Autore Ippolita
Titolo "La Rete è libera e democratica" (Falso!)
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2014, Idòla , pag. 92, cop.fle., dim. 11x18x1,1 cm , Isbn 978-88-581-1182-6
LettoreFlo Bertelli, 2015
Classe informatica: reti , informatica: sociologia , informatica: politica












 

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Indice


Premessa                                                     VII

1. Argomento ontologico                                        3

   - 1. Urbi et Orbi, p. 3
   - 2. La Rete non è il Web, p. 5
   - 3. «La democrazia sul Web funziona», p. 10
   - 4. La Repubblica degli algoritmi, p. 13
   - 5. La disonestà della trasparenza totale, p. 17
   - 6. Liberi di navigare in un grande Mare nostrum, p. 22
   - 7. La dittatura del «poter-fare» illimitato, p. 27
   - 8. La domesticazione delle masse, p. 32

2. Argomento epistemologico                                   37

   - 1. L'informazione rende liberi, p. 37
   - 2. Sillogismi fallaci e analogie identitarie, p. 46
   - 3. Questioni di scala: dalla massa al convivio, p. 53

3. Argomento storico-geopolitico                              61

   - 1. Gli dèi delle nuvole e la terra degli schiavi, p. 61
   - 2. Deliberazione assistita e democrazia diretta, p. 65
   - 3. Uguaglianza o isonomìa?, p. 71
   - 4. La democrazia globale,
        ovvero il modello sino-americano, p. 74
   - 5. Nella Rete dell'anarco-capitalismo, p. 78
   - 6. Democrazia elettronica:
        lo «stato d'eccezione di massa», p. 84

Ringraziamenti                                                91


 

 

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Pagina IV

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Pagina VII

Premessa


Le tecnologie digitali hanno dato la possibilità al capitalismo di sperimentare, nella quasi totale assenza di regole, in un nuovo campo di sviluppo: la Rete. Tale possibilità consiste nella produzione spontanea di comunicazioni e relazioni, peculiari degli esseri umani, e di controllare i processi di divenire delle soggettività.

L'impatto potenzialmente trasformativo delle tecnologie è ostacolato e smorzato dalla riaffermazione del potere dispotico dell'economia, colluso con le istituzioni politiche. I desideri di singolarità o autonomia sono riterritorializzati in funzione del profitto commerciale. Da un punto di vista politico le istanze di conflitto sono depotenziate e addomesticate dall'immediatismo informazionale. L'onere della crescita, della produzione infinita, grava sulle spalle del soggetto di prestazione. Egli è in guerra con se stesso, poiché intuisce la propria radicale inadeguatezza.

Le tecnologie rappresentano l'ultimo rifugio individuale e collettivo al tempo stesso.

Solo parzialmente consapevoli della pervasività delle tecniche di profiling, i cittadini della Rete (netizen, da net + citizen) si barricano dietro facili slogan: «non ho niente da nascondere», «l'informazione rende liberi», «tutti a casa»! Si cela così l'esistenza di un potere centrale incensando la retorica partecipazionista, tacendo sugli elementi procedurali (in che modo vengono prese le decisioni) e sulla proprietà dei contenuti degli utenti (che in ogni caso non possiedono né le conoscenze né le tecnologie per monetizzarli).

La Paidèia Digitale trova il proprio set pedagogico in una nuova esperienza di fusionalità: tutta la forza e l'entusiastico piacere di sentirsi parte di qualcosa, unito alla sicurezza di rimanere se stessi e, anzi, di poter mostrare la parte migliore e autentica di sé. La Società in Rete, sprovvista di conoscenza e consapevolezza tecnica, spinge i cittadini a giocare il ruolo di prosumers (produttori-consumatori) senza sapere nemmeno di cosa si tratti. Così il modello 2.0 assurge nell'immaginario collettivo a deus ex machina, panacea per i mali della democrazia analogica e nuovo orizzonte di libertà.

La Rete diventa una meta-narrazione ideologica. Onnicomprensiva, perché pretende di fornire una (pseudo) spiegazione razionale a ogni evento e di risolvere ogni problema della condizione umana, comprese velleità di tipo ecologico globale. Questa Grande Narrazione si pone anche come soluzione e via d'uscita rispetto alla crisi economica attuale. E può farlo perché implica un nuovo modello economico, basato su una risorsa inesauribile: la capacità umana di comunicare e prima ancora di produrre senso. È quindi una forma di capitalismo profondamente biopolitica, dedita alla raccolta, stoccaggio, aggregazione e trasformazione di quella serie di metadati e dati che formano i Big Data.

