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| << | < | > | >> |Indice9 PREFAZIONE 11 INTRODUZIONE Per veder passare in istoria la favola del Secol d'Oro, 13 L'autore: Giuseppe Giusto Guaccimanni (1652-1705), 23 I manoscritti dei Dialoghi Eruditi, 28 31 L'ACCADEMIA DEGLI UMORISTI Gli Umoristi, storia inedita degli Argonauti, 33 Tra Umoristi e Arcadi: Cigno non fu mai Pica Arrogante, 40 I Romani Accademici: cavalieri, letterati e sacerdoti?, 44 L'impresa degli Umoristi, tra atomismo e alchimia, 48 Il Cannocchiale di Galilei e la lettera di Mezachab: Alessandro VII e Clemente IX tra alchimia, scienza e Sacre Scritture, 58 L'alchimia tra Umoristi e Arcadia: don Virginio Cesarini, il conte Fulvio Testi e un ciceroncin pastorello, 65 Consalvo di Cordova (Tasso redivivo) e Mercurio Vanelmonte: un duello a tutto sangue, 69 Gli Umoristi oltre l'Arcadia, verso l'avvento della Monarchia Boreale, 75 79 CRISTINA DI SVEZIA Basilissa et in Arcadia?, 81 La quiete, il vuoto e le Piramidi: Robert Boyle, Athanasius Kircher, Elena Piscopia Cornaro, 91 Gli specchi, la Setta Italica Pitagorica e l'anima del mondo, 98 Gli atomi e il Libro della Genesi: la luce, il fuoco e il moto architettonico del Creato, 103 La Colonna d'Ermete, dolcissima occupazione in questo stato di quiete, 110 121 IL CATALOGO DEGLI ARGONAUTI 131 FRANCESCO MARIA SANTINELLI, LA ROSACROCE E FEDERICO GUALDI Francesco Maria Santinelli, insigne Filosofo dell'Egizia Menfi, 133 La Rosacroce e gli Argonauti a Villa Palombara, 143 Federico Gualdi: un'altra storia possibile?, 148 155 MASSIMILIANO PALOMBARA Tra gli Argonauti, Ceneo: Massimiliano Palombara, la sua villa all'Esquilino e la Porta Magica, 157 181 CONCLUSIONI Cristina di Svezia a Roma: una scelta "originale", 184 Cristina, Mazzarino e la corona di Napoli: un progetto da Umoristi?, 186 Borri e la rissa di Villa Palombara: un bisticcio accademico?, 188 Giovanni Francesco Albani, tra Umoristi e Arcadia: un equilibrio alchemico impossibile, 190 La Lux obnubilata di Santinelli e La Bugia di Palombara: due imprese da Umoristi?, 193 Gli Argonauti, muratori e scalpellini, 194 La Porta e la Grotta: la continuità di una tradizione tra Roma e Potsdam?, 196 199 APPENDICE Guaccimanni e la Tavola d'Ermete, 201 Ergino Argonauta e il Testamentutu di Arnaldo di Villanova, 203 La medaglia alchemica di Tommaso Rangoni spiegata da Francesco Grotta, 205 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Quando alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma mi consegnarono i quattro tomi del manoscritto che è all'origine di questo mio libro rimasi sbalordita: pagina dopo pagina stavo leggendo una cronaca dell'appassionata ricerca ermetica che aveva coinvolto tanti illustri personaggi - accademici e scienziati, filosofi e letterati, nobili ed ecclesiastici - nel XVII secolo. Tutti, uomini e donne - senza distinzione di origini, stato o professione - invariabilmente tesi alla conquista del Vello d'oro, la Pietra filosofale. O anche, con espressione ricorrente nel testo e più familiare alla tradizione massonica, tutti impegnati a "far vela verso Abila e Calpe", le Colonne d'Ercole, le Colonne di Ermete: insomma, tutti Argonauti. Stupisce la semplicità persino noncurante con la quale Giuseppe Giusto Guaccimanni (1652-1705), autore dell'opera, affronta questioni impenetrabili, misteri e arcani della letteratura alchemica, dipanandoli attraverso quarantadue dialoghi che mettono in scena a vivi colori un intero secolo. I protagonisti della rappresentazione allestita oltre trecento anni fa appartengono, noti e meno noti, alla cosiddetta Repubblica delle Lettere, ma sembrano a buon diritto individuarne un pregevole sottoinsieme: la Repubblica Ermetica. E grazie alla direzione sapiente di Guaccimanni si raccontano e si confidano come se anche il lettore ne facesse da sempre parte. La tecnica è da maestro, l'illusione è perfettamente riuscita e noi finiamo trasportati all'alba del Settecento a Roma, tra Porta del Popolo e il Gianicolo, tra Monte Mario e l'Esquilino, in un rincorrersi di voci, non solo romane, che ci sembra di riconoscere come fossero quelle di vecchi amici. Non si tratta quindi di un centone erudito, né