Copertina
Autore Eva Jablonka
CoautoreMarion J. Lamb, Anat Zeligowsky
Titolo L'evoluzione in quattro dimensioni
SottotitoloVariazione genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica nella storia della vita
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007, Frontiere , pag. 578, ill., cop.fle., dim. 15x23x3,8 cm , Isbn 978-88-02-07609-6
OriginaleEvolution in Four Dimensions. Genetic, Epigenetic, Behavioral and Symbolic Variation in the History of Life [2005]
PrefazioneMarcello Buiatti
TraduttoreNicoletta Colombi
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe biologia , evoluzione
PrimaPagina


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Indice


 IX Prefazione di Marcello Buiatti
XIX Ringraziamenti
XXI Prologo

  3 PARTE PRIMA
  5 La prima dimensione
 10  1 Le trasformazioni del darwinismo
 58  2 Dai geni ai caratteri
 98  3 La variazione genetica:
       cieca, guidata o interpretativa?

135 PARTE SECONDA
137 Tre dimensioni in più
140  4 I sistemi ereditari epigenetici
193  5 I sistemi ereditari comportamentali
240  6 Il sistema ereditario simbolico

290 Intermezzo: un riassunto provvisorio

297 PARTE TERZA
299 Ricomporre il puzzle
304  7 Dimensioni che interagiscono:
       i geni e i sistemi epigenetici
354  8 Geni e comportamento, geni e linguaggio
396  9 Le nuove frontiere del lamarckismo:
       l'evoluzione dell'ipotesi ben fondata
441 10 Ultimo dialogo

479 Note
531 Bibliografia
563 Indice analitico

 

 

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Pagina IX

Prefazione


Gli inizi di secolo, non si sa per quale ragione, sembrano essere marcati da vere e proprie svolte nello «spirito del tempo» e quindi anche nella scienza, nelle arti e in altre manifestazioni del pensiero umano. Un fenomeno di questo genere si è verificato all'inizio del Novecento, con la esplosione della modernità e qualcosa di simile sta succedendo ora, nei primi anni del terzo millennio anche se l'accumularsi di eventi imprevisti e le continue ondate di informazione disarticolata a cui siamo sottoposti sembrano impedirci di riannodare il filo e di cogliere appieno le novità. Le scienze della vita più delle altre sono fortemente influenzate dai mutamenti dello «spirito del tempo» perché trattano per l'appunto di sistemi viventi e quindi anche di noi esseri umani. Per questo, i concetti scientifici, anche se spesso inavvertitamente, modificano la concezione che l'umanità ha di sé stessa e influenzano di conseguenza i comportamenti individuali e collettivi. D'altra parte, i pensieri che dominano nelle diverse epoche portano molto spesso chi si occupa di scienza a cercare conferme sperimentali dei concetti presenti nell'immaginario collettivo, aiutando così la trasformazione di ipotesi, teorie, filosofie, in certezze assolute. Questo avviene perché chi fa ricerca, come in qualche modo tutti gli esseri umani, cerca la approvazione delle comunità in cui si trova e quindi è disponibile ad applicare, cercandone le prove, l'aggettivo «scientifico» a teorie, opinioni e prassi dominanti. I termini «scienza» e «scientifico» per questo hanno spesso assunto un significato magico o addirittura fideistico che alla ricerca non compete. Tutto il contrario di quello che pensava Darwin , che nella sua autobiografia scrisse: «Per quanto posso giudicarmi... sono sempre riuscito a mantenere la mia mente libera in modo da poter abbandonare qualsiasi ipotesi per quanto amata... Non mi ricordo di avere formulato mai una ipotesi che io poi non abbia abbandonata o profondamente modificata». Ora, a cavallo del secolo scorso, nel pieno della rivoluzione industriale, il pensiero dominante era coerente con la «civiltà delle macchine» e con la identificazione del progresso umano con la trasformazione del Pianeta attraverso la produzione, quasi che la Terra fosse assimilabile ad una gigantesca macchina da «ottimizzare» in funzione del miglioramento continuo delle nostre vite. La tendenza collettiva alla «macchinizzazione» del Mondo è particolarmente evidente nelle arti figurative delle prime decadi del Novecento. Basta pensare alla rottura della armonia nella musica, alla scomposizione forzosa delle figure e dei movimenti in elementi discontinui di tipo meccanico del futurismo italiano in pittura e letteratura, alle odi che glorificavano il dominio delle macchine, ben descritto, in negativo, da Fritz Lang nel suo «Metropolis», straordinaria opera cinematografica ora quasi dimenticata. Le scienze della vita, che andavano allora sviluppandosi molto rapidamente, non sono state affatto immuni da questa trasformazione del contesto culturale. E il contesto favorevole, molto probabilmente, che fa riscoprire indipendentemente da tre ricercatori, i lavori di Gregorio Mendel e le leggi matematiche della ereditarietà che l'abate moravo ne aveva tratto. I concetti che, in particolare Hugo de Vries, il più acuto dei tre ricopritori, ne trasse erano perfettamente in sintonia con lo spirito del tempo. Secondo i mendeliani infatti gli esseri viventi verrebbero interamente determinati dal loro patrimonio genetico che altro non sarebbe che uno dei possibili assemblaggi casuali dei diversi varianti genetici («aneli») presenti nei genitori. Questi sarebbero elementi discreti provenienti dalla generazione precedente, e il loro assemblaggio come disse negli anni '40 del Novecento Erwin Schrodinger , permetterebbe un solo programma di vita completamente conoscibile, una volta che un osservatore umano avesse «letto» le informazioni in esso contenute. Dopo Schrodinger, la nascita della Biologia Molecolare sembrò confermare completamente questa visione della vita, sancita da quello che Francis Crick , uno dei due scopritori della struttura del DNA cristallizzato, definì un po' per scherzo e un po' sul serio, il «Dogma centrale della genetica molecolare». Questo altro non era se non la traduzione «molecolare» del principio di Schrodinger che identificava nella sequenza di lettere del DNA la fonte di tutta la informazione necessaria per la storia intera degli organismi, non diversamente dal punto di vista concettuale da un progetto unico, ideato da un essere umano, che definisca interamente una macchina. Il Dogma centrale è ancora ben vivo e vegeto nel «buon senso comune», il DNA è diventato una vera e propria icona tanto da essere definito da Jacques Monod all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso, lo «invariante fondamentale della vita» e nel buon senso comune niente pare cambiato da allora. Questo nonostante che in tutto il Novecento numerose e variegate correnti di pensiero abbiano proposto visioni diverse secondo le quali, fermo restando l'importante del DNA, si analizza più a fondo la complessità degli esseri viventi ed in particolare la loro struttura a rete di elementi interconnessi, dalla cellula alla biosfera ed il ruolo delle interazioni non additive fra componenti e fra organismo e ambiente che determinano l'insieme dei caratteri di un organismo.

[...]

Il volume Evoluzione in quattro dimensioni pubblicato in inglese nel 2005, è appunto una sintesi ragionata e ampiamente documentata dalle autrici, dei dati sperimentali soprattutto dell'ultimo decennio, che danno forza ad una vera e propria nuova teoria della ereditarietà e, conseguentemente della evoluzione. Questa teoria, come vedremo, non sostituisce le precedenti ma le integra a partire dall'allargamento del concetto di ereditarietà, finora limitato alla trasmissione di DNA di generazione in generazione ed ora esteso invece ad altre tre dimensioni. In questo senso il volume che presentiamo è la continuazione di un'opera delle stesse autrici del 1995 intitolata «Ereditarietà epigenetica ed evoluzione». Il «sistema di ereditarietà epigenetica» (Epigenetic inheritance system = EIS), costituisce secondo Jablonka e Lamb, il secondo tipo di ereditarietà, ovvero la seconda delle quattro dimensioni lungo le quali procede la evoluzione, dopo quella classica che è legata alle mutazioni nella sequenza del DNA. I processi epigenetici possono portare al passaggio da una generazione all'altra di modificazioni non nella struttura del materiale genetico, tolti alcuni casi specifici, ma nella espressione dei geni. Una definizione operativa del concetto di Epigenesi, introdotto molto tempo fa da Conrad Hal Waddington, potrebbe essere «tutti i processi di cambiamento durante il ciclo vitale di un organismo le cui istruzioni non siano contenute nella sequenza del DNA». In altre parole, come scrivono Jablonka e Lamb nel loro volume, documentando la loro affermazione con numerose prove sperimentali, durante lo sviluppo, «nonostante che le loro sequenze di DNA non vengano cambiate, le cellule acquisiscono informazione che possono passare alla loro progenie». La acquisizione di informazione durante lo sviluppo, come Waddington aveva già proposto, avviene attraverso le interazioni fra i componenti dei sistemi viventi (i geni fra di loro e con le proteine ed altre sostanze) e fra questi e l'esterno, con una fitta rete di segnali che vengono continuamente scambiati. Questo fa sì che individui con lo stesso corredo genetico differiscano nelle loro forme-funzioni a seconda della loro storia di vita individuale. Il tutto grazie al fatto che, in particolare in animali e piante, si sono evoluti meccanismi che permettono una grande plasticità attraverso la attivazione, repressione e modulazione della espressione dei geni e la capacità di questi di conferire informazione per più di una proteina (ad esempio noi umani abbiamo solo 23.000 geni e oltre 100.000 proteine).

Come Jablonka e Lamb dimostrano, oltre che di plasticità, le cellule sono dotate di «memoria» e cioè possono passarsi di divisione in divisione «patterns» complessi di azione genica. In molti casi (Jablonka e Lamb ne descrivono due) questa memoria diventa anche trans-generazionale con effetti che in altre epoche avrebbero avuto odore di neo-lamarckismo e quindi non sarebbero stati probabilmente accettati dalla comunità scientifica mentre ora vengono sempre più confermati sul piano sperimentale. In realtà il progresso sul piano sperimentale, con l'uso di macchine sempre più potenti per la analisi dei genomi e dei loro «patterns di espressione» e, insieme, la nuova capacità di studio interdisciplinare, sono i principali motori della rivoluzione in atto alla base del volume di Jablonka e Lamb. È ancora per queste ragioni che si è avuta, in particolare nei primi anni del terzo millennio, la esplosione nel numero dei lavori ed anche delle riviste internazionali sulla epigenesi e sul terzo tipo di ereditarietà proposta nel nostro volume, quella comportamentale che, naturalmente, è propria solo degli animali e cioè degli organismi che si sono dotati di un sistema di comunicazione inter-individuale estremamente raffinato e cioè di un sistema nervoso. E infatti sono recenti gli esperimenti, in parte riportati nel testo, che dimostrano in maniera assai convincente che il comportamento dei nostri simili verso di noi influenza l'espressione di una serie di geni ed anche la configurazione delle sinapsi del nostro cervello, in modo semipermanente o permanente (per tutta la vita). Sta trovando quindi una spiegazione molecolare il fenomeno noto con il nome di «imprinting» consistente in una serie di processi di «canalizzazione» del comportamento che derivano da stimoli esterni nelle prime fasi di vita e addirittura a partire dalla nostra permanenza in utero. Così, come documentano Jablonka e Lamb, le preferenze alimentari della madre durante la gestazione e l'allattamento influenzano quelle dei figli. Analogamente, per fare un altro esempio ben conosciuto, è dimostrato che le «coccole» delle topine madri attivano un gene importante per il benessere delle figlie, provocando in queste un aumento del numero di neuroni dell'ippocampo, maggiore vivacità e capacità di cavarsela, e quindi maggiore propensione a coccolare a loro volta la progenie. Le femmine di questa saranno quindi a loro volta «coccolose» e questo comportamento si ripeterà nelle generazioni seguenti dimostrando che un carattere di questo genere può essere trasmesso in modo del tutto ereditario senza che in questo giochino alcun ruolo modificazioni nella sequenza del DNA. Questi naturalmente sono solo esempi ma la letteratura sulla ereditarietà dei comportamenti derivata da modificazioni nella espressione genica e nella «ristrutturazione» della rete neurale sta crescendo in modo esponenziale e parallelo a quanto avviene per il lavori sulla epigenesi. Probabilmente un salto ulteriore di qualità in questo campo potrà essere fatto quando i dati molecolari, quelli comportamentali e lo studio dei «patterns» di attivazione neuronale anche nella nostra specie, verranno collegati, cosa che sta già cominciando ad avvenire.

