Copertina
Autore Pietro Ingrao
Titolo Volevo la luna
EdizioneEinaudi, Torino, 2006, Supercoralli , pag. 378, cop.ril.sov., dim. 14x22,3x2,6 cm , Isbn 978-88-06-17990-8
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe storia contemporanea d'Italia , biografie , politica
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Indice

  3   Siciliani ed europei
 11   Famiglie
 19   Campania felix
 26   Il Vitruvio
 36   I Littoriali
 47   Il cinema
 58   Spagna
 65   Il «gruppo romano»
 73   La Blitzkrieg
 79   La guerra totale
 88   Stalingrado
 93   Inseguito dagli sbirri
 97   L'Osteria della Rivazza
105   In Sila
114   Il 25 luglio
121   Strano interludio
129   La svolta d'autunno
134   La guerra in città
141   Ritorno di un esule
147   Le marocchinate
151   Dal suo ventre
156   Sergente
162   Nella capitale
169   Viaggio in America
177   Il Cominform
183   Il 1948
189   L'attentato
195   Ritorno in Calabria
202   Quella battaglia del '53
211   La trama dei borghi
222   Tempesta sull'Asia
230   Il rapporto segreto
239   Poznan
245   Agguato all'Ungheria
253   Nuovi continenti
260   Isole e riviere
269   Le febbri del mondo cattolico
280   L'avventura di Tambroni
293   Municipi e continenti
302   Yalta
311   L'XI congresso
320   L'irruzione degli studenti
329   Praga
332   I metalmeccanici
342   I «boia chi molla»
350   Viaggio ad Hanoi
354   Il compromesso storico
360   L'assassinio di Moro
369   L'isola

 

 

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Pagina 26

Il Vitruvio


Mia nonna Marianna stava male, sempre piú gravata dagli anni, e mio padre voleva almeno avvicinarsi a Lenola per poter accorrere in caso di bisogno. Perciò da Santa Maria chiese il trasferimento al comune di Formia, che era a breve distanza dal paese natio.

Di quella città ho come una memoria doppia: incanto e accidia. Feci il mio ingresso al liceo, che si intitolava a Vitruvio, ed era alloggiato al piano di sopra dell'edificio in cui aveva trovato abitazione mio padre. Era una condizione felice per i miei lunghi sonni. Bastavano pochi secondi per traversare la breve scala e trovarmi in classe. E però quella prossimità rendeva piú difficile fare sega. Al Vitruvio c'era un preside zelante, conosceva mio padre, e se scopriva la mia assenza la delazione alla mia famiglia era questione di un attimo.

Gli inverni erano dolci, la marina di Formia dalla punta turrita di Gaeta approdava al promontorio di Gianola, che pareva un'isola breve, sepolta nella macchia di ginepro, e un fianco affacciato su un fiume. Dal mare tiepido risalire la foce di quel gelido torrente dava delizia. Quando a dicembre calava intatta la tramontana, tutto - terra e marina - diventava di smalto.

In un certo senso le ore di scuola finivano abbastanza presto. Dopo l'aula, trascinavamo i pomeriggi a gironzolare tra gli agrumeti densi che portavano a Scauri: sempre a parlare di ragazze o di pallone, o abbandonati alle canzoni grasse da bordello (ce n'era uno a un passo, a Gaeta, che fungeva da luogo di iniziazione). Quando avevamo qualche spicciolo, finivamo in un caffè col biliardo o accucciati nel cinema.

Presto però vennero bufere che cancellavano ogni illusione di idillio, e non erano solo i turbamenti della pubertà. Ero mutato nel corpo e vivevo tutti i piaceri e i patimenti della sessualità che esplodeva: dagli sguardi cupidi alla ricerca furiosa dei toccamenti con l'altro sesso. E tutto vissuto senza alcun lume dai maggiori. E i coetanei vivevano la stessa ansia morbosa.

Ricordo le avide discussioni e scambi di libri; primo tra gli altri Guido da Verona, un autore che allora ci pareva scandaloso, e oggi - credo - sembrerebbe quasi casto (e - nei suoi modi - non era nemmeno un cattivo scrittore).

