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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione L'estasi del tra-noi, 7 L'oblio di lei, 8 Un tra-noi in sospeso nell'aldilà, 11 La chiusura del medesimo, 15 Come sfuggire all'aperto, 18 Un mondo insieme chiuso e aperto, 23 L'essere umano come essere in relazione, 26 All'inizio, lei era 33 1. A quel tempo c'era ancora la vita L'impossibile dominio sulla crescita naturale, 33 Avvolto nel proprio linguaggio, 40 Un mondo dal quale svaniscono le donne, il mistero, il meraviglioso, 47 Un dualismo logico soppianta una dualità naturale, 53 61 2. Un essere creato a dispetto della sua generazione Generato da due differenti, affronta dei contrari, 61 L'alternanza tra il limite e l'illimitato, 68 Molteplice, lei è anche una, 76 Né animale né dio, non ancora uomo, 83 92 3. L'erranza dell'uomo Un divenire staccato dalla sua radice carnale, 92 Lacerato, l'uomo si proietta nell'aldilà, 99 Il carattere sacro della relazione maestro-discepolo, 107 Loblio di un'impercettibile origine, 114 121 4. Tra mito e Storia: la tragedia di Antigone Condividere il tragico fato di Antigone, 122 Il rispetto per la vita e l'ordine cosmico, 127 Il rispetto per l'ordine della generazione, 135 Il rispetto per la differenziazione sessuata, 139 Una tragedia insormontabile, 144 147 5. Il ritorno Per quale motivo l'uomo occidentale prova nostalgia?, 150 L'autoaffezione al maschile, 156 L'autoaffezione al femminile, 163 L'autoaffezione necessita dell'essere due, 167 171 Nota al testo |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneL'estasi del tra-noi È probabilmente necessario ritornare al mondo dei presocratici, per capire qualcosa del tra-noi oggi. Entrare in quel mondo ha luogo per il tramite di una guida, un maestro. Egli inizia il discepolo, in un certo modo un figlio, alla verità, alla logica della verità occidentale.
Il maestro comincia generalmente il suo insegnamento con le parole: Io dico.
Ossia egli pensa che la verità sia garantita dal proprio discorso e che il
discepolo debba ripetere lo stesso discorso, affermando:
egli dice, o egli ha detto. La verità è dunque trasmessa dal maestro al
discepolo, come da un padre a un figlio. La verità è trasmessa tra uomini,
secondo un ordine genealogico o gerarchico.
L'oblio di lei È noto, come ricorda per esempio Clémence Ramnoux nel suo lavoro sui presocratici, che all'origine è una lei - natura, donna o Dea - che ispira la verità a un saggio. Il maestro però tiene generalmente segreto ciò che ha ricevuto da lei, grazie al quale, grazie alla quale, ha elaborato il suo discorso. Egli non dice granché riguardo a questa origine, perché le parole gli mancano o perché vuol tenerlo per sé - perché non può o non vuole parlare della sua relazione con lei. Questa relazione rimane quindi nascosta o rimossa dall'insegnamento del maestro presocratico. Tuttavia, alcuni maestri, quali Empedocle o Parmenide, alludono a lei, ciascuno a suo modo. Anche Platone accenna a lei, almeno quando si tratta dell'amore, della relazione-tra. Comunque, sono uomini che evocano un'assenza o un assente, un vuoto o un'eccedenza. Fanno riferimento a qualcosa che è altro rispetto al loro discorso, a un aldilà per il quale non hanno parole, e soprattutto logica. Un qualcosa che dissimulano, al quale alludono talvolta in assenza di lei. Un qualcosa che sarà lasciato al di fuori del logos, nel bene o nel male. A quel tempo, la memoria ancora sussiste di un non-detto, di un aldilà nel quale meraviglia, magia, estasi, crescita e poesia si mescolano, resistendo al nesso logico che viene imposto alle parole, alle frasi, al mondo. Alcune tracce ne rimangono, almeno nel discorso di alcuni maestri. Una sorta di estasi ancora esiste riguardo a ogni discorso, ogni scambio tra uomini negli spazi pubblici o in altri cenacoli, luoghi in cui parlano, parlano soltanto fra loro. Qualcosa rimane che non