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| << | < | > | >> |IndiceIO SO Al di là delle prove acquisite 7 Le stragi 17 La Seconda Repubblica 67 Il berlusconismo e l'attacco alle libertà 107 Il conflitto con il Quirinale 135 Arrivederci Italia 151 |
| << | < | > | >> |Pagina 17Sono passati vent'anni dall'orrore delle stragi del '92. A un ragazzo nato in quell'anno, come spiegherebbe quello che è successo allora e che ha condizionato questo ventennio? Perché, come lei ama spesso dire, «la Seconda Repubblica fonda i suoi pilastri sul sangue dei servitori dello Stato»?
Partirei dal significato che ha assunto negli anni l'espressione
«lotta alla mafia» inserita in un contesto culturale di riferimento. La cultura
istituzionale italiana è stata per secoli di
tolleranza e legittimazione della mafia, sia a livello periferico
che centrale. Non è un caso che la storia del confronto mafia-Stato sia stata
ipocritamente raccontata come una storia
di guerra, mentre in realtà dietro le quinte è sempre stata
una storia di convivenza. È stata una cultura per decenni
largamente dominante e supinamente accettata all'interno
di varie articolazioni istituzionali: politica, magistratura,
chiesa, forze di polizia, apparati burocratico-statali.
La convivenza con Cosa nostra, insomma, l'abbiamo nel nostro Dna culturale e sociale. Qualche esempio?
Possiamo dire, facendo un passo indietro nella storia, che
veniamo da una realtà nella quale in Sicilia i capimafia
erano le autorità riconosciute. In ogni piccolo centro siciliano c'era il
sindaco, il pretore, il parroco, il comandante
dei carabinieri e poi c'era l'autorità extraistituzionale: il
capomafia. L'anomalia del piccolo centro rappresentava
il microcosmo di una realtà molto più estesa. Questo ha
avuto un riflesso nella cultura del paese. I testi di diritto sui
quali ho studiato dibattevano se la mafia era un'associazione
criminale o tutt'al più un'associazione immorale. Questo
tipo di cultura giuridica ha svolto un ruolo egemonico nel
panorama nazionale. Pian piano, è cresciuta nel paese una
consapevolezza collettiva, anche se per un certo periodo il
cambiamento ha giustificato la tolleranza del passato, raccontando di una
vecchia mafia buona e di una nuova mafia
cattiva. Anche all'interno delle élite politico-istituzionali
del paese si è registrato un processo evolutivo. In questo
processo un settore della magistratura di Palermo è stato
un passo avanti, e perciò ha pagato duramente. Falcone e
Borsellino, non lo dobbiamo mai dimenticare, erano isolati
dentro il Palazzo di giustizia di Palermo. Solo recentemente
quella cultura ha contagiato le parti più sensibili della società
siciliana e nazionale. Tuttavia, non è mai stato cancellato
quell'altro tipo di atteggiamento inclusivo di uno spirito di
convivenza con la mafia. Diciamo che le istituzioni spesso
hanno fatto antimafia sostenendo una fazione della mafia
contro un'altra. È il principio della trattativa. Ma è solo
negli ultimi tempi che alcune sorprendenti novità investigative hanno messo al
centro dell'attenzione dell'opinione
pubblica un tema rimasto per anni colpevolmente sfocato.
È bene essere consapevoli, infatti, che non si tratta di una
novità dell'ultima ora. Che dire, ad esempio, dell'uso massiccio della
trattativa in passato? Che dire della strumentalizzazione che il neonato Stato
unitario fece del potere mafioso sul territorio per frenare le spinte
filoborboniche e antiunitarie? E non fu forse frutto di trattative il patto di
non belligeranza, reciproco sostegno e copertura, in virtù
del quale i gabellotti mafiosi mantennero il loro potere sul territorio?
Questa è la premessa. Da dove partiamo per raccontare la stagione stragista?
Da una considerazione certa: le stragi siciliane sono la
risposta di Cosa nostra allo Stato che, dopo la sentenza di
Cassazione del maxiprocesso, ha messo in crisi l'impunità
dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione
criminale mafiosa. Il programma stragista
nasce dalla necessità per i boss di ristrutturare totalmente il
rapporto con la politica. Questo scontro ha portato il paese
a un capovolgimento politico e istituzionale. Due sono le
frasi chiave che ci fanno capire cosa i capi di Cosa nostra
avrebbero voluto che accadesse (e in buona parte accadde). Una è quella di Totò
Riina, che spiega ai suoi soldati:
«Dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace». L'altra è
del boss Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo più
correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle».
Le stragi sono la premessa necessaria, il secondo passo è
la ristrutturazione del rapporto dialettico con la politica.
Bagarella all'inizio pensa di rifondare il rapporto con la
politica tramite il progetto separatista di «Sicilia libera», un
movimento che è diretta espressione della mafia, per conquistare un più
immediato controllo della politica da parte
di Cosa nostra. Ma il progetto risulta troppo elementare e
rozzo, e quindi fallisce.
Al '93 arriveremo dopo. Qual è, secondo lei, l'effetto più dirompente nella vita democratica italiana del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica a suon di bombe?
