Copertina
Autore Arnaldur Indriðason
Titolo Un corpo nel lago
EdizioneTea, Parma, 2010, Teadue , pag. 320, cop.fle., dim. 12,7x19,8x2 cm , Isbn 978-88-502-2274-2
OriginaleKleifarvatn [2004]
TraduttoreSilvia Cosimini
LettorePiergiorgio Siena, 2012
Classe narrativa islandese , gialli
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Pagina 11

Rimase immobile a lungo a fissare le ossa, come se fosse impossibile che si trovassero lì. Almeno quanto lo era che ci si trovasse lei.

All'inizio aveva pensato a una delle pecore che spesso annegavano nel lago, finché non si era avvicinata, aveva visto il cranio semisommerso sul fondo e aveva scorto le forme di uno scheletro umano. Le costole fuoriuscivano dalla sabbia. Sotto si distingueva il profilo delle ossa del bacino e dei femori. Lo scheletro era disteso sul fianco sinistro. La donna vedeva il lato destro del teschio, le orbite vuote e tre denti nell'arcata superiore. Uno aveva una grossa otturazione in argento. C'era un ampio foro netta scatola cranica; istintivamente pensò che potesse essere stato prodotto da un colpo di martello. Si chinò e fissò il teschio. Infilò un dito nel foro, esitante. La scatola cranica era piena di sabbia.

Non sapeva perché le fosse venuto in mente un martello e trovò raccapricciante l'idea che qualcuno fosse stato preso a martellate in testa. Oltretutto il foro era molto più largo della testa di un martello. Era grande come una scatola di fiammiferi. Pensò che fosse meglio non toccare più quelle ossa. Prese il cellulare e digitò il numero a tre cifre.

Si domandò cosa dire. In un certo senso era tutto perfettamente irreale. Uno scheletro così al largo, sepolto sul fondo sabbioso del lago. E lei non era nella sua forma migliore. Pensava più che altro ai martelli e alle scatole di fiammiferi. Faticava a concentrarsi. I pensieri vagavano ovunque. Aveva il suo bel daffare a raccoglierli. Probabilmente erano i postumi della sbornia. Intendeva rimanere a casa, quel giorno, ma poi aveva cambiato idea ed era andata al lago. Si era messa in testa di controllare i rilevatori. Era un'idrologa. Le piaceva il suo mestiere e sapeva che i rilevatori avevano bisogno di una manutenzione costante. Ma in quel momento aveva un brutto mal di testa e i suoi pensieri andavano per conto loro. La sera precedente c'era stata la festa annuale dell'Ente Nazionale Energia e, come le succedeva ogni tanto, si era fatta un goccetto di troppo. Pensò all'uomo che si trovava da lei, ancora nel suo letto; era andata al lago per quel motivo. Non voleva svegliarsi con lui in casa e sperava che se ne sarebbe andato prima del suo ritorno. L'aveva accompagnata dopo la festa, ma non era un tipo molto interessante. Non più degli altri che aveva conosciuto dopo il divorzio. Non aveva fatto altro che parlare della sua collezione di dischi, continuando ben oltre ogni manifestazione di interesse da parte di lei. Così si era addormentata su una sedia in soggiorno. Una volta sveglia, aveva visto il tipo disteso sul suo letto, che dormiva a bocca aperta con addosso un paio di minuscole mutande e dei calzini neri.

«Pronto intervento» disse la voce al telefono.

«Sì, vorrei denunciare il ritrovamento di uno scheletro» disse. «C'è un teschio bucato.»

Fece una smorfia. Accidenti a quella sbornia! Ma come si esprimeva? Un teschio bucato. Ricordò il modo di dire del centesimo bucato. O era una moneta da due corone?

«Il suo nome?» disse la voce neutra delle emergenze.

Si riebbe dalle sue divagazioni confuse e rispose.

«Dove si trova?»

«Sul Kleifarvatn. La sponda nord.»

«L'ha preso con la rete?»

«No. È sepolto sul fondo.»

«Stava scavando?»

«No. Fuoriesce dal fondo. Le costole e lo scheletro.»

«È sul fondo?»

«Sì.»

«Come fa a vederlo?»

«Be', mi trovo qui e lo sto guardando.»

«L'ha portato a riva?»

«No, non l'ho toccato» mentì istintivamente.

Silenzio all'altro capo del telefono.

«Mi prende in giro?» disse infine la voce con rabbia. «E uno scherzo? Sa quanto può costarle uno scherzo del genere?»

«Non è uno scherzo. Sono qui e lo sto guardando.»

«Quindi, che fa, cammina sulle acque?»

«L'acqua è sparita» disse. «Non ce n'è più. C'è solo il fondo. dove si trova lo scheletro.»

«Cosa vuoi dire che l'acqua è sparita?»

«Non è sparita tutta, ma qui dove mi trovo io non ce n'è più. Sono un'idrologa dell'Ente Nazionale Energia. Stavo rilevando il livello dell'acqua e ho trovato questo scheletro. Ha un foro nella scatola cranica ed è sepolto in parte nel fondo sabbioso. In un primo momento ho pensato che fosse una pecora.»

