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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione di Giorgio Agamben 19 Premessa alla seconda edizione tedesca (1995) 25 Guida alle note con titolo 27 Ringraziamenti 31 I. Sessismo e sviluppo economico 51 II. Sesso economico 51 L'economia documentata 66 L'economia non documentata 75 Lavoro ombra 92 La femminilizzazione della povertà 99 III. Il genere vernacolare 102 Complementarità ambigua 108 Sessismo sociobiologico 113 Sessismo sociologico 123 IV. Cultura vernacolare 124 Genere e utensili 127 Genere, canone feudale, commercio e artigianato 133 Genere e parentela 135 Genere e matrimonio 141 V. Dominii di genere in ambiente vernacolare 141 Spazio/tempo e genere 155 Il genere e la casa 164 Genere e universi concettuali 170 Genere e lingua dell'uso 179 VI. Il genere attraverso i tempi 181 Genere e trasgressione 186 L'ascesa dell'eterosessuale 198 L'iconografia del sesso 211 VII. Dal genere dimidiato al sesso economico 225 Nota al testo di Fabio Milana 257 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 7Introduzione
di Giorgio Agamben
1. Forse soltanto oggi l'opera di Ivan Illich conosce quella che Benjamin chiamava «l'ora della leggibilità». Se, da una parte, la sua prima ricezione negli anni Settanta, incentrata soprattutto su De-schooling society (1971) e Medical Nemesis (1976), le aveva assicurato diffusione e successo, ne aveva, dall'altra, anche segnato il fraintendimento. Il dibattito nel numero della rivista «L'arc» fra Gilles Martinet e Jean-Marie Domenach (1975) è da questo punto di vista istruttivo: Illich vi appare ora come un cristiano che critica la scienza in nome di ideali comunitari retrogradi o, all'opposto, come il «primo ricercatore sociale del nostro tempo, come Marx fu per il suo». In ogni caso, il pensiero di questo «iconoclasta patentato», come lo definiva in quegli anni un autorevole quotidiano, si inquadrava senza difficoltà nella critica delle istituzioni che aveva segnato l'onda lunga del '68.
È tempo di leggere Illich in tutt'altra prospettiva. Se
la filosofia implica necessariamente una interrogazione
dell'umanità e della non-umanità dell'uomo, allora la sua
ricerca, che investe le sorti del genere umano in un momento decisivo della sua
storia, è genuinamente filosofica,
come filosofico è il suo metodo, l'archeologia, che egli
sviluppa in modo autonomo rispetto a Foucault. In questo
senso, evocando l'angelo della storia di Benjamin, che indietreggia verso il
presente tenendo gli occhi fissi sul passato, egli si paragona piuttosto a un
granchio, che indietreggia verso il passato fissando lo sguardo sul presente.
2. Si può dire che non vi è un ambito nella conoscenza del nostro presente che lo sguardo di granchio di Illich non abbia profondamente rinnovato. Si tratta, però, ogni volta di un'analisi globale, che investe lo stesso sistema attraverso cui gli uomini hanno cercato in ogni tempo di assicurare la loro sussistenza. Secondo Illich, questo sistema combinava due diversi modi di produzione: uno autonomo, che produceva valori d'uso destinati alla sfera domestica o – come Illich preferisce chiamarla – vernacolare e non al mercato, e uno eteronomo, destinato alla produzione di merci per il mercato. Se l'espansione del sistema eteronomo (certamente maggioritario in termini di quantità) supera una certa soglia, oltre la quale la produzione autonoma scompare e lascia il posto a quello che Illich chiama lavoro-ombra (cioè al lavoro non retribuito del consumatore per rendere utilizzabile la merce acquistata sul mercato), si verifica allora una «controproduttività paradossale», in forza della quale la produzione eteronoma causa un effetto opposto a quello che si proponeva di raggiungere. Si potrebbe chiamare «teorema della lumaca» l'esempio col quale Illich illustra icasticamente questa controproduttività: la lumaca, dopo aver aggiunto un certo numero di spire al suo guscio, interrompe la sua attività; se continuasse, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso e il volume da trasportare. È questo teorema che Illich dimostra nelle sue giustamente celebri analisi della scuola che, senza ridurre le discriminazioni sociali, rende gli individui incapaci di apprendere da soli; della medicina che, espandendosi oltre un certo limite, finisce col produrre malattie iatrogeniche e, insieme, espropria gli uomini della capacità di sopportare il proprio dolore e lenire quello degli altri; dei trasporti veloci e costosi che, invece di far risparmiare tempo a chi se ne serve, esigono in realtà in termini globali un maggior numero di ore e, quindi, una minore velocità rispetto alla bicicletta. All'inizio degli anni Settanta, l'inchiesta di un gruppo di sociologi ha verificato l'ipotesi di Illich, dimostrando che, in termini di «tempo generalizzato» (che comprende cioè anche le ore di lavoro necessarie per l'acquisto e il mantenimento dell'automobile) l'automobilista francese medio percorre 15.500 chilometri l'anno, ma consacra alla sua automobile 1.550 ore l'anno, il che significa che egli impiega un'ora per percorrere 10 chilometri, contro i 13 della bicicletta. Tuttavia, poiché la politica dei trasporti si proponeva obiettivi di produttività economica e non l'interesse dei singoli, da allora la costruzione di autostrade e di veicoli si è ulteriormente intensificata. Se queste analisi di Illich sono state ampiamente discusse, non meno importanti sono quelle che egli ha dedicato alle cosiddette «professioni disabilitanti», che monopolizzano una certa attività espropriando gli uomini che fino allora