Salta in generale il ruolo di mediazione della politica. Gli
interessi privati irrompono e strumentalizzano la politica. Scompare il politico
di professione. I nuovi volti che
affollano il parlamento sono professionisti prestati alla
politica, uomini d'affari che portano nel mondo della
politica i loro interessi personali e quelli dei loro clienti,
e infine politici di seconda o terza fila, sorta di prestanome nell'interesse
altrui. Mentre nella Prima Repubblica
nella relazione tra mafia e politica prevaleva il «modello
Lima», nella Seconda Repubblica il «modello Ciancimino»
diventa vincente. È il modello del mafioso direttamente
protagonista della politica. In questo senso, don Vito
è stato l'assoluto precursore di una sorta di modernità
politico-criminale. Quello che credo sia avvenuto è che gli
interessi mafiosi si sono realizzati per l'intrusione diretta
nel mondo della politica.
Lei sostiene, insomma, che il passaggio politico-istituzionale che si snoda attraverso le stragi apre la strada alla Seconda Repubblica e rafforza Cosa nostra, in direzione di una «legalizzazione» degli interessi criminali passata attraverso l'azzeramento della vecchia classe politica. Ma com'è potuto accadere questo, in un paese che ha appena assistito al martirio di Falcone e Borsellino, immolati sull'altare della legalità? Nel piano criminale di quella stagione non c'è una progressione predeterminata, almeno da parte di Cosa nostra. C'è, al contrario, la capacità di adattarsi, momento dopo momento, agli eventi. E per rispondere compiutamente alla vostra domanda bisogna mettere a fuoco il ruolo di Marcello Dell'Utri. La trovata più importante è quella di Dell'Utri. L'uomo che per anni è stato il portatore degli interessi finanziari della mafia nel Nord Italia diventa anche il portatore degli interessi politici di Cosa nostra: è lui l'artefice principale dell'idea e della creazione del nuovo soggetto politico, Forza Italia. Come si è sufficientemente accertato (e questa è stata l'impostazione della Procura di Palermo nella requisitoria del processo Dell'Utri), Forza Italia è un partito nato anche da un'ispirazione di favore rispetto agli interessi di Cosa nostra. Da quel momento cambia tutto. È la nascita della Seconda Repubblica, nella quale l'elemento principale del ventennio berlusconiano è la scomparsa della politica. Ma tutto inizia nell'87. | << | < | > | >> |Pagina 34Anche Cosa nostra intanto si muove, in sinergia con lo Stato, per eliminare tutti gli ostacoli alla trattativa...
Sì, difatti alcuni ostacoli vengono rimossi con la violenza.
Uno è Paolo Borsellino. Nell'ordinanza del gip nisseno si
evidenzia come pista privilegiata il fatto che Borsellino sia
stato assassinato il 19 luglio 1992 perché ritenuto d'intralcio
alla trattativa. E poi, sul fronte criminale, c'è l'ultimo ostacolo,
rappresentato da Totò Riina. Il superboss, contattato
tramite Vito Ciancimino, pone condizioni troppo dure per
cessare le stragi e vuole innalzare il livello dello scontro. È
forse anche per questo che il 15 gennaio 1993 viene arrestato? Non ritengo
abbastanza convincente la versione di
Massimo Ciancimino che ha attribuito al padre una parte
da protagonista in questo arresto. Ma altri elementi emersi,
come ad esempio il ruolo mai messo a fuoco del maresciallo
del Ros Antonino Lombardo, sono comunque indicativi
di «soffiate» provenienti dall'interno di Cosa nostra. Le
dichiarazioni del collaboratore Nino Giuffrè aiutano nella
lettura del fatto che, dopo l'arresto di Riina, la posizione
di Cosa nostra e dell'ala di Provenzano è di apertura verso
la trattativa. Da quel momento in poi lo stragismo del '93
è portato avanti solo dall'ala oltranzista del boss Leoluca
Bagarella e dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, eredi
della linea sanguinaria di Riina.
Cosa succede poi?
Alla fine del 1993 Provenzano butta a mare il progetto Sicilia
libera (sponsorizzato dai boss Cannella, Bagarella, Brusca
e dai Graviano) e stringe un patto di ferro con Dell'Utri
per sostenere Forza Italia alle imminenti elezioni anticipate
(27-28 marzo 1994), in vista delle «cose buone per noi» che,
secondo Nino Giuffrè, avrebbe promesso il braccio destro
del Cavaliere. Il pentito Stefano Lo Verso riferisce che Provenzano gli confidò
che Dell'Utri si era messo in contatto
con i suoi uomini e aveva di fatto sostituito l'onorevole
Salvo Lima nei rapporti con la mafia. «Per questo – avrebbe
aggiunto Provenzano – nel 1994, a seguito degli accordi
raggiunti con lui, ho fatto votare Forza Italia.» Lo Verso
temeva di essere scoperto, quando ospitava Provenzano
in casa sua, ma Binnu lo rassicurò: «Stai tranquillo, sono
protetto dai politici e dalle autorità. In passato sono stato
protetto da un potente dell'Arma. Non ti preoccupare, a
me non mi cerca nessuno. Meglio uno sbirro amico che
un amico sbirro». Il resto è noto. All'inizio del '94 fallisce
l'attentato all'Olimpico e vengono arrestati i Graviano. E
si salda il patto politico-mafioso. Dell'Utri realizza questo
accordo nel quale, di fatto, in qualche modo, coinvolge Berlusconi. Berlusconi
vince le elezioni e, convinto (o costretto)
dall'amico Marcello, chiude la trattativa nel '94.