«Una pecora?»

«Ne abbiamo trovata una, l'altro giorno, era annegata nel lago tempo fa. Quando l'acqua era più alta.»

Ancora silenzio all'altro capo.

«Attenda lì» disse poi la voce riluttante. «Mando una volante.»

Rimase per un po' immobile accanto allo scheletro, poi si avvicinò all'acqua e misurò la distanza. Era sicura che le ossa non emergessero, quando aveva effettuato gli stessi rilievi due settimane prima. Le avrebbe viste. Da allora il livello dell'acqua era diminuito di oltre un metro.

Era un enigma su cui i ricercatori dell'Ente Nazionale Energia si interrogavano da quando avevano notato per la prima volta che il livello del Kleifarvatn decresceva rapidamente. L'Ente aveva collocato il primo idrometrografo nel 1964 per misurare il livello dell'acqua, e uno dei compiti degli idrologi era appunto controllare le rilevazioni. Nell'estate del 2000 sembrava quasi che lo strumento si fosse rotto. Ogni giorno spariva una quantità incredibile di acqua, un valore doppio rispetto al normale.

Tornò vicino allo scheletro. Moriva dalla voglia di studiarlo meglio, dissotterrarlo e liberarlo dalla sabbia. Pensò che probabilmente la polizia non ne sarebbe stata tanto felice. Si chiese se fosse stato un uomo o una donna e ricordò di aver letto una volta, probabilmente in un romanzo giallo, che non c'era quasi alcuna differenza fra lo scheletro maschile e quello femminile; solo le ossa del bacino erano diverse. Poi ricordò che qualcuno le aveva detto di non prendere sul serio quello che sta scritto nei romanzi gialli. Non riusciva a vedere bene le ossa del bacino, sepolte nella sabbia, e pensò che comunque non avrebbe notato la differenza.

I postumi della sbornia si facevano più pesanti. Si sedette sulla sabbia accanto alle ossa. Era una domenica mattina, e di tanto in tanto un'auto passava vicino al lago. Immaginò che fossero famiglie in gita domenicale dirette a Herdìsavik oppure verso sud, a Selvogur. Era una strada panoramica molto apprezzata e bella, attraversava colline e campi di lava e si spingeva oltre il lago, fino al mare. Pensò alle famiglie in automobile. Suo marito l'aveva lasciata quando avevano saputo che non avrebbero potuto avere figli. Lui si era risposato quasi subito dopo il divorzio e adesso era padre di due bei bambini. Aveva trovato la felicità.

Lei aveva trovato solo un uomo che conosceva appena, disteso sul suo letto con i calzini neri addosso. Con il passare degli anni era sempre più difficile incontrare uomini decenti. I più erano divorziati come lei oppure, peggio ancora, non avevano mai avuto un rapporto fisso. Guardò mesta le ossa semisepolte nella sabbia: era quasi sul punto di piangere.

Circa un'ora dopo arrivò una macchina della polizia, da Haf-narfjorour. Non procedeva di fretta, anzi si avvicinava al lago quasi con pigrizia. Era maggio. Il sole brillava alto in cielo e si rifletteva sulla superficie piatta dell'acqua. Rimase seduta sulla sabbia guardando la strada, poi fece un cenno di saluto verso la macchina che accostò al bordo e si fermò. Ne uscirono due poliziotti che guardarono verso di lei e le si avvicinarono.

Rimasero a lungo in silenzio davanti allo scheletro, finché uno dei due toccò una cestola con la punta del piede.

«Che fosse andato a pescare?» disse al collega.

«Uscito in barca?» fece l'altro.

«Oppure ha guadato fin qui.»

«C'è un foro» disse la donna e li guardò a turno. «Nella scatola cranica.»

Uno dei due si piegò.

«Ah» fece.

«Potrebbe essere caduto e aver sbattuto la testa sulla barca, spaccandosi il cranio» disse il collega.

«È pieno di sabbia» disse quello che aveva parlato per primo.

«Non è meglio chiamare la scientifica?» fece l'altro, pensieroso.

«Ma non sono quasi tutti in America?» ribattè il collega alzando lo sguardo. «Al convegno di criminologia.»

L'altro poliziotto annuì. Poi rimasero a lungo in silenzio curvi sopra le ossa, finché uno di loro non si rivolse alla donna.

«Dov'è finita tutta l'acqua?» chiese.

«Ci sono varie teorie» rispose lei. «Che intendete fare? Posso andare a casa?»

I poliziotti si scambiarono un'occhiata, poi si appuntarono il suo nome e la ringraziarono senza scusarsi per averla fatta aspettare. A lei non importò molto. Non aveva fretta. Era una bella giornata, lì sul lago, e l'avrebbe apprezzata ancora di più insieme ai suoi postumi se non si fosse imbattuta in quello scheletro. Si chiese se l'uomo con i calzini neri se ne fosse già andato da casa sua. Lo sperò di tutto cuore. Non vedeva l'ora di noleggiare un film per trascorrere la serata sotto una coperta davanti alla televisione. Abbassò lo sguardo sullo scheletro e sul foro nel cranio. Magari avrebbe noleggiato un bel giallo.