Ma altri turbini si agitavano intorno a noi. Non mi pare che in casa fosse nominata con il proprio nome la grande crisi del '29, che squassava il mondo. Però le conseguenze sull'esile, vetusta economia agraria dei miei luoghi erano funeste: non tanto sulla rete delle imprese industriali che era gracilissima (in tutta la fascia da Gaeta alle soglie di Napoli, che io ricordi, c'erano solo due fabbriche di qualche consistenza: la vetreria di Gaeta e il pastificio Paone a Formia; poi - già piú lontano - c'era il nucleo industriale della Valle del Liri). Da quelle mie parti la crisi scoppiata nella florida America si ripercuoteva nei modi piú elementari. Prima di tutto calava vertiginosamente il ruscello di denaro che veniva dal gruppo di emigranti: e a Lenola vi furono rientri penosi. Soprattutto dilagò la disoccupazione: lo potevo vedere dalla fila di uomini e famiglie disperate che bussavano alla mia casa per invocare ansiosamente un impiego a Roma: fosse un portierato, o un posto da usciere in un ministero, o da portantino in ospedale, o qualunque altra cosa; tutti rivolti a mio padre: non solo in nome di quella garanzia di tutela che correva - non detta - fra signori e contadini, ma soprattutto perché mio padre era già nella macchina pubblica, che in quei tempi di aspra, nuova fame appariva un nido di «posti». Mia madre a quelle dolenti domande rispondeva sempre di sí: assicurando che certamente si sarebbe trovata una strada.

[...]

E la scuola fu uno spazio, possibile e precario, di testarde resistenze. In quel contatto — cosí delicato — tra docente e alunno si creava a volte un'intimità di discorso, un regno sottile e autorevole della parola.

A un certo punto la porta dell'aula si chiudeva. E il maestro dalla cattedra aveva uno spazio di dialogo: lui e gli allievi. Di sicuro quello spazio nella scuola fu usato da un antifascismo che cercava disperatamente un canale. E inoltre la scuola era tenacemente avvezza - da tempo! — alle eresie. Al maestro bastava una frase, un accento in più o in meno per dare senso particolare al discorso.

A Formia capimmo quasi subito che quei due, Gesmundo e Albertelli, erano antifascisti. A Roma, piú o meno in quegli anni, il liceo Visconti fu una scuola da cui sgorgarono molti dei quadri che avrebbero alimentato l'antifascismo e la cospirazione comunista romana, e infine la Resistenza.

Ci fu poi, per me, un episodio che non c'entra con la scuola (o forse, in altro senso, c'entra). Ho fisso nella mente il ricordo del giorno in cui mio padre, passeggiando con me per una via di Formia (quasi all'uscita verso Napoli), mi indicò un uomo, basso e un po' curvo, come raggricciato. E mi disse: — Quello è Gramsci —. Non so se è una mia invenzione, o accadde davvero.

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Pagina 114

Il 25 luglio


A Milano il mio rifugio clandestino fu ancora a corso di Porta Nuova, dove fui accolto con abbracci caldissimi. In quegli anni la cospirazione era nutrita di affetti tenaci, salvo quando non sorgeva il sospetto o l'urto di frazione, che conduceva a lotte spietate, a volte feroci.

La guerra per Mussolini si avviava ormai alla sconfitta; e per il comunismo italiano si dilatavano compiti e speranze.

Totò Di Benedetto mi parlò di un nuovo lavoro per me nell'area napoletana, dove c'era un gruppo clandestino comunista già attivo. La cosa mi piaceva molto perché mi riavvicinava a terre natali, luoghi dove era maturata la mia adolescenza. E poi in quella casa di Porta Nuova tutti vivevano febbrilmente il precipitare degli eventi.

Prima però ci fu per me una sorta di esame o di affidamento, secondo il costume e i riti che erano cosí forti e obbliganti nel mondo comunista - e non solo per bisogno di «vigilanza», quella parola che poi incontrai tante volte, e sempre cosí rispettata nelle file del Pci.

Sapevo che dovevo vedermi con un dirigente del partito. Dopo giorni e giorni di attesa ansiosa ci fu finalmente l'incontro. Avvenne in una lunga piazza come ce ne sono tante a Milano: attendevo seduto sotto un albero ombroso - in quell'estate bruciante - al punto indicato, con ii cuore in tumulto. A un tratto vidi venire verso di me un uomo di statura bassa, maturo negli anni, con un paio di baffi sottili. Dopo i segnali convenuti, ci sedemmo su una panchina di marmo, come due amici che si godevano il fresco del tramonto.

