Copertina
Autore John Iliffe
Titolo Popoli dell'Africa
SottotitoloStoria di un continente
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007, Economica , pag. 452, ill., cop.fle., dim. 14,2x20,5x2,6 cm , Isbn 978-88-6159-409-8
OriginaleAfricans. The History of a Continent
EdizioneCambridge University Press, Cambridge, 1995
TraduttoreEster Borgese
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe storia: Africa , storia , storia antica , storia criminale , paesi: Sudafrica
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


VII     Indice delle carte geografiche

 XI     Prefazione alla seconda edizione

  1  1. Pionieri del genere umano

  7  2. La nascita di comunità in grado di produrre cibo

 22  3. L'uso dei metalli e il suo impatto

 48  4. Cristianità e Islam

 81  5. Società colonizzatrici nell'Africa occidentale

130  6. Società colonizzatrici nell'Africa orientale e meridionale

172  7. La tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico

216  8. Le diversità regionali nel XIX secolo

254  9. L'invasione coloniale

288 10. La trasformazione coloniale, 1918-1950

332 11. L'Africa indipendente, 1950-1980

361 12. Industrializzazione e questione razziale in Sudafrica,
        1886-1994

382 13. Nell'epoca dell'AIDS

419     Bibliografia

445     Indice dei nomi


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 1

1. Pionieri del genere umano


La seconda metà del Novecento, che vide la liberazione del continente, fu per i popoli dell'Africa un periodo trionfale, ma alla fine del secolo i frutti dell'indipendenza tramutarono il trionfo in disillusione. L'epoca odierna rappresenta un'occasione per riflettere sui problemi della contemporaneità e comprenderli in base alla prospettiva offerta dalla lunga storia del continente. È l'obiettivo che si pone questo libro, il quale vuole essere una storia generale dell'Africa dalle origini del genere umano al giorno d'oggi, senza però dimenticare la realtà contemporanea. Obiettivo che giustifica la scelta del filo conduttore che lo attraversa.

Gli africani sono stati e sono i pionieri che hanno colonizzato una regione del mondo particolarmente ostile nell'interesse dell'intero genere umano. È stato questo il loro principale contributo alla storia ed è il motivo per cui essi meritano ammirazione, sostegno e uno studio attento. La storia dell'Africa si fonda su temi centrali come il popolamento del continente, il successo della convivenza tra l'uomo e la natura, l'edificazione di società stabili e la difesa di queste ultime dall'aggressione di regioni più avvantaggiate. Un proverbio malawiano recita: «L'uomo fa il mondo, ma la foresta ne porta i segni e le ferite». Nel cuore del passato africano vi è, quindi, una straordinaria storia demografica che riunisce in un'unica vicenda gli uomini primitivi e i loro attuali discendenti. È questo il tema centrale del libro.

Tutto ha inizio con l'evoluzione della specie umana, che dall'Africa si diffuse per colonizzare l'intero continente e il mondo, conformandosi e adattandosi ad ambienti sconosciuti fino a permettere lo sviluppo di gruppi etnici e linguistici ben distinti. La conoscenza dei metodi di produzione del cibo e l'uso dei metalli resero possibili le concentrazioni di popolazione, che all'infuori dell'Egitto e di altre regioni favorite conobbero una lenta evoluzione dovuta al fatto che l'Africa, con le sue rocce antiche, il terreno povero, le precipitazioni irregolari, l'abbondante presenza di insetti e l'eccezionale diffusione di malattie, rappresentava un ambiente decisamente ostile per le comunità rurali. Di conseguenza, fin quasi alla fine del XX secolo l'Africa rimase un continente sottopopolato. Le sue società si specializzarono nello sfruttamento intensivo delle risorse a disposizione e nella colonizzazione della terra. I metodi di coltivazione erano diversi e tendevano a adattarsi all'ambiente più che a trasformarlo, al solo scopo di evitare che l'insufficienza dei raccolti provocasse l'estinzione della specie. Le concezioni del mondo erano incentrate sulle idee di fertilità e di difesa della civiltà contro la natura. L'organizzazione sociale mirava anch'essa a trarre il massimo profitto dalla fertilità, in particolare attraverso la poliginia, che fece del conflitto generazionale una dinamica storica più rilevante della lotta fra classi. Tra popolazioni che si trovavano sparse su terre sconfinate la differenziazione sociale si esprimeva attraverso il controllo sulla società, il possesso dei metalli preziosi e la proprietà del bestiame, laddove le condizioni ambientali ne permettevano l'allevamento, specialmente nelle zone dell'Est e del Sud. L'insediamento sporadico della popolazione e le enormi distanze rendevano difficoltoso il trasporto, limitavano il vantaggio ricavabile dal potere, impedivano l'emergere di élite istruite e di istituzioni formali, lasciavano molta libertà a chi coltivava la terra e ostacolavano la nascita degli stati, nonostante i leader attuassero diversi espedienti per assicurarsi la fedeltà degli uomini.

Il Nordafrica si sottrasse per primo a tali limitazioni, ma il Sahara lo isolò dalla maggior parte del continente fino alla fine del I millennio d.C., quando l'espansione economica e la religione islamica attraversarono il deserto, prelevando oro e schiavi dal sistema commerciale locale dell'Africa occidentale e stabilendo rapporti marittimi con l'Africa centrale e orientale. La strada verso l'evoluzione storica fu tuttavia sbarrata da una catastrofe demografica, la peste nera, che catapultò il Nordafrica in un periodo di declino durato circa cinque secoli.