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La coppia camminava lungo il marciapiede, l'uomo di poco più avanti e la donna dietro. Era una bella sera di primavera. I raggi del sole si allungavano sulla superficie del mare e in lontananza si notavano segni di pioggia. Era come se quella volta la coppia non si accorgesse della bellezza della serata. Avanzavano a grandi passi e l'uomo pareva molto concitato. Parlava di continuo. La donna lo seguiva in silenzio e cercava di non rimanere troppo indietro. Li osservò passare davanti alla sua finestra, guardò il sole della sera e ripensò al tempo in cui era giovane e il mondo stava cominciando a diventare infinitamente complesso e difficile da gestire. A quando era iniziata la tragedia.

Aveva concluso con successo il primo anno di università ed era tornato in Islanda in nave durante l'estate. Aveva lavorato al giornale del partito nei mesi estivi, scrivendo articoli sulla ricostruzione a Lipsia. Ai comizi aveva parlato del suo soggiorno di studio e discusso dei rapporti storici e culturali tra l'Islanda e la città. Aveva conosciuto i principali esponenti del partito. Avevano in mente grandi cose per lui. Non vedeva l'ora di tornare in Germania Est. Sentiva di avere un ruolo, forse più importante di quello degli altri. Si diceva che avesse tutto il futuro davanti.

Tornò in Germania Est in autunno. Il suo secondo Natale alla casa dello studente si avvicinava. Gli islandesi attendevano con ansia le feste natalizie, perché alcuni di loro avrebbero ricevuto un pacco di viveri da casa, il cibo tradizionale del Natale islandese: agnello affumicato, baccalà, pesce secco e qualche dolce, magari anche dei libri. Karl aveva già ricevuto il suo pacco e quando mise in pentola il grosso cosciotto d'agnello della regione dell'Hunavatnsysla, dove suo zio aveva dei terreni, l'aroma di carne affumicata si sparse per tutto lo studentato. Nel pacco c'era anche una bottiglia di grappa islandese, che Emil aveva preso in consegna. Solo Rut poteva permettersi di tornare in Islanda per le feste di Natale. Era anche l'unica tra loro a sentire una forte nostalgia di casa dopo il ritorno in Germania alla fine della vacanze estive, e quando se ne andò per Natale alcuni pensarono che forse non sarebbe più tornata. Erano rimasti in pochi, nella vecchia villa, perché gli studenti tedeschi erano tornati quasi tutti a casa, come anche quelli dei paesi confinanti che avevano ottenuto il visto di uscita e potevano usufruire di biglietti ferroviari scontati.

Quindi non era un gruppo numeroso, quello che si sedette in cucina intorno al cosciotto di agnello affumicato con la bottiglia di grappa che Emil aveva posto in mezzo al tavolo, in quello che aveva definito «il posto d'onore». Due svedesi della casa dello studente avevano procurato le patate, altri il cavolo rosso e Karl in qualche modo era riuscito a preparare una salsa bianca decente per la carne. Da tutore Lothar Wieser, che era diventato molto amico degli islandesi, era passato per un saluto e così era stato invitato a tavola. Si trovavano molto bene con lui. Era loquace e sapeva essere divertente. Sembrava nutrire un profondo interesse per la politica e talvolta cercava di estorcere agli studenti qualche impressione sull'università, su Lipsia, sulla Repubblica Democratica Tedesca, sul segretario generale Walter Ulbricht e sui suoi programmi economici. Voleva sapere se pensavano che Ulbricht fosse troppo schierato con il governo sovietico, e faceva molte domande sulla situazione in Ungheria, dove i capitalisti americani cercavano di incrinare il rapporto d'amicizia di quel paese con l'Unione Sovietica, tramite programmi radiofonici e ogni genere di propaganda anticomunista. In particolare trovava che i giovani fossero succubi della propaganda e ciechi davanti alle vere intenzioni dei governi capitalisti occidentali.

«Non potremmo divertirci e basta?» disse Karl quando Lothar iniziò a parlare di Ulbricht, e si scolò un bicchierino. Con una smorfia terribile sospirò dicendo che a lui la grappa islandese non era mai piaciuta.

«Aber natürlich» disse Lothar ridendo. «Basta con la politica,» Parlava islandese, dicendo di averlo imparato in Germania, e tutti ritenevano che dovesse essere un genio con le lingue, perché pur non essendo mai stato in Islanda il suo islandese era quasi perfetto. Gli chiesero come era riuscito a imparare così bene la loro lingua, e lui disse che aveva ascoltato molte registrazioni, anche la radio. La cosa più divertente era quando si metteva a cantare vecchie filastrocche islandesi, come 'dormi piccino, i cigni qui vicino'. «Rovesci e piovaschi in arrivo» era la frase che gli piaceva ripetere all'infinito, l'aveva sentita spesso alle previsioni del tempo. C'erano due lettere nel pacco che Karl aveva ricevuto, con le notizie di quanto era successo in Islanda dall'ultimo autunno, e qualche ritaglio di giornale. Parlarono di quanto era accaduto in patria, e qualcuno fece notare che come al solito mancava Hannes.