riescono a esprimere, neppure a sperimentare di nuovo, perché mancano gesti o parole per dirlo, per trasmetterlo, per produrlo. Permane solo la memoria di un'esperienza - che a poco a poco sarà cancellata -, l'esperienza di un meraviglioso, inaccessibile, inesprimibile aldilà. Un aldilà che nasceva da un incontro con lei - natura, donna o Dea - a proposito del quale la maggior parte dei maestri non dicono quasi nulla e al quale non rinviano il discepolo. Il loro insegnamento dovrebbe essere autosufficiente, staccato da lei come fonte. Certo non tutti i maestri sostengono che debba essere così, ma certi tra loro lo fanno. E, a poco a poco, il loro insegnamento introdurrà il discepolo in un universo chiuso, parallelo al mondo vivente, al mondo naturale. Tuttavia, per alcuni maestri - come Empedocle o Parmenide - la totalità del discorso è ancora misteriosamente fondata a partire da lei - natura, donna o Dea - che rimane l'inaccessibile cosa dalla quale sorgono le parole e alla quale sono rivolte. Per altri invece - Eraclito, per esempio - il discorso si richiude su di sé per mezzo di strategiche opposizioni conflittuali. Ormai diviene possibile che la conversazione e il dialogo abbiano luogo tra sé e sé, dentro o tra il(i) medesimo(i), e la verità e il linguaggio comincino a parlare a partire da loro, su di loro, senza alcuna origine in un altro o senza alcun ritorno ad un altro, un altro che è all'inizio femminile — natura, donna, Dea. L'uomo si stabilisce nella sua dimora di linguaggio, staccato dal reale e dall'altro in quanto reale. Una tautologia di parole, di verità isola i soggetti parlanti — maestro e discepolo — in un riparo, un universo, una logica che raddoppia ciò che appartiene alla loro nascita, alla loro crescita, alla loro realtà naturale. Questo gesto avviene in un modo più segreto e sottile di quello di Prometeo, e prepara a una morte per soffocamento, spossatezza, isolamento, conflitto e infine distruzione di lei — natura, donna o Dea. Lei svanisce in una cultura fondata nel medesimo, al di là della quale si estende e della quale è testimonianza la nostalgia di alcuni maestri verso un aldilà. Alludono a un «vuoto», a una «lacuna», tutt'al più a un «Essere» al di là del loro discorso per coloro che, come Parmenide, ancora si fidano di lei. | << | < | > | >> |Pagina 23Un mondo insieme chiuso e apertoOrbene l'altro è colui che può tenere aperta la chiusura del mondo, dandogli dei limiti: l'altro qui vicino a me ma differente da me. Le relazioni con lui, o con lei, mantengono il mondo, ciascuno dei mondi, al contempo aperto e strutturato se rispetto l'altro come irriducibile a me, trascendente a me. Questo non significa che l'altro è verticalmente superiore a me, come un assoluto o un ideale di cui io sarei soltanto una manifestazione tra le altre, imperfetta come le altre. Trascendente qui significa irriducibile a me: al mio io, a me, al mio. Il fatto che non sarò mai in grado di appropriarmi completamente dell'altro e che l'altro non sarà mai in grado di appropriarsi completamente di me, mantiene il soggetto e il suo proprio mondo insieme chiuso e aperto. Aperto perché l'altro, nella sua differenza, mi rimane inaccessibile, perché lui, o lei, rappresenta un aldilà rispetto al mio io, a me, al mio, un aldilà qui presente accanto o di fronte a me. Chiuso perché, attraverso il rispetto dell'inaccessibilità, della trascendenza dell'altro, sottopongo me stessa(o) e il mio mondo al negativo per preservare la dualità dei soggetti e dei mondi in presenza. In tal modo, io e il mio mondo siamo provvisti di limiti. Contrariamente al suo scopo nell'opera di Hegel, il negativo qui disfa l'uno, l'Uno, e restituisce il due. Preserva anche il luogo dell'estatico intervallo tra l'uno e l'altro, un luogo che non appartiene né all'uno né all'altro, sebbene sia nato da una relazione nella quale l'uno e l'altro, l'uno all'altro, sono