Fu un colloquio quieto e gentile, un po' burocratico: con le domande di rito sulla mia vicenda politica, e - piú sottilmente - su punti particolari della mia storia di comunista; tutto però come per obbedire a una regola antica. E venne la proposta. Mi fu confermato che si trattava, probabilmente, di andare a lavorare (questo era il termine in uso) insieme con un nucleo clandestino che agiva nel Napoletano. Erano luoghi che stavano nel mio mondo e la cosa mi piacque. Dovevo tenermi pronto per la partenza. Con il cuore a questo compito nuovo, tornai, sollevato, a Porta Nuova. Ma di colpo esplose l'evento del 25 luglio.

Lo vissi cosí: era una sera afosa d'estate, e in quella casa di Porta Nuova, dopo la cena breve avevamo ciarlato e scherzato con la Santina, sperando che la notte rinfrescasse l'aria pesante del luglio milanese. Poi c'eravamo buttati su un grande letto, seminudi, a dormire in tre, io e i due fratelli Impiduglia. Uno di loro russava fragorosamente, ma alla fine tutti e tre eravamo sprofondati nel sonno.

Fui svegliato di colpo. Vidi Di Benedetto, che spalancato l'uscio della stanza si precipitava alla finestra gridando: - Abbasso Mussolini, a morte il fascismo...! - Non capii: nel letto ci guardammo sbalorditi, incerti se Totò era ammattito o che fosse. Ma fu solo un istante.

Totò con il cuore in gola ci diede la notizia folgorante della cacciata e dell'arresto del Duce e della formazione del governo Badoglio. Ci infilammo in un lampo i pantaloni, e ci precipitammo per le strade del quartiere. Attorno regnava sovrano il silenzio pesante della notte d'estate, nel buio senza stelle.

Ma presto dall'alto delle case cominciò uno spalancarsi di finestre, e persone affacciarsi e chiedere in ansia: - Che c'è, che succede...? - Mai come in quel momento ho sentito la gioia prorompere nel petto e, al tempo stesso, fisicamente, la distanza e la vicinanza di quelle voci interroganti che sembravano giungere da una altitudine lontana e confusa.

Presto però il paesaggio mutò. E a Porta Venezia trovammo Milano illuminata, ebbra e in tumulto.

La gente si stringeva, s'abbracciava, s'aggregava senza conoscersi, si scatenava nei gridi, nelle invettive. Per la prima volta mi trovavo in una furia di popolo che urlava, sfasciava, esultava: alla caccia delle sedi fasciste, dei segnacoli del regime, a gridare lo scatenarsi della gioia e la voglia di vendicarsi.

Avanzando da Porta Venezia a un angolo di via incontrammo Elio Vittorini: era la prima volta che lo vedevo, e per me, al di sopra di tutto, lui era Conversazione in Sicilia, quel libro che avevamo letto come un messaggio d'epoca. Ci stringemmo fra le braccia e con lui seguitammo in quella corsa che gioiva, gridava vendetta, bruciava sedi, rovesciava dai balconi stemmi, gagliardetti, cumuli di carte.

A rileggerla ora nella memoria, quella notte in piazza che fu? Solo collera e vendetta di minoranze perseguitate che tornavano alla luce, o gente scorata che ritrovava coraggio, o anche opportunismo di pavidi che si adattavano al mutamento e piazza vile che si accodava al vincitore nell'ora del rendiconto? Anni dopo storici e memorialisti hanno ragionato a lungo su quelle ore di ribaltamento.

Vissi quella notte come un enorme respiro di liberazione, di una riscossa che poi fu lunga e sanguinosa. Era la notte che non vide solo il colpo di palazzo a Roma, ma anche le masse che tornavano in campo, e - per tutta la seconda metà del secolo - sul campo ci sarebbero rimaste. Che io ricordi, in quella notte milanese non ci furono leader: almeno non li vidi. Ma si coglieva lo scatenarsi o il ripullulare di fedi: e tanti ignoti - cittadini e fratelli - respirare, salutare il nuovo spazio di libertà che finalmente sembrava schiudersi.

Questo si vide ancor piú il giorno seguente: persino con tratti fortemente simbolici.

Quella notte di luglio ritornammo nella casa di corso di Porta Nuova a giorno fatto. Dormii due ore, forse meno. Presto, ancora stravolti, ci incontrammo con Di Benedetto da Elio Vittorini, nella sede dell'editore Bompiani, con in testa i progetti per il giorno grande che si apriva.