«Già, Hannes» disse Lothar con un ghigno.

«Gli avevo detto del pranzo» disse Emil versandosi un bicchiere.

«Perché è così misterioso?» chiese Hrafnhildur.

«Già, misterioso» fece eco Lothar.

«A me sembra molto strano» disse Emil. «Non viene agli incontri della FDJ, né alle conferenze. Non l'ho mai visto nella squadra dei volontari. È troppo snob per lavorare in mezzo alle rovine? Non siamo degni di lui? Si sente migliore di noi? Tómas, tu ci hai parlato.»

«Io credo che Hannes voglia solo finire il corso» disse lui alzando le spalle. «Gli manca solo quest'anno.»

«Tutti parlavano di lui come di una stella nel futuro del partito» disse Karl. «Si sentiva sempre parlare di questo Hannes come di un futuro esponente di spicco. Qui non mi sembra molto promettente. Credo di averlo visto si e no due volte, quest'anno, e mi ha rivolto a malapena la parola.»

«Già, non si vede mai in giro» disse Lothar. «È un po' scorbutico» disse scuotendo la testa, poi si fece un sorso di grappa e una nuova smorfia gli si disegnò sul viso.

Sentirono che la porta principale al pianterreno si apriva; seguirono dei passi pesanti per le scale, finché due ragazzi e una ragazza non apparvero nella penembra all'estremità del corridoio. Erano degli altri studenti che Karl conosceva appena.

«Abbiamo sentito dire che avete organizzato un pranzo di Natale islandese» disse la ragazza quando furono sulla porta, guardando la tavola imbandita. Era avanzata una gran quantità del cosciotto, e tutti si strinsero un po' per far posto anche a loro. Uno dei ragazzi estrasse due bottiglie di vodka, con grande esultanza di tutti. Si presentarono: i due erano cecoslovacchi, lei veniva dall'Ungheria.

La ragazza gli si sedette accanto, lui si sentì mancare. Aveva cercato di non fissarla, quando l'aveva vista uscire dalla penembra del corridoio, ma fin dal primo sguardo aveva sentito scatenarsi una serie di sensazioni che non sapeva nemmeno di poter provare, e che aveva molte difficoltà a comprendere. Gli stava accadendo qualcosa di strano e di meraviglioso; provò all'improvviso una gioia particolare, un benessere misto a timidezza. Nessuna donna gli aveva mai fatto un effetto simile.

«Anche tu sei islandese?» gli chiese la ragazza con una bella pronuncia tedesca.

«Sì, sono islandese» balbettò lui, che ormai parlava piuttosto bene il tedesco. Abbassò lo sguardo d'improvviso quando si rese conto che l'aveva fissata ininterrottamente da quando gli si era seduta accanto.

«Che orrore è quello?» chiese la ragazza indicando una testa di pecora bollita sul tavolo, che nessuno aveva mangiato.

«Una testa di pecora, che è stata segata a metà e abbrustolita sul fuoco» disse notando che la ragazza faceva una smorfia di disgusto.

«Chi cucina una cosa del genere?» chiese.

«Gli islandesi» rispose lui. «A dire il vero è buonissima» aggiunse, esitante. «La lingua e le guance...» tacque quando si rese conto che la sua descrizione non risultava particolarmente allettante.

«E quindi, mangiate anche gli occhi e le labbra?» chiese la ragazza senza celare lo schifo.

«Le labbra? Sì anche quelle. E gli occhi.»

«Dovete avere vissuto periodi di forti carestie, se vi siete ridotti a questo» fece.

«Eravamo una nazione molto povera» disse lui annuendo.

«Mi chiamo Ilona» fece la ragazza porgendogli la mano. Si presentarono, lui le disse di chiamarsi Tómas.

Uno dei ragazzi che erano arrivati con lei la chiamò. Lui e il suo amico tenevano in mano un piatto colmo di fette di agnello affumicato e patate e la invitavano a servirsene perché era squisito. La ragazza si alzò, andò a prendere un piatto e si servì una fetta di carne.

«La carne qua non basta mai» fece, tornando a sederglisi accanto.

«Già» rispose lui, tanto per dire qualcosa.

«Mmm, che buono» disse la ragazza con la bocca piena.

«Meglio degli occhi di pecora» disse lui.