presenti. Una simile estasi corrisponde in parte — ma solo in parte — all'estasi tenuta in sospeso dal maestro presocratico. Essa non equivale soltanto a quello che era stato lasciato non detto e incompiuto della relazione con lei — natura, donna, Dea. Comprende anche un intervento di lui verso lei — e l'esistenza di uno scambio e di un dialogo tra i due. L'estasi allora diviene un processo nel quale ciascuno è custodito come colui, o colei, che è — con le potenzialità corrispondenti al proprio divenire — grazie all'irriducibilità tra i due, la trascendenza tra i due, la differenza tra i due. L'estasi diviene un luogo di, e per, il desiderio e non soltanto per il bisogno, che sempre mira a colmare: l'uno, l'altro e il tra-due. Il desiderio è preservato perché nessuno dei due può appropriarsi dell'altro. Il desiderio non equivale a un'unione dovuta a un'inconscia prossimità, a una condivisione di lingua o di paese natale, a una familiarità legata alla dimora di famiglia e alla vicinanza. Invece, il desiderio corrisponde a un'attrazione mantenuta viva grazie a una relazione attenta all'altro in quanto differente da me, un altro che rimane, quindi, per sempre al di là di ogni appropriazione da parte mia. Il che consente una prossimità pur rispettando il due e custodisce anche il tra-due. Il desiderio in quanto tale è voler entrare in relazione con l'altro. Il desiderio non è mai voler possedere o appropriarsi dell'altro, cosa che equivale a un reale o immaginario bisogno di ridurre l'altro a me o al mio. Si tratta piuttosto di stabilire, mantenere e coltivare il tra-noi. Il surplus o l'aldilà riguardo a ciascuno deve non soltanto finire con un passaggio individuale dall'istinto alla cultura, da un'immediatezza sensibile a un comportamento razionale, da una natura umana a una natura divina. Tutto ciò dovrebbe accadere gradualmente senza estasi, perlomeno senza un'estasi che si appropria e cancella l'estasi del tra-noi. Questo luogo non appartiene né all'uno né all'altro; è generato, mantenuto, sviluppato dalla reciproca attrazione tra i due mediante il rispetto della trascendenza di ciascuno da parte dell'altro. | << | < | > | >> |Pagina 28Come possiamo al contempo preservare e sviluppare la nostra libertà in quanto umani? Proprio coltivando il tra-noi, ma non soltanto come individui che appartengono semplicemente allo stesso popolo. In tal caso, il tra-noi è già determinato dal popolo e non rimane libero, ancora da scoprire e da coltivare da noi. È in ogni momento, nella relazione con colui che stiamo incontrando, che dobbiamo coltivare l'energia nata grazie a questo incontro. Certamente il luogo più cruciale in cui dobbiamo compiere questo gesto si trova tra un uomo e una donna che lavorano alla trasformazione della loro attrazione in desiderio. Cominciando dal desiderio, possiamo fare tante cose, e prima di tutto diventare umani, da soli e insieme, salvaguardando sempre la relazione tra due esseri differenti.Ho sottolineato la necessaria considerazione per il negativo affinché noi stiamo e rimaniamo due, cioè, in modo che il tra-due non confluisca nella molteplicità di una comunità. Vorrei anche sottolineare il fatto che soltanto una pratica generale dell'arte può mantenere e coltivare il tra-noi. Trasformare i nostri bisogni in desideri richiede la mediazione dell'arte: nei nostri gesti, nelle nostre parole, in tutti i modi di essere in relazione con noi, con l'altro e con gli altri, con il mondo. Il problema non è tanto di sottomettere o meno l'arte alla filosofia, ma di comprendere che per raggiungere un'altra epoca in filosofia, per promuovere una filosofia più appropriata all'umanità in quanto costituita da esseri-in-relazione dobbiamo cominciare con il trasformare la nostra energia attraverso un continuo processo artistico. L'arte non equivale a una specie di lavoro superfluo che conviene solo ad alcuni artisti. L'arte dovrebbe essere