l'avevano praticata (possiamo aggiungere al catalogo illichiano la categoria degli architetti, che, dal momento della loro comparsa nel XIX secolo, hanno espropriato gli uomini della capacità di costruire di cui avevano dato prova per millenni); la critica delle nozioni di scarsità e di bisogno, che definiscono l'economia dell'età industriale e l' Homo oeconomicus costitutivamente bisognoso che le corrisponde, insieme cliente ideale del mercato capitalista e suddito perfetto dell'assistenza statale; la critica del feticcio vita e della bioetica, che di esso è solidale; la genealogia dei servizi dalla secolarizzazione del pastorato ecclesiale; e, non ultima, la stupenda riscostruzione della trasformazione che il libro e la lettura subiscono dal XII secolo ad oggi (In the Vineyard of the Text, 1993). In tutte queste ricerche, in questione è una minaccia che concerne l'umanità dell'uomo – a condizione di precisare, però, che per «umanità» non s'intende qui una natura biologicamente o culturalmente presupposta, ma semplicemente le pratiche immemoriali attraverso le quali gli uomini si rendono la vita possibile, cioè quella dimensione che Illich ha chiamato «convivialità». Problema filosofico per eccellenza, se la filosofia è innanzitutto memoria dell'antropogenesi, cioè del diventare umano del vivente uomo. | << | < | > | >> |Pagina 158. Anche Gender, il libro del 1982 che qui si ripropone, deve essere situato in questa prospettiva. Come Illich scrive più di dieci anni dopo nell'importante prefazione alla seconda edizione tedesca (finora inedita in italiano), anche questo libro nasce dalla «ripugnanza» di fronte a quella «terribile corruzione di ciò che è più eccellente» che è rimasta per lui sino alla fine «l'enigma su cui fare luce». Ma, insieme – suggerisce Illich – il libro segna una svolta nella ricerca del suo autore. La perdita del genere e la sua trasformazione in sessualità – che costituisce il tema del libro – sono trattate qui non più nella forma di una «critica aggressiva» della modernità, ma in quella, «ponderata», di una ricerca sulla «storia sociale del "noi" vissuto», cioè di una riflessione «sul mutamento nei modi della percezione» del corpo e delle sue relazioni col mondo che, sotto la pressione dei «rituali mitopoietici» (Illich nomina fra questi la scuola, la medicina, la missione, l'urbanistica, i trasporti, la propaganda) hanno portato al deperimento e alla perdita di innumerevoli forme di vita vernacolari. Occorre qui aggiungere un'importante precisazione a quanto abbiamo detto sul rigore della critica di Illich della modernità. Il giudizio è, per lui, tanto più implacabile, in quanto in esso ne va della memoria e della sola possibilità di salvezza di quell'universo vernacolare che egli non si stanca di evocare e descrivere in tutti i suoi aspetti. Il giudizio è impietoso, perché in esso le cose appaiono come perdute e insalvabili; la salvezza è benigna, perché in essa le cose appaiono come ingiudicabili. Il difficile intreccio di giudizio e salvezza definisce l' ethos particolare della scrittura e del pensiero di Illich.È proprio questo suo muoversi sull'arduo crinale fra giudizio e salvezza, fra memoria storica e critica del presente che può spiegare il disorientamento e quasi lo sconcerto con cui il libro fu inizialmente accolto. La rivendicazione del «genere» (gender è in inglese una categoria esclusivamente grammaticale) – che rimanda a una «dualità dell'umano» che distingue «i luoghi, i tempi, gli utensili, i compiti, i modi di parlare, i gesti associati agli uomini da quelli associati alle donne» – contro il «sesso», concepito invece come la polarizzazione di tutte quelle caratteristiche, dignità e diritti che, a partire dal tardo Settecento, si attribuirono in modo identico a tutti gli esseri umani, era troppo inconsueta a un orecchio moderno per essere integralmente accettabile. Nello stesso senso, la critica dell'«aspirazione organizzata delle donne all'uguaglianza economica», prigioniera della stessa logica capitalistica che credeva di combattere, era in quegli anni ancora precoce. Resta la circostanza singolare che, qualche anno dopo – almeno a partire dal libro di Judith Butler Gender Trouble (1991) – il termine gender si impone fino a trasformare la stessa denominazione degli studi sul femminismo, riformulati ora nella nuova rubrica accademica dei Gender studies. Nel libro della Butler, tuttavia – che pure critica il primato della dimensione biologica del sesso contro quella culturale del genere – il nome di Illich non compare. Molti segni lasciano congetturare che, anche in questo ambito, il pensiero di Illich abbia raggiunto l'ora della sua leggibilità. Ma questa non sarà possibile fino a quando la filosofia contemporanea non si deciderà a fare i conti con questo maestro celeberrimo e, tuttavia, ostinatamente mantenuto ai margini del dibattito accademico. | << | < | > | >> |Pagina 31I. Sessismo e sviluppo economicoLa società industriale crea due miti: il primo riguarda il passato sessuale di questa stessa società, l'altro la sua tendenza presente all'eguaglianza tra i sessi. Entrambi questi miti vengono smascherati come menzogne nell'esperienza di «esseri umani» appartenenti al «secondo sesso». Nella mia analisi, parto dall'esperienza delle donne e cerco di stabilire categorie che mi permettano di parlare del presente e del passato in una maniera per me più soddisfacente. Io contrappongo il regime della scarsità al regno del genere. Sostengo che la scomparsa del genere vernacolare è la condizione decisiva dell'ascesa del capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente. Nell'inglese moderno s'intende per genere [gender] «...una delle tre categorie grammaticali, corrispondenti più o meno alle distinzioni di sesso (o all'assenza di sesso), in cui vengono suddivisi i nomi, a seconda del tipo di modifiche che impongono alle parole a essi sintatticamente associate» (Oxford English Dictionary, 1932). I nomi inglesi appartengono al genere maschile, femminile o neutro. Ho adottato questo termine per indicare una differenza di comportamenti, rintracciabile in tutte le culture vernacolari. Il genere distingue i luoghi, i tempi, gli utensili, i compiti, i modi di parlare, i gesti e le percezioni associati agli uomini da quelli associati alle donne. Tale associazione costituisce il genere sociale, perché è propria di un periodo e di un luogo. Io la chiamo genere vernacolare, perché questo insieme di associazioni caratterizza una popolazione tradizionale (in latino, una gens) tanto quanto la sua lingua vernacolare. Uso la parola «genere», dunque, in una nuova accezione, per indicare una dualità, troppo evidente in passato perché fosse necessario darle un nome, e oggi talmente lontana da noi da farla spesso confondere con il sesso. Intendo per «sesso» il risultato di una polarizzazione di quelle caratteristiche comuni che, a partire dal tardo Settecento, si attribuirono a tutti gli esseri umani. A differenza del genere vernacolare, che rispecchia sempre un'associazione tra una cultura materiale locale duale e gli uomini e le donne che subiscono la sua influenza, il sesso sociale è «cattolico» (nel senso di universale); polarizza le forze del lavoro, la libido, la personalità o l'intelligenza degli esseri umani e consegue a una diagnosi (in greco, «discriminazione») delle deviazioni rispetto alla norma astratta e neutra dell'«umano». Si può parlare del sesso nel linguaggio tutt'altro che ambiguo della scienza. Ma il genere indica una complementarità enigmatica e asimmetrica. Soltanto la metafora può cercare d'esprimerlo. Il passaggio dal predominio del genere a quello del sesso costituisce un cambiamento della condizione umana che non ha precedenti. Ma il fatto che il genere possa essere irrecuperabile non è una buona ragione per nascondere la sua scomparsa proiettando all'indietro il regime del sesso, o per mentire sulle degradazioni assolutamente nuove che esso ha prodotto nel presente. Non conosco società industriale in cui le donne siano economicamente eguali agli uomini. Di tutto ciò che l'economia può misurare, le donne ricevono sempre una porzione inferiore. La bibliografia su questo sessismo economico ci sta da qualche tempo inondando. Essa documenta lo sfruttamento sessista, ne denuncia l'ingiustizia, lo descrive di solito come una nuova versione di un male millenario e propone teorie esplicative comprendenti anche strategie per porvi rimedio. Grazie al patrocinio istituzionale dell'oNu, del Consiglio ecumenico delle Chiese, dei governi e delle università, la più recente industria dello sviluppo promossa da riformatori di professione sta insomma prosperando. Dopo il proletariato e dopo i sottosviluppati, ora sono le donne i soggetti favoriti delle persone «impegnate». Non si può più parlare di discriminazione sessuale senza dar l'impressione di voler contribuire all'economia politica del sesso. O sei fautore di una «economia non sessista» o cerchi di nascondere le colpe dell'economia sessista vigente. Io, pur basando il mio ragionamento su questa evidente discriminazione, non voglio né una cosa né l'altra. Per me, la ricerca di una «economia non sessista» è assurda quanto è ripugnante un'economia sessista. Mostrerò invece il carattere intrinsecamente sessista dell'economia in quanto tale e metterò in chiaro i postulati fondamentali sui quali si basa l'economia, «la scienza dei valori in condizioni di scarsità». Spiegherò come lo sviluppo economico comporti sempre la distruzione del genere vernacolare (capitoli III-V) e prosperi sullo sfruttamento del sesso economico (capitolo II). Intendo esaminare l' apartheid economico e la subordinazione delle donne, evitando però le trappole sociobiologiche e strutturaliste che, rispettivamente, illustrano questa discriminazione come «naturalmente» o «culturalmente» inevitabile. Da storico, voglio tratteggiare le origini della dipendenza economica delle donne; da antropologo, voglio capire che cosa questa nuova disuguaglianza riveli dei rapporti di parentela là dove gli si applichi; come filosofo, voglio chiarire che cosa questo schema ritornante c'insegna sul senso comune e sui suoi assiomi, quelli cioè che sono alla base dell'università contemporanea e delle sue scienze sociali. | << | < | > | >> |Pagina 38Una società industriale non può esistere se non impone certi presupposti unisex: il presupposto che entrambi i sessi siano fatti per lo stesso lavoro, percepiscano la stessa realtà e abbiano, a parte qualche trascurabile variante esteriore, gli stessi bisogni. E anche il presupposto della scarsità, fondamentale in economia, è logicamente basato su questo postulato unisex. Sarebbe impossibile una concorrenza per il «lavoro» tra uomini e donne, se del lavoro non fosse stata data la nuova definizione di attività che si confà a tutti gli umani, indipendentemente dal loro sesso. Il soggetto su cui si basa la teoria economica è proprio questo essere umano neutro. A questo punto, accettata la scarsità, il postulato unisex si diffonde. Ogni istituzione moderna, dalla scuola alla famiglia e dal sindacato al tribunale, incorpora il presupposto della scarsità, propagandone in questo modo il