In quasi tutta l'Africa tropicale, invece, i primi contatti di una certa rilevanza con il mondo esterno avvennero attraverso il commercio degli schiavi che, per brutale ironia, vedeva un continente sottopopolato esportare esseri umani in cambio di merci utilizzate dalle élite per allargare il proprio seguito. La schiavitù servì forse a frenare la crescita demografica nel corso di due secoli difficili, ma rese gli africani più resistenti alle malattie europee. Così, quando alla fine del XIX secolo ebbe inizio la conquista coloniale, le sue conseguenze demografiche, sebbene pesanti, furono meno catastrofiche di quelle subite da continenti rimasti più isolati. Le società africane opposero quindi resistenza al dominio europeo con un'energia inusuale, ostacolando i governanti europei nel processo di costituzione degli stati, come già era avvenuto con i loro predecessori africani. Ma la presenza europea portò anche innovazioni fondamentali come il trasporto meccanico, la diffusione dell'alfabetismo e, soprattutto, i progressi in campo sanitario che, per società dedite allo sfruttamento massimo della popolazione, significarono l'inizio di una crescita demografica unica per ampiezza e velocità nella storia del genere umano. Una crescita che fu alla base del crollo del dominio coloniale, della fine dell'apartheid e dell'instabilità dei regimi successivi, e che costituì la causa principale della crisi avvenuta alla fine del XX secolo.

Ma la popolazione non è un tema centrale soltanto nella storia dell'Africa. Ogni storia rurale deve fondarsi su una storia demografica. I pionieri furono soggetti chiave nella storia dell'Europa medievale, della Russia, della Cina e delle Americhe. La storia moderna di tutti i paesi del Terzo mondo necessita di essere riscritta sulla base della crescita demografica. Tuttavia, alcuni aspetti circostanziali furono esclusivi del continente africano. Le condizioni ambientali del continente erano eccezionalmente ostili, poiché in Africa l'evoluzione dell'uomo aveva significato anche lo sviluppo dei suoi parassiti, con una diffusione e una varietà altrettanto uniche. Mentre russi, cinesi e americani avanzavano nella colonizzazione lungo frontiere lineari e diffondevano la propria cultura, fatta di nuclei densamente popolati, il processo di colonizzazione dell'Africa fu soprattutto interno, con innumerevoli confini locali, e le sue culture si formarono principalmente lungo le frontiere, un processo accentuato dalla mancata esportazione della cultura egiziana nel resto del continente, come era invece avvenuto in India con la cultura della valle del Gange. In Africa le tradizioni culturali incentrate sulla terra erano presenti anche dove questa era scarsa, mentre l'India possedeva tradizioni culturali che non conferivano un ruolo centrale alla terra anche dove essa era abbondante.

L'aspetto più importante sta nel fatto che il popolamento dell'Africa si è verificato nell'ambito di un legame irripetibile con il cuore eurasiatico del Vecchio Mondo. È questo il primo sottotema del libro. L'Africa mantenne una posizione stabile nell'ambito del Vecchio Mondo finché il cambiamento climatico non provocò la desertificazione del Sahara nel III millennio a.C. Da quel momento l'Africa subsahariana si ritrovò in una condizione d'isolamento parziale, più isolata dei margini estremi della stessa Eurasia, come la Scandinavia o il Sudest asiatico, che acquisirono gradualmente culture eurasiatiche, ma meno di quanto non lo fossero le Americhe, dove si svilupparono culture uniche che non conoscevano l'uso del ferro, gli animali domestici, i tipi di malattie, i rapporti commerciali, le religioni e l'alfabetizzazione che l'Africa subsahariana in parte condivise con il cuore dell'Eurasia. L'isolamento parziale significò che i fenomeni culturali assunsero caratteri specificamente africani. L'integrazione parziale significò che gli africani erano predisposti a un'ulteriore integrazione e ciò ne spiega sia l'apertura verso l'Islam e il cristianesimo, sia la disastrosa disponibilità a esportare schiavi, che acquisivano valore proprio grazie alla loro eccezionale resistenza alle malattie eurasiatiche e tropicali.

La tratta degli schiavi fa luce anche su un secondo sottotema. Conseguenza della dura lotta contro la natura o frutto della crudeltà umana, la sofferenza ha avuto un ruolo centrale nell'esperienza africana. I popoli d'Africa crearono le proprie difese ideologiche contro la sofferenza. La preoccupazione per la salute, per esempio, fu forse più presente nelle loro concezioni di vita che in quelle delle popolazioni di altri continenti. Ma generalmente essi affrontarono la sofferenza in modo diretto, ritenendo virtù supreme la capacità di sopportazione e il coraggio. Per la gente comune si trattava di una questione d'onore, mentre le élite avevano elaborato codici più complessi. Gli storici hanno trascurato tale idea di onore che spesso in passato motivò gli africani e che ancora oggi è fondamentale per comprenderne l'attuale agire politico. Restituire a tale convinzione il suo legittimo posto nella storia africana è uno degli obiettivi di questo lavoro.