una basilare attività quotidiana compiuta da ciascuno per passare dalla natura alla cultura, dal soddisfacimento degli istinti alla condivisione del desiderio, cioè per preservare e coltivare il tra-noi. L'arte è più cruciale della morale per entrare nella cultura di un'umanità costituita da esseri-in-relazione e non da esseri che avrebbero maggiori capacità di altri regni. Se siamo in grado di riconoscere che il nostro compito è considerare il tra-noi come un aspetto che tocca il cuore della nostra umanità, scopriremo che, per riuscire in questo, l'arte, la filosofia e la religione sono di fatto inseparabili. Siamo quindi chiamati a entrare in una nuova epoca della nostra evoluzione umana, un'epoca in cui arte, filosofia e religione assumono un altro significato e vengono praticate in un modo differente da quello che conosciamo in quanto occidentali. | << | < | > | >> |Pagina 83Né animale né dio, non ancora uomoIl linguaggio che l'uomo elabora per rivolgersi al dio o agli dei, per designare il suo ambiente o per scambiare delle informazioni con i suoi pari, non corrisponde ancora a una parola dell'uomo in quanto uomo. Corrisponde, forse, a quello di una specie evoluta, capace di appropriarsi degli oggetti, delle cose, del mondo a distanza e di immagazzinarli differentemente nella sua memoria. Lo strumento linguistico dell'essere umano sarebbe forse più performante rispetto a quello di un'altra specie per dominare il reale e trasformarlo. Si tratta allora di un compito proprio dell'umanità in quanto tale? In una prima fase della sua costituzione? Una fase di conquista ma ancora difensiva? O è questione di distinguersi da altre specie per assicurarsi la sopravvivenza? Questo è già esistere come umanità? O preparare un luogo per potere, un giorno, giungervi? La funzione che ha assunto il linguaggio in questo periodo meriterebbe, quindi, di essere messa in prospettiva. Utile alla sopravvivenza e alla costruzione di un ambiente che permette la manifestazione di una nuova specie, il linguaggio non avrebbe ancora testimoniato, e neppure scoperto, così i suoi caratteri più specificamente umani. Anche nei suoi appelli a un capo, a un maestro o a Dio, non sarebbe radicalmente differente da quello dei segni animali che riconoscono il capo di un branco o la regina dell'alveare. Certo, se si suppone che questo Dio rinvii a un reale che oltrepassa una realtà corporea presente, lui prepara un luogo per un futuro ancora a venire. In una simile riserva, può allora svelarsi l'esistenza dell'altro come altro. Dio o gli dei - nell'unità o nella molteplicità di un sopra-umano - salvaguarderebbero un rapporto con l'altro. A meno che lui, o loro, non l'abbia(no) captato e paralizzato in un potere del medesimo, o del Medesimo, e rinviato all'infinito. Le due eventualità fanno parte dell'ambiguità di un divino definito prima del divenire dell'umano in quanto uomo - e donna - e non come individuo neutro ancora poco differenziato. Un simile divino separa l'uomo in due parti, umana e divina, dette naturale e soprannaturale. Invece di imparare a trasformare, trasfigurare, quello che è per nascita, l'uomo è portato a considerare questa parte di sé come inferiore e a trascurarla per un divenire altro dall'umano. Rinnega così la sua generazione da lei, non coltiva questo dono, né in quanto tale né come relazione con lei. Si vuole creato da un maestro o da un Dio del suo genere: origine e fine del suo percorso. Il suo divenire, lo ipostatizza sia come fonte che come fine. Lasciando la responsabilità di quello che è a un Altro modellato a sua immagine - un Medesimo dunque. In esilio in una vita della quale non ha riconosciuto il valore, la verità. Sempre al di sotto o al di sopra della sue possibilità del momento. Andando troppo in alto, cadendo troppo in basso. Cieco rispetto a ciò che lo circonda in quanto vivente. Piuttosto che divenire quello che è, l'uomo ha