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| << | < | > | >> |Indice7 TULLIA IORI, SERGIO PORETTI Il linguaggio delle strutture 24 Fotogenia della struttura. In posa con il ponte a cura di ILARIA GIANNETTI Indagini 52 ILARIA PALAZZI Proiezioni di strutture. Luigi Cremona e la statica grafica nelle scuole d'ingegneria italiane 68 ELIANA ALESSANDRELLI Distorsioni sistematiche. I ponti "truccati" di Eugenio Miozzi 82 ILARIA GIANNETTI Cemento "armato". Strutture per la conquista dell'Impero 98 GIANLUCA CAPURSO, FRANCESCA MARTIRE "Buongiorno, signori. Io sono un elaboratore ELEA 9000". Calcolo automatico e progettazione strutturale 111 TULLIA TORI, SERGIO PORETTI Fotoromanzo SIXXI 3. La sperimentazione autarchica 4. La Ricostruzione 153 ENGLISH TEXTS |
| << | < | > | >> |Pagina 7IL LINGUAGGIO DELLE STRUTTURE
TULLIA TORI, SERGIO PORETTI
Negli anni del miracolo economico l'ingegneria italiana si manifesta nel mondo come una vera e propria Scuola, prolifica fucina di nuove architetture strutturali. È il momento culminante di una lunga vicenda, di cui abbiamo tracciato più volte il profilo. Ne ricapitoliamo le principali fasi, prima di procedere alla lettura di alcune opere. Dopo che nell'Ottocento le strutture metalliche erano state in gran parte importate, all'inizio del nuovo secolo, con l'avvento del cemento armato, l'ingegneria italiana aveva cominciato ad acquisire autonomia, soprattutto attraverso il pionieristico lavoro sul ponte ad arco condotto insieme da scienziati e costruttori. Tale autonomia si era consolidata durante l'autarchia, quando si erano delineati i due modelli sperimentali che avrebbero rilanciato le strutture in cemento armato nel dopoguerra — quello basato sulla resistenza per forma, che portava alle volte sottili, e quello basato sulle coazioni, che portava alla precompressione. Proseguendo sulla base degli stessi modelli, alla fine del conflitto l'ingegneria italiana poteva partecipare da protagonista alla grande ricostruzione delle reti stradali e ferroviarie. Era questa la fase in cui l'ingegneria italiana, uscita dalla sperimentazione, assumeva una dimensione collettiva. E dava vita ad una Scuola. Non solo in senso accademico: a condurre sul campo la ricostruzione delle migliaia di ponti distrutti (in quel grande laboratorio a cielo aperto che favoriva sia la rinascita dell'arco sia il decollo della travata in precompresso) era adesso il progettista strutturale (figura professionale rara, che invece nel frangente si era largamente diffusa). Con questo assetto, sullo slancio, nell'eccezionale fermento operativo del boom economico, l'ingegneria italiana riusciva finalmente ad esprimere propri linguaggi architettonici: linguaggi nuovi, originali, compiuti. Nelle cupole minutamente ondulate di Pier Luigi Nervi o nel ponte strallato omogeneizzato di Riccardo Morandi, tutto il mondo riconosceva l'avvento di una nuova architettura strutturale. E non era che la punta dell'iceberg. Lo scenario di questi anni, come emerge nella ricostruzione storica, era assai più ricco. Nelle tante opere del miracolo economico - dall'Autostrada del Sole, ai palasport delle olimpiadi romane, alle strutture per Italia '61, agli aeroporti internazionali, ai grattacieli - prendeva corpo una vasta gamma di linguaggi strutturali: anche molto diversi, ma comunque tutti riconducibili nell'ambito di una tendenza unitaria. All'eccezionale exploit seguiva la fulminea estinzione della Scuola. Che però continuava ad esprimere ancora per qualche anno opere di straordinaria efficacia: oltre ai lavori all'estero (di Nervi e di Morandi soprattutto), alcuni esperimenti italiani, come il viadotto "trafilato" di Silvano Zorzi, per esempio, o il ponte dalla "forma senza nome" di Sergio Musmeci. "Capolavori postumi" che, se non riuscivano a rilanciare la Scuola, comunque, rispecchiandone la crisi, tornano molto utili oggi per svelarcene qualche segreto risvolto. Quali sono, dunque, i tratti che determinano l'originalità delle architetture strutturali italiane? Quali i caratteri per cui la Scuola si staglia con una fisionomia ben distinta nel panorama internazionale? Come avviene (caso rarissimo) che le opere dell'ingegneria rendano una testimonianza storica pregnante di un periodo cruciale della storia del Paese? Con queste curiosità, proviamo a rileggere alcuni dei principali linguaggi strutturali della Scuola italiana. | << | < | > | >> |Pagina 9L'arteficeCominciamo da Nervi, naturalmente. E torniamo ancora una volta ad osservare il Palazzetto dello sport. Opera famosissima. Da fuori ci appare una calotta sferica molto ribassata, sostenuta da un giro di cavalletti radiali, inclinati secondo la tangente alla sfera. Una volta all'interno, la fitta trama delle nervature incrociate che anima la superficie della cupola ci consente letteralmente di vedere il flusso delle tensioni. Possiamo seguirne l'andamento: partendo dall'alto, la tessitura più densa e minuta attorno all'oculo man mano si dirada, finché, attraverso i ventagli, le forze vengono convogliate senza interruzioni sulle braccia divaricate dei cavalletti e da questi finalmente a terra. (Accuratamente nascosto sottoterra resta invece l'anello che, con l'aiuto della precompressione, assorbe la spinta, tutt'altro che trascurabile dato il profilo molto ribassato.) Per sua natura (e per la sua storia) la cupola, nel suo insieme, trasmette l'idea dell'equilibrio, dell'oggetto stabile per gravità. Questa di Nervi, in più, con la sua particolare