di un bislacco zibaldone. Certo, vi ricorrono gli intenti apologetici dell'autore nel dar conto di episodi autobiografici; e sono palesi gli omaggi, mai però affettati, che egli rivolge a quanti ebbero a proteggerlo e sostenerlo. Tuttavia la costruzione dell'opera è serrata, lo svolgimento conseguente, il fine sempre chiaro: nei Dialoghi si fa accademia ermetica senza fole e ridicole oscurità, e noi siamo gli ospiti, o i discepoli, di riguardo. Intendiamoci però: la conoscenza va sempre conquistata. Ma se non beneficeremo di alcuno sconto, troveremo almeno, questo sì, la più scandalosa e innocente sincerità. E come gli Argonauti tornano in patria, a Roma, con il premio delle loro fatiche, così noi siamo invitati leggendo a partire per la nostra spedizione in Colchide e far poi ritorno vittoriosi. Coraggio, dunque. In questo volume non possiamo che proporre una selezione degli argomenti notevoli che il testo contiene. Poiché la storia degli Argonauti è anche quella dell'accademia romana degli Umoristi, abbiamo scelto di cominciare dal circolo di alchimisti collegati in qualche modo a questa istituzione: Cristina di Svezia, Francesco Maria Santinelli, Massimiliano Palombari. È una prima antologia quella che oggi si offre, augurandosi di poter presto dare alla luce l'edizione integrale e critica dell'intera opera. D'altronde se anche Guaccimanni Argonauta è ricomparso, dopo tre secoli, a indicarci la rotta, possiamo ben sperare di riuscirci. Maria Fianimetta Iovine | << | < | > | >> |Pagina 13All'alba del XVIII secolo Giuseppe Giusto Guaccimanni scrive nei Dialoghi eruditi che l'età dell'oro è ormai prossima, questa volta davvero. Infatti quella preconizzata da filosofi, alchimisti e riformatori sull'onda dei testi paracelsiani, rilanciata poi dai Manifesti rosicruciani del 1614 e del 1615, e nei testi di autori vicini alla medesima area di influenza (Sendivogio, Maier, Mynsicht), non solo non si era ancora manifestata, ma aveva lasciato un sentimento di sconfitta e cocente delusione in chi aveva creduto in una riforma ermetica dei saperi, della politica, e della società umana. Eppure le profezie di quei filosofi non mentivano, ma semplicemente si riferivano a un altro momento storico, quello in cui vive il nostro autore che si professa ora il nuovo Elia Artista. Di questa leggendaria figura si trova traccia per la prima volta nel De mineralibus, dove Paracelso (1493-1541) scriveva che "nulla è nascosto che non debba essere manifestato" e vaticinava che dopo di lui un altro sarebbe venuto a svelare gli arcani. Inoltre, nel De tinctura physicorum, un'opera pseudoepigrafica, lo stesso Paracelso dichiarava che se Dio donava a qualcuno gli arcani della trasmutazione al contempo gli conferiva anche la saggezza di tenerli nascosti agli altri uomini, fino all'arrivo di Elia Artista; solo allora tutto ciò che era nascosto sarebbe stato rivelato. Quando sarebbe accaduto tutto ciò? Negli scritti attribuiti a Paracelso c'è un'indicazione: cinquantotto anni dopo la sua morte, dunque nel 1599. Secondo il calcolo di un autore rosicruciano che fissava erroneamente la morte di Paracelso al 1544, si arrivava però al 1602 o 1603: proprio allorché lo scozzese Alexander Seton (?-1603), detto il Cosmopolita per i suoi molti viaggi, effettuava alcune trasmutazioni sul Continente alla presenza di testimoni. Nel 1604, in staffetta con la morte di Seton, si pubblicava a Praga il De lapide philosophorum tractatus duodecirn, noto anche come Novum lumen chymicum; l'autore, Michael Sendivogius (1566-1636), medico e alchimista (artefice di trasmutazioni presso il re di Polonia Sigismondo III Vasa e a Praga, alla corte dell'imperatore Rodolfo II) e definito poi a sua volta Cosmopolita, divenne in breve un riferimento imprescindibile per gli studi alchemici. E ancora, un nuovo Cosmopolita sarebbe stato poi indicato come autore delle opere pubblicate sotto lo pseudonimo di Eireneo Filalete, prima fra tutte l' Introitus apertus ad occlusum regis palatium (Amsterdam 1667), che circolavano manoscritte già da ben oltre un decennio. Dunque nella prima metà del Seicento qualcosa era stato effettivamente seminato e tuttavia i frutti non se ne erano potuti