costitutivo postulato unisex in tutta la società. Per esempio, gli uomini e le donne sono sempre diventati adulti; ora per riuscirci hanno bisogno della «istruzione». Nelle società tradizionali maturavano in assenza di requisiti per crescere percepiti come scarsi. Oggi le istituzioni didattiche insegnano loro che l'apprendimento e la competenza desiderabili sono beni scarsi per i quali uomini e donne devono competere. In tal modo l'istruzione diventa un sinonimo dell'imparare a vivere in condizioni di scarsità. Ma l'istruzione, in quanto esempio di un tipico bisogno moderno, comporta qualcosa di più: presuppone la scarsità di un valore neutro; insegna che colui o colei che fruisce dei suoi processi è anzitutto un essere umano cui occorre un'istruzione neutra. Le istituzioni economiche, dunque, si basano sul presupposto della scarsità di valori neutri, egualmente desiderabili o necessari per esseri neutri in competizione appartenenti a due sessi biologici.Quello che Karl Polanyi ha chiamato il disembedding [l'essere socialmente sradicata] di una economia formale di mercato, io lo vado descrivendo, antropologicamente, come la tramutazione [transmogrification] del genere in sesso. Inesorabilmente, le istituzioni economiche trasformano i due generi, radicati nella cultura, in neutri economici contraddistinti esclusivamente da loro sesso disembedded, sradicato. Un rigonfiamento nei blue-jeans, caratteristico ma tutto sommato secondario, è ora la sola cosa che distingue un tipo d'essere umano dall'altro e gli assicura un privilegio. Una discriminazione economica delle donne sarebbe stata impossibile senza l'abolizione del genere e la costruzione sociale del sesso. È questo che intendo dimostrare col mio ragionamento. E se questo è vero — se cioè lo sviluppo economico porta intrinsecamente e irrimediabilmente alla distruzione del genere, se è insomma sessista — si può arrivare a una riduzione del sessismo solo a «costo» di una contrazione dell'economia. Inoltre la fine del sessismo richiede come presupposto necessario, sebbene insufficiente, la riduzione del nesso monetario e l'espansione di forme di sussistenza non dipendenti dal mercato o dall'economia. Sinora sono emerse due ragioni principali che ci spingono ad adottare politiche di crescita negativa: il degrado ambientale e la controproduttività paradossale. Ora ce n'è anche una terza: la crescita negativa è necessaria per ridurre il sessismo. Questa affermazione è difficilmente accettabile per quei critici benintenzionati che nell'ultimo anno si sono sforzati di stornarmi dalle mie attuali argomentazioni: temevano che mi rendessi ridicolo o che i loro sogni di uno sviluppo accompagnato dall'eguaglianza passassero per fantasie. Ma io credo che sia venuto il momento di buttare all'aria le strategie sociali, di riconoscere che la pace tra uomini e donne, qualunque forma possa assumere, presuppone la contrazione, e non l'espansione, dell'economia. Sinora né la buona volontà né le lotte, né la legislazione né la tecnica sono riuscite a ridurre lo sfruttamento sessista tipico della società industriale. Come dimostrerò, vedere in questa degradazione economica attraverso il sesso un eccesso di machismo, in una situazione dominata dal mercato, non sta in piedi. Sinora ovunque siano state emanate e applicate leggi sull'eguaglianza dei diritti, ovunque sia venuta di moda la parità tra i sessi, le innovazioni hanno soddisfatto le élites che le avevano proposte e ottenute, ma hanno lasciato la maggior parte delle donne nelle stesse condizioni di prima, quando non le hanno addirittura peggiorate. L'ideale di un'eguaglianza economica unisex sta ormai svanendo, un po' come l'ideale di uno sviluppo che riduca le differenze di PIL a nord e a sud dell'equatore. Ora è però possibile rovesciare il problema. Anziché restare aggrappati al sogno di uno sviluppo non discriminatorio, sembra più ragionevole orientarsi verso una contrazione dell'economia, come scelta capace di portare a una società non sessista o, almeno, meno sessista. Ma, a pensarci bene, m'accorgo che un'economia industriale senza una gerarchia sessista è inimmaginabile quanto l'economia di una società preindustriale senza generi; cioè senza una netta divisione tra ciò che fanno, dicono e vedono gli uomini e le donne. Sono entrambe utopie, qualunque sia il sesso di chi le sogna. Ma la riduzione del nesso monetario, cioè della produzione di merci e insieme della dipendenza da queste merci, non appartiene al regno della fantasia. Essa richiede però di abbandonare le attese e le abitudini quotidiane che si considerano oggi «naturali all'uomo». Molti, anche se consapevoli del fatto che l'arretramento è l'unica alternativa all'orrore, ritengono impossibile questa scelta. Ma un numero in rapido aumento di persone competenti, insieme con un numero crescente di esperti (alcuni per convinzione, altri per opportunismo) riconosce che la riduzione è l'unica scelta saggia. Un tipo di sussistenza basato sulla graduale disconnessione dal nesso monetario appare ormai una condizione per la sopravvivenza. Senza una crescita negativa, è impossibile mantenere un equilibrio ecologico, pervenire a un giusto rapporto tra i vari paesi o promuovere la pace tra i popoli. E questa politica dovrà ovviamente essere attuata nei paesi ricchi assai più che in quelli poveri. | << | < | > | >> |Pagina 49La mia teoria mi permette di contrapporre due modi d'esistenza, che io chiamo il regno del genere vernacolare e il regime del sesso economico. Questi termini già indicano che entrambe queste forme sono duali e che le due dualità