Gli strumenti, le soluzioni tecnologiche in generale, tendono a monopolizzare le esigenze che pretendono di soddisfare e diventano l'unica risposta possibile, insostituibile e inevitabile. Questa affermazione si può applicare abbastanza facilmente a ogni sfaccettatura della Rete. Capita spesso di notare, in un piccolo gruppo di persone riunite in real life, che i soggetti coinvolti si auto-sospendano a turno dalla dinamica di reciprocità per concentrarsi sul proprio smartphone per «fare cose» non meglio identificate, che vanno dall'onnipresente lavoro ad applicazioni ludiche quali Fruit Ninja o Candy Crush.

Ma le esternalità negative dell'adozione di tecnologie di massa sono molto più profonde dei meri effetti sociali immediatamente esperibili nella vita quotidiana, e sono incalcolabili per il semplice fatto che nessuno conosce il futuro. Possiamo solo ipotizzare con ragionevole certezza che gli effetti nocivi tendano a sovrapporsi in maniera sinergica. Se l'argomento della scala si applica a ogni aspetto delle reti digitali, ecco che l'utopia democratica di una massa globale di netizens inizia a mostrare tratti chiaramente dispotici.




I movimenti di indignazione popolare sorti negli ultimi anni hanno la caratteristica di essere nati e cresciuti in costante contatto con le tecnologie digitali di massa e hanno, quindi, una vocazione che richiama le pratiche che si sviluppano negli ambiti del cosiddetto Web 2.0. Innanzitutto hanno la percezione di essere massa: non a caso si parla di Popolo della Rete. Sentono che possono dar voce alle loro idee, poiché la libertà di espressione è uno degli slogan con cui si promuovono i flussi costanti di comunicazione, necessari all'espansione della Rete stessa. L'antica virtù che ispirava la libertà di parola, la parresìa (dal greco pan, «tutto», e rhema, «ciò che viene detto»), diventa un imperativo categorico a esporre le proprie viscere online.

In un momento di violenta crisi economica, questi movimenti sentono di essere la Maggioranza, il 99%, i cittadini accolti nel Web e dimenticati dalla politica. Non stupisce quindi che amplifichino il senso di uguaglianza indossando la maschera del cospiratore cattolico inglese Guy Fawkes (come rappresentato nel romanzo grafico di Alan Moore e David Lloyd, Vfor Vendetta, e nell'omonimo film prodotto nel 2005 dai fratelli Wachowski), invece che coltivare un assetto multidentitario e differenziale. L'obiettivo principale di questa maggioranza indignata è l'abbattimento delle tecno-burocrazie statali, percepite (a ragione) come élites corrotte, clientelari, forti con i deboli (i cittadini indignati) e deboli con i forti (la cosiddetta Troika: Banca centrale europea-Fondo monetario internazione-Unione europea).

Non pochi movimenti richiedono a gran voce un controllo popolare di questi organismi e la forza d'urto è notevole, perché il richiamo identitario è forte: siamo tutti sulla stessa barca. Da anni Google ci insegna che la democrazia digitale consiste nell'elaborare filtri e algoritmi adeguati per estrapolare l'opinione della maggioranza. Era ovvio che presto o tardi la Società della Rete, educata a questo nuovo ethos, avrebbe traslato il meccanismo in senso più strettamente politico.

Siamo due volte lontani dalla luce, direbbe Platone. Infatti il paradosso è lampante: questi movimenti cercano di abbattere le tecno-burocrazie statali appoggiandosi a forme di tecno-burocrazie digitali, i cui meccanismi di funzionamento sono ancora più oscuri di quelle precedenti. Non bisogna dimenticare che in Europa la Bce ha rapidamente assunto il controllo del governo effettivo proprio in nome «delle competenze tecniche».

Questi movimenti sono fortemente connotati dalla feticizzazione autoritaria dell'efficienza e vedono nel proceduralismo «oggettivo» dell'informatica una possibile garanzia di trasparenza e partecipazione. Utilizzano la Grande Narrazione della Rete per risolvere, senza affrontarli, i problemi classici della democrazia: l'onestà dei cittadini e dei governanti, la partecipazione effettiva della popolazione alla vita democratica.

Per quanto questi movimenti si dicano reticolari, ricalcano pedissequamente modelli di organizzazione gerarchica e non sono affatto reti organizzate. Alcune punte avanzate arrivano a porre il problema dell'utilizzo di software open source o addirittura libero, ma i meccanismi di produzione degli strumenti digitali rimangono industriali, così come la distribuzione. L'infrastruttura della Rete è tutto fuorché libera e democratica: non si capisce quindi in che modo secondo questi movimenti digitali il suo utilizzo dovrebbe automaticamente generare un valore aggiunto che sia garanzia di «libertà e democrazia».