Sono state scritte molte storie generali dell'Africa da quando, negli anni cinquanta, essa è diventata oggetto di un'indagine seria. I primi studi hanno posto l'accento sulla costituzione degli stati e sulla resistenza al dominio straniero. Una seconda e più disillusa generazione di storici si è soffermata sugli scambi commerciali, sull'integrazione nell'economia mondiale e sul sottosviluppo. I lavori più recenti si sono concentrati sui problemi di carattere ambientale e sociale. Questi diversi approcci hanno contribuito a far conoscere e soprattutto a far apprezzare la diversità africana. Ognuno di essi è presente in questo libro, ma all'interno di una cornice più ampia fornita dalla straordinaria storia demografica del continente africano. Con questo non intendo affermare che in Africa il motore principale del cambiamento storico sia stata la demografia; ciò sarebbe veritiero solo in riferimento alla seconda metà del XX secolo. La trasformazione demografica non costituisce una forza autonoma, bensì è il risultato di altri processi storici e innanzitutto della volontà umana. Ma proprio per questa ragione è un indicatore sensibile del cambiamento, è il punto in cui le dinamiche storiche si fondono in un risultato che non esprime solo le azioni delle élite, come fa la politica, né solo un livello superficiale dell'attività economica, come fanno gli scambi commerciali, ma racchiude in sé le condizioni e le preoccupazioni più importanti della gente comune. La scelta della popolazione come tema centrale non vuol dire neanche fare una concessione alle inquietudini emerse alla fine del XX secolo, né tanto meno alla propaganda per il controllo delle nascite. La trasformazione demografica rappresenta piuttosto il filo rosso che collega i differenti periodi e livelli della storia dell'Africa.

Tuttavia tale orientamento spinge al limite, e forse oltre, le fonti della storia africana. I dati demografici affidabili precedenti la seconda guerra mondiale sono scarsi, fatta eccezione per alcune regioni privilegiate. La storia del XX secolo in generale può fare affidamento principalmente sulle fonti scritte e sulle tecniche tradizionali degli storici. In Egitto, le più antiche testimonianze scritte risalgono al 3000 a.C., mentre i riferimenti arabi all'Africa occidentale appaiono a partire dall'VIII secolo d.C. Ma per intere zone dell'Africa equatoriale non esistono documentazioni scritte antecedenti al XX secolo. In mancanza di tali fonti, la conoscenza del passato deve fondarsi in primo luogo sull'archeologia, che ha conosciuto notevoli progressi nella seconda metà del XX secolo, in particolare nei metodi geofisici di datazione attraverso il radiocarbonio e altre tecniche sofisticate. L'archeologia è però una disciplina molto impegnativa e costosa, e molti aspetti del passato africano ne sono stati appena sfiorati. Essa può essere integrata dalle analisi linguistiche, dal folklore, dalle tradizioni orali, dalla documentazione etnografica, dall'arte e dalle tracce biologiche che sopravvivono nei corpi umani. Tutto ciò ha contribuito alla nostra comprensione del passato, ma si tratta spesso di surrogati di ricerche archeologiche non ancora intraprese. Uno degli aspetti più appassionanti della storia dell'Africa è che c'è ancora molto che aspetta di essere scoperto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

2. La nascita di comunità in grado di produrre cibo


L'evoluzione dell'uomo

L'Africa è straordinariamente antica. Il cuore del continente è un altopiano rialzato composto di rocce formatesi tra i 3600 e i 500 milioni di anni fa, ricco di minerali ma povero di terra. Diversamente da altri continenti, in Africa le rocce hanno conosciuto pochi ripiegamenti in catene montuose, che avrebbero potuto influire sul clima. Per tale motivo, a nord e a sud dell'Equatore si estendono in modo regolare fasce di temperatura, precipitazioni e vegetazione seguendo le quali le foreste pluviali lasciano il posto dapprima alla savana e poi al deserto, per arrivare infine al clima mediterraneo e alle precipitazioni invernali dell'estremità settentrionale e meridionale del continente. L'eccezione più importante è rappresentata dalla zona orientale, dove la frattura a faglie e l'attività vulcanica, avvenute tra i 23 e i 5 milioni di anni fa circa, hanno creato fosse tettoniche e zone montagnose che determinano un'interruzione nelle fasce climatiche laterali.

Questo contrasto fra zona occidentale e zona orientale del continente ha forgiato l'intera storia africana fino ai giorni nostri. Nelle epoche più antiche, le estreme variazioni di altitudine intorno alla Rift Valley, nell'Africa orientale, hanno originato una varietà di condizioni ambientali in cui gli esseri viventi sono riusciti a sopravvivere alle variazioni climatiche che le ere glaciali avevano provocato in altri continenti. Inoltre, l'attività vulcanica e la conseguente erosione di nuove rocce morbide nella regione della Rift Valley hanno favorito la scoperta e la datazione di resti preistorici. Ciò potrebbe far pensare, erroneamente, che l'uomo si sia evoluto soltanto nell'Africa orientale. In realtà, è nella zona occidentale del continente che sono state ritrovate le più antiche testimonianze dell'evoluzione della specie umana, una vicenda che ancora oggi si cerca di ricostruire attraverso il materiale scheletrico e la composizione genetica delle popolazioni viventi. Tale vicenda ha avuto inizio tra i 6 e gli 8 milioni di anni fa con la separazione degli ominidi (antenati dell'uomo) dagli animali a essi più strettamente imparentati, ovvero gli antenati degli scimpanzé. Il teschio del primo ominide conosciuto (Sahelanthropus tchadensis) è stato scoperto nel 2001 da uno studente africano che stava esplorando le rive dell'antico lago Ciad. Sembra che questo individuo risalga a 6 o 7 milioni di anni fa e che fosse in grado di mantenersi in posizione eretta, oltre a presentare altre caratteristiche tipiche degli ominidi e ad avere un cervello delle stesse dimensioni di quello di uno scimpanzé. Nei successivi cinque milioni di anni una grande varietà di altri ominidi, generalmente conosciuti come australopitechi, ha lasciato le proprie tracce principalmente nell'Africa orientale e meridionale. Essi si nutrivano perlopiù di alimenti vegetali, avevano una struttura facciale massiccia ma una piccola massa cerebrale, ed è probabile che si arrampicassero ancora sugli alberi sebbene avessero iniziato ad assumere una posizione eretta, com'è dimostrato dalle impronte rimaste straordinariamente intatte per più di 3,5 milioni di anni in letti di cenere vulcanica a Laetoli, in Tanzania.