conformazione, rende visibile l'andamento delle tensioni nel corpo degli elementi strutturali. È un tratto ricorrente nelle strutture di Nervi. Lo ritroviamo nelle tante volte e cupole plissettate, nel solaio a nervature isostatiche, nel pilastro a sezione variabile. Che cosa ci dicono queste forme (di cui, per il momento, accettiamo la definizione più usata di forme strutturali)? Innanzitutto notiamo che il linguaggio strutturale, com'è tipico di tutta l'ingegneria moderna, ha un carattere egocentrico. La struttura parla di sé stessa, mette in mostra la propria intrinseca razionalità. E questa si evidenzia nella perfetta coerenza tra forma e comportamento statico: nella sincerità strutturale. Che non è semplicemente uno degli aspetti del progetto (quale si ritroverebbe, se non in tutta l'architettura moderna, certamente nel razionalismo), ma è il cardine concettuale su cui fa perno l'ideazione. Come tale viene esibita in primissimo piano. Viene ostentata. Più in particolare, nel caso di Nervi, la razionalità strutturale assume il carattere della resistenza per forma. La configurazione mostra come l'intento di ridurre al minimo la quantità del materiale, sfruttandone interamente la capacità di resistenza, è raggiunto essenzialmente per via geometrica. Così, rivelando la propria intrinseca verità strutturale, l'artefatto si manifesta in perfetta sintonia con la natura. (Nel senso della 'naturalità' laica di Nervi, che non è generata dalla imitazione dell'elemento naturale, ma deriva dalla misteriosa saggezza che è insita in ogni cosa, creata o costruita: l'albero, la foglia, il cristallo, ma anche l'ombrello, il paralume, la sedia.) Se però ci limitassimo a cogliere il senso della resistenza per forma, non avremmo scoperto ancora nulla della singolarità dell'opera di Nervi. Che andrebbe a collocarsi nel vasto e frequentato mondo delle volte sottili, accanto alle superfici a doppia curvatura di Torroja , di Candela, di Isler, che per un lungo periodo vanno di moda nel resto del mondo. Che cosa hanno di diverso le strutture di Nervi? È evidente: mentre le volte sottili sono sempre lisce, le superfici di Nervi sono corrugate, ondulate, sagomate. È questa la particolarità. La resistenza per forma è sfruttata, oltre che nell'insieme, localmente. Punto per punto. La verità strutturale non è semplicemente evocata; per quel che riguarda il flusso delle tensioni interne, viene minuziosamente descritta. E la struttura assume la caratteristica inflessione pedagogica, di cui il solaio a nervature isostatiche è l'esempio più emblematico. È questo il tratto davvero esclusivo del linguaggio di Nervi. Ma l'osservazione suscita un'altra curiosità: per quale motivo questa caratteristica risulta così inimitabile? Sarebbe inutile cercare una risposta indagando sugli aspetti strutturali. La ragione va ricercata altrove: nel modo di costruire. | << | < | > | >> |Pagina 10Il visionarioUn altro logo inconfondibile della Scuola italiana è il "ponte strallato omogeneizzato" di Morandi. Se le cupole di Nervi ben rappresentano la linea della 'naturalità', che è una delle anime che informano la Scuola, il ponte di Morandi è il simbolo architettonico dell'altra anima, quella dello scientismo. Non nasce con questa intenzione, per la verità; ma alla fine si trova a giocare questo ruolo. La struttura inventata da Morandi, infatti, è il punto di arrivo di un percorso che possiamo definire 'della precompressione'; lungo il quale, in una prima fase, la linea scientifica che fa capo a Gustavo Colonnetti promuove lo sviluppo in Italia della nuova tecnica; e successivamente, dopo un periodo pionieristico, l'invenzione tecnologica stimola una sperimentazione architettonica specifica (niente affatto simile a quella di Nervi, ma di altrettanta originalità), di cui Morandi, insieme a Zorzi, è uno dei protagonisti principali. Anche questa struttura parla di sé stessa: mette in scena il proprio funzionamento dal punto di vista statico. Lo fa però in modo molto diverso dalle superfici di Nervi. Queste, lo abbiamo visto, evidenziano il flusso delle tensioni interne al materiale inscenando un sistema continuo in armonioso equilibrio (relegando in secondo piano e, quando serve, addirittura nascondendo gli antagonismi con cui si garantisce l'equilibrio statico). Quelle di Morandi invece sono figure astratte, in cui l'aspetto parziale del fenomeno strutturale che viene rappresentato (con teatrale chiarezza) è proprio quello dell'equilibrio statico: la contrapposizione delle forze esterne, il gioco di pesi e contrappesi, di spinte e di controspinte. Il congegno di aste tra loro collegate si percepisce come un plastico diagramma delle forze. Ma osserviamo più da vicino questo marchingegno, nella sua versione interamente omogeneizzata realizzata nel viadotto sul Polcevera (riprendendo e perfezionando la prima soluzione proposta per il ponte sulla laguna di Maracaibo). È un sistema bilanciato, "in cui la travata consta di un continuo a tre luci, su quattro appoggi elastici, con sbalzi terminali all'estremità dei quali poggia la trave centrale di serraglia". Poco più di 200 metri di luce, tutto compreso. I sostegni dell'impalcato sono ricavati con due meccanismi (anche questi sistemi di aste) relativamente indipendenti: puntoni inclinati forniscono i due appoggi interni; gli appoggi esterni sono costituiti da due stralli, anch'essi in cemento armato, che passano al di sopra di un'antenna alta 90 metri. È l'esito più spettacolare e