Passiamo ora alla quarta forma di ereditabilità, quella che Jablonka e Lamb indicano come «sistema di ereditarietà simbolico», questa volta limitato alla sola nostra specie, l'unica in possesso di un cervello capace, appunto di elaborare «simboli» come proposto dal filosofo Ernst Cassirer e dal neurobiologo Terence Deacon. Come scrivono le nostre autrici «abbiamo scelto l'uso dei simboli come carattere diagnostico degli esseri umani, perché la razionalità, la capacità linguistica e la religiosità sono tutte facce del pensiero simbolico e della comunicazione». Noi infatti, a differenza di quanto fanno in genere gli altri animali, non trasmettiamo la informazione per «imitazione» ma la «raccontiamo» e cioè usiamo dei simboli che per gli altri umani contengono molta più informazione di quanta non sia direttamente contenuta nella loro lunghezza. Anche gli altri primati infatti sanno trasmettere informazione culturale ai figli ma in genere lo fanno «mostrando» i comportamenti e premiando i figli che li apprendono. Nel caso nostro, il potentissimo ed articolato linguaggio di cui disponiamo ci permette di trasmettere concetti e la altrettanto unica nostra capacità artistica ci dà la possibilità di elaborare le immagini della realtà cambiandole rispetto ad essa e riempiendole di significati magari soggettivi che derivano dalla nostra elaborazione. Queste informazioni, estremamente complesse, vengono passate di generazione in generazione e costituiscono quella che viene comunemente chiamata «evoluzione culturale». Questa è per noi di così grande rilevanza che ha sostituito di fatto la variabilità genetica come fonte principale di plasticità e capacità di adattamento tanto che siamo molto meno variabili geneticamente dei nostri cugini stretti come lo scimpanzé, l'orango, il gorilla, il bonobo, ma abbiano una immensa ricchezza di linguaggi, di culture, di riti ecc, tutti formatisi in ambienti diversi che abbiamo diversamente modificato per la nostra sopravvivenza. Sono i processi di evoluzione culturale che ci hanno permesso di accelerare in modo incredibile il nostro cambiamento e di fare di noi la specie più «generalista» del mondo vivente e cioè quella che più delle altre è capace di vivere dappertutto cambiando in tempi infinitamente ridotti rispetto a quelli dei meccanismi noti della selezione naturale, della deriva genetica, della mutazione.

La visione complessiva che Jablonka e Lamb ci propongono è quindi profondamente diversa da quella fino a poco tempo fa tradizionale, che proponeva che la evoluzione avvenga solo per cambiamento del corredo genetico o meglio, per usare il linguaggio ed i concetti della genetica di popolazione neo-darwinista, delle frequenze degli alleli (i «varanti» dei geni) che costituiscono i patrimoni genetici degli esseri viventi. Per essere chiari tuttavia, questo non significa in alcun modo che i processi che si ipotizzavano precedentemente alla recente ondata di scoperte non ci siano. Naturalmente le frequenze alleliche variano ancora e in tutti gli organismi, la selezione naturale continua ad esistere e con essa anche i processi di mutazione e di deriva genetica. Le quattro forme di ereditarietà infatti interagiscono e non si escludono, come chiariscono Jablonka e Lamb, anche se hanno un peso diverso nei diversi organismi. I batteri infatti continuano ed evolversi fondamentalmente per modificazioni genetiche, che in loro si producono e fissano molto rapidamente. Piante ed animali si adattano anche grazie alla plasticità in linea somatica acquisita con la evoluzione di una serie di complessi meccanismi epigenetici. Noi abbiamo «inventato» la evoluzione culturale che ci permette di cambiare modi di vita e quindi di adattarci in tempi brevissimi e con grandissima efficienza. In altre parole, sarebbe errato dire che Jablonka e Lamb e con loro gli altri innovatori della Biologia contemporanea, propongano quello che Kuhn avrebbe chiamato un «cambiamento di paradigma» scartando le teorie precedenti. È più corretto dire invece che la teorizzazione proposta appare molto più completa delle precedenti ed è senza dubbio oggetto di futura discussione. Nemmeno il Dogma centrale della Genetica molecolare esposto da Francis Crick è di per sé sbagliato in quanto descrive un processo che avviene realmente. È invece il termine Dogma ad essere del tutto errato perché in contraddizione con la natura stessa della scienza, come facevano ritenere le frasi della autobiografia di Darwin che ho precedentemente citato. E adesso ancora più chiaro infatti che la scienza ci fornisce verità locali e non universali che determinano il continuo cambiamento dei nostri concetti generali. E infatti ad esempio adesso sappiamo che, fermo restando il passaggio di informazione fra DNA, RNA e proteine, i meccanismi con cui questo avviene sono molto più complessi di quanto ai tempi di Crick si pensava, il DNA è ambiguo, non sono solo i geni ad essere rilevanti ma anche il 98,5% del DNA che non è costituito da geni e che veniva chiamato «spazzatura», il passaggio di informazione può avvenire fra RNA e DNA, fra RNA e RNA, fra proteina e proteina ecc., tutte nuove acquisizioni, come quelle relative agli altri sistemi di ereditarietà, che si vanno chiarendo sempre di più. Il problema che si pone adesso è innanzitutto far passare il messaggio della fallibilità e del continuo bisogno di completamento delle nozioni e dei concetti scientifici, divulgando e discutendo le novità contenute nella Biologia Contemporanea, sempre più diversa da quella moderna, in gran parte limitata dalla utopia meccanica, diventata col tempo più una ideologia obsoleta che una ipotesi scientifica. Questo problema è tanto più grave in quanto l'ideologia meccanica è invece ancora alla base di una serie di comportamenti umani all'interno delle società e verso l'ambiente che corrono il rischio di farci incoscientemente «suicidare». Ne sono prova da un lato gli atteggiamenti razzisti basati su supposte differenze genetiche, dall'altro i danni provocati alla biosfera tutta dalle nostre azioni che tendono alla eliminazione delle diversità biologiche e culturali, proponendo un modello di Pianeta «ottimale» che può condurre noi e gli altri esseri viventi alla distruzione.

Della necessità di divulgare e discutere sono completamente coscienti Jablonka e Lamb, tanto che il loro volume può essere considerato un esempio da seguire non soltanto perché è redatto in un linguaggio comprensibile ma perché adotta alcuni accorgimenti che ritengo essenziali per la riuscita del progetto di far conoscere e discutere senza proporre dogmi. Innanzitutto ogni capitolo è seguito da un dibattito talvolta acceso e sempre molto acuto fra le due scrittrici ed un personaggio artificiale che si pone come un continuo bastian-contrario e fa una serie di domande impertinenti. Questo personaggio si chiama, come annunciano Jablonka e Lamb nella introduzione «Ifcha Mistabra» che in aramaico vuol dire «opinione opposta». Ciò in riferimento esplicito «allo stile dialogico del Talmud in cui gli argomenti sono continuamente contraddetti e si raggiunge una migliore comprensione dell'oggetto del dibattito attraverso la dialettica». Questo atteggiamento è del resto profondamente radicato nella prassi della esegesi della Torah, ed ha prodotto migliaia e migliaia di interpretazioni diverse in continua evoluzione a conferma del detto che due ebrei hanno sempre almeno tre opinioni diverse su qualsiasi cosa. Un altro accorgimento adottato è la spiegazione dei diversi sistemi di ereditarietà effettuata per analogia sulla base di processi inventati che avvengono in contesti fantastici come ad esempio un pianeta in cui la evoluzione avviene essenzialmente senza cambiamento nel corredo genetico, o una storia finta di Robinson Crusoe e gli uccelli selvatici a cui insegna (o meglio cerca di insegnare) il processo simbolico umano. Infine, parte integrante ed utilissima del volume sono le illustrazioni, dovute alla grande fantasia e capacità di disegnatrice di Anat Zeligowsky, di fatto co-autrice del libro, che con i suoi disegni «parlanti» rende comprensibili e divertenti concetti che altrimenti verrebbero considerati astrusi e noiosi.

In sintesi, quello che presentiamo è il primo libro che tenta una sintesi sul piano della evoluzione, di una serie di «eresie», ognuna delle quali è stata a lungo presente nella storia della Biologia prima del terzo millennio ma che solo adesso sono riconosciute come anticipazioni illuminanti di un nuovo modo di vedere i sistemi viventi, dalle cellule alla Biosfera. Stranamente, a differenza di quanto avvenne all'inizio del secolo scorso, la presente rivoluzione è per ora ancora in contrasto con lo «spirito del tempo» attuale tuttora pervaso dalla «utopia meccanica» che di fatto porta sempre più le società umane ad allontanarsi dalle loro stesse conoscenze scientifiche e quindi dalla mutevole e complessa realtà della vita. Con le prevedibili e possibili nefaste conseguenze per la nostra vita futura.

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Pagina XXI

Prologo


Vista la relativa originalità del contenuto e della struttura di questo libro, ci sembra opportuno, innanzitutto, spendere due parole per spiegare di che cosa parla e com'è organizzato. Il nostro assunto di partenza è che la concezione biologica dell'ereditarietà e dell'evoluzione stia attraversando una fase di cambiamento rivoluzionario, in cui si assiste all'emergere di una nuova sintesi, capace di mettere in discussione quella versione «genocentrica» del neo-darwinismo che negli ultimi cinquant'anni ha dominato il pensiero biologico.

Benché i mutamenti concettuali in via di attuazione si basino su conoscenze derivate da quasi tutte le branche di questa disciplina, nelle pagine a seguire la nostra attenzione si concentrerà essenzialmente sull'ereditarietà, andando a sostenere che:

• essa non ha a che vedere soltanto con i geni;

• alcune variazioni ereditarie non sono affatto casuali in origine;

• certe informazioni acquisite vengono ereditate;

• il cambiamento evolutivo può derivare dall'apprendimento così come dalla selezione.