Per tutta la durata della trattativa, in un passaggio istituzionale che capovolge gli assetti del paese traghettandolo dalla Prima alla Seconda Repubblica, che fine ha fatto il sistema criminale della P2, delle frange eversive e della finanza di destra? Dalla vostra ricostruzione emerge solo il piano terroristico di un gruppo di boss corleonesi e il coinvolgimento di un pugno di politici terrorizzati. Nella trattativa i mafiosi riescono da soli a mettere sotto scacco lo Stato? Sono così forti?
Il sistema criminale fa capolino con il ruolo di Gelli nel
siluramento di Martelli, in un momento decisivo della
trattativa. Siamo consapevoli del fatto che sono rimaste
alcune zone d'ombra sui possibili coinvolgimenti di altri
ambienti e personaggi nelle stragi del biennio '92-93 e, di
conseguenza, nella trattativa. La strategia della tensione
che prepara la nascita della Seconda Repubblica segue un
copione scritto da altre menti raffinatissime? E se queste ci
sono state, perché sono coinvolte? C'è dell'altro, sicuramente.
Non siamo riusciti a scoprire tutto. Ma abbiamo la pretesa di
dire che siamo riusciti a ricostruire la trama della trattativa,
illuminando per la prima volta sotto i riflettori della nostra
indagine alcuni personaggi delle istituzioni della Prima e della
Seconda Repubblica che l'hanno portata avanti e difesa da
tutti i possibili ostacoli. Oltre ai mafiosi (Riina, Provenzano,
il medico Antonino Cinà, i boss Brusca e Bagarella), almeno sette uomini dello
Stato devono rispondere di condotte
illegali nell'ambito della trattativa. Tre sono gli uomini degli
apparati che avrebbero fatto da anelli di collegamento: Mori,
De Donno e il loro superiore Subranni. Due sarebbero
gli uomini-cerniera con la politica: Mannino fino al '93 e
poi Dell'Utri nel '94. Due sarebbero, infine, gli uomini di
governo, accusati di reticenza: Conso e Mancino.
Uomini della mafia e uomini dello Stato coinvolti nella stessa indagine sul patto scellerato tra Cosa nostra e istituzioni. Ricapitoliamo le accuse della Procura di Palermo, così come sono formulate nella richiesta di rinvio a giudizio?
La nostra richiesta di rinvio a giudizio è rivolta a dodici
protagonisti della trattativa. Per i boss Riina, Provenzano,
Brusca, Bagarella e il «postino» del papello Antonino Cinà,
così come per Subranni, Mori, De Donno, Mannino e
Dell'Utri, tutti accusati di aver concorso alla realizzazione della trattativa,
abbiamo chiesto il rinvio a giudizio
per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Poi
c'è il testimone Massimo Ciancimino: per lui abbiamo
chiesto l'imputazione per concorso esterno in associazione mafiosa. Per Mancino
abbiamo chiesto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Conso, con
Adalberto Capriotti e l'ex Dc Giuseppe Gargani, è tuttora indagato
per false dichiarazioni al pm. Nel nostro atto d'accusa,
infine, abbiamo voluto sottolineare che gli uomini delle
istituzioni «hanno agito in concorso con l'allora capo
della polizia Parisi e il vicedirettore del Dap Di Maggio,
deceduti». Si tratta di persone che hanno avuto un ruolo
importante nella trattativa, contribuendo ad ammorbidire
la linea dello Stato contro la mafia, cedendo su centinaia di 41 bis.
La reticenza è forse l'atteggiamento che, a distanza di vent'anni da quei fatti, fa più male. La classe politica italiana ha sempre taciuto sugli accadimenti di quel passaggio istituzionale. E recentemente, quando i protagonisti di quella stagione si sono presentati negli uffici giudiziari per rispondere alle domande sulla trattativa, è stato un festival di omissioni, bugie, silenzi, persino sorrisi ammiccanti e mezze verità pescate da una memoria smaccatamente «a orologeria»: paura, complicità o che altro? Che idea si è fatta di quest'atteggiamento? Il dato importante, sul quale in questi vent'anni non abbiamo mai adeguatamente riflettuto, non può che suscitare amarezza sconsolata, ma nel contempo va analizzato con realismo: la chiave di lettura della rivolta collettiva nella quale miracolosamente si ritrovarono unite tutte le istituzioni, la politica a fianco della magistratura, non fu né la morte di Falcone né la morte di Borsellino, ma l'omicidio di Salvo Lima. Il vero cataclisma per la classe politica è stato l'omicidio Lima. Le minacce di golpe infatti arrivano dopo l'omicidio Lima, non dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio. Questo ci fa capire molto dello spirito della politica antimafia in Italia e direi persino dell'essenza del potere mafioso. | << | < | > | >> |Pagina 63LA NASCITA DI FORZA ITALIASe è Dell'Utri quello che convince Berlusconi a lanciarsi nell'agone politico, contro il parere di Gianni Letta e Fedele Confalonieri, da cosa gli deriva il potere di convincimento sul Cavaliere?
