoccupato, di chi è licenziato.


Lattughe, dice Elli. Tutta la verità della vita si cela nelle lattughe. Non è vero?

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Pagina 19

Soldatino di piombo



Oggi l'hanno preso di nuovo quel coglione e gli hanno lisciato il pelo. Degli sgherri in borghese, pare, col codino e gli orecchini — due lo tenevano e quattro lo picchiavano. A Pérama dalle parti dei cantieri navali. Gli operai facevano una manifestazione perché due di loro erano rimasti uccisi su una nave cisterna e ci era andato anche lui e gridava slogan e scriveva sui muri con una bomboletta. Ma che aveva da gridare da scrivere. Che cosa c'entra lui con smerigliatrici e sabbiatrici. Quel coglione. Almeno fosse stato un militante fanatico — uno di quelli che vanno in branco e stanno in guardia, che conoscono tutti i trucchi del mestiere. Ma il nostro deficiente va a impegolarsi da solo nelle dimostrazioni e nei cortei e dàgli che poi tocca a me correre per ospedali e dagli sbirri per tirarlo fuori dai guai. Ha anche lasciato il lavoro e a casa non mette piede già da un mese. Che cosa mangia dove dorme? I soldi dove li trova? Quel coglione. Ci ha fatto venire il mal di cuore. Quel bastardo. Quel coglione.

Pezzo d'idiota, gli dico al telefono. Siamo alle solite? Non metti giudizio. Chi cazzo ti credi di essere stronzo.

Ah valoroso soldato, mi risponde. Ah valoroso soldato dalla morte chi ti salverà.

Hans Christian Andersen, mi dice.

Il soldatino di piombo.

Ti ricordi?



Ed eccomi correre a Pérama nel mezzo della notte per tirarlo fuori anche se la volta precedente avevo giurato che sarebbe stata l'ultima. Ho parlato al telefono con il commissario gli ho detto chi ero. Vieni a prenderlo, mi ha detto, e digli che un giorno o l'altro ci lascerà la pelle se continua così. Gli ho detto che l'avevano picchiato di brutto che l'avevano mandato all'ospedale. Non sono stati i nostri signor mio tal dei tali, mi ha detto, si pestano tra di loro comunisti anarchici non ci si capisce niente. Cosa vuoi dire a uno stronzo del genere, non gli ho detto niente, gli ho anche detto grazie per giunta, ossequi e abbiamo riattaccato.

Kokkinià Keratsini Amfiali guido con la sicura alle portiere e i finestrini chiusi. Qui sono nato qui sono cresciuto ma sono anni che ci ho fatto una croce sopra a questi posti — corro a rompicollo e non mi guardo neanche intorno — qui sono nato qui sono cresciuto ma non voglio ricordare niente, una vecchia ferita il passato che se lo gratti si rigonfia e sanguina e puzza. Via Petrou Ralli, Laodicea, Salamina, di gran carriera passo i semafori col rosso e i ricordi sono come le sirene di Odisseo, una ad ogni angolo, ad ogni angolo ad ogni semaforo mi fanno l'occhiolino, mi cantano di fermarmi. Un bacio, una sigaretta sotto la pioggia, un amico che una notte abbracciasti ubriaco. Mio padre. Lavorava a Pérama sulle vecchie carrette del mare ma ne sapeva qualcosa anche lui di ricordi. Come l'unghia incarnita sono i ricordi, ci diceva quando eravamo piccoli. Anche il dolore anche la morte tutto nella vita è come l'unghia incarnita. Puoi solo tagliarla non estirparla. Se vuoi vivere cioè.

Mio padre. A cinquantadue anni fu ucciso nella stiva dalle esalazioni. Mio padre. Anche lui un ricordo, un'unghia che è cresciuta a ritroso e si è conficcata nel profondo della carne e annerisce.