Simili affermazioni rischiano di suonare eretiche alle orecchie di chiunque abbia appreso sui banchi di scuola la solita versione della teoria evolutiva di Darwin, secondo cui l'adattamento ha luogo attraverso la selezione naturale di variazioni genetiche casuali. Trovano, tuttavia, saldo fondamento nei nuovi dati, così come nei nuovi concetti frutto della ricerca. La biologia molecolare ha, infatti, dimostrato la scorrettezza di molte vecchie ipotesi su quel sistema genetico che sta alla base dell'attuale teoria neo-darwiniana, rivelando altresì come le cellule siano in grado di trasmettere informazioni alle cellule figlie tramite un'eredità esente da mutazioni del DNA (epigenetica). Ciò significa che tutti gli organismi contemplano almeno due sistemi ereditari. Considerando, poi, che in parecchi animali tale trasmissione avviene attraverso il comportamento, cosa che li dota di un terzo sistema ereditario, e che noi esseri umani ne possediamo un quarto, visto il ruolo fondamentale svolto nella nostra evoluzione dal retaggio basato sui simboli (specie dal linguaggio), risulta dunque alquanto sbagliato pensare all'intera questione solo in termini di sistema genetico. Anche l'eredità epigenetica, quella comportamentale e quella simbolica forniscono variazioni su cui può agire la selezione naturale.


Prendendo in considerazione tutti e quattro i sistemi ereditari e le loro reciproche interazioni, emerge una visione molto diversa dell'evoluzione darwiniana, in grado forse di alleviare la frustrazione provata da molti nei confronti dell'approccio dominante, centrato sui geni. Non è più necessario attribuire l'evoluzione adattativa di ogni struttura e attività biologica, compreso il comportamento umano, alla selezione di variazioni genetiche frutto esclusivamente del caso e cieche nei confronti di una qualsiasi funzionalità: tenendo conto di tutti i tipi di variazione ereditaria diviene, infatti, chiaro che anche i cambiamenti indotti e quelli acquisiti giocano un ruolo nell'evoluzione. Adottando una prospettiva a quattro dimensioni è possibile costruire una teoria evolutiva ben più ricca e sofisticata, in cui il gene non è il centro unico della selezione naturale.

Abbiamo diviso l'opera in tre parti, precedute, ciascuna, da una breve introduzione. In quella iniziale si pone l'accento sulla prima dimensione dell'ereditarietà e dell'evoluzione, vale a dire il sistema genetico: nel primo capitolo ripercorriamo la storia della teoria di Darwin e la sua trasformazione verso un genocentrismo così spiccato, per passare poi, nel secondo capitolo, a descrivere come la biologia molecolare abbia modificato il modo in cui gli addetti ai lavori concepiscono il rapporto tra geni e caratteri e a esaminare, nel terzo capitolo, le prove che suggeriscono la necessità di non vedere tutte le mutazioni genetiche come avvenimenti fortuiti, dettati soltanto dal caso.

La Parte seconda si occupa delle altre tre dimensioni dell'ereditarietà. Il quarto capitolo tratta la seconda, ovvero l'eredità epigenetica, tramite cui cellule diverse, seppur dotate dello stesso identico DNA, sono in grado di trasmettere le proprie caratteristiche alle cellule figlie. Nel quinto capitolo esploriamo, invece, il modo in cui gli animali tramandano il proprio comportamento e le loro preferenze attraverso l'apprendimento sociale, che incarna la terza dimensione. Affrontiamo, infine, la quarta nel sesto capitolo, descrivendo la trasmissione dell'informazione per mezzo del linguaggio e di altre forme di comunicazione simbolica.

Nella Parte terza torniamo a ricomporre il puzzle. Dopo aver esaminato in forma più o meno a sé stante ciascuna delle quattro dimensioni dell'ereditarietà, le rimettiamo assieme mostrando come, a lungo andare, i vari sistemi dipendano e interagiscano tra loro (settimo e ottavo capitolo). Nel nono capitolo ne discutiamo le verosimili origini e il possibile ruolo guida da essi giocato nella storia evolutiva fino alla chiusa finale, nel decimo capitolo, che riassume la nostra posizione e la pone in una prospettiva più am- pia, grazie al fatto di considerare alcune implicazioni filosofiche della visione in 4D, nonché una serie di problemi di carattere etico e politico.

Ciascun capitolo termina con un «dialogo», forma che peraltro contraddistingue per intero quello conclusivo. Sfruttiamo questi «botta e riposta» come uno strumento atto a consentirci di ribadire vari punti intricati delle nostre argomentazioni, nonché di evidenziare le zone di incertezza e le questioni controverse. Loro protagonisti sono M.E. (in rappresentanza delle autrici, Marion Lamb e Eva Jablonka) e un tizio che avremmo anche potuto chiamare l'avvocato del diavolo ma che, onde evitare ogni possibile connotazione negativa, abbiamo preferito battezzare Ifcha Mistabra (abbreviato I.M.), dall'omonima espressione aramaica con cui si indica «la congettura opposta». È un termine che incarna lo stile polemico di dialogo utilizzato nel Talmud, in cui si ribattono e contraddicono le tesi, raggiungendo grazie a una simile dialettica una migliore comprensione del tema. Si può anche leggere il libro saltando queste parti, ma siamo del parere che possano comunque risultare interessanti e utili, dato che riflettono molti timori e interrogativi sollevati dai nostri studenti o da altre persone ogniqualvolta abbiamo esposto loro il nostro punto di vista sull'evoluzione.

Ci auguriamo che l'opera sia fruibile non solo da chi fa lo scienziato di mestiere, ma anche dai tanti individui interessati ai concetti della biologia e affascinati (nonché, a volte, preoccupati) dall'attuale modo di concepire questa disciplina, specie quando si tratta della genetica moderna. Per facilitarne il più possibile la lettura senza comprometterne il contenuto scientifico abbiamo relegato gli elementi prettamente specialistici e le fonti di informazioni nelle note al fondo del volume, che si susseguono seguendo l'ordine delle pagine. Pur avendo utilizzato tanti esempi ed escogitato esperimenti per cercare di rendere chiare le nostre idee, siamo consce del fatto che alcuni capitoli (in particolare il terzo, il quarto e il settimo) possano risultare un po' ardui per i non addetti ai lavori, poiché includono parecchie nozioni di biologia molecolare da cui non potevamo prescindere se volevamo sostenere le nostre posizioni di fronte allo scetticismo dei colleghi. Chi non ha voglia di mettersi ad approfondire tutto questo po' po' di roba può saltare le parti più tecniche e limitarsi a leggere la discussione generale, benché così facendo dovrà fidarsi del nostro giudizio e della nostra onestà intellettuale invece di valutare i dati in prima persona.

Il libro è concepito per essere sia una sintesi sia una sfida: una sintesi delle idee sul conto dell'ereditarietà emerse dai recenti studi nel campo della biologia molecolare e dello sviluppo, del comportamento animale e dell'evoluzione culturale e una sfida nei confronti non della teoria darwiniana dell'evoluzione attraverso la selezione naturale, bensì della sua versione prevalente, quella monodimensionale basata esclusivamente sui geni. L'ereditarietà contempla quattro dimensioni e noi dovremmo evitare di ignorarne tre: occorre considerarle tutte e quattro se si vuole arrivare a comprendere in forma più esaustiva l'evoluzione.

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Pagina 5

La prima dimensione


La prima dimensione dell'ereditarietà e dell'evoluzione è quella genetica, ovvero il sistema fondamentale di trasferimento delle informazioni nell'universo biologico, necessario per l'evolversi della vita sulla Terra. Da un secolo a questa parte è oggetto di intensi studi dai risultati assai proficui, che non solo ci hanno aiutato a comprendere il mondo naturale, ma hanno avuto anche significativi effetti pratici nel campo della medicina e dell'agricoltura.

Verso la metà del XX secolo si è capito che le basi molecolari della genetica andavano ricercate nel DNA e nella sua duplicazione; a partire poi dalla metà degli anni Settanta, con l'avvio dell'ingegneria genetica, le conoscenze in questo campo hanno cominciato a espandersi con una rapidità senza precedenti. Grazie all'invenzione quasi quotidiana di nuove tecnologie, già all'inizio degli anni Novanta è apparso evidente che si sarebbe presto arrivati a conoscere l'intera sequenza del DNA del genoma umano. I biologi molecolari parlavano con profetica certezza di quel «libro della vita» che si sarebbero, da lì a poco, ritrovati a leggere, della «pietra filosofale» appena scoperta, del Sacro Graal che stavano portando alla luce: tutte metafore afferenti, per l'appunto, a tale opera di sequenziazione. Una volta compiuta una simile impresa, si diceva, i genetisti sarebbero stati in grado di utilizzare i dati per individuare sia i punti deboli sia quelli forti insiti nel sistema ereditario di un individuo e, nel caso, di intervenire per porre riparo a eventuali problemi. Il sapere biologico non era mai sembrato prima d'ora tanto potente e così carico di promesse. Sul finire dell'inverno del 2001 si è giunti finalmente al culmine con la pubblicazione di una sequenza abbozzata del nostro genoma: circa trentacinquemila geni (cifra in seguito riveduta), sparsi in maniera irregolare sulle ventitré paia di cromosomi che contraddistinguono la nostra specie, identificati, sequenziati e localizzati. I quotidiani si sono sbizzarriti in eccitanti predizioni relative a un nuovo mondo più forte e sano.

I genetisti stessi, ora in possesso della bozza del tanto concupito «libro della vita», hanno, però, palesato una reazione curiosa e quasi schizofrenica. A quell'eccitazione e sensazione di conquista, talmente travolgenti da acuire il tono ardito delle profezie inneggianti alla Terra Promessa appena avvistata, si è affiancato un nuovo senso di umiltà, generato, per ironia della sorte, proprio dai traguardi raggiunti dalla biologia molecolare. Le scoperte effettuate mettono in luce, infatti, come tutto sia enormemente complicato. Al pari di qualche secolo fa, quando il telescopio ha spalancato nuovi orizzonti agli astronomi e il microscopio nuovi mondi ai biologi, le rivelazioni della biologia molecolare non riescono a incastrarsi perfettamente nello schema di pensiero da tempo consolidato: non rendono più completa la vecchia genetica, ma evidenziano, piuttosto, la semplificazione che caratterizza le ipotesi tracciate, segnalando vaste aree di imprevista complessità. Non si può più guardare ai geni e alla genetica esattamente come si faceva nel passato.