cogliere. In parte perché, ritiene Guaccimanni, alcuni autori fraudolenti, come Jean-Baptiste van Helmont (1580-1644) e suo figlio Mercure van Helmont (1614-1698), o invidiosi come il non meglio identificabile Basilio Valentino (limitatamente però alle Dodici chiavi), lavorarono per occultare ciò che per grazia divina doveva essere manifestato al mondo, al contrario di Filalete che è invece considerato dal nostro autore un fulgido esempio per tutti gli onesti aspiranti. In secondo luogo perché - e la risposta arriva nell'intrecciarsi dei dibattiti accademici tra Umoristi, Infecondi, Lincei, Incogniti... - erano mancate allora le garanzie sufficienti alla realizzazione di un ideale "morale" necessario all'istituzione della Gerusalemme celeste: un ideale di onestà, di giustizia, di amore per la verità e per il prossimo, oltre che per il sapere. Finalmente Guaccimanni, depositario della stessa esclusiva conoscenza ermetica di tanti ragguardevoli predecessori, avverte che i tempi sono maturi per comparteciparne l'umanità e dare così inizio, un secolo più tardi, all' aurea etade che non si era concretizzata ai primi del Seicento. Ecco, i suoi Dialoghi vogliono essere una purga dall'ignoranza, dagli errori comuni, dalle manovre degli egoisti e, infine, dalle bugie dei malevoli e dei superbi ai quali "non piaceva di veder passare in istoria la favola del secol d'oro" (Dialogo XXXII). Ebbene, al volgere del XVII secolo il Sacro Romano Impero di Leopoldo I d'Asburgo (1640-1705) sembra promettere una casa e una patria agli alti spiriti di cui il Guaccimanni si fa vindice e campione. A Leopoldo I difensore della cristianità, forte dei successi ottenuti dalla Lega Santa contro i Turchi (respinti e sconfitti alle porte di Vienna nel 1683, e poi ancora, definitivamente nel 1697 con la battaglia di Zenta, che avrebbe consegnato alla storia il valoroso principe Eugenio di Savoia, comandante dell'esercito imperiale), l'Europa doveva la sicurezza dei propri confini e delle proprie tradizioni. | << | < | > | >> |Pagina 21Proprio attraverso le pagine dei Dialoghi sembra insomma delinearsi quella rete invisibile che univa gli uomini da un secolo all'altro in un discorso continuo, tra passato e presente. Cominciamo con l'Accademia degli Umoristi, centro di aggregazione di un primo nucleo di esperti ermetisti, e poi proseguiamo con Cristina di Svezia e il suo circolo, mentre il dibattito si allarga ad altre accademie romane e italiane. Da Roma a Ravenna, da Bologna a Venezia, non solo ci è possibile intravedere i forti legami tra membri eminenti della Repubblica delle Lettere, ma ancor più se possibile quel segreto patto di amore e amicizia della Repubblica Ermetica, che come ci si propone in alchimia sembra vincere la morte, conquistando un'eternità che prescinde dai destini individuali e al tempo stesso li esalta.Rileviamo di passaggio la ricca rappresentanza femminile in cattedra d'Ermete, con ruoli che sembrano più marcati tra gli Umoristi e certamente nell'esperienza del Guaccimanni, ma di sicuro non assenti in Arcadia, alla quale anche appartengono alcune interlocutrici. Anzi, attraverso le voci femminili dei suoi Dialoghi, l'autore sembra voler rivendicare la piena partecipazione del sesso femminile ai lavori filosofici e alchemici. In antico le donne erano sacerdotesse, come le vergini vestali custodi del fuoco alle quali accenna Michael Maier (1568-1622) nei Geroglifici, ricorda prontamente la marchesa Marianna Acciaioli, affettuosa protettrice del nostro autore. Ecco per esempio che nel Dialogo XXXV del Tomo III l'autore presenta una versione in poesia italiana del Testamentum di Arnaldo di Villanova, recitata in Accademia Romana - ovvero l'Accademia degli Umoristi - e la propone con un ricco commento delle nove principali interlocutrici. Analogamente nel Dialogo XXXIV illustra una propria versione in metri italiani della Tabula Smaragdina, divisa in nove "oracoli" e commentata da altrettante sapienti dame della nobiltà romana; anche stavolta siamo di fronte, con ogni probabilità, al "ristretto" dei contenuti di una o più sessioni accademiche. Ma le illustri docenti, che peraltro tengono cattedra a Villa Palombara, non sono