Rimasero a far festa sino alle prime ore del mattino. Altri studenti avevano sentito parlare del ritrovo, e la casa si era riempita. Avevano tirato fuori un vecchio grammofono e qualcuno aveva portato dei dischi di Sinatra. A notte fonda i rappresentanti di ciascun paese si alternarono a cantare i propri inni nazionali. Cominciarono Karl ed Emil, intonando un brano malinconico di Jónas Hallgrimsson, entrambi sotto gli effetti del contenuto del pacco inviato da casa. Poi fu il turno degli ungheresi, dei cecoslovacchi, degli svedesi, e infine dei tedeschi, e di uno studente del Senegal che rimpiangeva le caldi notti africane. Hrafnhildur volle sapere quali erano le espressioni più belle in ciascuna lingua, e dopo un po' di confusione si misero d'accordo perché ciascuno si alzasse a recitare il brano più bello nella propria lingua. Gli islandesi furono unanimi. Hrafnhildur si alzò e recitò le parole più belle che fossero mai state scritte in lingua islandese:

    L'astro d'amore
    su Hraundranga
    oscurano i cirri notturni;
    un tempo rideva, ed ora
    mesto si strugge
    il giovane nell'ima valle.

Recitò i versi caricandoli d'emozione, e anche se erano pochi gli ascoltatori che comprendevano l'islandese, per un attimo il gruppo rimase in silenzio finché non scrosciò un caloroso applauso e Hrafnhildur ringraziò con un inchino.

Lui e Ilona erano ancora seduti accanto al tavolo in cucina, e lei lo guardò con aria interrogativa. Lui le spiegò i contenuti della poesia, il poeta che ripensava a un lungo viaggio attraverso le distese desertiche dell'Islanda insieme con la giovane donna di cui era innamorato. Sapeva che non avrebbe mai potuto averla, e con questi dolorosi pensieri era tornato a casa mesto, da solo, nella sua valle. Sopra di lui scintillava Venere, che prima gli aveva indicato la via e che adesso era sparita dietro una nube; lui aveva pensato che il loro amore, benché non consumato, sarebbe durato per sempre. Lei lo guardava parlare, e poi, forse per la storia del giovane triste, o per il modo in cui lui l'aveva raccontata, o per la grappa islandese, all'improvviso lo baciò sulla bocca, un bacio così morbido che lui si sentì di nuovo un bambino.

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Era febbraio inoltrato. Lui e Ilona si vedevano tutti i giorni. Non parlavano più tanto di politica, e tutto il resto filava liscio e avevano moltissime cose da dirsi. Lui le raccontava del paese delle teste di pecora, lei gli raccontava della sua famiglia. Aveva due fratelli più grandi, che non le rendevano la vita facile. I suoi genitori erano entrambi medici. Frequentava corsi di letteratura e di tedesco. Uno dei suoi poeti preferiti era Friedrich Hölderlin. Leggeva molto e gli faceva domande sulla letteratura islandese. I libri erano un interesse comune.

Lothar frequentava sempre più spesso gli islandesi. Li divertiva, con il suo islandese libresco e le continue domande su qualsiasi cosa avesse a che vedere con la loro patria. Lui si trovava molto bene con Lothar. Entrambi erano socialisti convinti e potevano parlare di politica senza litigare. Lothar praticava il suo islandese con lui, e lui parlava tedesco con Lothar. Era di Berlino, che descriveva come una città bellissima. Diceva di aver perso il padre durante la guerra, mentre la madre abitava ancora lì. Lothar l'aveva invitato ad andarci con lui qualche volta, non avrebbero impiegato molto con il treno. Per il resto, Lothar parlava molto poco di sé e lui riteneva che fosse per le difficoltà incontrate durante la guerra, quand'era ancora un ragazzino. Gli faceva sempre domande sulll'Islanda, paese per il quale pareva nutrire un interesse profondo. Chiedeva del sistema universitario, dei conflitti politici, degli esponenti di partito e delle attività lavorative, di come viveva la gente, dell'esercito americano a Keflavìk. Lui spiegava a Lothar che gli islandesi avevano avuto enormi ritorni economici durante la guerra, che Reykjavik si era sviluppata moltissimo e che il paese era cambiato, passando da una povera comunità contadina a una società urbanizzata quasi nell'arco di una notte.

A volte parlava con Hannes, in università. In genere lo trovava in biblioteca o nella caffetteria dell'edificio principale. Divennero buoni amici, nonostante tutto, nonostante il pessimismo di Hannes. Cercava di convincere Hannes a cambiare idea, ma invano. Ogni suo interesse si era spento. Non pensava ad altro che a se stesso, a finire il corso e tornare a casa.

Un giorno si sedette accanto ad Hannes in caffetteria. Nevicava. Gli avevano spedito un soprabito caldo da casa, per Natale, dopo che in una lettera ai suoi aveva descritto il freddo di Lipsia. Hannes gli chiese proprio del cappotto, e lui sentì un vago accenno di invidia nella voce.

Non lo sapeva ancora, ma quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbero parlato tra loro a Lipsia.

«Che dice di bello Ilona?» chiese Hannes.

«Come fai a conoscere Ilona?»

«Non la conosco affatto» disse Hannes e si guardò intorno come per essere sicuro che nessuno li sentisse. «So solo che è ungherese. E che è la tua ragazza. C'è qualcosa d'altro? Siete insieme, no?»

Sorbì il caffè. Non rispose. Avvertiva un certo tono in Hannes, più duro e ostinato del solito.

«Ti racconta cosa succede in Ungheria, qualche volta?» chiese Hannes.

