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| << | < | > | >> |Indice5 Al lettore 7 Indignarsi non basta 43 Io dico il dubbio 57 Indice dei nomi 59 Note sugli autori 62 Ringraziamenti |
| << | < | > | >> |Pagina 12ALBERTO OLIVETTIÈ stato da poco tradotto in italiano dall'editore torinese Add Indignez-vous! , un breve opuscolo scritto da Stéphane Hessel, uno dei protagonisti della Resistenza francese. È un appello, rapidamente divenuto un evento editoriale, che si rivolge ai giovani.
C'è da riflettere su questo appello. Non
è usuale che un uomo autorevole, di novantatré anni, rivolgendosi ai giovani
trovi così largo ascolto.
MARIA LUISA BOCCIA Senza dubbio Hessel interpreta un bisogno di agire in prima persona assai avvertito e che non trova modi efficaci per esprimersi. Anche in Italia la politica, per come si rappresenta e opera, non comunica con questa esigenza. Risulta lontana, c'è un vuoto di rappresentanza. E sono lontani dalla vita, soprattutto da quella dei giovani, i partiti, i sindacati, i loro linguaggi.
Hessel ribadisce un concetto fondamentale. La politica, dice, è questione di
ognuno di noi. Ognuno si deve porre la
domanda "che faccio io?", rispetto a un
mondo segnato da guerre, ingiustizie,
violenze, terrorismo. Indignarsi è questo.
ALBERTO OLIVETTI
Anche tu, a vent'anni, ti sei indignato.
Non comincia allora e così il tuo impegno politico?
PIETRO INGRAO Ricordo il fatto che ha deciso del tipo della mia indignazione. Francisco Franco attraversa lo stretto di Gibilterra, invade la Spagna. Quel giorno mi sono indignato. Mi sono interrogato su quello che io stavo facendo e su quello che accadeva nel mondo. Che dovevo fare io e con me i miei compagni di studio, e gli amici intorno a Rudolf Arnheim, con i quali condividevo l'amore per il cinema "come arte"? Il 17 luglio 1936, il giorno dello sbarco di Franco, è quello in cui ho detto no e ho intrapreso, con altri, un altro percorso. Da lì sono cominciate la mia esperienza e la riflessione, che sarà per me costante, sul soggetto politico collettivo. Nella primavera del 1940, l'impressione era che la Germania avesse in pugno il mondo e che, varcata la Manica, la guerra-lampo, come allora era chiamata, sarebbe finita con la vittoria di Hitler. Facevo già parte di un gruppo clandestino, era piccola cosa, rischiava di diventare nulla. Non sapevo, non potevo immaginare cosa sarebbe successo. Ma l'immagine era quella di un mondo che andava contro tutto quello che avevo dentro. Fin da allora, il mio impegno politico fu una resistenza del mio essere che rifiutava di adattarsi a vivere in un mondo segnato dalla possibile vittoria del nazifascismo.
Ricordo di essermi posto, con il lutto
nel cuore, la domanda secca "che faccio io?".
ALBERTO OLIVETTI
Per te dunque l'indignazione è un sentimento di reazione necessaria, ma non
sufficiente.
PIETRO INGRAO
Assolutamente sì. Indignarsi non basta.
Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva. Poi la puoi chiamare
movimento o partito o in altro modo.
ALBERTO OLIVETTI
Conservi tuttora la tua capacità di indignarti o la metti nello sfondo?
PIETRO INGRAO Si, la conservo. Non ci si può proporre di costruire una relazione condivisa senza un moto di indignazione. Mi pare, tuttavia, che ci sia una differenza con ciò che intende Hessel per indignazione. | << | < | > | >> |Pagina 28MARIA LUISA BOCCIA
Conflitti di ordine sociale ed economico attraversano gli orizzonti del
mondo attuale. Sollevano questioni, come in
questi giorni accade in Nord Africa, di
libertà, di democrazia, di rispetto delle
confessioni e dei diritti umani. E torna il ricorso alla guerra.
PIETRO INGRAO Siamo usciti dalle catastrofi della seconda guerra mondiale, con la speranza, e il proposito, che non sarebbero ritornate. Invece, senza grande scandalo, la guerra è tornata. Dopo l'11 settembre 2001, George Bush jr ha parlato di guerra permanente. Ricompaiono la guerra giusta e, persino, la guerra santa. Nel Kosovo ha trionfato l'ossimoro guerra umanitaria. Cancellata l'antica repulsione per l'uccidere, la guerra può risultare perfino feconda, un modo per realizzare un diritto, una pienezza di umanità.
Sono state scavalcate le Costituzioni del
dopoguerra, le Carte dei diritti, i principi fondanti dell'ordine
internazionale. E senza che questa esplicita violazione fosse
riconosciuta come problema, fosse meritevole di una verifica nei Parlamenti.
MARIA LUISA BOCCIA
Ma, in tutto il mondo, il ripudio della
guerra ha colmato le piazze. Milioni di
donne e di uomini si oppongono. Ricordo che il «New York Times» parlò del
movimento pacifista come d'una «seconda potenza mondiale».