compiuto della spiccata propensione di Morandi emersa fin dai primi lavori degli anni trenta — a ridisegnare le più convenzionali strutture in cemento armato conferendo loro estrema esilità. Dalla continuità delle superfici prevalentemente iperstatiche congeniali al cemento armato, Morandi passa a sistemi discontinui, preferibilmente isostatici, scanditi da evidenti cerniere (accuratamente disegnate, talora con autentiche invenzioni di design, come nel caso della cerniera a capsulismo). Una strategia dell'arditezza che, dopo la guerra, l'impiego sapiente e appassionato della precompressione non può che ulteriormente rilanciare. Si arriva così alla figura del sistema bilanciato, che si percepisce come un congegno astratto, composto di aste tra loro perfettamente omogenee. Invisibile resta l'operazione delle coazioni preventivamente impresse: resta nascosto cioè il procedimento attraverso il quale, artificialmente, le aste sono in realtà potenziate e "addestrate" per sopportare sollecitazioni differenziate, diventando puntoni, travi inflesse, tiranti. | << | < | > | >> |Pagina 13Il designerLa cupola di Nervi è una superficie resistente modellata a mano. Il ponte strallato di Morandi è una figura in equilibrio costruita nel vuoto. E la struttura di Zorzi? È un sobrio oggetto di design. E non è un caso isolato: nello stile scarno ed essenziale si riconosce un'altra linea della scuola italiana. Linea importante perché, mentre le opere di Nervi e di Morandi sono espressione della fase culminante della Scuola, quelle di Zorzi raccontano il suo disperato tentativo di mantenerla in vita nelle diverse condizioni che si sono create in Italia dopo il boom. La propensione di Zorzi verso strutture semplici si è manifestata fin dalle prime opere. Fin dall'inizio, infatti, lo spirito spiccatamente inventivo del giovane progettista è stato convogliato su un binario ben circoscritto: l'esplorazione di nuovi modi per sfruttare la tecnica della precompressione. Per Zorzi, che ha frequentato la speciale scuola di Colonnetti a Losanna, la vera rivoluzione nello sviluppo delle grandi strutture in cemento armato è dovuta all'invenzione di Freyssinet. Con questa formazione, Zorzi ha partecipato da protagonista alla fase più prolifica dell'ingegneria italiana. È uno dei più importanti esponenti di quella generazione dì giovani progettisti che, dopo la guerra, si è affiancata a quella dei maestri. È suo il progetto del primo ponte autostradale sul Po (sedici travate in precompresso di cui quelle centrali di settanta metri di luce); sono suoi il sofisticato arco-portale a Levane e il ponte ad arco poligonale, intitolato a Giuseppe Romita, a Incisa, sull'Arno, tutti per l'Autostrada del Sole. Rimanendo fedele a questa impostazione innovativa e minimalista insieme, dopo la fase eroica del miracolo economico, Zorzi resta il solo a tentare di opporsi alla decadenza della Scuola italiana. È una resistenza attiva, che si svolge sul campo, continuando a costruire viadotti e sopraelevate negli anni settanta. L'impresa non gli riuscirà, naturalmente: ma il tentativo lascia sul territorio una straordinaria serie di capolavori, talmente discreti da risultare, allora come oggi, pressoché invisibili. Conviene andare a rileggerle, queste opere della maturità, per cogliere i tratti di un altro linguaggio della scuola italiana. | << | < | > | >> |Pagina 15Il profetaNella sua fase culminante, la Scuola italiana ha trovato le espressioni più emblematiche nelle cupole di Nervi e nel ponte strallato di Morandi. Il suo declino ha lasciato testimonianze negli utopici viadotti trafilati di Zorzi. In ultimo, nel capolavoro di Musmeci, il ponte sul Basento, la Scuola italiana trova una plastica e monumentale rappresentazione della sua crisi. La descrizione di quest'opera è (quasi) impossibile. E non solo perché nasce dal rifiuto degli schemi strutturali consueti. La forma del guscio che sorregge l'impalcato è del tutto estranea anche alle figure canoniche della geometria euclidea. La sensazione è quella di una forma organica un po' misteriosa, alla quale non si riesce nemmeno a dare un nome. Che cosa ci comunica questo linguaggio esoterico (che però, teniamone conto, recentemente ha assunto anche un accento profetico)? Come si colloca questo indiscusso capolavoro nel quadro d'insieme dell'ingegneria italiana? Prima di sfidare l'indescrivibilità dell'opera tentandone una lettura, questa volta ci conviene riconsiderare le teorie di Musmeci: le intenzioni e le spiegazioni che espone nei suoi scritti. È un'eccezione, lo sappiamo: nel caso degli ingegneri (ma spesso anche degli architetti) i testi da decifrare sono le opere, molto più indicative e pregnanti rispetto alle considerazioni teoriche sulla progettazione. Ma Musmeci è un personaggio eccentrico all'interno dell'ingegneria. Sempre controcorrente, è dotato di uno spirito critico assai raro in quel mondo. Non è per caso che il suo curriculum comprenda, accanto a poche opere costruite, vari saggi di notevole interesse e tanti progetti non realizzati, che non sono solo occasioni mancate, ma tappe di una sperimentazione continua sul progetto. Musmeci considera l'arretratezza dell'edilizia italiana non come una circostanza su cui fondare l'originalità, ma come un limite da superare. Condivide con Nervi e Arturo Danusso l'impostazione di fondo naturalista e, con essa, la diffidenza per il carattere artificioso della struttura precompressa. Ma ritiene che debba essere perseguita una linea