La democrazia non è un codice, né tanto meno un software. Non c'è un programma, né un programmatore capace di far funzionare meglio e risolvere i bug del sistema. La democrazia non è un problema da risolvere una volta per tutte. La prospettiva va completamente ribaltata: non serve prendere il Palazzo d'Inverno della macchina statale attraverso i meccanismi desueti della democrazia rappresentativa, poiché si otterrebbero solo ridicoli portavoce eletti in un parlamento, in una banca, in un ente transnazionale.

Occorre invece sapere che la forza di una rete, sia essa anche di tipo centralizzato, sta nei margini, nei territori di frontiera, poiché solo in una dimensione locale, che abbandoni ogni logica di scala, è possibile avviare una nuova paidèia tecnologica che ricomponga la frattura tra conoscenza e capacità tecnica. Fare molteplice, non fare maggioranza. Gilles Deleuze e Félix Guattari nell'introduzione di Millepiani scrivevano:

Il molteplice bisogna farlo, non aggiungendo sempre una dimensione superiore, ma al contrario il più semplice possibile, a forza di sobrietà, al livello delle dimensioni di cui si dispone.

Solo attraverso pratiche micro-politiche quotidiane gli individui possono raggiungere un'intesa basata sulla fiducia reciproca anziché delegarla a un sistema tecno-burocratico. Ciascun individuo deve poter mantenere in ogni momento una personalità multidimensionale che non può essere ridotta al segno di una particolare prassi. Occorre una risposta politica capace di contrapporre al sistema dominante dei social networks la costruzione di trusted networks.

Non bisogna dunque farsi ingannare dalla pressante richiesta di alternative valide, soprattutto quando sono declinate nella rabbiosa pretesa di alternative immediate e funzionali per tutti. È chiaro che se si vuole qualcosa di potente e grande come Google o Facebook, l'alternativa non esiste. L'alternativa a Google, ma che funzioni in modo rapido ed efficace come Google, non può che essere un altro Google, così come l'alternativa a Facebook, ma che funzioni come Facebook, può essere solo un altro Facebook.

Ci vogliono invece tante alternative situate e collocate, che stabiliscano il terreno delle responsabilità, tante soluzioni locali e diversificate. Perché è il gigantismo che non funziona. È l'ideologia della crescita illimitata che gira a vuoto, e la trasparenza radicale non ci sta rendendo più liberi. Infine, rifiutiamo l'idea espressa nella conclusione di Internet è il nemico da Julian Assange, secondo cui nel futuro a venire «sarà libera soltanto un'élite di ribelli hi-tech, gli astuti topi che scorrazzeranno dentro il teatro dell'opera»: si tratta solo dell'altra faccia dell' informatica del dominio. L' areté (virtù) della Rete non è il suprematismo nerd della filosofia anarco-capitalista, ma l'esplorazione del limite, insieme tecnico ed etico, capace di diffondere socio-potere. Non vogliamo nessuna élite e nessuna avanguardia; piuttosto faremo muta di caccia, poiché ognuno deve poter fare il proprio gioco e al contempo partecipare alla banda, come osserva Elias Canetti:

nelle costellazioni di cambiamento della muta, l'individuo si terrà sempre ai suoi bordi. Sarà dentro e subito dopo sul bordo, sul bordo e dopo al centro. Quando la muta forma un cerchio intorno al fuoco, ciascuno può avere dei vicini a destra e a sinistra, ma non alle spalle. Le spalle restano nude ed esposte alla natura selvaggia.

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È facile comprendere, dunque, perché il concetto di Web e quello di Rete vengano comunemente sovrapposti, al punto da essere usati come sinonimi.

Questa Rete che non è solo Web ha i suoi padroni: Microsoft, Google, Amazon, Apple, Facebook e così via. Padroni, perché non solo posseggono i codici dei software che usiamo, le informazioni che regaliamo loro, la potenza di calcolo e la manodopera per mantenere il tutto in movimento (tra cui andrebbe calcolata anche la nostra manodopera gratuita di utenti). I nuovi padroni digitali hanno anche plasmato una mentalità, hanno promosso un'idea del mondo e annunciano ogni giorno la buona novella del Web 2.0.

A poco più di vent'anni di distanza dalla messa online del primo sito sul WWW ci troviamo adepti di una nuova religione di cui non conosciamo né origine né struttura, ma di cui applichiamo la liturgia con scrupoloso zelo quotidiano.