sole: tutto l'Esquilino si riempie delle armoniche voci degli Argonauti e di tanti altri nobili spettatori giunti per ammirarne la sagacia. Diverso è però l'approccio all'alchimia, che sembra contrapporre Accademia Romana e Arcadia. L'autore nota spesso che l'antica Arte è una filosofia d'amore e identifica inequivocabilmente il Salgemma (materia prima da cui si ricavano Zolfo, Mercurio e Sale, i tre principi necessari a dar corso all'Opera) con l' Anima del mondo, chiamando in causa Ficino. Come l' Anima del mondo si unisce per amore alla materia dei tre regni minerale, vegetale e animale dando luogo alla vita, così i veri filosofi, che di questa nozione sostentano i propri studi e lavori, dovrebbero essere seguaci d'amore e amarsi l'un l'altro. I pastori d'Arcadia, commenta amaramente Guaccimanni, si odiano invece fra loro, e le vane "colonie" che Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728) continua a distribuire non conseguono altro che la moltiplicazione dell'inimicizia. | << | < | > | >> |Pagina 40Tra Umoristi e Arcadi: Cigno non fu mai Pica ArroganteNel 1698, allorché Guaccimanni cominciava a scrivere i Dialoghi, usciva il primo di una serie di volumi dedicati all' Istoria della volgar poesia da Giovanni Mario Crescimbeni, Pastore Custode dell'Arcadia, capo generalissimo di quell'accademia nata appena qualche anno prima, nel 1690. L'abate maceratese stabilitosi a Roma aveva dapprima frequentato gli Umoristi, contigui ai circoli accademici che si riunivano attorno a Cristina di Svezia, con la quale Crescimbeni era stato in contatto fino alla morte di lei, nel 1689; ma se ne era poi allontanato per realizzare il progetto di una "novella Arcadia", un'accademia cioè che ritornasse a un ideale di semplicità classica, anche nella forma delle adunanze. Così in Arcadia si preferiva la limpidezza del Petrarca all'invenzione di Tasso o alle arditezze di Marino; e gli illustri convenuti, secondo i canoni di un quadro idilliaco, abbandonavano salotti e palazzi per i prati erbosi dei giardini, dove sedevano in terra, prediligendo le umide erbette ai velluti sontuosi. La scelta di recuperare la semplicità della vita agreste, quasi a volerla emendare dalle singolari rotture delle convenzioni aristoteliche che vi si erano consumate - pensiamo all' Aminta (1580) di Tasso, al Pastor fido (1590) di Guarini, all' Adone (1623) di Marino, tutti poemi a carattere pastorale di autori membri dell'Accademia degli Umoristi o ad essa vicini - sembrava sottolineare la distanza che sul finire del secolo XVII gli Arcadi intendevano misurare da una matrice culturale divenuta forse nel frattempo scomoda. Gli Umoristi, almeno nella ricostruzione che ci offre Guaccimanni, nutrono più di una riserva su questa nuova accademia, anche perché ravvisano negli Arcadi una grossolana ignoranza degli autori classici e delle stesse regole della composizione che si proponevano di difendere. Così proprio l'incriminato Giovan Battista Guarini affonda nel Dialogo II: «Se quei che voi chiamate Pastori d'Arcadia, ma non della mia Arcadia, né dell'Arcadia di Pausania, non tengono l'uso, e l'esempio dei Greci, e dei Latini, ne men curasi delle Leggi, e regole di Aristotele tal sia di loro». Sempre nel Dialogo II Virginio Cesarini, altro Umorista sul quale torneremo ampiamente in seguito, insistendo sull'importanza di possedere uno stile peculiare, spiega: «Ognuno di noi non solamente venera il Petrarca nel Petrarca, ma lo venera come un Idolo grande in tutti quelli, nei quali è il carattere del Petrarca con lo stil proprio, e distintivo d'ognuno». | << | < | > | >> |Pagina 48L'impresa degli Umoristi, tra atomismo e alchimiaL'immagine scelta dopo lunga consultazione a rappresentare l'Accademia degli Umoristi ci mostra un mare in tempesta, sul quale domina una nuvola che scroscia in pioggia. Lo squarcio di sole che appare dietro i nembi ospita il motto costituito dai versi lucreziani REDIT AGMINE DULCI. L'acqua salsa esalata dal mare sembrerebbe ritornare dunque alla dolcezza attraverso una sorta di distillazione alchemica, tra i vapori superiori. Che si tratti di una separazione dello spesso dal sottile, per dirla con gli alchimisti, è indirettamente