A uscire rafforzato dagli studi molecolari è, fra gli altri, un concetto già accettato dai genetisti moderni, vale a dire la non validità della comune concezione del gene quale semplice agente causale. L'idea che ne esista uno per la propensione all'avventura, le patologie cardiache, l'obesità, la religiosità, l'omosessualità, la timidezza, la stupidità o per un qualsiasi altro aspetto fisico o mentale non trova posto sulla piattaforma del discorso genetico. I tanti psichiatri, biochimici e altre categorie di scienziati che non sono propriamente esperti di tale disciplina (pur essendo, tuttavia, pronti a esprimersi con notevole disinvoltura sulle questioni a essa inerenti) e che utilizzano ancora una simile visione, promettendo al loro pubblico soluzioni rapide a ogni tipo di problema, non sono altro che propagandisti del cui parco di conoscenze o delle cui motivazioni occorre, necessariamente, dubitare. I genetisti veri e propri, invece, ora pensano e si esprimono (quasi sempre) in termini di reti genetiche composte di decine o centinaia di geni e di loro prodotti, che interagiscono reciprocamente e vanno a influenzare, nell'insieme, lo sviluppo di uno specifico carattere. Riconoscono, dunque, che lo sviluppo o meno di un tratto (di una preferenza sessuale, ad esempio) non dipende, nella maggioranza dei casi, dalla differenza insita in un singolo gene, bensì coinvolge delle interazioni che vedono come protagonisti da una parte molti geni, un elevato numero di proteine e altri tipi di molecole, dall'altra, l'ambiente in cui cresce un individuo. Nell'immediato futuro non sarà possibile predire quale sarà il frutto di un gruppo di geni impegnati a interagire in un determinato insieme di circostanze. Nonostante una simile consapevolezza, il senso di potere generato dal successo del Progetto Genoma ha spesso mascherato la cautela, dando a volte origine a grandi e irrealistiche speranze, nonché a paure similari.

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3. La variazione genetica: cieca, guidata o interpretativa?


Nel 1988 il microbiologo americano John Cairns e i suoi colleghi hanno sganciato una piccola bomba sulla comunità biologica. Per oltre cinquant'anni, sin dagli albori della Sintesi moderna, i biologi avevano accettato pressoché senza batter ciglio il dogma secondo cui tutta la variazione ereditabile fosse frutto di cambiamenti genetici accidentali e casuali. L'idea che nuove varianti genetiche — mutazioni — potessero venire prodotte soprattutto quando e dove risultassero necessarie era stata rigettata come un eretico concetto lamarckiano. In realtà c'erano, comunque, ben poche prove per confutarla. Il ritmo a cui si producono nuove mutazioni è molto basso, per cui per riuscire anche solo a individuarle occorre necessariamente effettuare un sacco di ricerche su un vasto numero di esemplari animali o vegetali; risultava, pertanto, impossibile stabilire se si generassero o meno in maniera casuale. Solo nel caso dei batteri esistevano tecniche che permettevano di passare in rassegna con sufficiente facilità un vasto numero di individui ed erano stati proprio tali organismi a fornire la prova principale della casualità della mutazione. Gli esperimenti condotti negli anni Quaranta e Cinquanta sembravano, infatti, dimostrare che, nel loro caso, le condizioni di vita non avevano alcun effetto sulla produzione di nuove mutazioni.

Nel 1988 John Cairns e i suoi collaboratori hanno messo in dubbio proprio questa deduzione, sostenendo che quei primi esperimenti erano stati sopravvalutati. Le ricerche da loro effettuate suggerivano, infatti, che nei batteri si producono alcune mutazioni in risposta alle condizioni di vita e alle esigenze dell'organismo. La loro generazione non costituisce, di conseguenza, un processo interamente casuale. Non era la prima volta che venivano riferiti risultati sperimentali in grado di suggerire l'esistenza di una mutazione non casuale, ma la statura scientifica di John Cairns e la pubblicazione delle scoperte ottenute dal suo gruppo su Nature, la principale rivista scientifica britannica, hanno fatto sì che la cosa non potesse più venire ignorata. L'articolo di Nature ha scatenato una valanga di reazioni e di commenti sia sulla stampa scientifica sia su quella a diffusione di massa. L'idea di una mutazione non casuale è stata vista da molti come una sfida alla ben radicata teoria neo-darwiniana dell'evoluzione; alcuni hanno reagito suggerendo meccanismi in grado di sottostare alla produzione delle mutazioni indotte, mentre altri si sono dimostrati estremamente riluttanti ad accettare il fatto che queste potessero anche soltanto verificarsi, offrendo interpretazioni alternative dei risultati ottenuti dagli esperimenti, che non prevedevano necessariamente il costituirsi delle mutazioni in risposta alle condizioni ambientali. Tirando le somme, ben presto ci si è resi conto che non esisteva una prova inconfutabile a sostegno del fatto che tutte le mutazioni fossero eventi casuali. Era altrettanto chiaro, comunque, che occorreva compiere ancora un sacco di lavoro sperimentale prima di poter fermamente concludere che alcune comparivano in risposta alle sfide dettate dall'ambiente.

Non vogliamo scendere nei dettagli delle tesi e contro-tesi originate dagli esperimenti che hanno fatto seguito alla pubblicazione su Nature dell'articolo del 1988. Tutto sommato riteniamo che le prove sperimentali a oggi disponibili suggeriscano come Cairns e i suoi colleghi probabilmente si sbagliassero: non si trovavano di fronte, infatti, a mutazioni prodotte in diretta risposta alla sfida ambientale degli esperimenti. Quanto emerso dal lavoro stimolato dal loro articolo e dai successivi studi molecolari è, tuttavia, importante, poiché ha avuto come conseguenza una visione di gran lunga meno semplicistica della natura delle mutazioni e del processo che le vede protagoniste. Sussistono ora buone prove sperimentali, così come ragioni teoriche, per ritenere che la generazione delle mutazioni e di altri tipi di variazione genetica non sia un processo del tutto sregolato.

In questo capitolo vogliamo prendere interamente in esame l'interrogativo sull'origine della variazione alla base della dimensione genetica dell'evoluzione. Essenzialmente essa ha due fonti: la mutazione, che crea nuove variazioni all'interno dei geni e la riproduzione sessuale, tramite cui le variazioni geniche preesistenti si mescolano per produrre nuove combinazioni. Ci concentreremo soprattutto sulla prima, specie sulle sue varianti non casuali, ma innanzitutto desideriamo spendere due parole sulla variazione generata tramite la seconda e sul modo in cui tale processo è stato modellato dalla selezione naturale.


La variazione genetica tramite riproduzione sessuale

La riproduzione sessuale è la più evidente fonte di variazione genetica. Nelle specie animali come la nostra crea una quantità enorme di diversità, dando origine a nuove combinazioni dei geni presenti nei genitori. Per esperienza personale sappiamo quanto diversi tra loro possano essere i figli all'interno di una famiglia di umani e come i gattini di una cucciolata differiscano di solito completamente l'uno dall'altro, perfino nei rari casi in cui possiamo essere abbastanza certi che della loro venuta al mondo sia responsabile un unico padre. Questa variazione, frutto della riproduzione sessuale, non è, dal punto di vista dell'adattamento, collegata allo specifico ambiente in cui vivono i genitori, né a quello in cui è probabile che in futuro cresca la prole. Checché loro ne pensino, i nostri figli non sono automaticamente superiori e più adatti di noi a questo mondo. La variazione generata dai processi sessuali è cieca rispetto alla funzione e alle esigenze, attuali o future, della stirpe.

La diversità originata attraverso la riproduzione sessuale ha tre fonti. Due le abbiamo descritte nel Capitolo 1: la prima è la mescolanza di geni provenienti da genitori diversi tra loro, che porta a una prole che differisce da entrambi; la seconda, responsabile della diversità sussistente tra i vari rampolli, deriva dalla modalità di distribuzione dei cromosomi all'interno degli oociti e degli spermatozoi. Nella stragrande maggioranza degli animali e delle piante quasi tutti i cromosomi sono posseduti in duplice copia e da ciascun genitore se ne eredita una. Durante la meiosi, la divisione cellulare che conduce alla formazione dei gameti, il numero di cromosomi, infatti, si dimezza, cosicché ogni oocita o spermatozoo finisce per possedere solo una copia di ciascuno. Quale insieme specifico esso arrivi a ottenere è fortuito. Nel caso, ad esempio, di un organismo dotato di quattro cromosomi, due copie di quello A e due di quello B, che potremmo indicare come AmApBmBp (dove m sta a significare un cromosoma ereditato dalla madre, mentre p ne indica, invece, uno paterno), all'interno dei gameti sussistono quattro possibili combinazioni: AmBm, AmBp, ApBm e ApBp. L'esistenza di ulteriori coppie di cromosomi incrementa, ovviamente, il numero delle possibilità. Nell'ipotesi di un essere umano, normalmente dotato di ventitre paia di cromosomi, sono possibili oltre otto milioni di differenti combinazioni; la distribuzione casuale dei cromosomi durante la formazione degli oociti e degli spermatozoi genera, pertanto, un'ampia quantità di variazione.

La terza fonte di diversità è rappresentata da qualcosa cui non abbiamo ancora fatto cenno, ovvero dalla ricombinazione genica causata da un processo noto come «crossing-over». Durante la meiosi i membri di ogni coppia di cromosomi si riuniscono e gli elementi corrispondenti si scambiano alcuni segmenti.

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La variazione tramite mutazione

Le modifiche delle sequenze del DNA sono inevitabili. Derivano da imperfezioni del processo di copiatura dell'acido deossiribonucleico, da cambiamenti introdotti in occasione dello spostamento da un punto all'altro di elementi mobili (i cosiddetti jumping genes), da alterazioni chimiche spontanee, nonché dagli effetti dannosi provocati dalle sostanze chimiche prodotte nel corso delle normali attività cellulari. Oltre a ciò, a causare lesioni al DNA intervengono agenti fisici esterni come i raggi X o le radiazioni ultraviolette, oppure agenti chimici quali iprite e LSD (acido lisergico). Di molti di questi è nota la capacità di aumentare il rischio di cancro, spesso associato a cambiamenti genetici all'interno delle cellule somatiche. Le modifiche al DNA che si verificano nelle cellule della linea germinale incidono, invece, sulla generazione successiva.

L'evoluzione darwiniana a lungo termine attraverso il sistema genetico dipende da tali variazioni. Qui, però, ci troviamo di fronte a un paradosso, in quanto la modificabilità dell'acido deossiribonucleico ne riduce, per l'appunto, la capacità di portare l'informazione ereditaria. Se venissero trasmesse solo copie estremamente imperfette dell'informazione che ha consentito la sopravvivenza e la riproduzione, l'evoluzione per selezione naturale sarebbe lentissima, se non impossibile. L'informazione necessita di essere durevole, così come in qualche modo modificabile. Come può dunque il DNA, che non è una molecola intrinsecamente stabile, fungere in maniera così efficace da portatore e trasmettitore di informazione?