Alla fine gli australopitechi si estinsero, ma è da essi, probabilmente da quegli individui dotati di corporatura più esile, o almeno da un antenato in comune, che discende l'uomo. Una fase importante di questa evoluzione si ebbe con la lavorazione della pietra allo scopo di renderla tagliente. Ritrovati in vari siti della Rift Valley in Etiopia, in Kenia e in Tanzania, risalenti a 2,6 milioni di anni fa, queste industrie accompagnano spesso i resti di un ominide conosciuto come Homo habilis, ritenuto da alcuni in linea di discendenza diretta con l'uomo, considerato invece da altri una delle molte creature umanoidi che, insieme agli australopiteci, vissero a quell'epoca.

Un individuo dalle fattezze più distintamente umane, restituito dalla documentazione archeologica, risale a circa 1,8 milioni di anni fa. L' Homo ergaster (da un termine greco che significa "lavoro") è riuscito a sopravvivere per più di un milione di anni, subendo solo trascurabili cambiamenti. Della stessa statura dell'uomo moderno, in grado di camminare agevolmente e dotati di un cervello più grande e complesso, tali ominidi si erano adattati a vivere in mezzo alla foresta, avevano appreso probabilmente l'uso del fuoco ed erano dediti a industrie litiche più sofisticate come la fabbricazione di asce, che rimasero fino a circa 250 000 anni fa gli utensili principali creati dall'uomo con materiali durevoli. I resti più antichi di Homo ergaster e di asce sono stati rinvenuti nell'Africa orientale lungo le rive dei laghi, ma uno strumentario litico simile è stato rinvenuto un po' in tutto il continente, anche se raramente nella foresta tropicale. In una prima fase della sua storia, l' Homo ergaster si trovò anche in Eurasia. In quest'epoca tutti i continenti del Vecchio Mondo furono il teatro dell'evoluzione della specie umana. In Europa comparvero gli uomini di Neandertal, con un cervello delle stesse dimensioni di quello dell'uomo moderno, ma dalla forma particolare. In Africa un'evoluzione simile ebbe inizio forse 600 000 anni fa in Etiopia, dove a poco a poco si svilupparono esseri umani con una struttura anatomica moderna. Gli individui più antichi, che presentavano ancora molti tratti arcaici, sono stati rinvenuti nella valle dell'Awash e sono databili a circa 160 000 anni fa. Successivamente sono stati ritrovati altri resti in siti diversi, soprattutto nell'Africa orientale e meridionale. Accanto a questa evoluzione fisica si verificarono mutamenti tecnologici e culturali, laddove le asce lasciarono il posto a industrie litiche più piccole e differenziate, il più delle volte create appositamente per sfruttare le caratteristiche ambientali locali. Alcuni esperti attribuiscono questa crescente adattabilità alla necessità di reagire alle estreme variazioni di temperatura e piovosità, iniziate circa 600 000 anni fa a causa del cambiamento di angolazione e distanza della Terra rispetto al Sole.

A questo punto lo studio dell'evoluzione dell'uomo si intreccia con due linee di ricerca sulla composizione genetica della popolazione attuale. La prima linea riguarda il DNA mitocondriale, una delle sostanze fisiche responsabili della trasmissione di caratteristiche genetiche. Dal momento che esso viene trasmesso esclusivamente (o quasi) dalla madre, si può risalire la sua linea di discendenza senza la complicazione di un'eredità mista di due genitori per ogni generazione. Si ritiene inoltre che il DNA mitocondriale subisca numerose piccole mutazioni con un ritmo relativamente regolare. Gli scienziati hanno perciò messo a confronto il DNA mitocondriale della popolazione vivente allo scopo di individuare il punto preciso in cui gli esseri umani hanno condiviso in passato un unico antenato femminile. Sebbene alcuni aspetti particolari siano discutibili, la maggior parte dei ricercatori è convinta che questo punto sia collocabile tra i 250 e i 15 000 anni fa, o più in generale nel periodo a cui risalgono le testimonianze fossili dei primi uomini con una struttura anatomica moderna. Inizialmente, questi antenati dell'uomo moderno si diffusero nel continente africano, dove le più antiche linee di discendenza di DNA mitocondriale ancora viventi sono state individuate tra il popolo dei san (i cosiddetti "boscimani") dell'Africa meridionale e tra i pigmei baka dell'attuale Repubblica Centraficana. Circa 100 000 anni fa alcuni di questi uomini anatomicamente moderni provenienti dall'Africa orientale si spostarono per un breve periodo in Medio Oriente, ma forse senza stabilirvisi definitivamente. Fatta questa eccezione, sembra che tali individui siano rimasti confinati per quasi 100 000 anni in Africa, dove si diffusero a partire da est verso altre aree del continente. Una successiva espansione li condusse almeno 40000 anni fa in alcune zone dell'Asia; da qui si spostarono in Europa, assorbendo o soppiantando gradualmente in tutto il mondo i primi ominidi.

La prova fossile e mitocondriale di questa teoria dell' Out of Africa è stata corroborata da una seconda linea di ricerca genetica. Il cromosoma Y, che determina il genere maschile, viene trasmesso solo dal padre e si può dunque risalire anche attraverso di esso a un antenato comune, collocabile in genere tra i 15 e i 100 000 anni fa. Le più antiche linee di discendenza ancora oggi viventi di questo cromosoma si trovano soltanto tra gli africani, in particolare tra i san, gli etiopi e altri gruppi originari dell'antica Africa orientale. Dopo un lungo periodo di differenziazione, le linee di discendenza derivanti da tali gruppi si sono diffuse nel continente prima di spostarsi fuori di esso, dove tutti gli uomini presentano cromosomi Y con una mutazione in comune, che si ritiene sia avvenuta a un certo punto in un antenato africano tra i 90 e i 30 000 anni fa circa.