naturalista "pura", non già ridimensionando il ruolo della scienza (come in qualche modo predicano i due maestri), ma al contrario attraverso un suo impiego più rigoroso e incondizionato. Da queste premesse scaturisce una sorta di grande teorema sull'architettura strutturale, snocciolato nei suoi tanti contributi teorici. Proviamo a rimetterlo insieme. Sostiene Musmeci che lo strumento scientifico non debba essere usato a posteriori per la verifica di strutture immaginate prima con approccio empirico. Sostiene, in altri termini, che l'ingegnere strutturista non è un calcolatore; quando si tratta di 'grande struttura' è, a tutti gli effetti, un progettista. Come tale può e deve usare la scienza come strumento per la creazione della forma. Sostiene Musmeci, infatti, che nella fase del progetto i carichi e le sollecitazioni sono dati, mentre la vera incognita è proprio la forma della struttura. E la forma, la miglior forma, può essere determinata con scientifica precisione. Sostiene anche Musmeci che, per non turbare la purezza della genesi matematica della forma, nella fase iniziale dell'ideazione (che definisce, con maggiore enfasi, creazione) è indispensabile sgombrare il campo da tutti gli altri condizionamenti: escludendo, naturalmente, qualsiasi ricorso all'intuizione, rifiutando l'adesione agli schemi più consueti e ignorando anche i limiti della geometria classica. Ma soprattutto, Musmeci sostiene la necessità di prescindere totalmente, nel progetto, dalle ipotesi sul modo di costruire l'opera. È questo il punto che risulta scandaloso, in un paese in cui, l'abbiamo visto, l'ingegnere è protagonista soprattutto in quanto costruttore. Ma l'operazione è indispensabile. La tecnologia, infatti, inevitabilmente corrompe la purezza del nesso fra scienza e architettura. Ed è un vero peccato! Perché se si riuscisse ad evitare questa contaminazione, sostiene Musmeci, l'architettura strutturale diventerebbe il luogo felice in cui la dicotomia tra il sapere scientifico e quello umanistico magicamente scomparirebbe e persino l'annosa alternativa tra il progettista artista (di impostazione idealistica) e il progettista positivista (di stampo internazionale) troverebbe finalmente una sintesi. | << | < | > | >> |Pagina 18L'accento italianoLa struttura, o meglio la 'grande struttura', è uno dei simboli più eloquenti della modernità. Evidenziando in primo piano la propria razionalità, scientificamente fondata, la struttura diviene anche figura dell'idea di progresso nella sua generalità. A questa forza simbolica, che ha il respiro universale della scienza, il linguaggio strutturale italiano aggiunge una specifica vocazione per il racconto storico contingente. Questa si basa soprattutto sulla particolarità delle caratteristiche costruttive. Rispecchiando, oltre agli equilibri statici, le vicissitudini del piccolo cantiere artigianale, i linguaggi delle grandi strutture italiane ci portano a riscoprire aspetti inediti della singolare modernizzazione del Paese. Con diverse intenzioni, con diverse intonazioni. Quello di Nervi, per esempio, è un linguaggio pedagogico. Le superfici resistenti, ostentando la propria intrinseca verità strutturale, si prospettano come applicazioni, metodologicamente impeccabili, dei principi fondamentali dell'economia e della correttezza. E per questa via ci riportano all'etica del grande artigianato, che resta un punto centrale nella singolare vicenda del modernismo italiano. Il linguaggio di Morandi, invece, è squisitamente allegorico. Le figure strutturali, mettendo in scena arditi equilibri, trasmettono visivamente il senso della modernità, con riferimento specifico alla potenzialità della scienza e alle nuove abilità del costruttore scientificamente consapevole. Riprendendo così, come già osservato, da una parte il filo degli esperimenti sulla muratura armata dell'Italia ottocentesca e dall'altra la linea visionaria esaltata dal futurismo. Ancora diversamente, il linguaggio di Zorzi appare essenzialmente realistico. A prima vista, il telaio si percepisce con l'accento semplice dell'oggetto comune. Il sofisticato nesso tra presollecitazione e sagomatura resta nascosto su una frequenza subliminale: se ne awerte appena l'eco nell'ineffabile eleganza del disegno. Ma proprio in questa esoterica interpretazione del design strutturale, che prefigura l'orizzonte di un artigianato high tech, prende corpo l'utopistico tentativo di tenere in vita la Scuola italiana. Il linguaggio di Musmeci, infine, è un linguaggio critico. Qualità insolita per un idioma come quello strutturale, per sua natura assertivo. Ma nel ponte sul Basento, per una serie di circostanze, casuali e ineluttabili, succede che la superficie minima, inizialmente concepita come sintesi pura di scienza ed arte, pesantemente modificata nelle fasi esecutive, finisce per restituirci il ritratto più espressivo della crisi della modernizzazione italiana. Con differenze vistose quindi, non solo nel tono ma anche nella sintassi, i vari linguaggi strutturali rinviano tutti al contesto in cui è nata e cresciuta la Scuola italiana d'ingegneria (senza escludere la sterzata storica che ne ha determinato, alla fine degli anni sessanta, il rapido declino e la scomparsa). E le letture, scorrendo sul doppio registro letterale e metaforico dei linguaggi, ci forniscono numerosi spunti per meglio delineare - in un prossimo contributo - l'identità propria della Scuola Italiana. | << | < | > | >> |Pagina 25| << | < | > | >> |Pagina 52ILARIA PALAZZIPROIEZIONI DI STRUTTURE