La risposta è che riesce a espletare tali funzioni perché gli organismi sono dotati di un'intera batteria di meccanismi volti a proteggerlo e a ripararlo, garantendo che le sequenze nucleotidiche esistenti si conservino bene e vengano copiate in maniera accurata. Le cellule sono dotate di proteine che vanno alla ricerca, per degradarle, delle molecole fonte di potenziale danno per il DNA. Se si verifica un guasto esse, con l'aiuto di un altro insieme enzimatico, sono in grado di ripararlo, a volte utilizzando un processo di ricombinazione che va a sostituire la sequenza danneggiata con una analoga, intatta, presa da un punto differente. Durante la replicazione dell'acido deossiribonucleico esistono sistemi che controllano la correttezza (complementarietà) di ciascun nucleotide aggiunto alla stringa figlia che si va costituendo, rimuovendolo in caso di imprecisione. Una volta sintetizzata, la nuova stringa viene sottoposta a una sorta di «correzione di bozze» e, se vi si riscontra la presenza di nucleotidi male accoppiati, tali errori vengono corretti. Grazie a questi e ad altri sistemi di controllo e di correzione, il tasso di errore durante la replicazione del DNA umano è pari solo a circa uno ogni dieci miliardi di nucleotidi.

Questo sorprendente sistema volto a mantenere l'integrità si è presumibilmente evoluto attraverso la selezione naturale di geni custodi del DNA. Le linee di discendenza caratterizzate da una scarsa manutenzione di quest'ultimo e da una replicazione poco accurata non sono riuscite a sopravvivere, poiché hanno continuato a modificarsi, dando origine a ogni sorta di nuove mutazioni rivelatesi, nella maggior parte dei casi, deleterie. Stirpi del genere erano caratterizzate da una grande quantità di variazione, ma da minore ereditarietà: gli insiemi validi di geni non venivano trasmessi in maniera precisa. Quelle dotate di meccanismi migliori per badare al proprio DNA hanno, invece, continuato a perpetuarsi, in quanto hanno trasmesso copie esatte dei geni proficui per la loro sopravvivenza e riproduzione. In questo modo la selezione naturale ha garantito la presenza di un buon kit di ingegneria genetica per la manutenzione dell'acido deossiribonucleico, nonché per il mantenimento di bassi livelli dei tassi di mutazione. Le mutazioni si verificano, ma non troppo di frequente.


Dubbi sulla casualità

Dobbiamo ora ritornare sul problema con cui abbiamo aperto questo capitolo. La domanda che occorre porsi è se le poche mutazioni che ancora si verificano sono tutte dovute a errori rari e casuali, conseguenze delle imperfezioni rimanenti nei sistemi di sorveglianza, riparazione e manutenzione del genoma, oppure se si tratta di qualcosa di più. Sussiste qualche specificità riguardo a dove e quando hanno luogo le mutazioni?

Sorprende davvero che, pur avendo sempre accolto l'idea che i fattori ambientali influiscano sul punto e sul momento in cui si genera la variazione frutto dei processi sessuali, fino a non molto tempo fa i biologi siano stati molto riluttanti ad ammettere lo stesso per quella derivata dalla mutazione. Hanno accettato il fatto che il tasso medio di quest'ultima è stato ritoccato dalla selezione naturale e che i geni mutano a ritmi diversi a seconda delle varie dimensioni e della differente composizione; solo in rari casi, però, si sono dimostrati propensi a prendere in considerazione la possibilità che le mutazioni si formino specificamente dove e quando sia necessario, limitandosi a presumere che si tratti sempre di errori ciechi, risultato di difetti nel sistema. L'unica specificità riconosciuta era quella che lega alcuni agenti mutageni a determinate sequenze. Le radiazioni ultraviolette tendono, ad esempio, a provocare lesioni nelle regioni del DNA in cui sono presenti, una in fila all'altra, due o più timine. Tali sequenze T-T sono, tuttavia, sparse per l'intero genoma, trovandosi all'interno di qualsiasi gene codificante per qualunque tipo di proteina a prescindere dal suo ruolo e, pertanto, le lesioni causate dagli UV non risultano affatto specifiche rispetto a una funzione. Anche molti altri mutageni sono dotati di una certa specificità di sequenza ma, pure nel loro caso, non legata a geni o funzioni particolari. In generale si è supposto che le mutazioni non siano adattative, né controllate sul piano dello sviluppo. Non costituiscono di certo la risposta della cellula a un'esigenza. Sono errori e, se fanno in qualche modo una differenza a livello di fenotipo, ciò ha quasi sempre un effetto tragico: solo molto di rado, infatti, un errore casualmente non infausto è destinato a incrementare la probabilità che una cellula o un organismo abbiano dei discendenti.

Oggi molti genetisti sarebbero concordi nel giudicare inadeguata la concezione da noi appena esposta; al loro pari andremo, dunque, a sostenere che non tutte le mutazioni sono errori casuali: alcune sono, viceversa, «guidate». «Mutazione guidata» è un termine che appartiene al gergo della genetica e non significa che noi o altri biologi crediamo nell'esistenza di una forma di intelligenza guida o di una «mano di Dio» volta a dirigere le variazioni del DNA in base alle esigenze dell'organismo. Simili idee non trovano posto nel ragionamento scientifico (e con la loro assurdità mettono, altresì, in ridicolo la religione). Il nostro assunto è semplicemente che l'evoluzione per selezione naturale ha portato alla costruzione di meccanismi capaci di alterare il DNA in risposta ai segnali che le cellule ricevono da altre cellule oppure dall'ambiente.

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Dialogo

I.M.: Permettetemi di provare a riassumere la vostra tesi. È completamente incentrata sul presupposto che, a differenza di quanto si riteneva nel passato, non tutte le mutazioni sono variazioni geniche fortuite e dettate dal caso. Se, quando e dove si verificano, nonché la loro quantità, dipende a volte dalle condizioni che sta sperimentando l'organismo. Tutto ciò avviene in quanto esistono sistemi evoluti che modificano il genoma in risposta alle sfide ambientali. Giusto?

M.E.: Sì. Nel nono capitolo avremo altre cose da aggiungere sulle modalità messe in atto da tali sistemi per evolversi.

I.M.: Bene. Voglio partire, allora, dalla prima argomentazione da voi utilizzata per dare sostegno a questa concezione. Avete dichiarato che non è difficile immaginare ragioni evolutive alla base del fatto che alcuni animali e certe piante ricorrono sempre alla riproduzione sessuale, mentre altri se ne servono solo in casi sporadici, o per cui in alcune regioni cromosomiche la ricombinazione è pressoché del tutto assente, mentre in altre la sua presenza si rivela di gran lunga maggiore. Avete quindi suggerito che, concordando i biologi evoluzionisti sull'idea che nel passato la selezione naturale abbia influenzato il momento e le modalità di generazione di buona parte della variazione a opera dei processi sessuali, non ci possono essere obiezioni teoriche ad accettare il fatto che lo stesso sia accaduto nel caso della variazione prodotta dalla mutazione. Se un tipo di variazione è stata modulata dalla selezione naturale, perché l'altra no? Sono d'accordo sul senso di tutto ciò, ma le argomentazioni frutto della plausibilità non costituiscono affatto una prova. A me sembra che il vostro punto di vista acquisirebbe un sostegno più specifico se i due sistemi responsabili dell'origine della variazione fossero in qualche modo collegati. Lo sono? Il sesso e la mutazione sono connessi sul piano meccanicistico?

M.E.: A livello cellulare sì, in una certa misura lo sono. I meccanismi che portano al crossing-over – la ricombinazione genica tramite scambio di segmenti cromosomici nel corso della meiosi – sono collegati alla mutazione. È un argomento estremamente complicato, strettamente legato al modo in cui le cellule riparano il DNA. Ne parleremo più in dettaglio nel nono capitolo. Sarebbe più corretto dire che esiste una sovrapposizione tra i sistemi enzimatici deputati al controllo della ricombinazione e quelli volti a produrre le mutazioni interpretative, benché non se ne conosca ancora la misura completa.

I.M.: Ciò significa che le condizioni ambientali possono avere effetti sulla ricombinazione così come sulla mutazione? Non ne avete fatto troppo cenno, a parte affermare che quelle interessanti creature dotate di opzioni sia sessuali sia asessuate passano al comportamento sessuale quando la vita comincia a farsi dura. Si tratta dell'equivalente della mutazione globale indotta, credo, perché genera un sacco di variazione nel momento in cui è probabile che si riveli utile. Avete argomentazioni più specifiche? Avete mai riscontrato un incremento di ricombinazione indotto dallo stress in regioni cromosomiche particolari, l'equivalente di una mutazione locale o regionale indotta?

M.E.: Nella Drosophila, il moscerino della frutta, lo stress dovuto al caldo provoca l'incremento dei tassi generali di ricombinazione. Il dato particolarmente interessante è che alcune regioni diventano più inclini alla ricombinazione di altre. Quelle che normalmente non si ricombinano mai, come il minuscolo cromosoma 4, ad esempio, incominciano di colpo a farlo. A loro volta altre, di solito estremamente riluttanti a subire tale fenomeno, evidenziano un incremento trenta volte superiore del tasso di ricombinazione. Non si tratta, dunque, di un processo indiscriminato. Cosa però significhino in termini di vantaggio adattativo (ammesso che abbiano un significato) tali incrementi localizzati indotti della ricombinazione non è chiaro.

I.M.: Tutto questo cambiamento indotto del genoma come si sposa con il dogma centrale della biologia molecolare? Avete sostenuto che gli eventi che colpiscono un organismo nel corso della sua esistenza sono in grado di influenzare la quantità e la tipologia di variazione riscontrata nella generazione successiva. Eppure, se il dogma centrale è valido, non c'è ritrasferimento delle informazioni dalle proteine all'RNA e al DNA. Come può, dunque, qualcosa che avviene a livello dell'intero organismo, vale a dire, in pratica, a livello delle proteine, avere effetti sul genoma della generazione dopo? Non abbiamo forse bisogno di supporre una forma di traduzione inversa, informazioni trasferite dalle proteine al DNA? Sicuramente non è possibile che ciò si verifichi!