Se gli individui con struttura anatomica moderna apparvero in Africa e da lì si diffusero per ripopolare il mondo, un problema cruciale è identificarne e spiegarne il carattere di modernità, ovvero il vantaggio di cui godevano nei confronti degli ominidi già esistenti. Alcuni esperti ipotizzano che la svolta decisiva sia avvenuta – forse nelle funzioni cerebrali – durante il periodo di espansione, tra i 60 e i 40 000 anni fa. Molti altri parlano invece di progressi più piccoli, accumulatisi nell'arco di ben 300 000 anni. Il risultato più documentato è stata la sostituzione di asce pesanti e non elaborate con uno strumentario più piccolo e specializzato, costituito da minuscole pietre (microliti) appuntite montate su un'asta o su un'impugnatura.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 172

7. La tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico


In una storia dell'Africa va senza dubbio attribuito un ruolo centrale al tema della tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico, non soltanto per la sua valenza morale e la sua carica emotiva ma anche per l'importanza che questa ha avuto nel determinare lo sviluppo del continente. La prospettiva qui adottata è che gli effetti della tratta degli schiavi furono complessi e di ampia portata nonché comprensibili soltanto alla luce delle peculiarità assunte dalle società africane nel corso della loro lunga lotta contro la natura. Le esportazioni di schiavi bloccarono la crescita demografica per lo meno per due secoli. La tratta favorì lo sviluppo di nuove forme di organizzazione politica e sociale, l'uso più ampio degli schiavi all'interno del continente e un atteggiamento più spietato nei confronti della sofferenza. Se l'Africa subsahariana si trovava già in una condizione di arretratezza per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico, fu proprio la tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico a enfatizzare tale arretratezza. Pur considerando la loro condizione di povertà, è fondamentale ricordare che gli africani superarono il commercio degli schiavi mantenendo la loro indipendenza politica e le loro istituzioni sociali in gran parte intatte. Paradossalmente, questo vergognoso periodo contribuì anche a rivelare la determinazione umana spinta al più alto livello di coraggio. Lo splendore dell'Africa risiede nella sua sofferenza.


Origini e sviluppo

La tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico ebbe inizio nel 1441 quando un giovane capitano portoghese, Antam Gonçalvez, rapì un uomo e una donna della costa occidentale del Sahara per compiacere il proprio datore di lavoro, il principe Enrico il Navigatore (cosa che gli riuscì dato che Gonçalvez fu ordinato cavaliere). Quattro anni dopo i portoghesi costruirono un forte sull'isola di Arguin, di fronte alla costa mauritana, che serviva da base per acquistare schiavi e soprattutto oro, che all'epoca scarseggiava. Dopo un tentativo fallito di conquistare il mercato dell'oro occupando Ceuta sulla costa marocchina, i marinai portoghesi sondarono la costa africana occidentale in direzione delle riserve d'oro. Arguin fu destinata a sviare le carovane dell'oro dal tragitto verso il Marocco. Allora gli schiavi non erano prodotti secondari, dato che un vivace mercato di schiavi africani esisteva già dalla metà del XIV secolo nel Sud dell'Europa, dove la manodopera scarseggiava in seguito alla peste nera e la schiavitù si era mantenuta dai tempi dei romani nell'ambito domestico e in sacche di agricoltura intensiva, in particolare per la produzione di zucchero, che gli europei avevano appreso dai musulmani durante le Crociate. Dato che le piantagioni di zucchero si estendevano verso ovest dal Mediterraneo alle isole dell'Atlantico, come Madeira, fino alle Americhe e dipendevano massicciamente dalla manodopera degli schiavi, la tratta atlantica fu in gran parte una risposta alla loro domanda.

La tratta, tuttavia, dipese anche dalla disponibilità degli africani a vendere schiavi. Tale disponibilità derivava dalla scarsa popolazione, con la conseguente difficoltà di reperire manodopera attraverso mezzi di natura esclusivamente finanziaria, elemento che aveva già favorito la schiavitù e la tratta degli schiavi presso molti, anche se non tutti, i popoli africani. Ad Arguin i portoghesi commerciarono con i mori, affermati fornitori di schiavi per il commercio sahariano. Quando i portoghesi scesero più a sud costeggiando il fiume Senegal nel 1444, trovarono che anche la popolazione locale era ugualmente integrata nella tratta settentrionale. «Questo [il re]» scrive un cronista «se mantien con robarie che 'l fa, et ha sempre molti schiavi negri, che 'l fa piar sì nel suo paexe come ne li altri paexi vexini a lui; e de questi tal schiavi el se ne serve in molti modi e principalmente li fa lavorar a seminar certe terre e possessioni sue e ancho molti de loro ne vende ad Azanegi et Arabi merchadanti che capitano de lì con cavalli e altre cosse.» I cavalieri wolof pagavano i portoghesi tra i nove e i quattordici schiavi a cavallo. Ancora più a sud, lungo la costa, tuttavia, i portoghesi incontrarono popolazioni prive di capi potenti o di esperienza con la schiavitù. I baga dell'attuale Guinea, per esempio, si rifiutarono di partecipare alla tratta degli schiavi per tutta la sua durata; come anche i kru dell'attuale Liberia e numerosi altri popoli limitrofi senza stato, si opposero alla schiavitù con feroce coraggio e, se catturati, arrivavano a uccidere i loro padroni o se stessi, tanto che gli europei cessarono di ridurre i kru in schiavitù. Nelle Americhe un numero esorbitante di schiavi, che erano riusciti a scappare e avevano creato comunità di fuggiaschi, apparteneva a questi popoli senza stato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 182