La cosa più plausibile è che Dell'Utri avesse degli argomenti
molto forti per convincere Berlusconi e che quegli argomenti fossero talmente
importanti da riuscire a superare le perplessità di uomini che di politica ne
capivano più di lui, cioè Letta e Confalonieri.
Solo ipotesi? O ci sono nuovi testimoni?
Ce lo ha rivelato un protagonista di quella stagione: Ezio
Cartotto, l'esperto ingaggiato per studiare il primo piano
di fattibilità del nuovo partito Forza Italia, la cosiddetta
«Operazione Botticelli». Cartotto non ha ragione di dire cose
non vere; recentemente ha meglio circostanziato i suoi primi
approcci con Dell'Utri, datandoli al periodo immediatamente
successivo all'omicidio Lima. Ha collocato il primo incontro
con Dell'Utri in un periodo precedente alla strage Falcone.
Cartotto ha rivelato che Dell'Utri, nell'affidargli lo studio di
fattibilità, gli sottolineò come l'esigenza di un nuovo partito
sorgeva a causa dello sconvolgimento del quadro politico
determinato da quell'omicidio. Il teste ha anche detto che,
in quell'occasione, Dell'Utri gli spiegò la sua chiave di lettura
dell'omicidio Lima, secondo lui assassinato perché ritenuto
inaffidabile, e gli evidenziò la necessità di intercettare alcuni
voti in libertà in Sicilia con un nuovo soggetto politico,
dopo avergli raccomandato di non far parola del progetto
con Letta e Confalonieri, che avrebbero vissuto male questa
invasione di campo da parte sua. Per Cartotto, l'idea del
nuovo partito è un'iniziativa di Dell'Utri, di cui Berlusconi
all'inizio non è neppure informato.
Chi è che manda avanti Dell'Utri? Secondo la Procura di Palermo è un emissario di Cosa nostra? Della finanza cattolica dell'Opus Dei? È un agente del gruppo gelliano? O è l'uomo-cerniera che sintetizza le esigenze dei due sistemi criminali in gioco?
Bisogna chiedersi: quest'idea di Forza Italia e l'iniziativa di
avviare uno studio di fattibilità vengono da un improvviso
desiderio di protagonismo di Dell'Utri? Oppure sono più
verosimilmente collegate al ruolo, poi processualmente
dimostrato, che Dell'Utri ha all'interno di Cosa nostra?
Chi è che in quella fase manda avanti Dell'Utri, visto che
all'inizio non è Berlusconi? È Cosa nostra, alla ricerca di
nuovi referenti? Oppure a mandarlo avanti è quel mondo
«altro», quello della massoneria? Da dove viene Dell'Utri?
Dall'Opus Dei. Lo ha raccontato lui stesso... Il medico mafioso, poi pentito, Gioacchino Pennino definisce Dell'Utri padre e figlio «parrinari», cioè persone molto vicine ai preti....
Questo è un dato di fatto. Certo è comunque che da lui
sarebbe partito l'input del nuovo soggetto politico. Non è
secondario. Se teniamo conto che tutto nasce da lì, mi pare
che l'input di Dell'Utri sia un'iniziativa non neutra, ed è
singolare che nasca quasi contestualmente all'omicidio di
Lima. Dell'Utri sta a cavallo tra il mondo della mafia e,
potrei dire, il mondo della massoneria, ma è un mondo così
sotterraneo, mimetizzato, che è difficile individuarne bene
i confini. Dell'Utri ha mai avuto a che fare con la massoneria? Non lo so.
Berlusconi si sa da dove proviene... Ma
anche l'inizio dei rapporti tra Dell'Utri e Berlusconi non
è che sia stato mai messo veramente in chiaro... L'arrivo di
Dell'Utri a Milano, alle dipendenze di Berlusconi, non è
stato oggetto di approfondimenti.