M.E.: L'argomentazione secondo cui il significato del dogma centrale risiede nell'impossibilità, da parte degli adattamenti indotti dallo sviluppo nei confronti delle condizioni di vita, di influire su quanto viene trasmesso alla generazione successiva è vecchia. È stata utilizzata soprattutto durante gli anni Sessanta, quando ci si è resi conto della natura monodirezionale della trasmissione dell'informazione (dal DNA alle proteine e non viceversa). Scriveva, ad esempio, John Maynard Smith nel 1966: «La maggior virtù del dogma centrale risiede nell'indicare a chiare lettere ciò che un lamarckiano deve fare, ovvero confutarlo». Di recente Ernst Mayr , uno dei fondatori della Sintesi moderna, gli ha fatto eco, descrivendo il dogma come «l'ultimo chiodo nella bara dell'eredità dei caratteri acquisiti». Alla luce, però, delle nostre attuali conoscenze entrambi sbagliavano: non è, infatti, indispensabile la traduzione inversa perché si ereditino i caratteri acquisti, per l'ottima ragione che la maggior parte di essi non implica affatto una variazione delle sequenze di aminoacidi delle proteine. Si pensi a cosa accade in presenza di una risposta cellulare al variare delle condizioni. Che cosa cambia nella cellula? La sequenza di aminoacidi di una proteina? Di solito no, bensì quali geni vengono attivati o disattivati. Sono le quantità delle varie proteine, non le loro sequenze, a subire alterazioni. La traduzione inversa non ha alcuna rilevanza ai fini della trasmissione di tali alterazioni. Un cambiamento genetico che simula la modifica acquisita dovrebbe avvenire in una regione di regolazione del DNA, non in una sequenza di codifica di una proteina. Anche se una risposta cellulare comporta un'alterazione della sequenza degli aminoacidi, è probabile che si tratti della conseguenza di uno splicing o di una traduzione alterati, non di una modifica della regione di codifica del DNA. È, pertanto, di nuovo verosimile che un cambiamento genetico volto a simulare il cambiamento acquisito influisca sulle sequenze di regolazione, non su quelle di codifica. Le varietà di cambiamento genetico capaci di incidere sulla regolazione dell'attività genica sono quelle che alterano il numero di copie dei geni oppure le sequenze nucleotidiche situate nelle regioni di controllo o, ancora, l'ubicazione di un gene sul cromosoma. Questo è il fenomeno a cui spesso si assiste nel caso delle mutazioni interpretative.

I.M.: Il che mi suscita due interrogativi, in un certo senso opposti tra loro. Il primo è: se sono così buone, perché sono così poche? Voglio dire, perché è così difficile trovare esempi di queste mutazioni guidate o semiguidate, quando esse sono in grado di apportare così tanto potenziale beneficio agli organismi?

M.E.: L'esperimento fittizio risponde parzialmente alla domanda. La strategia della tribù dei conservatori, che consiste nell'attuare sempre lo stesso comportamento, è efficace solo se le situazioni si ripetono in maniera esatta, ma non funziona se di colpo salta fuori qualcosa di un tantino diverso. In modo analogo, una mutazione guidata precisa in risposta al cambiamento è improbabile che rappresenti una buona soluzione ai problemi della cellula, in quanto di solito non si ripresentano in maniera ripetitiva condizioni ambientali assolutamente identiche. Non ci dovremmo aspettare, pertanto, un'evoluzione molto più frequente dei sistemi di mutazione accuratamente messi a punto. La risposta genomica più efficace nei confronti della stragrande maggioranza delle condizioni variate si ha attraverso un tentativo guidato e un'improvvisazione sulla base di quest'ultimo, attraverso quelli che definiamo sistemi di mutazione interpretativi. Se ne scoprono sempre di più, specie nei batteri, pur continuando a sapere molto poco sul loro conto.

I.M.: Ciò mi porta all'altra domanda, quella opposta. Nel Capitolo 2 avete sottolineato quanto sia complesso il rapporto tra geni e caratteri. Avete detto che di solito la modifica di un gene è destinata ad avere, ammesso che ne abbia, molti effetti, specie negli organismi pluricellulari. Se le cose stanno così, una nuova mutazione potrebbe risultare benefica in un tipo di cellula, mettiamo in una epatica, ma avere esiti dannosi in un'altra, in una nervosa ad esempio. Di certo è probabile che l'effetto globale di una mutazione in tutti i suoi numerosi contesti sia negativo. Perfino la maggior parte di quelle che avete definito mutazioni interpretative sembra presentare qualche problema. Le chance che qualsiasi tipo di mutazione guidata possa rivelarsi funzionale all'organismo in tutti i vari ambienti e in tutte le tipologie cellulari a me sembrano piuttosto scarse, forse quanto nel caso della mutazione casuale. Perché, in effetti, dovremmo addirittura aspettarci di trovare delle mutazioni guidate o semiguidate?

M.E.: Lei sta toccando un problema davvero fondamentale. Perché i caratteri vengano modificati in senso adattativo attraverso un qualsiasi tipo di mutazione indotta, occorre che un cambiamento a livello dell'organismo alimenti una reazione volta a produrre una modifica corrispondente a livello del gene. È un fenomeno difficile da prevedere negli organismi complessi come quelli pluricellulari. Nei batteri e in altri organismi unicellulari non è, invece, così complicato immaginare come una variazione dello stato della cellula possa influire sul genoma in modo, verosimilmente, adattativo. Abbiamo esemplificato questo genere di riposta genomica (il tipo «locale» di mutazione indotta) descrivendo come aumenta, nell' E. coli, il tasso di mutazione di un gene difettoso nel percorso di biosintesi di un aminoacido quando quest'ultimo scarseggia. Perfino in questo caso, pur trattandosi di mutazioni altamente mirate, nelle modifiche prodotte all'interno della regione prescelta come bersaglio sussiste, tuttavia, una certa dose di casualità. Lei, però, ha ragione: quando un sistema è complesso e le tante interazioni tra geni e ambiente rendono molto indiretti gli effetti fenotipici dei geni, diventa meno probabile un trasferimento delle informazioni dall'organismo al DNA. È un altro dei motivi per cui non è opportuno aspettarsi una traduzione inversa: anche se l'informazione risultasse trasferibile da una proteina alterata alla sequenza di DNA deputata a codificarla, ciò porterebbe a un cambiamento adattativo solo in quei casi abbastanza rari in cui la relazione gene-proteina-carattere sia molto semplice. E di solito non lo è.

I.M.: Dunque più è complesso l'organismo e meno è probabile che sia dotato di sistemi capaci di permettere il verificarsi del cambiamento genetico guidato?

M.E.: Sì e no. Non dimentichi che anche all'interno di organismi complessi sono stati riscontrati cambiamenti genetici guidati: dipendiamo da essi per le nostre risposte immunitarie. Sono adattativi perché si limitano solo a un unico tipo di cellula. Il meccanismo di base volto a effettuare i cambiamenti genomici controllati è, dunque, di certo presente perfino in organismi come il nostro. Eppure, per quanto ci è dato sapere, non è solito produrre cambiamenti diretti nei geni che si tramandano da una generazione all'altra. Un motivo potrebbe risiedere nel fatto che, per quanto le mutazioni siano localizzate nel genoma, all'interno degli organismi complessi quelle «guidate» eserciterebbero effetti «casuali» sull'organismo nel suo insieme, semplicemente per via di tutte le interazioni cellulari.

I.M.: State sottintendendo che, mentre alcuni microrganismi hanno sviluppato sistemi capaci di consentire loro di attuare un po' di evoluzione lamarckiana attraverso la trasmissione di informazione genetica modificata in risposta alle condizioni di vita, gli organismi più complessi non sono in grado di fare altrettanto. Giusto?

M.E.: Riteniamo improbabile che gli organismi complessi siano dotati di sistemi in grado di permettere l'introduzione di cambiamenti adattativi nei geni trasmessi alla prole, anche se non l'escludiamo del tutto. Considerando la cosa da un punto di vista evolutivo, gli organismi pluricellulari si trovano in una strana situazione: da una parte esistono molte circostanze in cui la cessione di alcuni caratteri indotti, «acquisiti», sarebbe vantaggiosa; eppure, dall'altra, la loro possibilità di trasferire delle informazioni adattative tramite cambiamenti indotti del DNA si riduce con il progressivo aumento della complessità biologica.

I.M.: Concordate, allora, sul fatto che gli organismi complessi non prendono parte all'evoluzione lamarckiana?

M.E.: Niente affatto. Come abbiamo detto altrove, non tutto quello che si eredita è genetico. Ci sono sistemi che trasmettono informazioni da una generazione all'altra a un livello sopragenetico, in cui gli adattamenti che si verificano nel corso dell'esistenza si associano in maniera ben più diretta con le informazioni tramandate dall'organismo alla generazione seguente. Tramite i sistemi ereditari sopragenetici gli organismi complessi sono, di conseguenza, in grado di trasmettere alcuni caratteri acquisiti. L'evoluzione lamarckiana è, dunque, per loro senza dubbio possibile. Nei prossimi tre capitoli descriveremo questi ulteriori sistemi ereditari – l'epigenetico, il comportamentale e il simbolico – mostrando come possano esercitare influenze sia dirette sia indirette sul cambiamento evolutivo.

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Tre dimensioni in più


L'idea che solo al DNA siano da imputarsi tutte le differenze ereditarie presenti tra un individuo e l'altro è radicata in maniera così salda nella mente della gente da rendere arduo eliminarla. Quando si suggerisce che le informazioni trasmesse tramite i sistemi ereditari non genetici sono davvero importanti per comprendere l'ereditarietà e l'evoluzione, sorgono due problemi. Il primo è che, per la maggioranza delle persone, il sistema genetico sembra bastare di per sé a spiegare ogni cosa. Costoro chiamano in causa il rasoio di Occam: se un sistema è in grado di spiegare tutto, che bisogno c'è di cercarne altri? Il secondo problema è che, perfino quando concorda sul fatto che non c'è modo di sfuggire alla mole di dati sperimentali volti chiaramente a dimostrare l'esistenza di altri sistemi ereditari di carattere non genetico, la gente trova difficile esprimere un giudizio sul loro conto e misurarne l'importanza nell'evoluzione. Siamo profondamente condizionati dalle nozioni in nostro possesso sul conto del sistema genetico e tendiamo ad attribuirne le proprietà anche ad altre tipologie di eredità, finendo per valutarle nei termini definiti da tale sistema. Non dovremmo farlo, ovvio, ma è difficile modificare le abitudini di ragionamento.

Qualche anno fa, dopo vari tentativi estremamente frustranti e in larga misura fallimentari di far capire il nostro punto di vista ai colleghi e agli studenti, abbiamo trovato un'analogia per spiegare come sistemi ereditari diversi potrebbero operare a fianco di quello genetico. Dal momento che è sembrata soddisfare molti, proveremo qui a riproporla. Si pensi a un brano musicale rappresentato da un sistema di note scritte su carta, uno spartito, che viene copiato pari pari mentre si tramanda da una generazione a quella successiva. Molto di rado, durante la copiatura, si verificano errori che passano inosservati; magari, poi, un copista impertinente a volte vi apporta una minuscola, deliberata alterazione; fatta eccezione per queste piccole e rare modifiche, il brano musicale si trasmette, tuttavia, in modo fedele di generazione in generazione sotto forma di spartito scritto. Il rapporto tra spartito e musica è analogo alla distinzione genotipo/fenotipo. Solo il genotipo (lo spartito) si trasmette da una generazione all'altra; il fenotipo (l'esecuzione specifica, l'effettiva interpretazione del brano) no. Le variazioni del genotipo (mutazioni) si tramandano, mentre lo stesso non accade per quelle relative al fenotipo (caratteri acquisiti).