spiegato da Girolamo Aleandro (1574-1636), l'accademico Umorista che tenne alcune lezioni su questa impresa e ne pubblicò un celebre discorso accademico: «Sì come la Nuvola è condensata d'umori vaporosi levatisi dall'amarezza del mare, così l'Accademia degli Umoristi è una ragunanza di spiritosi ingegni, che dall'amarezza dei costumi mondani si sono separati. E sì come quella, nonostante che da luogo, così amaro abbia origine, se ne ritorna con abbondanza d'acque dolci, così questa ancorché porti seco nome, che mostra aver del difettoso, non di manco essendosi spogliata d'ogni vile affetto, d'ogni basso pensiero, manda fuori nobili e perfette operationi». E il processo si compie grazie ai "raggi della virtù, o più tosto a quelli della grazia d'Iddio, ch'è vero sole". Questa separazione - operazione alchemica per eccellenza in cui si racchiude, potremmo dire, tutta l'Arte - sembrerebbe abilmente "nascosta" dall'Aleandro nel paragone sviluppato con lo stile di vita perseguito dagli accademici che scelgono di ritirarsi "dall'amarezza dei costumi mondani". | << | < | > | >> |Pagina 52Procedendo oltre, nello stesso Dialogo III, Guaccimanni affida ad Alessandro Tassoni (1565-1635) e a Virginio Cesarini (1595-1624), entrambi in tempi diversi principi degli Umoristi, il compito di legare l'Accademia alla tradizione della filosofia atomistica, in ragione del motto lucreziano. Tassoni, benché Lucrezio non abbia tenuto Democrito "in tanta grazia" come Epicuro, osserva che: «(...] è ben dovere che la Romana Accademia habbia qualche particolare affetto [...] almeno a Democrito, [...] perché è sempre però un Esercito d'atomi assottigliati, ed inversi per ragione di moto sul Cribro dell'aria, la pioggia che cade dalla Nuvola della Romana Accademia».Così come il tempo di Democrito coincise con il massimo splendore di Roma, Virginio Cesarini nota che: «[...] questo secolo, che chiamasi il Secolo della Romana Accademia è il secolo ancora degli Atomi come prova Magneno. Sicché i Signori Umoristi tutti per sentenza di Lucrezio posta in fronte alla Nuvola loro Impresa Redit Agmine dulci haveranno una stretta amicitia con tutti quei filosofi, che chiamansi Atomisti, o Corpuscolariani, e confessava la Romana Accademia di haver havuto i suoi principi, e pregressi col Democrito redivivo del Magneno, e con l'Epicuro del Gassendi, e con la scola maravigliosa di Renato des Cartes».
Con questo intervento di Cesarini, Umorista e Linceo, l'Accademia degli
Umoristi giunge quasi a rivestire il ruolo di centrale
di collegamento tra l'antica scuola atomistica (Leucippo, Epicuro, Democrito) e
la nuova più recente filosofia del secolo XVII,
della quale si citano i principali esponenti (Magnen, Gassendi,
Descartes). Guaccimanni sceglie un uomo versato nelle scienze,
amico di Galilei che a lui aveva dedicato
Il Saggiatore,
per compiere questo ardito passaggio. Eppure ci chiediamo: cosa possono
avere in comune l'atomismo classico o il corpuscolarismo meccanicistico di
Descartes, con l'alchimia conosciuta e praticata tra i
Romani Accademici?
Per rispondere occorre guardare con il
microscopio, con l'"occhialino per vedere le cose minime"
che Galileo aveva inviato al principe Cesi, fondatore dell'Accademia
dei Lincei; oppure, il che è lo stesso invertendo però le parti, ricorrere al
cannocchiale, pur esso galileiano...
Come in alto, così in basso:
l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande si assomigliano, questa è la
principale conquista della filosofia atomistica
o corpuscolare, che supera così la fisica qualitativa degli elementi,
riconoscendo nella materia e nel moto l'origine comune di tutte
le cose, terrestri e celesti. Dio crea la materia e il movimento, poi
la Natura procede a specificarsi nei singoli enti, a seconda delle
differenze nelle forme degli atomi e dei loro moti. Tutto è perciò trasformabile
in tutto, perché comune è l'origine delle cose;
e dunque - il che è fondamentale in rapporto all'alchimia - è
virtualmente possibile risalire la catena dell'essere per ritornare
all'inizio, al primo ente individuato ma non specificato, all'Uno-Tutto della
filosofia ermetica.
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