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Pagina 57

E un ovetto kinder per il bambino



Si svegliò per la fame. Aveva avuto un dolore alla pancia per tutta la notte. Con lui c'era anche suo figlio. Dormiva nel letto accanto a lui con la bocca socchiusa e stringeva con i suoi ditini il bordo della coperta come se si fosse addormentato con la paura che qualcuno gli avrebbe sottratto la coperta. Si girò piano e si appoggiò sul gomito e lo guardò. Non gli assomigliava affatto. Affatto. Prima di tutto era biondo. Non biondo biondo ma biondo. Ed era molto bello con un volto fine e occhi color del cielo quando soffia la tramontana. Aveva un piccolo neo sotto l'occhio destro. Al buio la peluria bionda brillava accanto all'orecchio come se per tutta la notte l'accarezzasse una mano cosparsa di polvere d'oro. Era così bello che guardandolo provava una fitta al cuore. Non si saziava di guardarlo, lo guardava e non soffriva la fame. Quando crescerà. Quando crescerà mi guarderà e mi chiederà come mai l'ho messo al mondo io come mai suo padre sono io come mai è cresciuto qui dentro perché ha dormito in questo letto. Come mai. Come mai.

Chiuse gli occhi. Di nuovo quel dolore. Sentì qualcosa muoversi nella pancia come se ci fosse qualcosa di vivo là dentro.

Papà?

Il bambino aveva aperto gli occhi e lo fissò con uno sguardo annebbiato.

Papà dobbiamo mangiare qualcosa. Le nostre pance borbottano.

Sollevò la testa dal guanciale e si vide qualcosa di bianco luccicare all'angolo delle sue labbra. Latte. Ma non era latte. Saliva che si era seccata.

Dormi. È ancora presto. Gli accarezzò i capelli, si sforzò di sorridere. Adesso esco. Mi senti? Non devi aver paura. Uscirò solo per poco. E quando ti sveglierai ci sarà la tavola apparecchiata e mangeremo fino al giorno dopo Pasqua. D'accordo? Dammi un cinque.

Il bambino chiuse gli occhi e si leccò le labbra e disse ho fame e strizzò gli occhi e non disse più niente.



Signore, disse la bambina. Potrebbe mettere la corona sulla testa del nostro buon Gesù?



Camminava da mezzogiorno in giro per le strade e arrivò il pomeriggio che ancora camminava. Nìkea Neàpolis Korydallòs Nìkea Neàpolis Korydallòs — girava in tondo come un animale in gabbia come quel lupo che una volta da piccolo aveva visto correre tutt'intorno nella sua gabbia in un giardino zoologico e poi per tutta la notte aveva pianto nel ricordarselo pelle e ossa con il pelo sporco e spelacchiato che correva a perdifiato nella sua gabbia con un'espressione di follia negli occhi. E aveva chiesto a suo padre e lui gli aveva detto che il lupo correva così perché il lupo è nato per correre e che rinchiudere un lupo in gabbia era come ucciderlo. E aveva chiesto a suo padre se poteva fare qualcosa per lui, se poteva socchiudere la gabbia e lasciar scappare il lupo e suo padre l'aveva guardato negli occhi per un bel momento — si ricordava che era stata l'unica volta che suo padre l'aveva guardato così — e dopo era stato sul punto di dire qualcos'altro ma non aveva detto niente.

Aveva pianto molte notti per il lupo. Molte notti e parecchi pomeriggi.