Così stavano le cose fino all'invenzione dei nuovi mezzi di trasmissione musicale. La tecnologia della registrazione e della radiotelediffusione ha reso possibile trasmettere esecuzioni registrate, modificate, copiate su disco o su cassetta e quindi diffuse nell'etere. Tramite queste nuove tecnologie le effettive interpretazioni della musica possono, ora, venire trasmesse esattamente al pari dello spartito musicale scritto. In termini di analogia con il genotipo/fenotipo, i sistemi di registrazione e di diffusione trasmettono i «fenotipi» del brano, invece che le istruzioni «genotipiche» contenute nello spartito. Un fenotipo, ovvero un'esecuzione specifica, viene influenzato dalle note vergate sullo spartito, dall'abilità del musicista, dalla natura degli strumenti, dalla cultura musicale comune e così via, senza trascurare, poi, le precedenti interpretazioni dello spartito cui direttore d'orchestra e musicisti fanno riferimento, ovvero i precedenti fenotipi. Il rapporto tra i due sistemi di trasmissione è di solito monodirezionale: una modifica dello spartito altera l'esecuzione, mentre qualunque sia l'esecuzione del brano normalmente lo spartito non cambia. Di tanto in tanto, tuttavia, ciò può accadere: un'interpretazione particolarmente famosa della melodia può portare a una versione della partitura che includa nella notazione modifiche inerenti al diverso spirito interpretativo. In questo caso un fenotipo influenza un genotipo. In tutti i casi, aprendo un nuovo canale di trasmissione delle informazioni, le nuove tecnologie sono in grado di influire sulle modalità di esecuzione del brano musicale.

Così come il sistema di trasmissione registrazione-diffusione si basa su una tecnologia totalmente diversa da quella della copiatura dello spartito, allo stesso modo i sistemi ereditari di cui tratteremo nei prossimi tre capitoli differiscono in toto da quello del DNA (la partitura scritta). Non lo sostituiscono: vanno ad aggiungervisi. Il sistema genetico costituisce il fondamento di tutta l'organizzazione biologica, compresa quella dei sistemi ereditari sopragenetici che ci accingiamo a prendere in considerazione, ma questi sistemi aggiuntivi permettono di trasmettere le variazioni di un tipo diverso di informazione, che si verificano a livelli superiori di organizzazione: a livello della cellula, dell'organismo o del gruppo. Possono essere abbastanza indipendenti da quelle a livello genetico, proprio allo stesso modo in cui le variazioni delle esecuzioni registrate possono essere indipendenti da quelle insite nello spartito. Il sistema genetico, come una partitura, detta la gamma di possibilità e, quando quest'ultima è ampia e sono possibili numerosi fenotipi ereditabili, attraverso la selezione naturale che agisce su di essi può aver luogo una grande quantità di interessante evoluzione.

Nei prossimi tre capitoli descriveremo alcuni tipi molto diversi di sistemi ereditari, ognuno dei quali consente di trasmettere variazioni fenotipiche da una generazione all'altra. Nel quarto capitolo considereremo le implicazioni evolutive dei sistemi ereditari cellulari, mentre nel quinto ci concentreremo sulla trasmissione del comportamento negli animali diversi dall'uomo, cogliendone il significato per l'evoluzione; nel sesto tratteremo, infine, i sistemi simbolici e l'evoluzione culturale degli esseri umani. Per il momento cercheremo, nei limiti del possibile, di ignorare le variazioni a livello di sistema genetico, nonché le reciproche interazioni dei vari sistemi di eredità e quelle sussistenti tra essi e quest'ultimo. Tutti questi temi saranno argomento della terza parte.

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Intermezzo: un riassunto provvisorio


Nella terza parte ci occuperemo delle interazioni tra i quattro sistemi di trasmissione delle informazioni che abbiamo descritto nei sei capitoli precedenti. Vista la grande quantità di argomenti toccati, può risultare utile un riassunto e un confronto delle proprietà salienti che li contraddistinguono. Per evitare un'eccessiva ripetizione, abbiamo scelto di ricorrere a due tabelle. La prima descrive le modalità di riproduzione e di variazione dell'informazione per ciascuna delle quattro dimensioni dell'ereditarietà e dell'evoluzione, precisando: 1) se l'informazione è organizzata in forma modulare (le unità possono venire modificate una per una) oppure olistica (non è possibile alterare le componenti senza distruggere l'insieme); 2) se è presente o meno un sistema dedicato alla copiatura di quel particolare tipo di informazione; 3) se quest'ultima può, o meno, rimanere latente, ovvero restare inutilizzata pur venendo comunque trasmessa; 4) se si tramanda unicamente alla prole (in modo verticale) oppure anche ai vicini (in maniera orizzontale); 5) se la variazione è illimitata e capace di varianti indefinite, o se invece trova limiti nel fatto che si possano trasmettere solo alcune distinte differenze.

Tabelle del genere racchiudono sempre una certa dose di approssimazione, dal momento che in biologia le cose ricadono di rado sotto categorie distinte. Abbiamo già accennato in precedenza alla sovrapposizione dei vari sistemi epigenetici, nonché al grado di arbitrarietà da mettere in conto quando si fanno rientrare fra questi ultimi le sostanze trasmesse che influiscono sullo sviluppo della forma di un animale e in un altro gruppo quelle che incidono, invece, sul suo comportamento. Le tabelle devono, inoltre, accontentarsi di termini come «a volte» e «in genere», invece di spiegare per filo e per segno i dettagli. Affermiamo, ad esempio, che la direzione della trasmissione, nel caso del sistema genetico, è «in genere verticale», espressione abbreviata per dire «la trasmissione genetica è verticale negli eucarioti, tranne nelle occasioni probabilmente rare in cui il DNA viene trasferito da un individuo all'altro da vari vettori, oppure direttamente attraverso l'ingestione; nei batteri e negli altri procarioti è forse abbastanza comune e importante sul piano evolutivo il trasferimento orizzontale, benché non si abbiano a disposizione dati sufficienti per conoscerne l'esatta frequenza».

A prescindere dai loro difetti, le tabelle aiutano a sottolineare le somiglianze e le differenze. Da una simile prospettiva risulta evidente quanto siano simili il sistema ereditario genetico e quello simbolico: in entrambi la variazione è modulare; tutti e due sono in grado di trasmettere informazioni latenti (e spesso lo fanno); in entrambi, poi, la variazione è praticamente illimitata. Tali proprietà offrono ai due sistemi di trasmissione un enorme potenziale evolutivo, fornendo vaste quantità di informazione ereditabile vagliabile e organizzabile dalla selezione naturale e da altri processi. La prima tabella indica anche che, mentre nel caso del sistema genetico e di quello epigenetico la direzione della trasmissione dell'informazione è in genere verticale, dai genitori alla prole, negli altri è presente un ammontare significativo di trasmissione orizzontale verso i coetanei o i vicini. Si assiste, in effetti, a una sorta di salto nella direzione in cui scorre l'informazione, con la trasmissione orizzontale che vede aumentare la propria diffusione spostandosi verso i sistemi comportamentali e l'apprendimento socialmente mediato. Il fenomeno introduce una tendenza in grado di alterare in modi significativi gli effetti della selezione e sta a indicare, altresì, la necessità di includere un nuovo insieme di considerazioni (sul perché, come e quando si verifica la trasmissione orizzontale) all'interno del pensiero evolutivo riguardante le variazioni basate sulle informazioni trasmesse per vie simboliche o comportamentali.



La riproduzione dell'informazione

_____________________________________________________________________________
Sistema ereditario
|           Organizzazione dell'informazione
|           |         Sistema di copiatura dedicato?
|           |         |     C'è trasmissione di informazione
|           |         |     latente (non espressa)?
|           |         |     |       Direzione della trasmissione
|           |         |     |       |           Gamma di variazione
|           |         |     |       |           |
_____________________________________________________________________________

GENETICO    Modulare  Sì    Sì      In genere   Illimitata
                                    verticale
_____________________________________________________________________________

EPIGENETICO

Cicli che si
autosostentano
            Olistica  No    No      In genere   Limitata a livello di ciclo,
                                    verticale   illimitata a quello cellulare
|           |         |     |       |           |
Sagomazione
strutturale
            Olistica  No    No      In genere   Limitata a livello di struttura,
                                    verticale   illimitata a quello cellulare
|           |         |     |       |           |
Silenziamento
dell'RNA
            Olistica  Sì    A volte Verticale   Limitata a livello di singolo
                                    e a volte   trascritto, illimitata
                                    orizzontale a quello cellulare
|           |         |     |       |           |
Marcature
cromatiniche
            Modulare  Sì    A volte Verticale   Illimitata
            e         (per la
            olistica  metila-
                      zione)
|           |         |     |       |           |
Retaggi dello sviluppo
a livello di organismo
            Olistica  No    No      In genere   Limitata
                                    verticale
_____________________________________________________________________________

COMPORTAMENTALE

Sostanze che
influiscono sul
comportamento
            Olistica  No    No      Sia vert.   Limitata a livello di singolo
                                    sia orizz.  comportamento, illimitata
                                                per gli stili di vita
|           |         |     |       |           |
Apprendimento
sociale
non imitativo
            Olistica  No    No      Sia vert.   Limitata a livello di singolo
                                    sia orizz.  comportamento, illimitata
                                                per gli stili di vita
|           |         |     |       |           |
Imitazione
            Modulare  Prob- No      Sia vert.   Illimitata
                      babil-        sia orizz.
                      mente
_____________________________________________________________________________

SIMBOLICO   Modulare  Sì,    Sì     Sia vert.   Illimitata
            e olist.  più           sia orizz.
                      di uno
_____________________________________________________________________________



Se la prima tabella si concentra sulla natura e la riproduzione dell'informazione, la seconda riassume gli aspetti più lamarckiani della sua generazione e trasmissione, indicando se la neo-prodotta variazione: 1) è cieca («casuale»), oppure mirata rispetto a specifiche attività e funzioni; 2) passa attraverso filtri legati allo sviluppo e subisce delle modifiche prima di essere trasmessa; 3) è costruita per pianificazione diretta; 4) può dare origine a una nicchia ambientale differente. Dalla tabella emerge con chiarezza come, passando dal regno della genetica a quello dell'epigenetica e, quindi, al comportamento e alla cultura, gli aspetti istruttivi della produzione e del trasferimento della variazione diventano via via più dominanti e diversificati. Benché nel caso del sistema genetico sia presente una piccola quantità di selezione degli obiettivi attraverso i vari tipi di mutazioni interpretative e una certa dose di filtraggio tramite la selezione che avviene tra le cellule nel corso della gametogenesi, il ruolo dei processi istruttivi è relativamente limitato. Nei sistemi epigenetici la selezione dei bersagli è molto più pronunciata. Molte variazioni epigenetiche sono, infatti, indotte e i sistemi di regolazione delle reti genetiche e cellulari determinano se e come i segnali esterni influenzano le marcature cromatiniche, i cicli che si auto-sostentano e il silenziamento dell'RNA. Quali varianti si riproducono nella generazione successiva di cellule o di organismi dipende dalle proprietà del sistema di sviluppo e dalla selezione tra le varianti stesse.