LUIGI CREMONA E LA STATICA GRAFICA NELLE SCUOLE D'INGEGNERIA ITALIANE
Nella seconda metà dell'Ottocento, una grande rivoluzione linguistica travolge la meccanica delle strutture, propagandosi dalle aule della nuova Scuola Politecnica di Zurigo in tutto il mondo accademico e professionale europeo. È la rivoluzione originata nel 1864 dalla pubblicazione del primo volume del trattato Die graphische Statik (La Statica grafica) ad opera di Karl Culmann. In verità, soluzioni geometriche a problemi statici si rintracciano fin negli schizzi leonardeschi. Divengono poi nel Seicento vero e proprio argomento di ricerca in Stevino, cui si deve una prima incompleta dimostrazione della regola del parallelogramma e l'introduzione del poligono funicolare, inteso come legge della meccanica ricavata osservando la configurazione assunta da una fune trattenuta agli estremi e soggetta ad un certo numero di pesi. Interessano Newton, Roberval e Varignon che, nella Nouvelle mécanique, espone l'ordinata relazione tra poligono delle forze e poligono funicolare ed illustra le costruzioni per la determinazione del momento statico risultante di un sistema di forze, ancora oggi riportate nei trattati elementari di statica grafica. A questi studi, si sovrappone nel Settecento il dibattito sulla stabilità delle volte e delle cupole, nel quale lo strumento geometrico offre enormi potenzialità rispetto a quello analitico. Negli studi di de La Hire, Bélidor e Couplet, il problema dell'equilibrio della fune assoggettata a carichi diversi si inverte in quello della determinazione delle forze tra i conci di un arco e il poligono funicolare diviene curva delle pressioni. Solo con Culmann, tuttavia, i metodi grafici ricevono una configurazione organica e compiuta, trovando ragion d'essere nei principi della geometria proiettiva, nuova branca delle scienze matematiche fondata da Poncelet, di cui Culmann è stato allievo nella Scuola d'Artiglieria e Genio di Metz. Nel linguaggio non euclideo che deriva dall'introduzione degli enti impropri dello spazio, geometria e statica si fondono in un unico ragionamento, come letture alternative ed equivalenti di uno stesso concetto: come chiarisce Edoardo Benvenuto , nell'impostazione di Culmann "lo strumento grafico non ha il ruolo dell'utile applicazione, ma assurge a principio fondativo: diviene argomento, diviene evidenza di 'dimostrazione' e di 'definizione' dei concetti statici. La geometria, scienza perfetta per antonomasia, entra a far parte integrante del discorso meccanico secondo una sorta di sillogismo in cui la maggiore riguarda appunto le relazioni proiettive tra certi enti geometrici (punti, segmenti, superficie) e la minore stabilisce essenzialmente l'identità tra questi enti e le grandezze statiche considerate". Nella geometria proiettiva, disciplina "libera" dai concetti di dimensione e misura, i metodi grafici raggiungono esiti teorici elevati, acquistano intenzioni più vaste, generando un nuovo, omogeneo, linguaggio scientifico. | << | < | > | >> |Pagina 68ELIANA ALESSANDRELLIDISTORSIONI SISTEMATICHE
I PONTI "TRUCCATI" DI EUGENIO MIOZZI
Il 4 maggio 1932 hanno inizio ufficialmente i lavori per la costruzione di un nuovo ponte sul Canal Grande a Venezia. Sito nei pressi della stazione ferroviaria di Santa Lucia, il ponte degli Scalzi sostituisce il ponte metallico progettato nel 1855 da Alfred Neville, che mostra ormai evidenti segni di degrado. Trovandosi in prossimità di edifici di particolare pregio architettonico come la chiesa di Santa Maria di Nazareth (o degli Scalzi) e il Palazzo Foscari Contarini sulla riva di S. Simeon, il nuovo collegamento è progettato come un'opera monumentale. Tuttavia, per non alterare l'armonia dell'ambiente preesistente, è opportuna una sagoma della massima esilità. Il risultato è un ponte ad arco di 40 metri di luce, con uno spessore in chiave di 80 centimetri. Queste dimensioni non susciterebbero grande stupore se si trattasse di un manufatto in cemento armato con rivestimento lapideo: il ponte degli Scalzi, invece, è costituito unicamente di conci di pietra d'Istria, senza alcun rinforzo metallico. Un arco di pietra così sottile non può essere realizzato in modo tradizionale; nel ponte degli Scalzi, infatti, viene usato un particolare accorgimento progettuale e costruttivo detto "metodo delle lesioni sistematiche compensative", messo a punto dal progettista Eugenio Miozzi, grazie al quale è possibile controllare, con un intervento a priori, le condizioni di equilibrio di un'opera. Il sistema prevede che vengano create artificialmente nella volta "lesioni", di geometria e collocazione accuratamente definite, che consentano di eliminare le sollecitazioni parassite dovute a fattori come deformabilità del materiale o variazioni termiche, e di correggere conseguentemente la posizione della fibra media dell'arco, assicurando il passaggio all'interno del terzo medio della curva delle pressioni. | << | < | > | >> |Pagina 82ILARIA GIANNETTICEMENTO "ARMATO"
STRUTTURE PER LA CONQUISTA DELL'IMPERO
Dal Giornale Luce del 18 settembre 1935:
"L'Alto Commissario De Bono e sua
eccellenza il ministro Ciano inaugurano la
nuova strada Decameré-Nefasit; percorrendo
questa bella arteria di comunicazione
aperta dalle nostre maestranze il paesaggio
che ci circonda ci appare familiare
come uno dei nostri paesi mediterranei, solo
alcune euforbie (...) e gli agglomerati di
tucul ci ricordano che siamo in Africa".