Secondo Dell'Utri, Berlusconi gli venne presentato, nel 1961, da Bruno Padula, allora direttore della residenza universitaria «Segesta» dell'Opus Dei, in via Gaetano Daita, a Palermo, e oggi vicario dell'Opera in Sicilia. L'origine del rapporto, dunque, sembra prescindere da Cosa nostra. Ma se il senatore condannato per mafia, anche se non in via definitiva, entra in scena come l'ideatore del nuovo partito politico favorevole agli interessi di Cosa nostra, come spiega l'attivismo di Bagarella, che nell'autunno del '93, dopo l'arresto del cognato Riina, prende in mano le redini corleonesi e organizza Sicilia libera coltivando ambizioni separatiste? Questo dilemma l'abbiamo già affrontato e risolto nell'ambito del procedimento Dell'Utri. Dentro Cosa nostra, dopo l'omicidio Lima, non c'erano ancora idee chiare e definitive su quale strada intraprendere. E cioè se intraprendere la strada più dichiaratamente «golpista», che passava attraverso un progetto separatista, o se era meglio scegliere una riproposizione in formula aggiornata del modello già utilizzato nella Prima Repubblica: ovvero avere uomini e partiti di riferimento, nel quadro istituzionale repubblicano, purché fossero più immediatamente legati a Cosa nostra. Gli oltranzisti, come Brusca e Bagarella, fedelissimi di Totò Riina e fautori del partito stragista, seguivano il progetto golpista. Ma il partito della trattativa, guidato da Provenzano (che secondo le dichiarazioni di molti collaboratori aveva tra i suoi anelli di collegamento con la politica proprio Dell'Utri), preferiva la seconda strada. Pian piano, il progetto golpista fini per perdere consistenza, sia perché i seguaci di Riina si assottigliarono numericamente a causa degli arresti, sia perché Provenzano andò abilmente avanti con la tessitura di questa nuova alleanza. Nella mia requisitoria, sostenni che all'interno di Cosa nostra vennero indette consultazioni simili alle «primarie», su questi due progetti. Alla fine tutta Cosa nostra si convertì al progetto Provenzano-Dell'Utri, compresi uomini come i boss Graviano che inizialmente avevano appoggiato Bagarella e il progetto di Sicilia libera. | << | < | > | >> |Pagina 76IL PATTO DI BERLUSCONI CON LA MAFIASul fronte dell'«odore dei soldi», insomma, nonostante un lungo lavoro di indagine, fino a oggi la Procura di Palermo non ha trovato riscontri all'ipotesi di riciclaggio dei capitali mafiosi nell'impero Fininvest. Eppure ora si apre un nuovo scenario investigativo: Berlusconi, pur non essendo formalmente indagato, è coinvolto nell'inchiesta sulla trattativa mafia-Stato perché la Procura di Palermo ipotizza che nel 1994, da presidente del Consiglio, avrebbe accettato un vero e proprio patto di convivenza con Cosa nostra, garantendo ai boss un atteggiamento di massima tolleranza. Sappiamo che nelle riunioni della Dda si è a lungo discusso sulla possibilità di iscrivere Berlusconi nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa. La decisione di non esercitare l'azione penale non inficia comunque la ricostruzione giudiziaria secondo cui, sullo sfondo della «copertura» politica offerta ai mafiosi (attraverso la mediazione di Dell'Utri), c'è il sospetto di un rapporto «storico» tra Berlusconi e Cosa nostra. Cos'è accaduto esattamente nel '94?
La nostra ipotesi è che Berlusconi, nel suo ruolo di presidente
del Consiglio, nel '94 accetta la proposta che gli fa Dell'Utri
per chiudere la trattativa, accetta cioè le richieste del boss
Bernardo Provenzano e sigla un patto di «non belligeranza»
con Cosa nostra. È la terza parte della trattativa, iniziata nel '92 con il
generale Mori, poi avallata nel '93 dai massimi
esponenti istituzionali come Scalfaro, Mancino e Conso,
e nel '94 infine consacrata con la decisione di Berlusconi
che acconsente a offrire la sua copertura politica: niente
più guerra a Cosa nostra. Da questo momento in poi,
l'organizzazione criminale non può che ricavare numerosi
vantaggi dalla mitezza dello Stato nell'azione di contrasto
alla mafia. Il riscontro di questo accordo è contenuto nella
legislazione nazionale che da quel momento appare coerentemente orientata a
favorire costantemente gli interessi mafiosi. La trattativa, come patto di
massima, si chiude nel '94. Quello siglato da Berlusconi è un patto di tregua,
di non belligeranza, non si sviluppa come il «papello» di
Totò Riina con dei punti specifici. È una dichiarazione di
disponibilità da parte dello Stato ad accogliere vie d'uscita
pacifiche per risolvere la questione mafia. Ci sono molte
trattative incompiute da allora. Il mancato arresto nel '95 di
Provenzano è una delle cambiali di questo patto. Noi, con
la nostra ricostruzione, arriviamo fino al '96. Ma la nostra è
un'indagine ancora aperta, che si arricchisce continuamente di elementi.
Non solo Rapisarda e Di Carlo, ma anche i collaboratori Pennino e Tullio Cannella parlano di un reinvestimento di denaro sporco da parte di Dell'Utri, nel periodo che va dal 1975 in poi (con riferimento, in astratto, sia al gruppo Berlusconi sia a quello facente capo allo stesso Rapisarda). Ma la prima sentenza d'appello su Dell'Utri, affrontando il capitolo delle holding di Berlusconi e analizzando le dichiarazioni dei quattro pentiti (Rapisarda, Di Carlo, Pennino e Cannella), ha concluso che dal '75 in poi non risultano acquisiti «riscontri specifici» sul riciclaggio. Dopo l'annullamento della Cassazione, la Procura di Palermo riaprirà le indagini sulle holding berlusconiane, analizzando nuovamente il capitolo di un Dell'Utri possibile riciclatore per conto di Cosa nostra nelle società berlusconiane?
Non c'è prova che Dell'Utri abbia riciclato soldi per conto
di Cosa nostra. Ma risulta dal processo Dell'Utri che Berlusconi fu a lungo
incerto se scendere in politica o meno,
e che, a fronte delle indicazioni contrarie alla sua discesa
in campo da parte dei suoi consiglieri più autorevoli, il
Cavaliere scelse la strada che gli indicò Dell'Utri. Siccome
Dell'Utri non era a quel tempo né un politico né uno che
si era occupato di politica, ne risulta – secondo il nostro
ragionamento – che non fu per valutazioni squisitamente politiche che si
determinò il risultato della «discesa in campo» di Berlusconi, ma per il ruolo
che Dell'Utri aveva all'interno di Cosa nostra. Evidentemente Dell'Utri ha
mantenuto negli anni argomenti persuasivi nei confronti di
Berlusconi. Quali siano stati, non si è mai definitivamente
accertato nella logica giudiziaria. Né Berlusconi, rifiutandosi
di rispondere alle nostre domande, lo ha voluto chiarire.