Giovedì santo e soffiava un vento perfido, gli alberi penavano al soffiare del vento si sarebbe detto che li squassava una gigantesca mano invisibile. Camminava e nei suoi pensieri c'era il bambino che adesso si sarà svegliato da ore e adesso sarà seduto al tavolo della cucina con le braccia incrociate e sognerà ad occhi aperti la tavola apparecchiata con tanto cibo. Camminava e pensava a dove avrebbe trovato dei soldi, pochi soldi, giusto per far passare anche quella notte. Passeggiava per far passare il tempo — alle dieci aveva appuntamento con sua figlia al porto. Arrivava da Salonicco e avrebbe preso la nave per Rodi, sarebbe andata a fare Pasqua con sua madre. Erano due anni che non vedeva sua figlia e stasera l'avrebbe vista e aveva intenzione di chiederle dei soldi. Cinquanta euro. Cinquanta euro andavano bene. Pasta un po' di pecorino pane latte. Birre. Del ketchup che piaceva al piccolo. E un uovo di cioccolato di quelli piccoli i kinder — arrivava Pasqua. Cinquanta euro andavano bene. Pensava a come l'avrebbe guardato sua figlia quando le avrebbe chiesto i soldi e che cosa gli avrebbe detto e che cosa avrebbe detto a sua madre una volta arrivata a Rodi. Sarebbe stato l'argomento di conversazione per giorni e giorni. Non ci posso credere mamma. Mi ha chiesto cinquanta euro mi ha detto che non aveva soldi che non avevano da mangiare.

Camminava e si sentiva arrossire per la vergogna e sentiva la fame e la vergogna rosicchiargli le viscere come ratti famelici.

Cinquanta euro, disse – e una donna che gli passava accanto lo guardò spaventata.

Cinquanta euro vanno bene.

Con cinquanta euro faremo Pasqua.



Signore, disse la bambina. Potrebbe mettere la corona sulla testa del nostro buon Gesù?



In ottantacinque erano rimasti senza lavoro quando aveva chiuso lo stabilimento della Roter a Rendi. Uomini e donne. Giovani e anziani e interinali. All'inizio correva con gli altri ovunque – ministeri, partiti, cortei, riunioni. Slogan, striscioni, pugni chiusi, voci rauche. Rabbia, paura, angoscia. La cosa peggiore erano le chiacchiere, le voci, le menzogne. Prima ti portavano alle stelle e poi ti tagliavano le gambe, ti rompevano le ossa, ti uccidevano. Questo era il peggio. Le chiacchiere e le menzogne. E dopo si stancò, disperò e cominciò a cercare di qua e di là. E poi si venne a sapere che li avrebbero assunti nei comuni circostanti a tempo parziale. E se ne rallegrò e si risollevò e disse al bambino di non avere paura, tutto andrà bene, vedrai, abbi fiducia in tuo padre. Passarono settimane. E poi si venne a sapere che avevano fatto una spartizione.

Si è fatta una spartizione, gli dissero. Hanno ripartito i posti tra i comuni. I comunisti a Kokkinià, quelli del Pasok a Korydallòs Keratsini, quelli di destra ovunque. Li hanno sistemati tutti. Tutti meno lui e altri cinque o sei che non avevano saputo. Che non avevano fatto in tempo. Che non erano rossi verdi azzurri. Il tutto avvenne in modo tranquillo semplice e alla bell'e meglio. E lui non si era accorto di niente.

Lui e altri cinque o sei.

Ci hanno venduti, gli dissero. Hai capito, povero fesso? I colleghi cazzo. I compagni di lotta. Ci hanno venduti.

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Pagina 93

Qualcosa capiterà, vedrai



Oggi è arrivato un altro avviso della banca. Scrivono che è l'ultimo e che la settimana prossima metteranno in atto «le azioni previste dalla legge». Hanno già anche telefonato parecchie volte, ma Niki non ha risposto. Ha lasciato il foglio sul tavolino del salotto. Quando è tornato dal lavoro, Aris gli ha dato un'occhiata ma non ha detto niente. Non l'ha quasi nemmeno sfiorato. Se ne era rimasto lì in piedi a fissarlo con gli occhi gonfi di sonno. Con la barba e i capelli lunghi, le basette che gli scendevano fino al collo, aveva l'aria di un lupo mannaro. Poi si era tolto gli stivali ed era andato in camera e si era lasciato cadere sul letto senza spogliarsi e si era tirato su il lenzuolo fin sopra la testa.