Dalla Bompiani Vittorini fisso ia convocazione di un camioncino per le sedici circa a Porta Venezia. Non ricordo, non so dire a nome di chi, o con il consenso di chi. Nemmeno ho trovato testimonianze che valessero a ricostruire le ore di quel mattino breve cosí come lo vissi.

So che alle quattordici eravamo di nuovo in strada, alla testa di un enorme corteo arroventato ed esultante, che si muoveva verso Porta Venezia. Prima però sfilammo rabbiosi dinanzi alle carceri di San Vittore a invocare la liberazione dei detenuti politici. Non riuscii poi a sapere come ci udirono e che seppero quei carcerati, chiamati in modo cosí ardente da un fiume improvviso di popolo.

Chi erano quei manifestanti? Che gruppi sociali, che strati popolari rappresentavano? E da che fonti, da che storie sgorgava la passione che li trascinava in piazza in quel giorno straordinario? Certamente erano sinistra, con tutta la collera dell'oppressione vissuta, e con la domanda di un mutamento grande nel Paese: la mente tesa a uno scuotimento, una resurrezione politica. Ma anche altri che non erano militanti e s'aprivano alla straordinaria novità, e prima di tutto alla speranza che finisse quella guerra ormai perduta.

In corteo corremmo, quasi letteralmente, verso Porta Venezia, dove ci attendeva il camioncino fissato da Vittorini. Qui cominciò, subito, una lotta e una gara a chi riusciva a salire sul tetto di quel trabiccolo, e ad afferrare il microfono, con la confusione e l'abbraccio dei vari colori presenti su quel camion: socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani...

Ebbi fortuna, e riuscii ad arrampicarmi sul tettino di quel camion, e a un certo momento finalmente ebbi nelle mani il microfono e mi trovai a parlare (al mattino, o anche solo un'ora prima, non l'avrei mai immaginato). Qui mi aiutò la calma che mi prendeva quando mi trovavo dinanzi alla prova e ritrovavo quella freddezza che scavalcava ogni ansia. Feci un breve comizio tutto volto a domandare la pace e la rottura dell'alleanza con i tedeschi: il primo nodo da sciogliere per tutto e per tutti.

D'un tratto però avvenne un cambiamento che ci parve assurdo o incomprensibile: dal viale che portava alla grande stazione vedemmo avanzare una colonna di carri armati, e in testa, in cima ad uno di essi, un ufficiale direi giovanissimo, quasi immobile, con la pistola in pugno, il volto bianco come un cencio.

Di colpo si affollarono domande: che era quell'irruzione? Chi la mandava? Mussolini ritornato? O chi altro? Che succedeva a Roma, o altrove? Quale svolta inattesa?

La colonna dei carri armati avanzò fino a fendere in due la folla, e le file di soldati fecero argine a quella massa cocente di popolo che protestava e premeva.

Si apri un discorso febbrile fra quei manifestanti furenti e i soldati che facevano cordone: bianchi in viso e assolutamente muti dinanzi alla massa che alle loro spalle li invitava a rifiutarsi, a mischiarsi con loro, a schierarsi contro il Duce appena travolto...

Non so precisare quanto durò quel dialogo bruciante fra soldati e masse. Ricordo invece, con il nitore scattante di una foto, come quel dialogo si sciolse: una donna, giovane, forse giovanissima, d'un tratto spezzò il cordone dei soldati, traversò in un lampo lo spazio vuoto della piazza, raggiunse la fiancata di un carro armato e - non so dire come - s'arrampicò in cima all'ordigno di guerra (o vi fu issata da qualcuno dei militari?) Quello scatto di donna agí come un segnale simbolico. E avvenne l'incredibile: i carri armati, senza spiegazioni, cominciarono a ritirarsi dalla piazza. Gioimmo impazziti.

Fu il gesto di quella donna ardita a parlare alla truppa, o venne un messaggio dai comandi, e da dove? Da Roma? O agí la folla? O apparve sul campo, fisicamente, l'impossibilità di una repressione militare il giorno che Mussolini era finalmente in manette?