Ci siamo adattati progressivamente a tutte le interfacce e alle inserzioni pubblicitarie defilate ma onnipresenti; abbiamo adottato i servizi più disparati, e l'abitudine al loro utilizzo si è trasformata ormai in consuetudine; la fidelizzazione è arrivata allo sviluppo di vere e proprie dipendenze e credenze; abbiamo maturato nuove competenze digitali, soprattutto nel senso letterale delle dita, instancabilmente affaccendate su tastiere sempre più piccole e su schermi tattili. Ma metterci sopra le mani (hands on!, recita l'etica hacker) è tutta un'altra cosa.




3. «La democrazia sul Web funziona»


L'indicizzazione del Web da parte di Google è paradigmatica di questa forma di malafede costitutiva. Siccome l'ascesa di Google coincide con quella del Web, analizzeremo l'ontologia del motore di ricerca più diffuso al mondo per sbirciare un po' dietro le quinte. Per ontologia intendiamo le caratteristiche fondamentali di un oggetto, quelle che vengono identificate con i suoi tratti essenziali.

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Questa vigilanza costante sui flussi digitali in tutto il globo fa girare parecchio denaro. L'industria dei meta-dati e del profiling legato alle tecniche di data mining è tutto ciò che non riguarda il dato in sé, ma il complesso delle informazioni che vi ruotano attorno: chi, dove, in relazione a cosa, in quale stato emotivo.

Oggi si parla di Big Data come del nuovo filone aurifero dell'economia informatica: questo tipo di mercato fa affidamento sull'inconsapevolezza dell'utente, sulla leggerezza con la quale espone le sue informazioni personali, sull'entusiasmo con cui le fa circolare insieme a quelle di coloro che lo circondano, mentre è diventato urgente elaborare una visione complessiva, trasversale, critica, e bisogna insistere sulle pratiche di autoformazione e autodifesa digitale.

Internet non si sta espandendo e arricchendo; Google non sta rendendo il mondo più democratico; Facebook non ci sta rendendo migliori; Apple non ci sta facendo diventare creativi; Amazon non sta ampliando la nostra possibilità di scelta; Twitter non è il nostro orecchio sulle rivoluzioni in corso. Ci sono solo un pugno di protagonisti, i nuovi padroni digitali appunto, i grandi mediatori informazionali, che ricombinano lo spazio in sotto-reti comunitarie sempre più omogenee.

I preziosi meta-dati foraggiano una fetta notevole dei mercati finanziari. Mentre in tutto il mondo infuria la più virulenta crisi economica dopo la Grande Depressione, l'andamento complessivo dei titoli borsistici di natura tecnologica (riassunti dall'indice Nasdaq) è decisamente al rialzo: è dal crollo del 2009 (comunque di portata minore rispetto a quello delle dot com avvenuto nell'aprile del 2000) che la crescita procede senza sosta. Solo i beni di lusso hanno conosciuto una crisi più blanda.

Non è difficile intuire come, una volta costruite le infrastrutture, sia possibile dirigere in maniera eterogenea le masse, instillando desideri indotti (un nuovo iPhone quando non abbiamo ancora finito di pagare quello vecchio), stimolando a fornire sempre più informazioni (il tuo numero di cellulare per accedere «con maggior sicurezza» al tuo account) e così via...

Così facendo si ottiene una vera e propria «formazione a distanza» all'utilizzo di sempre nuove piattaforme e dispositivi: è la nuova Paidèia Commerciale nella quale impariamo a essere cittadini-consumatori. Tale formazione è permanente grazie alla perenne prossimità dei dispositivi: chi dorme con lo smartphone vicino? Chi si disconnette mentre è impegnato in attività ludiche, o persino sessuali?

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Così come Google ci spinge a credere che la democrazia sia gestibile da un algoritmo, inducendo un meccanismo di fiducia nell'oggettività della scienza, allo stesso modo il social network trasforma l'idea di opinione pubblica nella convinzione che molte opinioni soggettive (espresse nei forum, nei tweet, negli status) si trasformino per incanto nell'esatto opposto, in verità rivelata, nel momento in cui superano un certo numero di like o di interventi da parte di altri utenti e diventano capaci di influenzare e rappresentare autorevolmente la maggioranza.