È a letto da tre ore. Muto. Immobile. Si direbbe quasi senza respirare.

Niki carica la lavatrice e poi prende la scopa e pulisce il pavimento. Si piega sulle ginocchia e raccoglie i frammenti di vetro sotto il tavolo della cucina. Il pavimento odora di acquavite. Versa altro detersivo e lo sfrega con tanta forza che le dita diventano bianche e le fanno male. Una volta ogni tanto si affaccia alla porta della camera da letto e lo guarda, per vedere fino a quando resisterà.

Soffocherai lì sotto, gli dice alla fine. Vieni fuori. Così non concludi niente.

Nessuna reazione. Ma Niki sa che lui la sente. La sua gamba sinistra trema sotto il lenzuolo. Come se non riuscisse a controllarla – come se fosse la gamba di qualcun altro e non la sua.

Non voglio che tu ti perda di coraggio, gli dice. Qualcosa capiterà, vedrai. Le banche non portano via le case in questo modo. Non siamo mica in America. In qualche modo ce la faremo. Vedrai.

Fuori cala la sera. La luce del sole disegna una linea arancione sul muro sopra il letto. Niki la guarda e si chiede come mai solo adesso faccia caso a quella linea arancione sul muro. Pensa come abbia torto a non sapere che cosa dire ad Aris, a non sapergli dire come si sente adesso che per la prima volta vede quella linea sul muro. Ieri sera, dopo averlo portato a letto di peso, si era fatta un caffè e aveva acceso la televisione. Le era passato il sonno e Aris russava così forte che se anche si fosse sdraiata accanto a lui non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Davano un documentario sugli Indiani, ma Niki guardava fuori dalla portafinestra i bagliori dei bengala e dei fari accesi dai lavoratori della centrale elettrica. Nel pomeriggio si erano arrampicati sulla ciminiera e avevano appeso degli striscioni e gridavano degli slogan. Guardava le luci dei fari che fendevano l'oscurità come enormi spade e si chiedeva come un pittore avrebbe dipinto la scena – ammesso che esistano ancora pittori che dipingono scene del genere. Con una donna seduta al buio con in mano una tazza di caffè e una sigaretta e con la luce azzurra e opaca della televisione che le illumina la faccia. Ma capirai che quadro sarebbe... Ancora ancora se avesse avuto in mano una pistola o un vibratore. Ma così, col caffè e la sigaretta no. La gente oggi non si scalda per cose del genere piuttosto all'antica. Che gli importa dei piccolo borghesi e dei loro problemi economici e familiari? Troppo banale. Poi si chinò per spegnere la sigaretta e vide sullo schermo una ragazza che sembrava un'indiana, ma che portava gli occhiali da vista e abiti moderni e parlava della storia della sua tribù e diceva che molti anni prima la gente della sua tribù era stata costretta ad abbandonare il proprio territorio e prima di andarsene alcuni avevano sfiorato le foglie e i rami degli alberi a mo' di saluto e altri avevano sfiorato l'erba e i fiori e l'acqua che sgorgava dalle sorgenti e i ciottoli sulle rive dei fiumi e i soldati che erano venuti per cacciarli guardavano quello strano spettacolo e ridevano – non sapevano che cosa significa abbandonare il posto che ami, disse la ragazza. Dopo le chiesero come fosse a conoscenza di tutte queste cose successe molti anni prima e lei rispose che la verità di una storia non dipende dalla sua correlazione con la realtà ma dal suo senso morale. Quando il documentario finì, Niki spense la televisione e aprì la portafinestra e guardò le luci dei fari e dei bengala degli operai che vegliavano abbarbicati sulla ciminiera della centrale elettrica e guardò gli edifici bui delle fabbriche e i serbatoi di carburanti e si ricordò di sua madre la quale diceva che in quegli anni i medici dicevano alle madri di non allattare i bambini perché l'aria in quelle zone – Charavghì Drapetsona Keratsini – era inquinata dal fluoro rilasciato dai fertilizzanti e il fluoro passa nel latte. E poi andò nella camera da letto e diede un'occhiata al marito che dormiva tutto infagottato e s'infilò le calze e si mise sulla spalle il golf e prese il caffè e le sigarette e le chiavi e salì le scale per andare sulla terrazza e da lassù guardò il mondo che si dispiegava intorno a lei. Il porto le navi le case popolari di Drapetsona. La fabbrica dei fertilizzanti i serbatoi le ciminiere. C'erano la luna e le stelle ieri sera, ma Niki non aveva bisogno di luce per vedere – sa dove si trova ogni cosa ad occhi chiusi. Il cementificio il macello la BP il porticciolo di san Nicola. Lo scalo dei pescherecci i cantieri navali Pérama. Di fronte l'isolotto di Psyttàlia e la città di Salamina. Paluki, il suo porto. Ambelàkia, l'agglomerato di Selìnia. Si aggrappò alla ringhiera e sentì la superficie ruvida del metallo graffiarle le mani.