«Ogni tanto. Cerchiamo di non parlare molto di...»

«Sai cosa sta succedendo là?» lo interruppe Hannes. «I sovietici useranno la forza. Sono stupito che non l'abbiano ancora fatto. Non possono evitarlo. Se permettono cose come quelle che stanno accadendo in Ungheria, gli altri paesi dell'Est europeo seguiranno a ruota, e ci sarà un'insurrezione generale contro il regime sovietico. Non ne parla mai?»

«Parliamo dell'Ungheria, sì» disse. «Solo che non siamo d'accordo.»

«No, infatti, tu lo sai meglio di lei, che è ungherese, cosa sta accadendo là.»

«Non sto dicendo questo.»

«No, allora cosa stai dicendo?» fece Hannes. «Ci hai mai pensato sul serio? Quando ti toglierai quegli occhiali rosa?»

«Che ti succede, Hannes? Perché sei così arrabbiato? Che ti è successo dopo che sei arrivato a Lipsia? Tu che eri una grande speranza, in Islanda.»

«Una grande speranza» sbottò Hannes. «Probabilmente non lo sono più» disse.

Tacquero.

«Ho solo visto al di là di queste cazzate» disse Hannes a voce bassa. «Tutte queste maledette bugie. Ci fanno bere la storia del paradiso dei poveri, dell'uguaglianza e della solidarietà finché non cantiamo l'Internazionale come un disco inceppato. Sempre gli stessi coretti di alleluia senza una parola di critica. A casa andavamo ai comizi durante le campagne elettorali. Qui si fa solo propaganda. Dove lo vedi, tu, un dibattito? C'è il partito, e nient'altro. Hai parlato con la gente di qui? Sai che cosa pensa? Hai parlato con un solo abitante di questa città? Li vogliono, loro, Walter Ulbricht e il partito socialista unificato tedesco? Vogliono il partito unico e l'economia centralizzata? Volevano che fosse bandita la libertà di stampa e di parola, o dei veri partiti politici? Volevano farsi sparare per strada nell'insurrezione del 1953? A casa almeno potevamo discutere con gli schieramenti opposti e scrivere articoli sui giornali. Qui è proibito. C'è una linea sola, e basta. E poi le chiamano elezioni, quando chiamano il popolo a scegliere l'unico partito cui sia consentito governare in questo paese! Per la gente comune è solo una farsa. Lo sanno che questa non è democrazia!»

Hannes tacque. La rabbia gli saliva in gola.

«La gente non osa dire che cosa pensa perché qui sono tutti sotto controllo. Tutta la maledetta società. Tutto quello che dici e fai ti si può ritorcere contro e tu vieni convocato, ammanettato, cacciato dalla scuola. Parla con la gente, qui. Le telefonate vengono intercettate. Spiano le persone!»

Tacquero.

Sapeva che Hannes e Ilona avevano in parte ragione. Sentiva che sarebbe stato meglio che il partito si presentasse in maniera chiara, ammettendo che per il momento non c'erano spazi per libere elezioni e dibattiti. Ci sarebbero arrivati in un secondo tempo, una volta raggiunto lo scopo, cioè il comunismo. A volte si erano presi gioco dei tedeschi, perché accettavano tutto quello che veniva proposto durante gli incontri, mentre poi in privato emergeva un'opinione del tutto diversa, se non opposta. La gente non osava essere sincera e diretta, osava a malapena presentare un'opinione indipendente per timore che venisse interpretata come anticomunista e di conseguenza scattasse la punizione.

«Sono persone pericolose» gli disse Hannes dopo un lungo silenzio. «Non stanno giocando.» «Perché parlate sempre di libertà di opinione?» disse lui furioso. «Tu e Ilona. Guarda le persecuzioni contro i comunisti negli Stati Uniti. Guarda come cacciano la gente dal paese e dal posto di lavoro. E allora, la loro non è una società sorvegliata? Hai letto di quando quei codardi hanno fatto la spia sui loro compagni davanti alla commissione antiamericana? Là il partito comunista è bandito. Anche lì c'è una sola opinione ammessa, ed è l'opinione della cerchia ricca, degli imperialisti, dei guerrafondai. Tutto il resto è proibito. Tutto.»

Si alzò.

«Tu ti trovi qui perché il popolo ti ha invitato, i proletari di questo paese» disse arrabbiato. «Sono loro che pagano per la tua istruzione, e tu dovresti vergognarti di parlare in questo modo. Vergognarti sinceramente. E dovresti sbrigarti a tornare a casa!»

Uscì dalla caffetteria a grandi passi.

«Tómas» lo chiamò Hannes, ma lui non gli rispose. Uscì a grandi passi dalla caffetteria e nel corridoio incontrò Lothar, che gli chiese come mai fosse così agitato. Si voltò indietro, a guardare verso la caffetteria. «Non è niente» disse. Uscirono insieme dall'università. Lothar propose di offrirgli una birra, e lui si lasciò convincere. Si sedettero da Baum, vicino alla chiesa di San Tommaso, e lui raccontò a Lothar della discussione con Hannes e come per qualche motivo il giovane avesse voltato le spalle al socialismo e ne parlasse in maniera denigratoria. Disse a Lothar che non sopportava il voltafaccia di Hannes. Si scagliava contro l'organizzazione socialista, eppure continuava ad usufruirne per concludere gli studi.