Nell'incontro con i commercianti europei, l'eclettismo e la rivalità tra le società africane conferivano ai beni d'importazione un fascino pericoloso. Nessuno di questi prodotti era necessario (fatta eccezione, in un certo senso, per le armi da fuoco), ma la maggior parte di essi consisteva di beni di consumo considerati abbastanza preziosi da indurre i sovrani africani e molte persone comuni a vendere altri africani verso i quali non avevano alcun tipo di obbligo, proprio come i genovesi e i veneziani di epoca medievale avevano venduto altri europei ai musulmani. Alcune popolazioni africane vi si opposero, non necessariamente per ragioni di tipo morale. Molti dei popoli senza stato si rifiutarono di commerciare in schiavi, il Benin chiuse il proprio mercato, re Afonso del Kongo ebbe a lamentarsi degli effetti della tratta e vi sono testimonianze di gente comune che aiutava gli schiavi a fuggire. Considerata la preoccupazione africana di accrescere il numero della popolazione, vendere persone era un'azione ingrata e carica di una tragica ironia, la cui logica si spiegava con la separazione tra interesse personale e collettivo, dato che i più potenti vendevano schiavi per ottenere prodotti con i quali attrarre a sé ancora più sostenitori. Vendevano persone per comprare persone.

Terminata la fase di contrattazione, lo schiavo passava al suo nuovo padrone europeo. Per prima cosa veniva marchiato, come accadeva in seguito a ogni passaggio di proprietà. Poi bisognava caricare lo schiavo su una nave per l'America prima che questi morisse. Non esistono statistiche attendibili sul tasso di mortalità prima dell'imbarco. Joseph Miller ha calcolato che, per ogni cento persone ridotte in schiavitù in Angola nelle ultime decadi del XVIII secolo, dieci potevano morire durante la cattura, ventidue nel viaggio verso la costa, dieci nelle città costiere, sei per mare e tre in America prima di cominciare a lavorare, riducendo a meno della metà il numero di coloro che sarebbero stati impiegati come schiavi. Le stime potrebbero essere più alte per ogni singola parte della tratta: nel tardo XVII secolo gli schiavi del Gambia costavano sulla costa almeno cinque volte tanto il loro prezzo nell'entroterra, dove erano stati catturati. Nulla di più preciso può essere detto, ma si riteneva che il periodo di tempo trascorso nelle prigioni sulla costa o a bordo delle navi in attesa di salpare fosse altamente a rischio di malattie, suicidi o tentativi di fuga:

Quando i nostri schiavi sono a bordo li incateniamo a due a due mentre siamo ancora in porto e in vista della loro terra, poiché questo li incoraggia a fuggire e ad ammutinarsi [...] gli diamo da mangiare due volte al giorno [...] e questo è il momento in cui sono più tentati di ammutinarsi, trovandosi sul ponte; dunque, per tutto quel periodo, quelli tra i nostri uomini che non sono impegnati nella distribuzione del cibo e nella loro sistemazione rimangono armati, e alcuni tengono puntate le armi cariche su di loro, con la miccia accesa, fino a che non hanno finito e non se ne sono tornati nelle loro cuccette sottocoperta.

Il momento della partenza era traumatico. «Tumulti fra gli schiavi per tutta la notte» registra il diario di un marinaio. «Hanno avvertito i movimenti della nave. Le urla peggiori che io abbia mai udito, come quelle dei poveri pazzi ricoverati al Bedlam Hospital. Gli uomini hanno agitato le loro catene. Un rumore assordante.» Il terrore era in parte dovuto alla credenza degli abitanti dell'Africa occidentale che gli europei fossero creature del mare, cannibali provenienti dal regno dei morti le cui scarpe di pelle nera erano fatte con la pelle degli africani, il cui vino rosso era sangue africano e la cui polvere da sparo era composta da ossa di africani bruciate e pestate. Tali paure erano diffuse in Mozambico e tra coloro che erano coinvolti nella tratta sahariana. Ma anche gli schiavi appartenenti ai sovrani dell'Africa occidentale erano capaci di commettere gesti estremi, tanto il suicidio quanto l'omicidio, sapevano vendicare l'onore oltraggiato e conoscevano l'amore per la libertà. Le rivolte potrebbero aver interessato circa il 10% dei viaggi degli schiavi. Durante ciascuna delle rivolte a noi note morirono all'incirca venticinque schiavi. Il rischio di morire era probabilmente quattro volte superiore alle possibilità di fuga, dato che nelle trecentosessantanove rivolte di cui l'esito è noto almeno in parte soltanto in dodici di esse risulta che qualche schiavo sia riuscito a tornare in Africa da uomo libero. Nel complesso, forse meno di uno schiavo su mille tra quelli coinvolti nella tratta riuscì a riconquistare la libertà prima di raggiungere l'America. Le due rivolte coronate da maggior successo che si conoscano ebbero luogo sulla Marlborough nel 1752 e sulla Regina Coeli nel 1858: in entrambi i casi circa duecentosettanta schiavi riuscirono a fuggire dopo essersi impossessati della nave mentre ancora si trovavano vicini al punto d'imbarco. Le rivolte erano più comuni sulla navi provenienti dal Senegambia, dalla Guinea Superiore e dalla Costa d'Oro, regioni in cui esistevano forti tradizioni militari, e su quelle con un carico a maggioranza femminile, forse perché alle donne veniva in genere concessa più libertà di movimento. Non che si potesse avere molta libertà a bordo di una tumba, una bara, come i portoghesi chiamavano le loro navi negriere. Nel XVIII secolo il modello di nave più comune tra quelle utilizzate dai francesi nella tratta era lungo 20 metri, largo 6 e poteva trasportare circa trecento schiavi. In centoquattro navi misurate tra il 1839 e il 1852 lo spazio medio riservato a uno schiavo sul ponte era di circa 0,4 metri quadrati. La mortalità dipendeva dal luogo d'imbarco, dalla durata del viaggio (tra i due e i tre mesi durante il XVIII secolo, anche se a volte poteva durare di più) e dalla comparsa o meno di epidemie quali dissenteria, vaiolo o scorbuto. Circa il 12% degli schiavi inviati nelle Americhe tra il 1519 e il 1867 morì per mare. A volte gli squali seguivano le navi per un intero mese.