preteso di divenire ciò che non è. Saltando dall'animalità alla divinità, non ha coltivato la sua umanità. Umanità della quale il reale e il valore non gli possono apparire nel disconoscimento di lei - o di Lei -, nel misconoscimento del fatto che, dell'umanità, lui rappresenta solo una parte, e che l'umanità non si può coltivare che in due, e nel rispetto delle differenze tra le due parti. Non è da solo, quindi, che l'uomo può produrre la parola. Non è da solo che può imporre degli dei all'umanità né definire le leggi della città, abolendo, in queste, il valore del singolare e della differenza. Gli uomini dovrebbero accordarsi su un qualcosa di comune: un ordine in qualche modo invariabile che impone a tutti la sua relativa astrazione, anzi la sua rigidità. Ciò che ciascuno percepisce del mondo, di sé, dell'altro, è ormai considerato secondario, inconsistente. | << | < | > | >> |Pagina 1475
Il ritorno
Perché la cultura occidentale deve cominciare con la Grecia? Perché segnare un simile taglio in rapporto alle tradizioni precedenti? Alle altre culture? Che cosa comincia con i Greci? L'apparire dell'uomo in quanto uomo, il che significa anche un esilio, un errare, un allontanarsi dalla propria dimora? Accade lo stesso per tutte le culture? Conoscere significa necessariamente una separazione da sé? O tale conoscenza rappresenta soltanto un necessario passaggio storico? Una specie di percorso per ritornare a casa. Una sorta di soggiorno all'estero per apprezzare il ritorno a casa, nella propria terra — come Heidegger commenta in riferimento ad alcune poesie di Hölderlin. Ma il paese, la terra e anche la casa non corrispondono ancora al sé. Tuttavia, la tradizione occidentale tiene viva una simile confusione, probabilmente perché la sua cultura è mediata dall'esteriorità senza un'adeguata coltivazione dell'interiorità del sé. Ed è anche una cultura di sradicamento dalle origini e dalle appartenenze naturali. La cultura occidentale corrisponde a una cultura dell'esterno, non dell'interno. Elaboriamo progetti fuori di noi per costruire, per amare, per conoscere, e diventiamo, in qualche modo, il risultato di eventi che hanno luogo fuori di noi. Non siamo quello che dà misura alla nostra cultura, eccetto che indirettamente come una conseguenza dell'andare fuori di noi e delle tracce che portiamo o lasciamo lì. Di noi stessi, non sappiamo quasi nulla. E anche quando pensiamo che stiamo costruendo il mondo, è il mondo che ci costruisce altrettanto. I nostri progetti riguardo al mondo sono il più delle volte una proiezione, e un'evasione da noi stessi, una fuga da noi, senza un possibile ritorno a noi, in noi. In realtà, gran parte della Storia equivale a una serie di episodi del nostro precipitarci a edificare un mondo, incluso un mondo di conoscenze, che a poco a poco ci sostituisce. In questo mondo gli storici saranno in cerca di qualche traccia, qualche «pelle», come testimonianza del passaggio dell'umanità sulla terra. Parallelamente all'allontanamento da casa, da se stessi, troviamo, nella cultura occidentale, il tema del ritorno. Non è un caso se il testo di riferimento per la cultura greca delle origini ci racconta sia la partenza dell'eroe che va in guerra sia il suo movimentato viaggio di ritorno a casa. Questa doppia epopea presenta un ritratto d'insieme della nostra tradizione, così come il motivo addotto per guerreggiare e i diversi episodi che impediscono all'eroe di tornare a casa. La prima parte di questo racconto profetico equivale al presunto positivo aspetto della nostra cultura, la seconda parte al suo lato negativo o inverso. La prima parte parla dell'emergere di un mondo di uomini tra uomini, la seconda parte della solitudine dell'uomo che cerca di tornare a casa. Alla fine ci riesce grazie al suo carattere astuto, ma non senza sopportare grandi prove che forse significano le tappe del passaggio da un'era della Storia a