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Pagina 191

People are strange



Sette mesi senza sogni. Sette interi mesi. Fu il ventuno di maggio che feci l'ultimo sogno. Me lo ricordo bene perché fu allora che piovve per l'ultima volta a Pérama e dintorni. Me lo ricordo perché era l'onomastico di Lena e dissi che era un buon segno che nella stessa giornata fosse piovuto e avessi fatto un sogno dopo tutto quel tempo. Da allora niente. Né pioggia né sogni. Un mortorio.

Sogni e pioggia. Chissà. A quanto pare adesso ormai quelle due cose vanno insieme.

A Lena non importa della pioggia. Non le importa che è arrivato Natale e ci sono venti gradi. Non le importa che usciamo in maniche di camicia e fuori gli uccelli cinguettano come se fossimo in aprile. Neanche dei sogni le importa.

Neanch'io faccio sogni, dice. Anzi è meglio. Che me ne faccio? Faccio sempre lo stesso che sto per cadere in un burrone e non c'è nessuno per trattenermi. Ma cosa stai a prendertela per dei sogni del cavolo. Di altre cose dovresti preoccuparti. Ieri hanno telefonato un'altra volta da Kotsòvolos e hanno chiesto delle rate. Gli dobbiamo tre rate dicono e che cosa succederà ci porteranno in tribunale. Mi senti? In tribunale. Dovevi sentirla quella battona. E aveva dei modi come se parlasse non so neanch'io a chi. Avrei voluto sparire dalla circolazione, mi sentivo sprofondare dalla vergogna. Farsi umiliare così da una battona e non poter nemmeno fiatare. E se finiamo in tribunale dice, ci faranno pagare anche le cosiddette spese processuali. Senti? Di questo dovresti interessarti e preoccuparti. Di questo. Non dei sogni e della pioggia.

Tiene in mano una buccia d'arancia e la taglia con il coltello. L'ha fatta in mille pezzi ma non desiste non ne vuole sapere di smettere. La taglia in piccoli pezzi e dopo ancora più piccoli sempre più piccoli. L'ha fatta in mille pezzi. E continua.

Deciditi, le dico. Deciditi a tagliarti qualche dito a combinare qualche altro guaio.

Ventuno dicembre. Sabato pomeriggio. Fra quattro giorni Natale. Dalla finestra della cucina vedo le lucine multicolori che si accendono e si spengono alle finestre e sui balconi e nei cortili delle case. Rosse verdi gialle blu. Stelle e ghirlande e babbi natale e slitte con cerbiatti. Innumerevoli lucine. Come se ti trovassi in uno sterminato casinò e le case fossero delle slot-machines. Cemento, povertà e lucine multicolori – un po' Bangladesh e un po' Las Vegas. I bambini in strada vanno in bicicletta e le donne innaffiano vasi con fiori rigogliosi. Vedo uomini in bermuda che grigliano carne e bevono birra sulle terrazze. Vedo un uccello che svolazza intorno a una gabbia e l'uccello che è dentro la gabbia svolazza anche lui impaurito. Il cielo assolutamente terso, l'aria asciutta come la bocca di un uomo terrorizzato. Natale è alle porte, ma niente ricorda Natale. A parte le lucine. È come se Natale fosse venuto e passato e adesso fosse primavera ma per qualche folle motivo la gente avesse dimenticato di togliere gli addobbi dalle loro case.