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Pagina 183

Il 1948


Alla fine del 1947 venne approvato il testo della nuova Costituzione italiana. Nonostante fossero sbiaditi ormai i miei studi di diritto, capivo che era una Carta fra le piú avanzate in Europa, e soprattutto innovava profondamente su due punti capitali: il posto riconosciuto al mondo del lavoro e il ripudio secco della guerra quando non fosse guerra di difesa (insomma quel famoso articolo 11 poi piú volte violato e su cui facemmo battaglie amare).

Quella Carta era una costituzione complessa, in certe parti forse un po' tortuosa, debole ancora - anche se segnava un indubbio passo in avanti - soprattutto sui diritti della donna, e incredibilmente pletorica per ciò che riguardava l'istituto parlamentare: istituiva due Camere, con poteri assolutamente uguali, e assurdamente ridondanti quanto al numero degli eletti dal popolo: la nazione eleggeva quasi mille parlamentari: una selva! E quella ridondanza la pagammo nel lavoro delle due assemblee per la pesante difficoltà di interventi rapidi e tempestivi.

E tuttavia la nuova Carta, nella sua sostanza, affermava diritti e poteri dei cittadini, che erano tra i piú avanzati in Europa; e nonostante alcune sue lentezze barocche, avviò una relazione fra Stato e popolo fino ad allora sconosciuta in Italia (ma anche in molti altri paesi). Ci fu poi un sabotaggio tenace e sfacciato della destra e della stessa Dc a riguardo della istituzione delle regioni, che avvenne assurdamente solo venti anni dopo! Un vuoto che fu in parte colmato dal rilievo straordinario che acquisirono i comuni e persino le province (quelle istituzioni vetuste legate ad una pervicace tradizione centralistica, con quegli eterni santoni della burocrazia statale che erano i prefetti).

Mentre si stava dando una Costituzione democratica al Paese, s'era però drammaticamente aggravato lo scontro frontale fra le sinistre socialcomuniste, relegate all'opposizione, e il partito democristiano insediato al potere. La Dc, ormai abbracciata strettamente all'America di Truman, presto allargò il suo governo, rivolgendosi ad alleati decisamente subalterni: il minuscolo partito liberale ed il partito socialdemocratico (ma sarebbe meglio dire: socialmoderato), che era una specie di creatura personale di Saragat.

E tuttavia la novità vera di quella coalizione moderata stava altrove: De Gasperi era il primo cattolico capo del governo dopo la breccia di Porta Pia. E si presentava con la pompa dell'uomo che aveva stretto un'alleanza con uno dei due grandi capi del mondo, Harry Truman. Forte di quel sostegno chiamava l'Italia al duello cruciale con le sinistre socialcomuniste. La sua consacrazione a leader avvenne il 15 novembre a Napoli al secondo congresso della Democrazia cristiana. Dopo un'incolore e prudente relazione del segretario, Attilio Piccioni, uomo d'ingegno ma troppo morbido di temperamento, sali alla tribuna lui, il deputato di Trento: per chiamare non solo il suo partito, ma tutto il vasto mondo cattolico allo scontro con le sinistre, che aizzavano le masse dei senza Dio e riaccendevano il pericolo della tirannia. Tutto il teatro si levò in piedi ad applaudire.

Il 15 febbraio del '48, nel discorso di apertura della campagna elettorale, De Gasperi giunse a bollare i socialcomunisti come «quinta colonna interna». Era l'accusa piú grave: la riduzione dell'avversario ad agente dello straniero.

Parti la campagna furente contro il «pericolo rosso». Il Vaticano e quel papa triste, Pio XII, furono la guida diretta della nuova crociata. Piazza San Pietro divenne il luogo dei grandi raduni dei «baschi verdi» che levarono verso la figura ieratica di quel papa il grido: «Vita, vita!» , salutando la storica alleanza fra l'Italia cattolica e l'America di Truman, florida dispensatrice di aiuti. Lo Stato laico finiva clamorosamente in frantumi, a scorno della nuova Costituzione, appena fresca di stampa.

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Pagina 369

L'isola


Forse è la tarda primavera del '44. Forse è l'estate o assai prima. Non conosco i luoghi. So che fu vicino a Boves, nel Cuneese, dove allora ardeva la lotta partigiana. Un ufficiale, alto, magro - giovane pare -, ogni mattina, poco dopo l'alba esce a cavallo, da solo dalla caserma di San Rocco (si chiamava cosí). Si aggira fra le cascine (nomi che non conosco): Tetto Graglia, la cappella della Crocetta, Madonna degli Angeli - questa sí simile a una del mio paese - il greto di un fiume, il Gesso (chissà perché quest'ultimo nome mi colpisce...). L'ufficiale arriva sempre ad un prato, scende da cavallo, si sdraia sull'erba. Il cavallo pascola...