sono di natura molto differente. Intendo per genere sociale la dualità, vincolata a uno spazio e un tempo precisi, che pone uomini e donne in circostanze e condizioni tali da impedir loro di dire, fare, desiderare o percepire «la stessa cosa». Intendo per sesso economico, o sociale, la dualità che tende al fine illusorio di un'eguaglianza economica, politica, giuridica o sociale tra uomini e donne. In questa seconda costruzione di realtà l'eguaglianza, come dimostrerò, è quasi totalmente immaginaria. Il saggio, dunque, ha la forma di un bilancio conclusivo dell'era industriale e delle sue chimere. Scrivendolo, sono arrivato a capire in un modo nuovo – spingendomi oltre ciò che avevo intravisto in La convivialità (1971) – ciò che la nostra epoca ha irrimediabilmente distrutto. Soltanto la tramutazione dei commons in risorse può essere paragonata a quella del genere in sesso. Ne parlo dalla prospettiva del passato. Per quanto riguarda il futuro, non so niente e non dirò niente.| << | < | > | >> |Pagina 211VII. Dal genere dimidiato al sesso economicoL'oggetto di questo saggio non è una storia del genere, ma l'elaborazione di concetti che ci permettano di separare il genere dal sesso nel contesto di una storia della scarsità. Riflettendo sul declino del Medioevo ho cercato di mostrare come, attraverso la coscienza, sia stato istillato nelle anime un nuovo ordine economico. La coscienza prese a indebolire i guardiani del genere vernacolare, parecchi secoli prima che il sesso potesse sostituirlo. Un lungo periodo di genere dimidiato separa l'aggiogamento delle coppie nel matrimonio dalla loro polarizzazione industriale in lavoro salariato e lavoro ombra. Quest'epoca del genere dimidiato assume aspetti molto differenti da un luogo all'altro e si potrebbero darle diversi nomi. Parlando di guerra contro la sussistenza si sottolinea l'ascesa dello Stato nazionale. Parlando di recinzione dei commons, si mette in rilievo la trasformazione di dominii comuni ai due generi in risorse produttive neutre. Per rendere giustizia ai processi in questione, si dovrebbe anche chiamare quest'epoca l' età della stregoneria, il periodo dei dolori del parto per la nascita del sesso. Essa ha inizio quando si comincia a dar forma alla coscienza e si conclude quando il sessismo è ormai diventato una banalità. Gli storici che ignorano il genere parlano di «passaggio a un modo di produzione capitalistico», nascondendo così il fatto che da questa mutazione emerse un novum astorico: un produttore dipendente dal consumo e necessariamente sessista. Le società precapitalistiche sono basate sul genere. Sussistenza è un termine neutro per indicare questa sopravvivenza basata sul genere. Il passaggio al capitalismo coincide antropologicamente con la caduta dal genere dimidiato al regime del sesso. Le società in cui è crollato il regno del genere sono capitalistiche: i loro soggetti neutri sono produttori individuali. È curioso che non si sia ancora riconosciuto che questa trasformazione decisiva è condizione antropologica fondamentale per spiegare il passaggio dall'economia precapitalistica a quella crescente dipendenza dalle merci per la soddisfazione dei bisogni quotidiani che viene chiamata capitalismo. «Capitalismo» è un termine curioso. Non lo conosceva neanche Marx, quando Engels lo usò per la prima volta nel 1870. Proudhon lo aveva a volte inserito in un testo, ma fu Sombart a renderlo d'uso corrente. Fernand Braudel ritiene ancora necessario chieder scusa per averlo usato nel titolo di Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe - XVIIIe siècles, uno splendido quadro della vita economica tra la Riforma e la Rivoluzione francese. Questo Bruegel dell'economia ci dà un enorme affresco della vita materiale, istituzionale e politica di quei secoli, fa rivivere un'Europa postmedioevale brulicante di fiere, mercati e botteghe, dove si espandono le rotte commerciali e le associazioni di mestiere. E insiste nel sottolineare che ciò che lui chiama capitale, capitalista, capitalismo, penetra solo lentamente nell'acquisizione, nella produzione e nello scambio dei generi di prima necessità. Braudel rintraccia con cura quei cambiamenti che possono spiegare tale penetrazione e le ragioni che, prima dell'inizio dell'Ottocento, fecero dell'accumulazione esponenziale del capitale un fattore determinante dell'esistenza quotidiana della maggioranza; e identifica nella crescente dipendenza dal mercato, nelle condizioni giuridiche che proteggevano l'accumulazione a lungo termine e nell'espansione oltremare dello spazio economico, i presupposti convergenti senza i quali sarebbe stato impossibile il dominio della produzione capitalistico-industriale. Ma nel corso dei suoi tre volumi trascura costantemente l'universalità dell'esistenza secondo il genere nelle società precapitalistiche e la perdita del genere nel passaggio al capitalismo. Per lui non si tratta di un fattore storico essenziale. Scrivere la storia delle basi su cui poggia il nostro mondo è un po' diverso che tentare di raccontare ciò che è andato perduto. Per lo storico che guarda il passato in uno specchietto retrovisore, falce e falcetto sono semplicemente utensili agricoli locali, usati un tempo per il raccolto, sostituiti poi da tecniche quando sopravviene la modernizzazione. Se presta attenzione alle mentalità e ai sentimenti, tende a concentrarsi sull'alienazione, l'isolamento e lo sfruttamento che s'accompagnano tipicamente alle nuove tecniche. Esamina le sofferenze inflitte alla gente dalla nuova economia di mercato, dalla meccanizzazione, o dalla fame. L'altra