In quasi tutte le analisi si tace sul fatto che le piattaforme social sono state create con l'obiettivo del profitto, non con l'idea di creare un contesto democratico globale di dibattito interculturale. I Terms of service («Termini di servizio», solitamente abbreviati in Tos) dei servizi 2.0 molto spesso parlano chiaro: tutte le informazioni saranno copiate e utilizzate a fini commerciali, «nel rispetto della privacy», qualunque cosa voglia dire. Ma nessuno li legge e, in ogni caso, cambiano molto rapidamente, quasi sempre con l'obiettivo dichiarato di «aumentare la sicurezza». Ondate di paura mediatica relative alla sicurezza si alternano a secche di resa totale ai servizi che si occupano dei nostri dati. La paranoia del controllo è l'analogo opposto dell'incoscienza della delega tecnocratica. Se qualcosa va storto, bisognerà officiare il rito della penitenza che prevede, ad esempio, di rispondere a domande segrete per recuperare la propria password, dimostrare che siamo proprio noi e non degli impostori, fornire nuovi dettagli che permettano alle macchine di identificarci in maniera più precisa. Il profitto, dunque, si basa essenzialmente sul monitoraggio e l'analisi dei dati così acquisiti: più le persone si esprimono e interagiscono, maggiori sono i dati e più dettagliato il profiling e, di conseguenza, il profitto che deriva dalla vendita di statistiche, pubblicità mirate, analisi di mercato e prodotti personalizzati su vasta scala. Il dibattito politico e culturale, l'espressione di senso e di dissenso sono funzionali alla creazione di una base dati bio-tecnica interrogabile, misurabile e in trasformazione costante.

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2. Sillogismi fallaci e analogie identitarie


Attingendo in maniera laica e disinibita dalla ricca tradizione del pensiero occidentale, possiamo, per esempio, riprendere la tecnica del sillogismo, il ragionamento concatenato, molto efficace nel caso di proposizioni di senso comune che si vogliono inoppugnabili.

Un sillogismo si compone di tre parti: una premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione. Sulla scorta di quanto detto finora, si potrebbero quindi formulare degli pseudo-sillogismi fallaci:

        a) La Rete è Google.
        b) Google è libero e democratico.

                    ergo

        c) La Rete è libera e democratica.

Oppure, andando ancora più nello specifico degli elementi tecnici che consentono di affermare che «Google è democratico»:

        a) Il PageRank è libero e democratico.
        b) Il PageRank è la Rete (determina l'esperienza della Rete).

                    ergo

        c) La Rete è libera e democratica.

O anche, facendo un passo oltre:

        a) Il nostro Movimento è in Rete.
        b) La Rete è libera e democratica.

                    ergo

        c) Il nostro Movimento è libero e democratico.

Ovvero, al contrario:

        a) La Politica Istituzionale non è in Rete.
        b) La Rete è libera e democratica.

                    ergo

        c) La Politica Istituzionale non è libera né democratica.



Naturalmente si tratta di forzature, ma fino a un certo punto. Servono a mettere in luce la nostra sostanziale ignoranza dei processi che determinano l'esperienza di diluvio informazionale, di abbondanza di informazioni su cui si basa la pretesa democrazia digitale. Servono a smascherare ragionamenti diffusi basati su premesse fallaci, su semplificazioni al limite del ridicolo, che fanno di tutta l'erba un fascio.

Seguendo il ragionamento sui metodi conoscitivi, diremo che queste pseudo-deduzioni e pseudo-induzioni sono frutto di particolari analogie. Estrapolano una caratteristica senza definirla (ad esempio, la libertà), da un oggetto che è in realtà un conglomerato di pratiche, oggetti, sistemi (ad esempio, il PageRank), e la trasferiscono su un altro oggetto ancora più vasto e indefinito quale può essere la Rete.

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In conclusione, le conoscenze immagazzinate all'esterno dei nostri corpi, in quelli che vengono chiamati Big Data, sono una chimera, perché le conoscenze di cui gli esseri viventi possono godere non sono esternalizzabili né intercambiabili. I Big Data non sono autocoscienti, non sono il codice del benessere sociale. Nicholas Carr ha sostenuto che Internet ci rende stupidi. Diremo piuttosto che l'abuso delle tecnologie commerciali atrofizza le nostre capacità cognitive, fornendoci protesi con cui sostituiamo arti sani. Possiamo invece usare le tecnologie dell'informazione come campo di gioco per esercitarci e migliorare le nostre competenze, come lo sono stati nella nostra formazione la letteratura, la musica, le arti plastiche e ovviamente la filosofia.

La condivisione è possibile, le conoscenze possono essere oggettivate, scambiate, apprese, tradotte e condivise, individuando livelli collettivi. Ma il primo passo è l'autocoscienza del proprio valore, la cura posta nella costruzione del sé, la capacità di narrare la storia della propria immaginazione personale.

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