Berlusconi era a conoscenza, sin dall'inizio, dell'idea di costituire il nuovo partito?
No; anzi, dalla testimonianza di Ezio Cartotto risulta proprio
il contrario. Quindi è escluso che Dell'Utri all'inizio agisse
su mandato di Berlusconi. Ora, la domanda è: considerato
che non era un politico e che non aveva mai fatto politica
prima di allora, Dell'Utri per conto di chi agiva, se non su
mandato di Cosa nostra? La nostra ipotesi è che Dell'Utri
stava costruendo i presupposti affinché nascesse questo
nuovo partito, come nuovo punto di riferimento per Cosa
nostra, per il quale poi convinse Berlusconi a scendere in
campo. La tesi della procura, confermata dai giudici di primo
grado, non confermata dalla sentenza d'appello recentemente
annullata, è che quest'accordo (Forza Italia come punto di
riferimento di Cosa nostra, così come emerge dalle dichiarazioni dei
collaboratori Brusca, Giuffrè e Spatuzza) viene di fatto stipulato, e non può
essere stipulato all'insaputa di Berlusconi.
Dalla vostra indagine sono emerse le dinamiche del presunto patto di non belligeranza del '94 tra Berlusconi e Cosa nostra? Risultano incontri diretti?
Il primo passaggio di questa trattativa è costituito dai viaggi
di Vittorio Mangano a Milano, fra il '93 e il '94. Di questo,
Brusca ha parlato diffusamente nel processo Mori-Obinu
e nel processo Tagliavia, riferendo in aula il contenuto di
tali incontri. Sappiamo per certo che Mangano si reca a
Milano per incontrarsi con Dell'Utri e portare a Berlusconi
un messaggio da parte di Cosa nostra, col quale l'organizzazione mafiosa chiede
protezione minacciando altrimenti di proseguire con il disegno stragista.
Deponendo a Firenze nel processo sulle stragi del '93, Brusca dice: «Mandai Mangano a Milano ad avvertire Dell'Utri e, attraverso lui, Berlusconi che si apprestava a diventare premier, che senza revisione del maxiprocesso e del 41 bis le stragi sarebbero continuate». Brusca conclude così: «Mangano tornò dicendo che aveva parlato con Dell'Utri, che si era messo a disposizione», Questo è il primo momento?
Prima ancora, tra il '90 e il '91, ci sono gli incontri
avvenuti a Catania subito dopo gli attentati alla Standa.
Dell'Utri si reca in Sicilia e cerca di capire quali sono le
richieste di Cosa nostra per far cessare i «botti». Anche in
questo caso la trattativa non è di contenuto economico,
non si tratta di discutere una ricontrattazione del «pizzo»
che la Fininvest deve versare sul territorio siciliano, ma
si parla di politica e di un maggiore impegno che Berlusconi avrebbe dovuto
assumere nei confronti di Cosa nostra siciliana.
Ma perché Berlusconi avrebbe dovuto accettare la stipula di un patto simile? Perché Dell'Utri ha un fortissimo ascendente su di lui. Un ascendente che nasce proprio dal fatto che Dell'Utri è l'uomo di Cosa nostra. | << | < | > | >> |Pagina 94Riaffiora ancora una volta il ruolo passivo della sinistra nella lotta a Cosa nostra. Inviando Mangano a incontrare Dell'Utri a Milano, Brusca fa arrivare a Berlusconi un messaggio chiaro: la sinistra (con Mancino) «sapeva» della trattativa. Quando Brusca sostiene che la sinistra «sapeva», che cosa intende dire?
Brusca, in questo caso, si riferisce alla trattativa. Il coinvolgimento di
pezzi della sinistra nella trattativa è uno dei
messaggi che Mangano porta come «omaggio» a Berlusconi,
a Milano, offrendogli un argomento di battaglie politiche
che il centrodestra poteva utilizzare contro il centrosinistra.
La sinistra sapeva della trattativa, vuol dire che sapeva chi
stava trattando per far cessare le stragi. Ma quando Brusca
parla di «sinistra» si riferisce a Mancino, perché Totò Riina
gli aveva detto che Mancino era il «committente finale» del
papello, ovvero il garante della trattativa.
Ma, a quanto risulta, Berlusconi non utilizzò mai l'informazione di Mangano contro il centrosinistra. Cosa voleva dire, secondo lei, Luciano Violante nel 2003 nel suo clamoroso intervento in parlamento, quello che Marco Travaglio definisce ironicamente l'«outing» della sinistra? Ecco le testuali parole di Violante pronunciate in aula: «L'onorevole Berlusconi sa per certo che gli è stata data piena garanzia - non adesso, ma nel 1994 — che non sarebbero state toccate le televisioni, quando ci fu il cambio di governo. Lo sa lui e lo sa l'onorevole Letta». Violante continua: «Ci avete accusato di regime. Nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato il fatturato di Mediaset, che sotto il centrosinistra è aumentato di 25 volte...». Si fa aperto riferimento a un accordo politico, che risale appunto al '94, col quale sostanzialmente la sinistra si impegna a non frapporre ostacoli tra Berlusconi e il suo progetto di regime, nonostante le evidenti anomalie legate al conflitto di interessi. Ma perché questo patto, secondo lei? Cosa potrebbe averne guadagnato la sinistra di Violante?