ferita, derivata dalla perdita del genere tradizionale, portato via dai nuovi impianti idraulici, resta la faccia nascosta di questa triste storia. Che cosa ha perso lei con il falcetto? Cos'altro è sparito con la falce che lui ha dovuto abbandonare? Per scrivere la storia di queste spoliazioni così diverse l'una dall'altra, bisogna rovistare nel passato e far risalire alla superficie sentimenti vernacolari specifici che a stento hanno lasciato traccia di sé. Lo storico deve descrivere la fine di una realtà di genere che, pur essendo esistita per millenni, è sfuggita ai suoi colleghi. Per prepararmi a questo compito, ho cercato di dare una quinta alle mie riflessioni teoriche con un bozzetto di scena punteggiato qua e là da schizzi a carboncino. In diversi di essi ho voluto illustrare la violazione degli spazi comunitari che precede l'emergere della coppia coniugale. A questo punto un solo episodio può bastare per dare vita alla mia descrizione del travagliato parto di un sesso economico: un villaggio luterano del Württemberg ci dà testimonianza delle reazioni di uomini e donne alla prima imposizione di un lavoro neutro. Tra il 1800 e il 1850 si registrò nel Württemberg il numero insolitamente alto di quarantotto richieste di divorzio. David Sabean ha cercato di interpretare le ragioni addotte per questi scioglimenti, ragioni totalmente differenti da quelle invocate nei periodi precedenti. Per capire che cosa era successo, ha dovuto prendere in considerazione la trasformazione economica della regione in questo periodo. Si stava costruendo una ferrovia, si stavano modificando i contratti di locazione e quasi tutte le famiglie erano costrette a passare da una gestione dell'agricoltura per gli usi familiari alla produzione di colture fruttifere vendibili. I susini e i meli, insieme con la produzione su vasta scala di barbabietole da zucchero, sostituirono le colture diversificate delle fattorie e degli orti. Ma il piantare e il raccogliere questi prodotti vendibili era un'attività a più alta intensità di lavoro di quella rivolta a soddisfare i bisogni della famiglia. E questo cambiamento avvenne nel corso di una sola generazione. Le donne furono improvvisamente costrette a unirsi agli uomini in un lavoro da uomini per assicurare alla famiglia un reddito sufficiente all'acquisto di ciò che un tempo veniva coltivato nell'orto. Erano anche costrette a lavorare di più e più in fretta in cucina. Le procedure di divorzio rispecchiano quanto profondamente queste innovazioni turbarono uomini e donne, quanto essi si sentissero impotenti e incapaci di comprendere le implicazioni delle loro decisioni apparentemente razionali. Le donne lamentavano che gli uomini si erano improvvisamente messi a impartire ordini sul lavoro, esperienza per loro assolutamente nuova. Il lavoro femminile definito dal genere poteva sembrare quanto si vuole subordinato a quello maschile, ma l'idea che gli uomini potessero comandare le donne nel lavoro stesso era stata prima d'allora inconcepibile. Le donne erano irritate per aver perduto il dominio loro proprio. E un altro motivo di lagnanza era che, mentre gli uomini, dopo aver lavorato al ritmo dell'aratro, potevano rilassarsi all'osteria, loro dovevano continuamente far la spola tra la zappa e la cucina. Comparve così un'invidia di tipo nuovo, invidia per gli orari e i ritmi dell'altro genere, destinata a rimanere una delle caratteristiche principali della vita moderna, e questa invidia era pienamente «giustificata» dalle condizioni del lavoro unisex, mentre sarebbe stata impensabile sotto l'egida del genere. Dal canto loro gli uomini accusavano le loro donne di non essere brave come le loro madri: dopo aver a lungo goduto di una dieta ricca e varia, dovevano ora mangiare späzli tutti i giorni. Stava calando il sipario sull'epoca del genere dimidiato e della co-produzione coniugale. In questo microcosmo vediamo dal vivo in quali termini sarebbe stato scritto il nuovo copione dell'epoca industriale. Perché il dramma potesse stare in piedi e procedere, bisognava che la scena fosse popolata di attori eterosessuali con le caratteristiche di lavoratori resi economicamente neutri. In quasi tutte le versioni del dramma moderno, c'è in genere un breve intervallo tra il genere e il sesso – tra il regno del genere (dove la famiglia ricava la sussistenza da una suddivisione dei compiti tra due paia di mani non interscambiabili) e il regime dell'economia industriale (dove mani neutre producono merci in cambio di un salario). In questo intermezzo protoindustriale s'impone alla famiglia un lavoro unisex da fare in casa. La casa si trasforma così in un mulino dove il genere viene macinato finché non rimane che il sesso. Le sofferenze che questa triturazione del genere provocò a uomini e donne sono passate in gran parte inosservate. Si possono addurre due ragioni per questa carenza. Da un lato la nuova esperienza della miseria economica divenne il mastice dell'unità proletaria. Il lavoro salariato apportava un nuovo tipo di sofferenza che distruggeva sia gli uomini sia le donne. Tutti i lavoratori retribuiti erano vittime della stessa epidemia di disorientamento, solitudine e dipendenza. Questi sentimenti generarono interpreti politici e un'élite di tipo nuovo. La diagnosi dell'afflizione universale divenne l'arena della carriera di nuovi professionisti — educatori, medici e altri ingegneri sociali — che prosperarono producendo programmi, orientamenti e terapie. L'interesse personale del capo rivoluzionario da un lato, dall'altro quello del piazzista di socializzazione, vietavano