Quindici giorni separano l'Italia dall'invasione dell'Etiopia: nell'imminenza della "più grande guerra coloniale di sempre per numero di uomini, modernità di mezzi e rapidità di approntamento", l'inaugurazione della Decameré-Nefasit, primo tratto del collegamento tra il porto di Massaua con le piste pianeggianti dell'altipiano Abissino, è fatta apparire nelle riprese dell'Istituto Luce come una rassicurante conferma della generosa opera di "civilizzazione" compiuta dal Regime nelle terre d'Oltremare. Soltanto due mesi prima, il 19 luglio 1935, una comunicazione riservata dell'Alto Commissario Emilio De Bono descrive la camionale in costruzione in tutt'altra luce: "ho ovunque riscontrato fervore di lavoro e ordine perfetto" annotava il generale in un telegramma indirizzato al comandante del Genio Militare in Africa Orientale in seguito alla visita strategica ai cantieri della strada e, complimentandosi con il direttore dei lavori e la sua squadra d'ingegneri, concludeva sibillino "saremo pronti per quando vogliamo esserlo!". Durante i lavori lo scopo strategico che sottende la costruzione della moderna rotabile è sistematicamente oscurato al pubblico e, mentre i cantieri africani avanzano con rapidità inconsueta grazie a turni massacranti e approvvigionamenti riservati di materiali, le veline alla stampa pretendono di esaltare il lavoro volontario e "ben remunerato" delle maestranze italiane impegnate nell'organizzazione pacifica delle strade dell'Eritrea, omettendo accuratamente gli improvvisi e ingenti aumenti della spesa pubblica e le frequentissime morti in cantiere, oltre 400 alla fine dei lavori. Il 18 settembre 1935 un secondo telegramma riservato di De Bono destinato con "alto compiacimento" all'impresa costruttrice loda l'avanzato stato dei lavori del tratto Nefasit-Massaua che, "compiuti con rigorosa puntualità", gli permetteranno il 2 ottobre di trasportare agevolmente la sua Grande Unità Coloniale a soli 80 km dal Mareb, verso la conquista dell'Impero. | << | < | > | >> |Pagina 98GIANLUCA CAPURSO - FRANCESCA MARTIRE"BUONGIORNO, SIGNORI. I0 SONO UN ELABORATORE ELEA 9000"
CALCOLO AUTOMATICO E PROGETTAZIONE STRUTTURALE
L'elaboratore di fabbricazione inglese Ferranti Mark I*, installato a Roma presso l'Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo, risolve, in novanta ore, il sistema di circa 400 equazioni lineari impostato per le verifiche statiche della diga del Vajont. A dispetto della sorprendente velocità del computer, le attività di preparazione dei dati, calcolo e controllo dei risultati, avviate dal gennaio 1957, impegnano per un anno e mezzo alcune delle menti più brillanti dell'Istituto. Le sollecitazioni agenti sulla struttura sono determinate secondo il principio di ripartizione dei carichi alla base del Trial Load Method, già impiegato dall'INAC per le dighe di Pieve di Cadore e di Pontesei, anch'esse parte dello stesso impianto idroelettrico. L'importanza strategica della realizzazione dello sbarramento del Vajont, una delle più ardite e controverse opere dell'ingegneria nazionale del secondo dopoguerra, giustifica una seconda verifica anche sull'elaboratore CRC 102-A, in funzione presso il Centro Calcoli numerici del Politecnico di Milano. Le analisi condotte con i due computer, i primi installati in Italia, affiancano le prove su modelli fisici compiute, nello stesso periodo, all'ISMES di Bergamo. Si tratta, però, di esperienze occasionali. A metà degli anni Cinquanta l'informatica non è ancora riconosciuta in Italia come fattore di sviluppo sociale ed economico e l'industria nazionale indugia ad entrare nel settore, in assenza di finanziamenti pubblici. Gli ingegneri, seppur costretti a lunghi e noiosi calcoli manuali per il dimensionamento e la verifica delle loro opere, guardano ancora con diffidenza ai nuovi elaboratori elettronici, ingombranti "aggeggi" che occupano intere stanze. Neanche la notevole fama di Olivetti, che nel 1955 avvia il progetto per la realizzazione di un grande computer di tipo general purpose, cui sarà dato il nome di ELEA (Elaboratore Elettronico Automatico), avvicina il mondo della progettazione alle potenzialità dell'informatica.
Persino il mondo universitario mostra scarsa
attenzione, tanto che solo alla fine degli anni Sessanta
sono istituiti i primi corsi di laurea in Scienza dell'informazione.