un'altra. L'eroe torna a casa, ma ritorna al suo sé? Non ne sono sicura. Forse ritorna all'ordine del focolare, del matrimonio, ma non all'ordine del proprio sé, all'intimità con se stesso. E sebbene sentiamo dire molte cose riguardo alle sue relazioni con diverse figure femminili fuori di casa, non è lo stesso riguardo alla moglie. Ascoltiamo che sconfigge i pretendenti della moglie grazie alla sua astuzia e alla sua abilità nel lanciare il giavellotto, che fanno sì che la gente lo riconosca. Ma i pretendenti sembrano volere il possesso dei beni dell'eroe piuttosto che l'amore in quanto tale. Di altre culture, conosciamo molto circa i rituali amorosi, il paragone tra amanti e figure divine, e l'impatto dell'amore stesso sull'ordine cosmico. In questa prima epopea della cultura greca, l'amore sta già diventando un'istituzione legata alla polis. E gli amanti obbediscono già a leggi pubbliche tanto, se non maggiormente, estranee al sé, quanto ai propri affetti. Si allontanano dalla natura, dal corpo, dall'economia degli affetti e diventano sottomessi a leggi estranee a loro. | << | < | > | >> |Pagina 156L'autoaffezione al maschileLe modalità dell'autoaffezione non sono le stesse per l'uomo e per la donna, e non lo sono neppure la loro mancanza o la loro perversione. Per l'uomo, l'autoaffezione è più legata all'unità, alla costituzione di un proprio mondo, alla coltivazione di questo mondo fino alla sua idealizzazione. Dato che non sono un soggetto maschile, è difficile per me definire cosa potrebbe essere l'autoaffezione per un uomo; questo equivarrebbe a sostituirlo. Posso solo interrogare una cultura al maschile. Noto allora che la soggettività maschile non è abbastanza differenziata dal mondo materno. Quindi, la relazione che il bambino maschio ha con sua madre - il primo altro per lui - non è stata coltivata in quanto tale e, si potrebbe aggiungere, non è stata sottoposta a un processo dialettico. Ciò ha implicato diverse conseguenze: 1. È attraverso una divisione tra corpo e anima, natura e cultura, sensibile e intellegibile che la soggettività maschile ha provato a emergere da un legame indifferenziato con il suo primo altro. 2. Più in generale, è attraverso una logica dell'accoppiamento di opposti che la soggettività maschile si è apparentemente separata dalla sua origine naturale e affettiva, ma simili accoppiamenti hanno sostituito una differenza tra soggetti che non appartengono al medesimo sesso e, prima ancora, una differenza tra la madre e il figlio maschio. 3. Una simile logica è dunque regolata dalla genealogia, in particolare in relazione ad alcuni degli accoppiamenti che sono decisivi per la vita relazionale: attività/passività, amore/odio, vicinanza/lontananza, ma anche maschio/femmina e persino Io/altro(i); e questi accoppiamenti avranno un'influenza sull'autoaffezione e la possibile reciprocità tra persone, anzitutto tra due persone. 4. Questo difetto di differenziazione dal mondo materno impedisce la definizione della soggettività maschile come una soggettività singola e, specialmente, sessuata. 5. Da lì il fatto che le relazioni tra soggetti nella nostra cultura abbiano favorito le relazioni tra i «si» o i «certuni» che sono individui neutralizzati e possono essere sostituiti l'uno con l'altro. 6. E il fatto che l'affetto sia imposto al soggetto dall'esterno e che sia più una fonte di squilibrio che di armonia o di un divenire che arricchisce; deve quindi essere ridotto tramite un ritorno all'omeostasi. 7. Da ciò deriva la necessità di un mondo mentale chiuso per proteggersi dagli affetti. 8. E l'assenza di una differenza soggettiva, anzitutto di una differenza soggettiva sessuata; il che non è stato riconosciuto e coltivato in quanto tale in rapporto alla madre, dunque la differenza è diventata in qualche modo solo quantitativa e, per esempio, riferita a Dio come l'altro assoluto, l'altro assolutamente più elevato.