qualsiasi tentativo di comprendere il dolore della perdita specifico di ciascun genere. Per altro verso, la sofferenza da impoverimento dovuta alla soppressione del genere costituiva in ogni regione qualcosa di differente; e pochi disponevano di un linguaggio atto a tradurre le sottili varianti vernacolari di questo lutto. Mentre si stava montando il palcoscenico per il lavoro di fabbrica e una moderna scenografia economica era in allestimento, ma prima che il copione venisse riscritto per i nuovi e inconsueti ruoli sessuali, apparvero nuove teorie critiche per il teatro d'avanguardia. Possono realmente apprezzare il genio di Marx e di Freud soltanto coloro che vedono con quanta precocità essi definirono le regole del dramma moderno. Furono loro a forgiare i concetti definitivi che sarebbero serviti a descrivere e poi a dirigere il nuovo tipo d'attore, «l'uomo» industrializzato. Settecento anni prima, la Chiesa aveva imputato un peccato neutro ad anime neutre. Ora il potere neutro di esseri umani neutri in un cosmo neutro diventava la caratteristica trascendentale di base delle categorie usate da una metafisica di tipo nuovo. Verso la metà dell'Ottocento, alcuni scienziati diedero, contemporaneamente ma indipendentemente l'uno dall'altro, una definizione nuova della vis viva universi (la forza vivente dell'universo) identificandola con l'energia, a volte incatenata e a volte libera. Si attribuisce di solito a Helmholz il merito di aver formulato le leggi grazie alle quali l'energia fisica si sarebbe da quel momento in poi adeguata al presupposto della scarsità che sta alla base dell'economia formale. Nello stesso decennio la forza lavoro divenne un concetto chiave, per mezzo del quale l'umano contributo all'umana esistenza poteva cominciare ad essere trattato come una risorsa scarsa. Infine, una generazione dopo, Freud, ripetendo un'affermazione di Helmholz, attribuiva agli esseri umani un'energia psichica sotto forma di libido, a volte incatenata e a volte libera. I nuovi canonisti fabbricarono la loro teoria dell'uomo laico e della sua salvezza, partendo da presupposti derivati dalla chimica e dalla meccanica dei fluidi. Affermavano di aver scoperto un'energia neutra che, in forma di capitale, circola nei condotti sociali e in forma di libidine nei canali psicologici. In tal modo nei primi tre quarti del nostro secolo abbiamo dovuto convivere con l'energia, il lavoro e la sessualità come «la realtà della vita». Ma ora che si è diffusa la parola d'ordine della «crisi», è forse possibile revocare pubblicamente in dubbio la loro realtà. Ogni società ha bisogno di un passato. Per avere il senso del presente, i viventi necessitano di un passato che sia loro proprio. Non c'è prima persona plurale, non c'è «noi», senza un suo mito di creazione. In tutti i tempi e in ogni società, il «noi» articolato in due generi veniva tenuto in vita mediante feste, rituali e tabù. Anche la società industriale aveva bisogno di un mito di creazione; senza, non avrebbe potuto esistere. Creò pertanto una particolare istituzione per fornire a ogni famiglia «informazioni» e un'immagine coerente del «passato». Il passato divenne così un'impresa industriale. Lo schema attraverso il quale la società industriale rielabora il suo passato è stato chiamato «storia». Per cento anni la storia ha fabbricato una continuità tra il presente neutro e il passato di genere, legittimando la discendenza del sesso dal genere stesso. Con metodi sempre più raffinati, la nuova scienza ha interpretato gli eventi secondo categorie sessiste, per dare un passato al nostro mondo economico. Senza questa rivisitazione economica di un passato articolato per generi, il mondo contemporaneo dell'economia sessista non poteva risultare attraente, specie per coloro che ne sono state costantemente discriminate. Gli storici hanno stabilito, mediante miriadi di fili sintetici di sentimentalismo, un legame con quel regno del genere che il mondo contemporaneo aveva in realtà abbandonato per dare inizio al suo frenetico viaggio. Hanno tessuto un arazzo per metterci a nostro agio in un ambiente sessista, ma è un arazzo fatto di fibre industriali. Potenti imprese hanno cercato di presentarci il passato come il germe, come una forma primitiva del presente; e i suoi linguaggi, i suoi usi e le sue tradizioni come gli autentici antenati, le forme embrionali di quelli che ci sono contemporanei e familiari. Gli scaffali delle nostre biblioteche sono stipati di libri che attribuiscono una struttura di classe alla città-stato greca, che vedono nel sofista che spaccia i suoi arzigogoli un precursore degli educatori moderni, che ci parlano della vita sessuale (sic!) dei mesopotamici. Scrivo questo saggio per contrastare questa prospettiva storica centralistica. E non accetto l'etichetta di storico scientifico, perché non voglio ricostruire il passato secondo parole chiave, o concetti attinti dall'utopia, e credo invece che i morti vadano onorati per mezzo di una ricerca che sia insieme pubblica, ragionata, documentata e critica. Ho cercato di attirare l'attenzione sulla frattura tra genere e sesso, di mostrare l'abisso che separa il presente dal passato. Ho cercato di denunciare la genealogia falsificata del sesso che sta alla base della storia economica. È una mistificazione indispensabile a una società sessista che non può ammettere di non avere antenati legittimi. Cercare nel genere le radici del sesso è illegittimo. Sesso e genere hanno entrambi origini sociali, ma procedono da matrici ben differenti. La matrice del sesso è l'Alma Mater; quella del genere si può