Natale è alle porte e qualcosa intorno a me brucia come una miccia a combustione lenta. Mi chiedo. Mi chiedo quando brucerà la miccia e quando avverrà l'esplosione e che cosa succederà dopo.

L'altro ieri mi sono sorpreso immobile davanti a un negozio di caccia e pesca a rimirare i pugnali e i coltelli a serramanico in vetrina. E poi sono entrato dentro e ho preso un coltello Buck americano, una lama di venti centimetri. Una roba pesante che fa danno te lo soppesi in mano e la tua mente si ottenebra. Me lo porto dietro nello stivale per ogni evenienza come si dice. A Lena non ho detto niente. E di notte quando non dormo la mia mente va sempre a cose del genere. Micce ed esplosioni e armi e coltelli. Che cosa diavolo succede e come andrà a finire questa storia. E mi spavento.

E Lena taglia bucce d'arancia sul tavolo della cucina. Le taglia in silenzio con il coltello e in casa non si sente niente adesso. È calato un silenzio dell'altro mondo, il silenzio che precede il terremoto come si suol dire e se viene il terremoto mi dico tra me e me può cambiare il tempo, piovere fare un freddo cane nevicare. Mi dico che se viene il terremoto e il mondo trema magari cambia qualcosa. E questo pensiero mi spaventa. Senza qualcosa di buono che vita puoi vivere, dico tra me e me.

Che vita puoi vivere se aspetti che il male ti liberi dal male.



È avanzata mezza bottiglia di vino da ieri. Riempio un bicchiere con fare indifferente, come se fosse acqua e Lena mi guarda e fa per dire qualcosa ma la precedo.

Lunedì, dico. Lunedì che prenderò la tredicesima e andrò a pagare Kotsòvolos. Okay?

Ah bene, dice. Okay. Adesso sono tranquilla, dice.

Prende una nuova buccia e comincia a farla a pezzi con il coltello. Le sue dita sono diventate gialle.

Per caso mi dicevo per caso hai un'idea di quanto dobbiamo, mi chiede. Prendi una biro e scrivi. Due mesi di spese condominiali duecento euro. L'assicurazione della macchina è scaduta il quindici. E sono altri duecento. Affitto. Kotsòvolos. Centoquaranta la luce. Le fottute carte di debito della fottuta banca di Cipro. Ho due denti guasti. Vado verso i quaranta e mi cadono i denti. Quanto prenderà il dentista. Perché non scrivi? Scrivi. Scrivi che per cavarcela dobbiamo prendere la tredicesima di Natale e la quattordicesima di Pasqua e la tredicesima del prossimo Natale e la quattordicesima della prossima Pasqua. Scrivi. Scrivi.

Le strappo il coltello di mano e lo getto nel lavandino. Mi guarda come se fossi una macchia su un abito bianco e poi apre il cassetto e prende un altro coltello e ricomincia a tagliare la buccia che aveva lasciato a metà. Le sue dita sono ingiallite e tremano.

Lena, dico.

Scrivi, dice.

[...]