«Non capisco» disse a Lothar, «Non capisco come possa abusare in questo modo della situazione. Io non potrei mai farlo» disse. «Mai.»

Incontrò Ilona, quella sera, e le disse del litigio. Accennò al fatto che Hannes talvolta si comportava come se la conoscesse, ma lei scosse la testa. Non aveva mai sentito pronunciare il suo nome e non ci aveva mai parlato.

«Sei d'accordo con lui?» le chiese, esitante.

«Sì» disse lei dopo un lungo silenzio. «Sono d'accordo con lui. E non solo io. Siamo molti, molti di più. Le persone della mia età a Budapest. I giovani qui a Lipsia.»

«Perché nessuno si fa sentire?»

«Lo stiamo facendo a Budapest» disse, «Ma c'è una repressione enorme. Terribile. E' paura. Tutti hanno paura di quello che potrebbe accadere.»

«L'esercito?»

«L'Ungheria è uno dei trofei di guerra dell'Unione Sovietica. Non se ne andranno senza lottare. Se riusciremo a spezzarli, chissà cosa potrebbe succedere negli altri paesi dell'Est europeo. È questo il problema. Una reazione a catena.»

Due giorni più tardi Hannes venne cacciato dall'università senza preavviso e gli fu ordinato di lasciare il paese. Seppe che la polizia aveva fatto piantonare la stanza che Hannes aveva preso in affitto, e che il giovane era stato accompagnato all'aeroporto da due agenti della Stasi. Gli parve di capire che nessuno dei corsi che aveva frequentato gli sarebbe stato riconosciuto in altre università. Era come se Hannes non fosse mai stato in quell'ateneo. Era stato cancellato.

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Un giorno in ufficio da Sigurdur Òli arrivò un messaggio da parte dell'ambasciata americana di Reykjavik, che sosteneva di possedere informazioni utili alla polizia nell'indagine sul ritrovamento dello scheletro nel Kleifarvatn. Sigurdur ricevette il messaggio direttamente dalle mani guantate di un autista dell'ambasciata, che glielo depose sulla scrivania in busta chiusa dicendo di attendere una sua risposta. Con l'aiuto di Ornar, l'ex direttore generale del ministero degli Affari Esteri, Sigurdur Òli si era messo in contatto con Robert Christie a Washington, il quale gli aveva promesso di fornire loro un aiuto una volta conosciuto il motivo delle loro richieste. Questo Robert, o Bob, si era subito interessato al caso, come aveva detto Ornar, e aveva assicurato che l'ambasciata si sarebbe messa in contatto presto.

Sigurdur Òli guardò l'autista con i guanti neri. Indossava un completo nero e un berretto con visiera in testa, con una treccia d'oro, e in quella tenuta sembrava un idiota totale. Siguròur lesse il messaggio e annuì. Disse all'autista che sarebbe andato all'ambasciata verso le due quello stesso giorno, e che una collega di nome Elìnborg sarebbe andata con lui. L'autista sorrise e Sigurdur Òli temette di vederlo portare la mano alla visiera per congedarsi con il saluto militare, ma non lo fece.

Elìnborg incontrò l'autista sulla porta dell'ufficio di Sigurdur e per poco non vi andò a sbattere contro. L'uomo si scusò e lei lo seguì con lo sguardo fino ìn fondo al corridoio.

«Chi era?» chiese.

«L'ambasciata americana» disse Siguròur Òli.

Arrivarono all'ambasciata alle due in punto. Davanti all'edificio stazionavano due guardie di sicurezza islandesi che li osservarono con sospetto mentre si avvicinavano. Dichiararono il motivo della loro visita, la porta sì aprì e gli agenti entrarono. Altre due guardie di sicurezza, stavolta americane, li accolsero una volta all'interno. Elinborg era pronta a sottoporsi al controllo per le armi, quando un uomo apparve nell'atrio e li salutò con una stretta di mano. Disse di chiamarsi Christopher Melville, e chiese loro di seguirlo. Apprezzò che fossero arrivati «right on time». Comunicavano in inglese.

Sigurdur Oli ed Elinborg seguirono Melville al piano superiore e lungo un corridoio fino a una porta, che l'americano aprì. Sulla porta era scritto: DIRETTORE DELLA SICUREZZA. All'interno li aspettava un uomo sulla sessantina, i capelli rasati malgrado indossasse abiti civili. Era il direttore, Patrick Quinn. Melville sparì e gli agenti si sedettero su un piccolo divano dello spazioso ufficio. Quinn disse di aver parlato con il dipartimento della Difesa presso il ministero degli Affari Esteri islandese, e che gli americani avrebbero fornito tutto l'aiuto possibile alla polizia islandese. Si scambiarono qualche parola sul tempo e sull'estate di Reykjavik, se era bella o meno.