Una mattina il giovane ufficiale non ritorna alla caserma di San Rocco. Il corpo - in seguito - sarà ritrovato non so bene da chi, o forse è trascinato via dal fiume, il Gesso.

A sole già alto, quando nella caserma di San Rocco arriverà quel cavallo senza cavaliere scatterà la ricerca rabbiosa dei tedeschi. Non troveranno mai piú il corpo.

Nuto Revelli, in un libro bellissimo, Il disperso di Marburg, racconta come, anni dopo, apprese di quel cavaliere solitario, senza volto e scomparso nel nulla. E cominciò il cammino per dare a quell'ombra un nome, una patria, a lungo incerti se fosse un tedesco oppure piú lontano: un polacco, un ucraino.

Che senso aveva quella ricerca impossibile nell'infinito mare degli scomparsi in quella guerra di mondi? E inseguire quell'ombra fra milioni?

Credo sia il desiderio di dare un volto al nemico: prendiamo le armi e uccidiamo. E nulla sappiamo dell'altro che viene ucciso. Quasi sempre uccidendo non si vede nemmeno il suo corpo. Nei lager i nemici erano ridotti addirittura a un numero e a uno scheletro. Prolificherà una nuova istituzione: la fossa comune; una tomba enorme dove i corpi si ossificheranno, fatti uguali gli uni agli altri. Non ho mai saputo come sono stati riconosciuti e nominati nella tomba i trecento delle Ardeatine.

Chi è il nemico? Da dove viene? Non avrei mai pensato che il turbine della guerra potesse condurre contro i partigiani nelle valli del Cuneese addirittura, forse, un ucraino. Le onde che ci hanno trascinato...

Il «disperso» di Revelli, all'alba, ogni giorno, si mette in cammino sul suo cavallo: lui solo e il suo cavallo, si sdraia sull'erba, immaginiamo che si abbandoni all'alito del mattino. I mattini di primavera sono assai dolci. Non ci sono spari. Invece poi, improvvisamente, ci saranno. E si troveranno di fronte l'ignoto cavaliere e altri ignoti dinanzi a lui. Le guerre sono un urto tra ignoti. In fondo perché dovremmo dichiararci colpevoli? Uccidiamo simboli. Astrazioni del potere. Poi gli astratti nemici riprendono un volto quando diventano salme. L'enorme brivido dei cimiteri di guerra. Perché ci turbano tanto? Ci guardano fisso da quelle croci.

Revelli si affanna per anni per dare un viso a quel disperso a cavallo: quale era stata la passione o l'obbligo che l'aveva condotto a quel confronto assoluto sulla vita e sulla morte?

Mi chiedo se non stiamo arrivando ad una soglia in cui tutti i volti si dileguano. E ci sarà solo la macchina solitaria che fa la guerra. Essa sembrerà poter dire: che volete da me? Io che c'entro?

Non so perché della storia del Disperso di Marburg mi ha colpito e trascinato quel dettaglio: insieme all'essere umano, c'è un prato, un cavallo, e lo sdraiarsi del cavaliere sul prato. Siamo appena dopo l'alba: dunque un grande silenzio.

Mi pare di cogliere anche una disperazione e un'impotenza. Chi poteva riconoscere in una guerra così infinita quel giovane di Marburg incolonnato sotto la svastica ? Forse quelle mattutine, solitarie passeggiate a cavallo nelle dolci campagne del Cuneese erano la ricerca di uno spazio ancora controllabile della vita: un margine dove ritrovare un sé, come un'isola.

Penso al percorso che trascinò anche me nell'urto di guerra, io nemico dell'ignoto cavaliere, giunto a quel contrasto nella convinzione che l'isola in cui ritrarsi fosse impossibile, non esistesse. Questo è stato il percorso di cui racconto in queste pagine.

I prati mi hanno incantato sempre, nel loro assoluto trascorrere silente. Oggi i prati della città in cui vivo sono mischiati al tumulto della corsa e dell'affanno. L'isola non esiste. Ed è giusto. Perché chiedere di salvarsi da soli? E poi io non so andare a cavallo.

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