9. La mancanza di coltivazione dell'immediatezza
sensibile e il suo importante impatto sul divenire relazionale dell'umanità.
Il soggetto maschile occidentale ha conservato un'aderenza al mondo materno, che non ha mai sottoposto a un processo dialettico in quanto tale. Oltre al fatto che ha paralizzato il suo completo divenire, specialmente la sua crescita sensibile e affettiva, questo ha pervertito la sua percezione della verità. La separazione dell'intellegibilità dalla sensibilità non risolve il problema; piuttosto lo nega o lo reprime. Questa repressione finisce con il velare la percezione della verità, che interviene in ogni entrata in presenza. È attraverso una sorta di sonno o sogno che l'uomo si avvicina al mondo. Con la pretesa di scoprire la verità mediante il suo logos, fabbricando la verità o il mondo stesso da se stesso, egli aumenta l'illusione invece di chiarirla. Il mondo che l'uomo costruisce in questo modo è un mondo di sogno, e un simile sogno prende talvolta una brutta piega, come accade oggi. Per di più, il mondo che l'uomo ha costruito per superare il suo aderire al mondo materno, per affermare se stesso contro la madre, contro l'essere partecipe del mondo di lei, è diventato uno schermo, addirittura un'arma, che interviene tra il soggetto maschile e se stesso, e impedisce a ogni uomo di tornare a se stesso, in se stesso. L'uomo è caduto nella propria trappola culturale. Egli non è soltanto al riparo, ma è anche rinchiuso nel suo logos, divenuto un prigioniero delle proprie produzioni. Anche quando tenta di tornare indietro, o di aggirare o rovesciare la sua posizione, resta intrappolato da sostituti dei suoi inconsci inizi, ai quali rimane cieco. Tornare a casa è forse possibile dopo molti sforzi, dopo aver affrontato grandi prove. Ritornare a sé non è più possibile. Senza liberarsi dall'aderire all'altro, il primo altro, l'uomo non può tornare al suo sé. Per mancanza di coltivazione della relazione sensibile con sua madre - cioè, dei suoi primi affetti -, l'uomo si è privato dello sperimentare la sua autoaffezione. | << | < | > | >> |Pagina 163L'autoaffezione al femminileA differenza dell'uomo, l'essere due è familiare è familiare alla donna. La bambina non forma una diade con la madre, ma una reale dualità. La somiglianza tra i loro corpi e la loro psiche nelle loro dimensioni relazionali, compresa quella relativa alla generazione, le protegge dal confondersi in un'unica entità. Il due della coppia madre-figlia, tuttavia, non basta per assicurare un'autoaffezione autonoma. Di certo, il due della coppia madre-figlia — che non equivale alla diade madre-figlio — può proteggere la bambina dal proiettare tutto ciò che ha, tutta quella che è, su un soggetto maschile. Il due della relazione madre-figlia però corre il rischio di perpetuare una situazione originaria, che non è ancora coltivata come una possibilità di ritornare al proprio sé. L'aderire al mondo materno è differente da quello del bambino, ma può esistere come continuazione o ripetizione di una situazione originaria, compresa una situazione di dipendenza nei confronti della madre e di un contesto dato.
È dunque senza dubbio utile riaffermare il valore
della genealogia naturale o culturale della donna, in
quanto le consente di superare la sua dipendenza
dalla genealogia maschile. Ma non andare oltre la dimensione genealogica può
essere una trappola, un ostacolo al divenire del soggetto. Se la dipendenza
dalla genealogia maschile spinge la bambina o la
donna a uscire dal proprio divenire, non andare oltre
la genealogia femminile - in particolare oltre la sua
dimensione naturale come accade troppo spesso oggi - equivale generalmente a
un'aderenza a una prima
relazione che impedisce alle bambine e alle donne
di divenire completamente autonome e di portare a
compimento la loro soggettività.
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