I racconti di schiavi sopravvissuti al Middle Passage (la traversata atlantica) si concentrano in genere su tre particolari: l'aria mefitica dei locali in cui erano ammassati gli schiavi, in cui a volte una candela non sarebbe stata in grado nemmeno di bruciare, la costante brutalità dell'equipaggio e soprattutto la sete, dato che l'acqua era la risorsa prima più scarsa (la razione consisteva in genere in un litro al giorno). Olaudah Equiano, che sosteneva di essere stato rapito nella terra degli igbo all'età di undici anni e venduto agli schiavisti britannici nel 1756, fornisce la più vivida descrizione:

La mancanza d'aria e il gran caldo, insieme al numero di persone rinchiuse nella nave, talmente affollata che a stento un uomo avrebbe potuto girarsi, quasi ci soffocava. A causa di ciò la sudorazione aumentava, e l'aria ben presto divenne irrespirabile, carica di ogni tipo di odore ripugnante, tanto che tra gli schiavi si diffuse una malattia, e molti ne morirono. [...] Questa miserabile condizione venne ulteriormente aggravata dal fastidio provocato dalle catene, ora insopportabile, e dalla lordura delle vasche per i bisogni corporali, in cui spesso cadevano i bambini, quasi soffocandone. Le grida delle donne e i lamenti dei moribondi rendevano la scena di un orrore quasi inimmaginabile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 254

9. L'invasione coloniale


Nel corso degli ultimi vent'anni del XIX secolo le potenze europee si spartirono la cartina dell'Africa in modo rapido e indolore. Tuttavia, mettere in pratica tale divisione fu un'operazione tutt'altro che rapida e indolore. La diffusione delle armi, i codici d'onore militare e l'ostilità di lunga data nei confronti del controllo governativo resero l'opposizione popolare di gran lunga più marcata in Africa che non, per esempio, in India. Creando degli stati in un continente turbolento e sottopopolato, gli amministratori coloniali dovettero confrontarsi con i medesimi problemi che avevano avuto i loro predecessori africani, e spesso li affrontarono allo stesso modo, sfruttando alcuni vantaggi tecnologici: potenza di fuoco, trasporto meccanico, competenze mediche, alfabetizzazione. Gli stati sorti negli anni precedenti la prima guerra mondiale furono in genere semplici scheletri rimpolpati e vitalizzati dalle forze politiche africane. La conquista europea, tuttavia, sortì due principali effetti. Ciascuna colonia, specializzandosi in una produzione per il mercato mondiale, acquistò una struttura economica che spesso sarebbe sopravvissuta nel XX secolo, con un'enorme distinzione tra la produzione agricola africana nell'Africa occidentale e quella capitalistica europea nell'Africa orientale che avrebbe perpetuato l'antico contrasto tra le due regioni. L'ingerenza europea, inoltre, ebbe profonde conseguenze anche sullo sviluppo demografico del continente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 282

Ambiente e demografia

L'Africa del primo periodo coloniale non sperimentò una totale catastrofe demografica di portata pari a quelle che la conquista e le malattie importate provocarono nell'America Latina e nel Pacifico. Non solo gli africani si erano già adattati all'ambiente più ostile del mondo per quanto riguardava le malattie, ma in quanto popolazioni del Vecchio Mondo possedevano già, come gli asiatici, un certo grado di resistenza alle malattie europee. Il vaiolo, per esempio, fu probabilmente più devastante in Africa occidentale durante la tratta degli schiavi che nel primo periodo coloniale. Naturalmente certe regioni avevano avuto minori contatti con l'Europa, mentre altre erano particolarmente vulnerabili a causa della natura delle loro condizioni ambientali o dell'intrusione coloniale. Questa diversità regionale rese il primo periodo coloniale una fase di crisi demografica, anche se mite. Ancora una volta le popolazioni africane sopravvissero.