trovarla solo oltre «la grotta dei sette dormienti», «situata in rocciosi crepacci sui rami di immensi tassi cavi» (Robert Graves, White Goddess: A Historical Grammar of poetic Myth, Farrar, Strauss and Giroux, New York 1948, p. 13) [La dea bianca, Adelphi, Milano 2009]. Siano nate dalla matrice del genere o partorite e educate dalla matrice del sesso, le donne devono affrontare gli uomini. Le due matrici, però, le dotano di un potere relativo differente. Nel regno del genere uomini e donne sono collettivamente interdipendenti; e questa dipendenza reciproca pone limiti alla lotta, allo sfruttamento e alla frustrazione. La cultura vernacolare è una tregua, a volte crudele, tra i generi. Quando gli uomini mutilano i corpi delle donne, il gineceo conosce spesso modi atroci per vendicarsi sui sentimenti maschili. In contrasto con questa tregua, il regime della scarsità impone a ogni donna una guerra continua e tipi di frustrazione sempre nuovi. Se nel regno del genere le donne possono essere subordinate, in qualsiasi regime economico sono soltanto il secondo sesso. Sono eternamente handicappate in giochi che hanno poste neutre e nei quali si può solo vincere o perdere. Quando entrambi i generi vengono spogliati e neutralizzati, è sempre l'uomo ad avere il sopravvento. Non stupisce quindi che sia la donna a «scoprire» ora la tramutazione del genere a opera dell'economia. Tipicamente, si lamenta di essere invisibile agli altri e a se stessa. Non può vedere in se stessa un socio alla pari nel regime dell'economia, e non può neanche riconoscersi in un genere. Gli ampollosi scenari delle scienze politiche, basati su una serie di presupposti concernenti l'eguaglianza di tutti gli uomini, a lei non si applicano. L'utopia sessista di Terradilei non riesce nemmeno a offrire le maleodoranti consolazioni dello spogliatoio sportivo, così come i tentativi di ricostruire il passato delle donne con parole chiave non sono che una caricatura della storiografia scientifica. Ora però, con le loro indagini appassionate entro questa duplice strettoia, i Women's studies hanno cementato la leva atta a buttare all'aria la baracca scientifica. In questo saggio, non ho cercato di spiegare perché la società pone gli uomini al vertice e impone un handicap alla donna. Ho tenuto sotto controllo la mia curiosità per esser libero d'ascoltare con maggiore attenzione i racconti delle perdenti, e scoprire qualcosa non su di loro, ma su quel campo di battaglia che è l'economia. La società industriale crea due miti – il primo su una sua presunta preistoria sessuale, e l'altro circa il proprio procedere verso un'eguaglianza sempre maggiore. Entrambi questi miti sono smascherati come menzogne dall'esperienza personale del neutro da parte del secondo sesso. Ho voluto sostenere che la lotta contro il sessismo coincide con gli sforzi per ridurre la distruzione dell'ambiente e con i tentativi di contestare il monopolio radicale di beni e servizi sui bisogni. Ho sostenuto che questi tre movimenti contemporanei coincidono perché hanno come condizione comune la contrazione dell'economia. E il riconoscimento che la riduzione dell'economico, per ragioni specifiche a ognuno di questi movimenti, è per loro non solo una necessità negativa ma una condizione positiva per una vita migliore, può portare da una convergenza teorica a un'azione pubblica concertata. Ho inoltre sostenuto che questi tre movimenti sono tre aspetti di un tentativo di recupero dei commons, intendendo con questa espressione l'esatto contrario di una risorsa economica. A questo fine ho voluto proporre una teoria che chiarifichi i concetti necessari per stendere una storia della scarsità. La transizione storica da una sussistenza secondo i generi alla dipendenza da prodotti scarsi mostra la fondatezza della mia argomentazione. La scarsità è un fatto storico, come il genere o il sesso. L'era della scarsità poteva venire in essere solo sulla base del presupposto che «l'uomo» è individualista, possessivo e, quando si tratta della sua sopravvivenza materiale, privo di genere – un rapace neutrum oeconomicum. Questo presupposto, incarnato in tutte le istituzioni, dal matrimonio alla scuola, trasforma il soggetto della storia. Questo soggetto non è più la gens, o i lares, che designano l'ambiguo e asimmetrico equilibrio di un insieme di donne e di uomini in grado di autolimitarsi; piuttosto, è diventato un costrutto ideologico tradotto in un falso «noi», come la classe, la nazione, la società anonima o quella di coppia. Per arrivare a una teoria dell'azione necessaria al recupero dei commons, io ritengo importante studiare l'eziologia di questa trasformazione del soggetto della storia.
Io non ho strategie da proporre. Mi rifiuto di avanzare ipotesi
sull'efficacia di qualsiasi rimedio. Non permetterò mai all'ombra del futuro di
posarsi su concetti mediante i quali cerco di capire ciò che è e ciò che è
stato. Come l'asceta e il poeta meditano sulla morte, e
godono
in tal modo con
gratitudine della squisita vitalità del presente, così
noi dobbiamo affrontare la dolorosa perdita del genere. Ho
il forte sospetto che
si possa
recuperare una contemporanea
arte di vivere, a patto che la nostra austera e lucida accettazione del doppio
ghetto dei neutri economici ci induca a
rinunciare alle comodità del sesso economico. La speranza
in una vita di tal fatta si fonda sul rifiuto del sentimentalismo e
sull'apertura al sorprendente.
ILLICH-I P=1988 T=ABC. The Alphabetization of the Popular Mind E=North Point, San Francisco J=Barry Sanders
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