PIETRO INGRAO Non lo dimentico. La verità amara, però, è che nei nostri paesi il senso comune non ha tremato. È passato il messaggio rassicurante: lasciate fare a noi, ci pensiamo noi, voi state in pace. Penso all'Italia. I bombardieri partivano da Aviano e io vedevo per le strade di Roma la gente camminare tranquilla. Mi spaventa questa normalizzazione della guerra. L'orrore e il ripudio che ha scosso e impegnato la mia generazione si è come liquefatto. Sugli schermi televisivi abbiamo visto scie luminose, le pirotecniche immagini della guerra celeste. Alimentano l'illusione, e l'inganno, d'una purificazione della guerra. Colpire, grazie a macchine di distruzione sofisticate, solo obiettivi militari o strategici, dicono. Dicono che la guerra celeste è velocità e distacco dalla materialità confusa della Terra. Sganciata la bomba intelligente, adempiuto il suo compito nel silenzio dei cieli, il pilota torna a casa senza macchie. Saperi e tecnologie perfezionano un'arte asettica dell'uccidere. Pura, la guerra celeste finge l'epoca virtuale in cui, dicono, viviamo. È mutato e come il nesso tra guerra e politica? Quali sono le sedi in cui esso si stringe, là dove si fa tracotanza del comando, violenza e tecnologia omicida? Sono questioni ineludibili. Eppure poco o nulla presenti nel confronto politico. Io non ho molto tempo. Chi ne ha deve cominciare a pensarci. Che le giornate siano rivolte a cambiare questo mondo, cioè a cambiare noi stessi. Ho imparato, dalle vicende gravi attraverso le quali sono passato, che un compito prezioso può essere assolto anche da piccole minoranze. | << | < | > | >> |Pagina 36MARIA LUISA BOCCIA
Hessel avverte: «Non dobbiamo lasciare
che si accumuli troppo odio». Egli teme
l'esasperazione. Il rischio è che la condizione di privazione, del pane e della
libertà, porti a forme di lotta distruttive,
a una reazione solo negativa.
PIETRO INGRAO Francamente non lo ritengo il rischio maggiore. Valuto molto più forte il rischio che i sentimenti dell'indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci, in mancanza, insisto, di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo. Che l'indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio. L'approfondimento dell'opera di Marx, la lettura della relazione di classe dentro lo sviluppo delle forze produttive, è stato per me un prezioso antidoto contro questa illusione. Sul potere Franz Kafka mi ha illuminato più di tanti testi di teoria politica e, come mi è capitato di dire, è stato un contravveleno al finalismo progressista, un po' ottuso, di una certa vulgata marxista. E, sulla crisi epocale dei linguaggi, nel mio impegno a capire il mio tempo, una luce mi è venuta dal monologo interiore di James Joyce e dai tempi del montaggio cinematografico; dal canto di Giacomo Leopardi e dal silenzio entro il quale si formula la parola in costrutti nuovi di senso. Su questi palinsesti ho tentato di cogliere sostanza e forme della modernità. | << | < | > | >> |Pagina 52ALBERTO OLIVETTI
In un distico che ha l'intensità di un monogramma, dodicesimo componimento
de
Il dubbio dei vincitori,
dici:
PIETRO INGRAO
Il progetto fallito. C'è la sconfitta del leninismo. Voglio registrare
chiaramente la sconfitta. Questo è uno dei punti del
mio pensiero. Siamo stati al centro di
una grande opera, di una grande vicenda, ma siamo stati sconfitti.
MARIA LUISA BOCCIA
Ancora. Ci interessa il filo comune, la trama che lega i testi. Tra le
poesie di quella tua prima raccolta leggo versi come:
Una poesia che rivela, credo, come tu
intendi la pratica del dubbio. Non dici
la sconfitta mi schiaccia a terra, mi fa
piegare in basso. «Leva in alto la sconfitta» perché si può ripartire a patto di
mettere in dubbio il progetto perseguito e non realizzato.
PIETRO INGRAO Della sconfitta voglio dare tutta l'emozione umana e chiedo aiuto alla poesia: «mordi musica», l'atto del mordere combinato con la leggerezza, l'impalpabilità. Esalto il nostro «desiderio deriso», «le fragili comunioni» ovvero gli incontri umani che non hanno retto.
La fierezza della nostra aspirazione.
ALBERTO OLIVETTI Tu metteresti vicino questo «leva in alto la sconfitta» - che è un gesto di orgoglio e di intensità, ma anche di forza e di intatta energia – con la metafora della torre?
Levare in alto la sconfitta. La torre sarebbe stata la vittoria, ma la
sconfitta ha in sé un elemento di elevazione.
PIETRO INGRAO
Le poesie che abbiamo letto e commentato sono l'opposto della apologetica
sovietica e anche di quella togliattiana.
MARIA LUISA BOCCIA
Non solo dell'apologetica. Anche di
un modo che, quando la sconfitta si è
dispiegata e nessuno poteva ignorarla, intendeva tuttavia riaffermare come
giuste le analisi da cui quel progetto
partiva e le forme per realizzarlo. Senza
metterle in dubbio, cioè senza accettare
la sconfitta. Tu proponi un'altra strada.
ALBERTO OLIVETTI
La pratica del dubbio trova nella fragilità una qualità che diviene stabile,
né vinta e né smarrita:
PIETRO INGRAO
Qui è l'emozione della lotta politica,
della vicenda che ho vissuto, quel percorso poi finito nella amarezza. «Invitta
fragilità»: c'è questo doppio significato.
«Come lo gridi al mondo»: come lo esalti, almeno dentro di me. «Fiore inzuppato
di viola»: qui c'è un po' di estetismo, mi persuade fino a un certo punto.
«Come al vento tremando»: il vento è la
tempesta. Tremare, c'è la paura. Ma, comunque, tieni, fragilità, dispieghi la
tua bandiera.
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