Se ci sia stato un patto in senso stretto non lo so. Quello
che posso dire è che, come minimo, c'è stato un calcolo
politico. Credo che un bilancio di quel ventennio dimostri
oggi che quel calcolo politico fu sbagliato e che ne abbiamo pagato tutti le
conseguenze, magistratura e cittadini compresi.
Lei ha appena detto che la vostra indagine sulla trattativa abbraccia un periodo che dal '92 arriva fino al '96. In quegli anni, in tema di contrasto alla criminalità organizzata, Ulivo e Polo della libertà manifestano una perfetta corrispondenza «d'amorosi sensi» in direzione garantista. Il 23 dicembre 1996, insediato da poco il governo Prodi, il centrosinistra e il centrodestra decidono in parlamento la chiusura delle carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell'Asinara, a far data dal 31 ottobre 1997. È il primo segnale della distensione bipartisan che attraversa il paese: la questione mafia sparisce dall'agenda politica di Romano Prodi, dai giornali, dal dibattito pubblico in Italia. Il 7 aprile 2000, con un decreto-legge, il governo di Massimo D'Alema, (ministro della Giustizia Oliviero Diliberto) allarga la sfera di applicazione del giudizio abbreviato, modificando il regime della custodia cautelare. Di fatto, il decreto abolisce l'ergastolo. A gennaio del 2000, nell'ultimo scorcio della legislatura guidata dal centrosinistra, il procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna incontra in carcere il boss Pietro Aglieri, provenzaniano di ferro, ritenuto il massimo teorico della dissociazione. Lei può escludere che la sinistra abbia avuto un ruolo in questo patto di non belligeranza?
Noi non abbiamo evidenze in tal senso. Ma qui io ragiono da
magistrato e non da politico. In un ipotetico ragionamento
politico risaltano alcune singolarità e alcune convergenze.
I fatti che si potrebbero evidenziare in sede politica sono:
la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, alla
fine del '97, sotto il governo Prodi, con Giuseppe Ayala
sottosegretario alla Giustizia; e la legge sui collaboratori di
giustizia nel 2000/2001. Anche con i governi di sinistra
viene consacrato un clima di minore vigilanza. Qual è la
ragione? Possiamo solo riflettere: si potrebbe trattare di una
scelta politica, cinica, della sinistra, che passa anche attraverso il
ridimensionamento, a qualsiasi costo, del ruolo della
magistratura, considerata troppo ingombrante. Oppure c'è
un'ipotesi peggiore: e cioè quella che prevede una sorta di
coinvolgimento dello schieramento di sinistra nel patto di
convivenza con la mafia. Che può essere un patto di convivenza tacito,
implicito, nella linea «storica» della politica
italiana, secondo cui è meglio convivere con la mafia, quando
la mafia sceglie il profilo basso; un patto quindi che non
prevede effettiva complicità. Ma, in alternativa, potrebbe
anche essere un patto di convivenza effettivo, che si basa su
una consapevolezza dell'accordo. Questa seconda ipotesi,
però, la considero meno probabile.
La timidezza antimafia del Pd è stata per lei una delusione? Be', il '96 è stato l'anno del primo governo di centrosinistra... Il governo Prodi si insediò con grandi promesse, aspettative e speranze sul fronte della lotta alla mafia, e poi invece arrivarono i segnali in controtendenza: la chiusura dell'operazione «Vespri siciliani», la chiusura di Pianosa e dell'Asinara. Ci si aspettava il salto di qualità nell'azione antimafia, e quel salto non vi fu. Si parlò di bei progetti, come il testo unico dell'antimafia, ma anche questo non partì. Si avvertì una certa timidezza sul tema dei rapporti mafia-politica, la richiesta alla magistratura di fare un passo indietro. Ricordo che vi fu delusione e amarezza, perché questo atteggiamento veniva da una forza politica che aveva messo la lotta alla mafia tra i primi punti del suo programma, quando era all'opposizione; poi, una volta arrivata nella stanza dei bottoni, se ne dimenticò. | << | < | > | >> |Pagina 131L'hanno indicata come il persecutore di Berlusconi, il pm che si ostina a inseguire favolette mediatiche come la trattativa mafia-Stato, il pm populista che arringa da un palco centinaia di migliaia di persone, parlando della «controriforma della giustizia» progettata dal governo Berlusconi. L'accusano di essere affetto da «libido da convegno» e di «usare il suo delicatissimo potere d'indagine e di accusa, mescolandolo con un attivismo politico fazioso, in forma incompatibile con la Costituzione e la legge della repubblica». Nella maggioranza raccolta intorno a Berlusconi, i suoi detrattori sono numerosi e si muovono compatti come un autentico plotone. Oggi lei è una specie di «simbolo-bersaglio» di un controllo di legalità che va oltre le vicende di corruzione e tangenti che hanno segnato il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Oggi per il centrodestra il nemico pubblico numero uno è sempre Antonio Ingroia, allievo di Paolo Borsellino, titolare delle inchieste più scottanti sui segreti di questo paese: non solo sulle trattative del '92-94, ma anche sul presidente del Senato Renato Schifani. Ha paura?