Computer e ingegneria: prime sperimentazioni internazionali In Inghilterra e negli Stati Uniti, già da tempo, il calcolo assistito da elaboratore elettronico fa parte dei piani di studio in Ingegneria civile. Qui il computer è presto riconosciuto come un potente acceleratore delle attività computazionali, applicabile ai più diffusi problemi strutturali. Gli ingegneri ne comprendono subito i vantaggi pratici, resi più evidenti dall'introduzione della notazione matriciale, che consente la scrittura compatta dei sistemi di equazioni per la determinazione delle incognite iperstatiche. [...] Dai modelli fisici all'analisi agli elementi finiti Un potente stimolo all'uso del calcolatore per la risoluzione di problemi strutturali è fornito dalla necessità di analizzare il comportamento di sistemi fisici il cui modello matematico è definito in un dominio continuo. È il caso di strutture che non è possibile indagare mediante la classica schematizzazione in aste e nodi, e il cui stato tensionale e deformativo è descritto da equazioni differenziali, che solo sotto specifiche e particolari condizioni sono risolubili in forma chiusa. Tra gli approcci numerici sviluppati per superare i limiti del calcolo analitico, il Finite Element Method (FEM) consente una decisiva accelerazione nella diffusione dell'uso del calcolo automatico per l'ingegneria civile. La discretizzazione del continuo in parti più piccole consente, infatti, di approssimare la soluzione del problema sostituendo alle equazioni differenziali un sistema di equazioni algebriche. La definizione del metodo si deve all'attività di ricerca condotta fin dagli anni Quaranta da matematici e ingegneri. Bisogna però attendere il 1956 per il celebre articolo di un gruppo di studiosi dell'Università di Berkeley che illustra come analizzare lo stato tensionale di un'ala di aeroplano, suddividendone la struttura scatolare in elementi di varie forme e dimensioni: gli elementi finiti, appunto, che presentano un comportamento meccanico più semplice da descrivere. Le parti sono connesse tra loro nei nodi, i cui spostamenti, che devono risultare reciprocamente compatibili, sono messi in relazione mediante funzioni, dette "di forma", con le sollecitazioni in ogni punto interno della struttura. Le potenzialità del metodo agli elementi finiti sono presto intuite, soprattutto per le possibili applicazioni all'ingegneria aerospaziale. La NASA, a metà degli anni Sessanta, commissiona lo sviluppo di un programma, che gli è consegnato nel 1968 dalla Computer Science Corporation, sotto il nome di NASTRAN. A Berkeley, nel 1969, è realizzato il software SAP (Stress Analysis Program), che consente l'analisi di strutture in campo statico e dinamico. Nello stesso anno, al MIT di Boston, il sistema ICES (Integrated Civil Engineering System) è aggiornato con il modulo di analisi strutturale STRUDL II (STRUcturai Design Language). Il fervore internazionale per i nuovi metodi di calcolo non trova pari riscontro in Italia, dove, alla fine degli anni Sessanta, le opere più importanti sono ancora progettate prevalentemente con l'ausilio della modellazione fisica. [...] Negli anni Settanta, per assistere alle realizzazioni più significative in questo ambito, è invece necessario rivolgere l'attenzione al contesto internazionale. Il caso più famoso è quello delle tensostrutture del complesso olimpico di Monaco, il cui cantiere si conclude nel 1972. Il progetto di Behnisch & Partners e Jurgen Joedicke, presentato al concorso del 1967, viene ingegnerizzato da Frei Otto e Fritz Leonhardt. I due docenti di Ingegneria Civile all'Università di Stoccarda si avvalgono del supporto di tre istituti della stessa Università. Collaborano, infatti, l'Istituto di Statica e Dinamica per le Costruzioni Aerospaziali, diretto da John Hadji Argyris, uno dei massimi esperti nell'uso dei metodi di analisi agli elementi finiti; l'Istituto per l'Applicazione della Geodesia nell'Ingegneria Civile, coordinato da Klaus Linkwitz; e, infine, il celebre Istituto per le Strutture Leggere dello stesso Otto. La dimensione della tensostruttura è tale che le sperimentazioni fisiche, apprezzate da Otto, possono restituire solo indicazioni di massima, la cui scarsa precisione comporterebbe fatali errori nella produzione delle funi. Di conseguenza, il rischio che la presollecitazione non raggiunga valori adeguati è alto. I rilievi sui modelli in cavi d'acciaio, effettuati con metodi fotogrammetrici, forniscono i dati di input da impiegare per le verifiche statiche all'elaboratore, ad eccezione della copertura della piscina, progettata solo sulla base dei modelli fisici. Per sfruttare al meglio il poco tempo a disposizione, i calcoli sono condotti in parallelo da due gruppi, coordinati da Linkwitz e da Argyris. Il primo team lavora sulla copertura dello stadio di calcio e delle zone di passaggio tra gli impianti. Per mezzo di software scritti in linguaggi ad alto livello, ALGOL e FORTRAN IV, trasforma in coordinate spaziali le misure bidimensionali ricavate dalle fotografie. Questi primi risultati, inevitabilmente affetti da errori, sono corretti su basi geometrico-matematiche, con codici ad hoc per tenere in considerazione sia l'allungamento dei cavi, sia la necessità di ottenere una mesh regolare di 75 cm di lato. Sono messi a punto, allo scopo, i software "Aquidistant" e "Edge cable smoothing", sviluppati e impiegati sul mainframe Telefunken TR4 e soprattutto sul potente CDC 6600, il cui uso è oggetto di aspra contesa tra i due pool coinvolti, che sono costretti a lavorare fino a notte fonda. Il gruppo di Linkwitz confeziona, infine, anche un pacchetto software in grado di svolgere analisi statiche su strutture di reti di cavi pretensionate. Il programma è basato sul "Force Density Method", elaborato dal matematico Hans-Jorg Schek, che consente di linearizzare il sistema di equazioni che descrive il problema strutturale. Sul Palazzo dello sport le verifiche sono, invece, condotte dall'Istituto diretto da Argyris. È impiegato l'Automatic System for Kinematic Analysis (ASKA), frutto di un'attività di ricerca condotta fin dai primi anni Sessanta. Il programma, che implementa l'analisi agli elementi finiti combinata con il metodo degli spostamenti, è concepito secondo un'architettura modulare. Può, infatti, essere integrato con componenti aggiuntive per trattare il caso specifico, aumentando il numero delle funzionalità ed estendendo le librerie con nuovi tipi di elementi finiti. Il software è aggiornato nel 1969 a una versione implementata in linguaggio FORTRAN IV. Quando il gruppo di Argyris si dedica al progetto delle tensostrutture di Monaco, ASKA è già in grado di gestire il regime dei grandi spostamenti, tipico delle strutture leggere, le deformazioni in campo plastico e i fenomeni di instabilità dinamica. Il software permette, inoltre, la rappresentazione grafica dei risultati finali, facilitando l'interazione con l'utente.