Quinn disse di lavorare in ambasciata fin dalla visita di Richard Nixon in Islanda, nel 1973, per il vertice con il presidente francese Georges Pompidou a Kjarvalsstadir. Disse di trovarsi molto bene in Islanda, nonostante gli inverni bui e freddi. Nei mesi invernali cercava di farsi le ferie in Florida, disse sorridendo. «A dire il vero sono del North Dakota, quindi sono abituato agli inverni come i vostri. Però sento la mancanza di un'estate più calda.» Sigurdur Oli sorrise a sua volta. Pensava che si fossero persi in chiacchiere inutili a sufficienza, anche se gli sarebbe piaciuto dire a Quinn che aveva studiato per tre anni negli Stati Uniti, criminologia, e che era un grande ammiratore dell'America e degli americani.

«Lei ha studiato in America, non è così?» disse Quinn guardandolo, e sorrise. «Criminologia. Per tre anni, mi pare, no?» Sigurdur Òli si sentì gelare.

«Mi pare di capire che le piaccia molto il nostro paese» aggiunse Quinn. «Non ci dispiace affatto avere degli amici, in questo periodo difficile.»

«Avete... avete un file su di me, qui dentro?» disse Sigurdur Òli curioso, ma con qualche esitazione.

«Un file?» disse Quinn e rise. «Ho telefonato a Bob, della Fondazione Fullbright.»

«A Bob, già, capisco» disse Siguròur Oli che conosceva bene la direttrice della Fondazione.

«Aveva una borsa di studio, vero?»

«Esatto» disse Sigurdur Oli imbarazzato. «Per un momento ho pensato che...» e scosse la testa per essere stato tanto sciocco.

«No, ma ho un file della CIA che la riguarda, eccolo qui» disse Quinn e si allungò per prendere una cartella sulla scrivania.

Sigurdur Oli si sentì di nuovo gelare. Quinn gli sventolò sotto il naso una cartellina vuota e si mise a ridere.

«Accidenti, se è nervoso» fece rivolto a Elinborg che era seduta accanto a Sigurdur e rideva.

«Chi è questo Bob?» chiese poi la donna.

«Robert Christie occupava il posto che ho io ora in ambasciata» disse Quinn. «Però il lavoro adesso è completamente diverso. Lui era il direttore della sicurezza dell'ambasciata durante la guerra fredda. Io mi occupo di questioni di sicurezza in un mondo completamente diverso, visto che il terrorismo è la minaccia più grossa nei confronti degli Stati Uniti e in realtà, come gli eventi hanno dimostrato, per il resto del mondo.»

Guardò Siguròur Oli, che non si era ancora ripreso.

«Mi scusi» disse. «Non volevo turbarla.»

«No, va tutto bene» disse Siguròur Oli. «Un piccolo scherzo. Non fa male a nessuno.»

«Io e Bob siamo buoni amici» continuò Quinn. «Mi ha chiesto di aiutarvi con questo scheletro che avete trovato a, com'è che lo chiamate, Kleivarvand?»

«Klei-far-vatn» disse Elinborg.

«Sì» fece Quinn. «Non avete nessun caso di persone scomparse che possa spiegare il ritrovamento dello scheletro, vero?»

«Niente sembra coincidere con l'uomo del Kleifarvatn.»

«Solo due dei quarantaquattro casi di persone scomparse negli ultimi cinquant'anni sono stati sottoposti a indagine» disse Siguròur Oli. «Questo è proprio il caso che vogliamo esaminare più a fondo.»

«Si» fece Quinn, «ho anche saputo che lo scheletro era legato a una ricetrasmittente russa. Saremmo felici di esaminare l'apparecchio per voi. Se siete in difficoltà per individuare il modello, l'anno di fabbricazione e le sue funzioni. Sarebbe semplicissimo, per noi.»

«Credo che la scientifica stia collaborando con l'Ente Telecomunicazioni» disse Siguròur Oli sorridendo. «Forse si metteranno in contatto con voi.»

«Insomma, una persona scomparsa, non necessariamente islandese» disse Quinn inforcando gli occhiali da lettura. Prese una cartellina nera dalla scrivania e la sfogliò. «Come forse sapete, il personale dell'ambasciata in quel periodo era sottoposto a severi controlli. I comunisti ci sorvegliavano e noi sorvegliavamo loro. Così andavano le cose, e a nessuno sembrava strano o innaturale.»

«Magari lo fate tuttora» disse Siguròur Oli.

«Questa è una cosa che non vi riguarda» disse Quinn senza più sorridere. «Abbiamo dato un'occhiata ai nostri archivi. Bob se ne ricorda bene. All'epoca sembrò a tutti un mistero, e quello che stava accadendo davvero non venne mai alla luce. Secondo la nostra documentazione, e ne ho anche parlato in dettaglio con Bob, un funzionario della Germania Est entrò in Islanda in un certo periodo, ma noi non abbiamo mai appurato se avesse poi lasciato il paese.»

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