«Le guerre, la siccità, la carestia, la peste, le cavallette, le epidemie del bestiame! Perché così tante disgrazie una dopo l'altra? Perché?» L'angoscia espressa dal missionario Frangois Coillard nel 1896 nel Bulozi era largamente condivisa. La stessa conquista militare non fu probabilmente la principale causa di morte, anche se ebbe effetti devastanti su scala regionale. I ventun anni di guerra a intermittenza necessari agli italiani per la conquista della Libia potrebbero avere ucciso un terzo della sua popolazione. Nel 1904 i tedeschi sedarono una ribellione herero nell'Africa sudoccidentale spingendo la popolazione nel deserto dell'Omaheke; un censimento del 1911 mostrò che solo 15130 herero sopravvissero su un totale forse di 80000. La repressione e la carestia che avevano soffocato la rivolta maji maji non solo uccisero più di un terzo della popolazione della regione ma «ridussero la fertilità media delle donne sopravvissute di più del 25%», secondo uno studio scientifico realizzato trent'anni più tardi. Gli scontri tra inglesi, belgi, tedeschi e portoghesi nell'Africa orientale durante la prima guerra mondiale comportò un disastro simile, dato che espose più di centomila truppe africane e forse un milione di portatori e manovali a uno spaventoso tasso di mortalità a causa delle malattie e dello sfinimento. Questi furono orrori insoliti, ma indicano comunque come la violenza coloniale possa aver avuto significativi effetti demografici, sebbene la conquista coloniale avesse posto fine a molti fenomeni di violenza. Quando, nel 1891, gli inglesi assunsero il controllo della Shire Valley nel Nyasaland, gli uomini cantavano:

    Il figlio del babbuino
    è sceso dalle colline
    il paese è di nuovo ai suoi piedi.

Su scala continentale, la violenza fu meno devastante della carestia. In tutta la savana tropicale, le piogge favorevoli della metà del XIX secolo diminuirono nel corso degli anni ottanta dello stesso secolo, inaugurando quarant'anni di relativa siccità prima che il livello delle precipitazioni risalisse negli anni venti del XX secolo (fenomeno confermato dai livelli del lago ma che trascura molte variazioni su scala locale). Spesso in commistione con altri aspetti della prima crisi coloniale, la siccità causò una serie di carestie in tutta la savana. Cominciò in Africa orientale durante gli anni ottanta del XIX secolo e determinò la prima crisi in Etiopia con la carestia degli anni 1888-1892 nota come "il giorno terribile", quando una peste bovina uccise i capi di bestiame impiegati nell'aratura bloccando il sistema agricolo. Aggravata da siccità, locuste, carestia, violenza e malattie umane, si dice che la crisi abbia ucciso un terzo della popolazione dell'Etiopia, sebbene la cifra sia convenzionale. Anche diverse aree del Sudan patirono le stesse problematiche. Nel 1986 il Transvaal settentrionale sperimentò l'ultima grande carestia del Sudafrica che portò alla morte della popolazione. "La grande carestia" del 1989-1900, come la chiamarono i kikuyu dell'Africa orientale, fu esacerbata dal commercio coloniale di cibo e in seguito uccise due terzi della popolazione in un mbari kikuyu. La savava dell'Africa occidentale visse la propria crisi tra il 1913 e il 1914 quando un'eccezionale siccità venne a coincidere con i nuovi sistemi di tassazione, l'esportazione delle colture, il declino del commercio transahariano e la migrazione della manodopera. La campagna della prima guerra mondiale provocò estese carestie nell'Africa orientale, in particolare la devastante carestia "Rumanura" in Ruanda nel 1916-1918. Infine, l'Africa equatoriale francese visse la peggiore carestia della sua storia dal 1918 al 1926, dovuta principalmente alle eccessive richieste coloniali di cibo e manodopera. Come al solito, queste carestie uccidevano principalmente tramite le malattie, soprattutto il vaiolo che colpiva coloro che si riunivano alla cerca di acqua e cibo. L'Africa orientale sperimentò una terribile epidemia verso la fine degli anni novanta del XIX secolo, quando una nuova varietà, forse di origine asiatica, fece il proprio ingresso nella regione. Il vaiolo, come altre malattie, colpì il crescente numero di persone, soprattutto i lavoratori, che si spostavano verso ambienti sconosciuti, e rimase una costante causa di morte per i bambini. Un medico nel Nyasaland registrò che il 93% degli adulti e il 68% dei bambini che visitò nel 1913 aveva contratto questa malattia.

La crisi peggiore dal punto di vista sanitario fu l'epidemia della malattia del sonno, che ha diversi aspetti in comune con quella di AIDS verificatasi un secolo dopo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 361

12. Industrializzazione e questione razziale in Sudafrica, 1886-1994


Il Sudafrica contemporaneo merita un discorso a parte. Ciò perché la scoperta dell'oro nel Witwatersrand, nel 1886, fece imboccare al Sud una strada diversa rispetto al resto del continente, avviandolo verso un'economia industriale, un rafforzamento del potere bianco e un sistema di repressione razziale senza precedenti, il quale sarebbe culminato nel programma dell'apartheid del 1948, programma di segregazione razziale imposto dal governo centrale all'insegna del dominio dei bianchi. Tuttavia, per quanto la sua diversità rispetto al resto del continente fosse paragonabile a quella dell'Egitto faraonico, il Sudafrica condivise con esso molti processi storici di fondo, il più importante dei quali fu la crescita demografica, grazie alla quale la popolazione passò dai tre o quattro milioni circa di abitanti nel 1886 ai trentanove nel 1991. Come già avvenuto altrove, ciò alimentò la concorrenza per l'accaparramento delle risorse agricole, l'urbanizzazione di massa, il conflitto generazionale e l'eccessiva espansione del raggio d'azione dello stato. Grazie a tale situazione, ma anche allo sviluppo industriale e al contesto internazionale, la popolazione nera riuscì a costringere il governo a correre ai ripari nei primi anni novanta con la stipulazione di un accordo a lungo termine. Con il sistema maggioritario del 1994 il Sudafrica si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi socioeconomici che stavano affliggendo l'intero continente, ma il tasso record di crescita demografica era solo un ricordo e le competenze e le risorse acquisite erano ormai sufficienti, almeno potenzialmente, a risolverli con relativa facilità.

| << |  <  |