L'algoritmo ricerca la configurazione di equilibrio
assumendo come geometria di partenza quella
individuata con le tecniche di modellazione fisica
e procede alla verifica, risolvendo un set di
equazioni non lineari. Il codice procede per iterazioni,
applicando spostamenti incrementali, e si arresta
quando le forze non bilanciate nei nodi assumono
valori inferiori a una soglia opportunamente scelta.
La sperimentazione in Italia sulle tensostrutture e i software interattivi grafici Anche in Italia le strutture leggere vivono una breve fase di successo dall'inizio degli anni Settanta, stimolando la ricerca sull'uso del calcolo automatico applicato al progetto di queste coperture. Dal 1971, mentre si costruiscono le tensostrutture per le Olimpiadi di Monaco, Giorgio Romaro si cimenta nell'uso del computer applicandolo alle verifiche del Palasport di Milano. La copertura a pianta ellittica, con assi di lunghezza pari a 144 e 146 metri, è costituita da una rete di funi a doppia curvatura anticlastica, ancorata a un bordo realizzato con una trave scatolare di acciaio, assialmente rigida ma diametralmente flessibile. Il calcolo è condotto con l'ausilio del programma "Rete", elaborato da Bernhard Schrefler. Anche grazie a questo progetto, nel 1973 quest'ultimo diviene professore incaricato del corso di Calcolo automatico delle strutture presso la Facoltà di Ingegneria di Padova. L'originale codice è usato in combinazione con STRUDL, che permette di definire gli elementi della matrice di rigidezza dei tronchi dell'anello perimetrale. Le verifiche sono successivamente confermate, con altri codici, presso l'Istituto di Scienza delle Costruzioni della Facoltà di Ingegneria di Roma. A differenza dei metodi di calcolo impiegati a Monaco, la geometria iniziale, che corrisponde alla rete sottoposta solo al peso proprio e alla presollecitazione, non è ricavata tramite modelli fisici ma direttamente con l'elaboratore elettronico. Il risultato è ottenuto risolvendo un sistema di equazioni di equilibrio, le cui incognite sono unicamente le quote dei nodi interni. Si aggiungono in seguito i sovraccarichi, con attenzione alle fasi di montaggio in cantiere, di cui Romaro è esperto, che influenzano gli stati tensionali della struttura a causa della non linearità del problema. L'algoritmo prevede poi l'applicazione dell'analisi agli elementi finiti, nella versione — di maggiore fortuna anche all'estero - basata sulla definizione della matrice di rigidezza. | << | < | > | >> |Pagina 106La progettazione assistita dal calcolatore mostra sempre più, negli ultimi anni, la sua doppia anima. Una parte della ricerca si muove nell'ambito della computer grafica, che consente la modellizzazione digitale di forme complesse, basate su curve e superfici parametriche, come Spline e NURBS. Con questi strumenti è possibile disegnare strutture fashion, la cui geometria deriva unicamente da considerazioni architettoniche. Fanno da contraltare a queste sperimentazioni le più avanzate tecniche di morfogenesi computazionale, che hanno ormai archiviato le più semplici applicazioni di ricerca della forma degli anni Settanta e Ottanta.Tra le più famose, quelle che utilizzano gli algoritmi genetici di tipo evolutivo, basati sul concetto darwiniano di sopravvivenza di una popolazione. La libertà formale raggiunta dalle strutture progettate da Mutsuro Sasaki per il concorso della stazione TAV di Firenze (2002) e per il Quatar National Convention Center (2004-2011), dimostra le potenzialità del metodo Extended ESO, un particolare algoritmo genetico di ottimizzazione topologica. Le "flux structures" rappresentano oggi il simbolo della progettazione strutturale condotta interamente al computer. Nelle esperienze di Sasaki, come in altre contemporanee, si assiste però al crescente divario tra i risultati della progettazione digitale e le procedure costruttive, caratterizzate da un ben più lento aggiornamento. Per questo motivo incuriosisce, in questi ultimi anni, il contributo che può essere fornito, anche nel campo delle grandi strutture, da recenti innovazioni introdotte nelle tecnologie di Computer Aided Manufacturing. Il file to factory consente di ottenere automaticamente membrane o lamiere tagliate secondo la forma esatta richiesta dal progetto, confermando, già dalle più famose realizzazioni in tensostruttura, l'utilità del processo di robotizzazione. Non è solo il caso delle architetture free form, in cui un involucro dalla complessa geometria cela una struttura tradizionale. Lo stesso problema si riscontra anche quando la forma strutturale deriva da un algoritmo di calcolo. I tempi non sono ancora maturi per fornire un giudizio definitivo, ma il notevole sviluppo delle stampanti 3D sembra poter contribuire a ricucire lo strappo tra il mondo della progettazione e quello della costruzione. | << | < | > | >> |Pagina 111| << | < | > | >> |Pagina 130| << | < | |