Paura fisica, francamente, no. Occupandomi da tanti anni
di antimafia, e avendo subito le prime minacce vent'anni
fa, ho fatto il callo ai rischi professionali. Ci sono stati e ci
sono, ovviamente, momenti di maggiore tensione, per me
e per gli uomini della mia scorta. È successo nei periodi in
cui sono arrivate le minacce, o sono state acquisite notizie
di veri o presunti progetti di attentato che mi riguardavano.
Ma se si ha paura si deve cambiare mestiere o, quantomeno,
territorio nel quale operare.
Un giovane nato nell'anno delle stragi Falcone e Borsellino potrebbe pensare che l'Italia sia stata sempre questa. Cosa direbbe a un ventenne di oggi per spiegare che l'Italia non è sempre stata berlusconiana?
Ai giovani, oggi, vorrei ricordare che la storia di questo
ventennio ha avuto inizio con alcuni eventi fondativi, tra
cui le stragi, mirate ad assassinare uomini che rappresentavano un modello di
cittadino diverso, e un'Italia diversa da
quella nella quale loro sono cresciuti. È come se in quelle
stragi fosse stata uccisa la possibilità di un'Italia diversa.
Da quelle stragi è nata la trattativa che ha condizionato
pesantemente l'ultimo ventennio, poiché ha costruito la
Seconda Repubblica su un patto criminale. Vorrei dire ai
giovani che è fondamentale recuperare la memoria della
storia italiana, al di là di questo ventennio. Vorrei dire loro
che devono assolutamente provare a ricominciare dal patrimonio, andato in parte
disperso in quel '92, con lo stragismo.
Il compito dei giovani, oggi, è quello di recuperare questo
tesoro smarrito, con il nostro aiuto, per costruire un futuro
di legalità. L'Italia migliore è lì, in quel pezzo di storia che le
stragi hanno tentato di cancellare. Da lì, da quel patrimonio
etico e morale, bisogna ricominciare.
Dalla nostra lunga conversazione è venuto fuori il ritratto di un'Italia cupa, tetra, e di una Seconda Repubblica fondata sul sangue delle stragi e su un patto di non belligeranza con Cosa nostra siglato da Berlusconi in persona, al suo primo incarico da presidente del Consiglio. Siamo cittadini di un paese dove il presidente del Senato, Schifani, è attualmente indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Un paese dove Dell'Utri, braccio destro del premier e ideologo di Forza Italia, è stato condannato in primo grado ed è imputato nel secondo processo d'appello per mafia. Il paese dove Berlusconi, presidente del Consiglio al potere per quasi vent'anni, è stato indagato con Dell'Utri – e poi prosciolto – come mandante occulto delle stragi. È un quadro agghiacciante. È verosimile parlare di una compiuta mafiosizzazione delle istituzioni?
È vero. È un quadro cupo quello emerso dalla ricostruzione
dell'ultimo ventennio. Mi dispiace un po' di aver tracciato
il ritratto impietoso di un Italia così ridotta, di una Seconda
Repubblica edificata sul sangue dei miei maestri, Falcone
e Borsellino, e fondata su un ignobile patto tra mafia e
Stato. Ma quello che io ho visto, attraverso le mie indagini,
e quello che io oggi ritengo di sapere, per le riflessioni che
ho maturato da cittadino di questa Italia, è che l'ultimo
ventennio è stato un periodo che ha infettato il paese e la
società italiana. Del resto, che si sia verificato un processo
degenerativo all'interno delle istituzioni non lo dice un
fanatico giustizialista o un pubblico ministero «politicizzato», ma un pacato e
colto letterato come Pietro Citati che,
tempo fa, in un suo lucidissimo articolo, descrisse proprio
il processo di mafiosizzazione del paese realizzatosi negli
ultimi anni. Noi, questo processo di mafiosizzazione, lo
vediamo ogni giorno: è quello che ha permesso agli interessi
privati di invadere le istituzioni, spazzando via la politica
nel senso più nobile del termine, e agli interessi squisitamente criminali di
entrare in politica. Mi sento, come tutti
gli italiani, un po' figlio della trattativa tra Stato e mafia
perché quel che noi abbiamo intorno, probabilmente, è in
qualche modo il frutto perverso di quella trattativa. Ma se
così è, oggi abbiamo il diritto di sapere fino in fondo chi
sono stati i nostri padri, cioè i padri di quella trattativa.
Dobbiamo insistere per conoscere fino in fondo il nostro
passato, anche se questa conoscenza ci ferisce, ci fa male.
Soltanto in questo modo possiamo fare i conti con il nostro
presente e il nostro futuro. La Carta costituzionale costituisce
oggi l'unica bussola della parte migliore del nostro paese. La
nostra unica ancora di salvezza. Se non vogliamo perdere
la nostra battaglia per la tutela della democrazia italiana,
dobbiamo difenderla fino in fondo.
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