Nel giorno di Natale il tempo cambia. A mezzogiorno spuntano delle nuvole e prima delle tre il cielo si è oscurato. Sonia telefona per gli auguri. È a Pilio con amici. Piove fin dal mattino da quelle parti, dice. Molta pioggia un finimondo. Riempirò una bottiglia di pioggia e ve la porterò, dice e ride. Sono tutti sbronzi, tutta la vecchia compagnia. Stanno in un albergo con ristorante che serve carni biologiche, verdure biologiche, posate biologiche. La loro camera ha il caminetto e il letto a baldacchino e pareti dipinte con colori bislacchi. Beati voi, dice Lena e mi guarda. Poi le chiede quando torneranno, se ce la faranno a incontrarsi prima che partano per Parigi. Ho da chiederti qualcosa, le dice Lena – senza smettere di guardarmi. Di quella cosa che dicevamo nei giorni scorsi. Ti ricordi. Sì. No. Sto bene. Di sicuro. Ci vediamo presto.

Quando riattacca il telefono, prendiamo i nostri bicchieri usciamo sul balcone. Allora pioverà. Una nuvola ritta come un muro nero viene avanza dalle parti di Salamina verso di noi. Pioverà. Ma il vento non sa di pioggia. Un vento strano. Viene da oriente in direzione opposta alla nuvola, ma la nuvola viene irrefrenabile verso di noi. Come se non fosse una nuvola ma qualcos'altro. I fili della luce fischiano, porte metalliche sbattono, allarmi di automobili urlano. Gli alberi si piegano al soffio del vento, come le antenne delle televisioni. Il vento trascina fogli sacchetti di plastica cartacce. Una decorazione a forma di stella si stacca da un balcone e cade in strada e rotola come una ruota bizzarra. Soffia selvaggio e costante verso occidente quasi che la nuvola fosse un enorme magnete che si è messo ad attirare su di sé tutte le cose del mondo, ad aspirare tutta l'aria del mondo.

Guarda là, dice Lena e mi prende per il braccio. Ma che roba è, dice e indica la nuvola. Cose da pazzi. Guarda. Hai mai visto una cosa del genere? Che cos'è?

E allora vediamo la pioggia. Lunghe funi nere appese alla nuvola e sembrano unire la terra con il cielo.

È la fine del mondo, dico e Lena ride come se le mancasse il respiro e mi si stringe contro e lecca una goccia di vino che le è schizzata sulla mano.

Forse la fine del mondo verrà più o meno così, dico. Ma forse no. Forse non finisce il mondo ma gli uomini. Gli uomini smetteranno di vedere sogni o di dormire o di fare l'amore o di bere vino o di baciarsi. Qualcosa del genere. Forse verrà così la fine del mondo. Non per un meteorite o per il nucleare o per lo scioglimento dei ghiacciai. Senza esplosioni né terremoti né tifoni. Non dall'esterno ma dall'interno. È giusto che succeda così. Perché viviamo nel mondo ma non con il mondo. Ormai da secoli abbiamo smesso di vivere con il mondo. Quindi sarebbe ingiusto che il mondo scomparisse insieme a noi. Una grande ingiustizia.

La nuvola adesso s'ingrandisce ancora e nasconde il mare ai nostri occhi.

Un abete finto precipita dal balcone di fronte e cade volteggiando in silenzio nel vuoto. Mi sembra la cosa più terrificante che abbia mai visto in vita mia.

Ma no, dico. La cosa più terrificante è il lavoro. Aspettare di essere pagati ogni quindici o trenta giorni. Misurare la tua vita in quindicine di giorni. Sapere che se al padrone gli viene la fregola di non pagarti una e due e dieci quindicine non puoi fare niente. Tutta la tua vita sta nelle loro mani. Misurare la tua vita in quindicine di giorni. Questa è la cosa più terrificante.

Vado dentro, dice Lena. Non ti sopporto quando parli così. Non voglio vedere. Andiamo dentro ti dico.

Ma non andiamo da nessuna parte. Con i bicchieri in mano restiamo in silenzio e guardiamo la pioggia che si avvicina da occidente. Guardiamo la nera tenda della pioggia che si chiude lenta e silenziosa e lenta e silenziosa inghiotte le forme i colori il rumore del tramonto.

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