Nel caso della trasmissione comportamentale sia la selezione dei bersagli sia la costruzione sono ancora più evidenti. La variazione è mirata nel senso che i preconcetti mentali, frutto dell'evoluzione, limitano quanto può essere fatto oggetto di apprendimento. La sua costruzione avviene attraverso il procedere del singolo per errori e tentativi e tramite vari tipi di apprendimento sociale, processi limitati e canalizzati dalla natura delle interazioni sociali. Nel caso della variazione trasmessa dal sistema simbolico c'è un'enorme metamorfosi della complessità sociale, connessa con le famiglie, i gruppi professionali, le comunità, gli Stati e altre forme di raggruppamento che influenzano ciò che viene prodotto a livello artistico, commerciale, religioso e così via. La costruzione gioca un ruolo enorme nella produzione delle varianti, tuttavia l'auto-referenzialità dei sistemi simbolici fa sì che le regole dei sistemi siano filtri potenti. La capacità di usare i simboli attribuisce parimenti agli esseri umani la dote importante ed esclusiva di costruire e trasmettere le varianti avendo in mente il futuro.

L'ultima colonna della seconda tabella denota la misura in cui i vari sistemi ereditari svolgono un ruolo importante nel costruire la nicchia in cui ha luogo la selezione, argomento su cui avremo altro da dire nella Parte III. Gli organismi sono in grado di organizzare l'ambiente in modi che influiscono sullo sviluppo e sulla selezione dei loro discendenti, così come sulla loro stessa esistenza. Perfino i batteri e le alghe azzurre (Cianobatteri), i più antichi abitanti del nostro pianeta, possono essere considerati degli ingegneri ambientali, dal momento che i prodotti del loro metabolismo si diffondono nell'ambiente e lo trasformano, modificando il regime selettivo dei loro vicini e discendenti. Spostandosi su livelli superiori di organizzazione, possiamo ricordare come i ratti neri israeliani abbiano costruito una nuova nicchia per se stessi e per la loro prole variando la propria dieta e cominciando a vivere sui pini di Aleppo. Un esempio universalmente noto è quello della diga dei castori, che può avere effetti a lungo termine su una linea di discendenza. Le dighe «ereditate» forniscono, infatti, l'ambiente per nuove generazioni di castori e le modifiche a esse apportate sono in grado di accumularsi nel corso di molte generazioni, pur influendo solo sugli esemplari nelle immediate vicinanze. Nel caso della cultura simbolica umana la capacità di costruire l'ambiente selettivo è di gran lunga maggiore e spesso si estende a più generazioni, agendo su individui e comunità lontani. L'effetto di una simile costruzione socio-ambientale può essere enorme. Secondo Jared Diamond, alcuni dei modelli più importanti di migrazione, colonizzazione e di dominio attuati dall'uomo negli ultimi quindicimila anni sono frutto dell'addomesticamento, che ha trasformato determinate specie animali e vegetali in una componente indispensabile della nicchia da lui popolata. Pensandoci, diventa chiaro che non esiste, in pratica, alcun aspetto del mondo in cui viviamo che non sia organizzato, compresa la nostra cognizione. L'uso di simboli scritti, ad esempio, altera in maniera inevitabile i pensieri e le percezioni che ci contraddistinguono, in quanto essere capaci di leggere e scrivere estende, in effetti, la nostra capacità di memoria e di ragionamento.

Tutti e quattro i sistemi ereditari permettono la costruzione e la trasmissione di informazioni che riflettono le interazioni dell'organismo con l'ambiente. Quelle apprese o acquisite attraverso lo sviluppo – destinate, con ogni probabilità, a rivelarsi utili per le generazioni future – sono tramandabili. Negli organismi unicellulari, nei funghi, nelle piante e negli animali inferiori attuali l'evoluzione si basa sull'informazione trasmessa attraverso il sistema genetico ed epigenetico e parte di essa è acquisita e mirata. Nel caso degli animali contraddistinti da trasmissione comportamentale la capacità di generare e di tramandare l'informazione adattativa è di gran lunga maggiore. Alcuni comportamenti appresi sono in grado di creare delle tradizioni che, come sosterremo nell'ottavo capitolo, attraverso il sistema genetico interagiscono con i cambiamenti evolutivi, guidandoli. In queste creature, l'ereditarietà epigenetica continua a costituire un fattore rilevante nello sviluppo, benché la trasmissione delle varianti epigenetiche tra le generazioni sia probabilmente di scarsa rilevanza quando così tante informazioni si tramandano dal punto di vista comportamentale. Con la nascita e l'elaborazione dei sistemi simbolici perfino il sistema genetico ha scarsa rilevanza sul piano evolutivo. Nel corso dell'intera storia dell'uomo l'evoluzione adattativa è stata guidata dal sistema culturale, che ha creato le condizioni in cui si sono espressi e sono stati selezionati i geni e il comportamento. Presto, se si realizzeranno alcune delle promesse che hanno accompagnato il Progetto Genoma, il predominio del sistema simbolico arriverà addirittura a essere maggiore. Avremo la capacità di modificare i nostri geni direttamente, di formulare «ipotesi genetiche plausibili» destinate a influenzare le generazioni future. Le varie dimensioni dell'ereditarietà e dell'evoluzione hanno, chiaramente, significati diversi all'interno di gruppi differenti e, altrettanto chiaramente, interagiscono tutte. Nei prossimi capitoli prenderemo in esame la natura e i risultati di tali interazioni.

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Passaggi sulla montagna dell'evoluzione

Dai resoconti forniti in questo capitolo dovrebbe essere chiaro come, pur essendoci ancora molto da imparare sulle origini dei vari sistemi ereditari, non ci sia alcun bisogno di invocare la mano di Dio riguardo alla nascita di qualunque di essi. In effetti, come nel caso delle origini evolutive in generale, avremmo potuto cominciare la stragrande maggioranza dei nostri resoconti con «Al principio ci fu un sottoprodotto di...». Questo sottoprodotto è stato, nella maggior parte dei casi, trasformato in seguito dalla selezione naturale in qualcosa di molto diverso dall'adattamento con cui era in origine associato.

Benché le origini dei sistemi ereditari non genetici non abbiano nulla di eccezionale, alcuni degli effetti da essi prodotti sono stati di vasta portata; concluderemo, pertanto, questo capitolo con una visione d'insieme generale sul modo in cui hanno influenzato la storia della vita. Il panorama presentato nella Figura 9.6 suggerisce che alcuni dei grandi passaggi evolutivi – dagli organismi unicellulari a quelli pluricellulari, dai singoli individui ai gruppi sociali coesi, dai gruppi sociali alle comunità culturali – si siano basati tutti sui nuovi tipi di trasmissione delle informazioni. Con l'aggiungersi di nuove modalità di trasmissione dell'informazione e l'emergere di nuove tipologie di organismi con differenti capacità evolutive, sono cambiati il ruolo e l'importanza dei sistemi ereditari esistenti.

Quasi ai piedi della montagna dell'evoluzione si trovano i semplici organismi unicellulari dotati di un sistema ereditario sia genetico sia epigenetico. La natura del brodo primitivo da cui è emersa la vita e la struttura delle prime vere cellule sono ignote, ma in una certa fase i singoli geni hanno cominciato a legarsi assieme per formare i cromosomi e si è istituito il sistema di informazione del DNA con il suo codice genetico e il suo meccanismo di traduzione. In seguito si sono evolute le cellule eucariote, in cui i cromosomi erano racchiusi in un nucleo e la divisione cellulare avveniva attraverso la mitosi e la meiosi. Tutti questi passaggi sono stati associati a mutamenti dell'organizzazione, della trasmissione e dell'interpretazione dell'informazione legata al DNA. In parallelo si sono, però, altresì modificati i sistemi epigenetici, che dipendono dalla produzione delle proteine geneticamente codificate che ne costituiscono i mattoni.

Via via che diventavano più elaborati, i sistemi epigenetici si sono trasformati in sistemi più efficaci di trasmissione dell'informazione, permettendo, come abbiamo sostenuto nel quarto capitolo, l'evolversi degli organismi pluricellulari dotati di molti tipi di cellule. I sistemi ereditari epigenetici e genetici (comprese le mutazioni interpretative) hanno continuato a svolgere la parte del leone nell'evoluzione delle piante, dei funghi e degli animali semplici, così come degli organismi unicellulari. Una volta evolutisi gli animali complessi, contraddistinti da un sistema nervoso centrale, sono, tuttavia, diventati importanti il comportamento e le informazioni trasmesse attraverso tale veicolo. Tramite la trasmissione comportamentale gli animali hanno acquisito il potenziale di adattarsi in maniere impossibili o improbabili attraverso l'eredità epigenetica transgenerazionale o le mutazioni geniche. Le strutture e i rapporti sociali complessi, nonché le tradizioni di gruppo, sono il frutto della sempre maggiore affidabilità riconosciuta alle informazioni socialmente apprese. All'interno della stirpe dei primati è, alla fine, emersa la comunicazione simbolica, portando agli esplosivi cambiamenti culturali che osserviamo negli umani, dove i simboli hanno assunto il ruolo di protagonisti dell'evoluzione. Come è accaduto nel corso di tutta la storia evolutiva, un sistema ereditario di livello superiore guida ora l'evoluzione che ha luogo tramite quelli di livello inferiore, tra cui il sistema genetico.

Sposando una visione dell'evoluzione concentrata sulla trasmissione delle informazioni, continuiamo una tendenza recente nella storia del pensiero evolutivo. Dal dibattito sulle unità e i livelli di selezione e di evoluzione, da noi citato nel primo capitolo, è scaturito un interesse per la natura, l'immagazzinamento e la trasmissione dell'informazione biologica. Il nocciolo del problema è che í gruppi si compongono di individui, gli individui sono fatti di cellule, le cellule contengono cromosomi, i cromosomi sono dotati di geni e la selezione può verificarsi in uno qualsiasi di questi livelli oppure in tutti. Eppure le entità di livello superiore sono evidentemente unità funzionali integrate, in grado di riprodursi come tali, pur essendo costituite da componenti simili a quelle che nel passato evolutivo erano esse stesse entità che si riproducevano in maniera indipendente. Come si sono evolute, allora, le entità di livello superiore? Perché la selezione tra quelle di livello inferiore non ne ha distrutto il funzionamento? Per quale motivo, ad esempio, la competizione tra cellule egoiste non ha annullato la capacità di un organismo animale o vegetale di funzionare come intero?

L'opera più autorevole che tratta questi temi è The Major Transitions in Evolution [Le principali transizioni nell'evoluzione] di John Maynard Smith ed Eörs Szathmàry. Al suo interno gli autori offrono un'analisi esaustiva dell'evoluzione dei nuovi livelli di complessità, identificando otto passaggi principali: 1) dalle molecole replicantisi alle popolazioni di molecole in compartimenti (protocellule); 2) dai geni indipendenti ai cromosomi; 3) dall'RNA sia come portatore dell'informazione sia come enzima al DNA e alle proteine dediti, rispettivamente, all'uno e all'altro ruolo; 4) dai procarioti agli eucarioti; 5) dai cloni frutto della riproduzione asessuata alle popolazioni caratterizzate da quella sessuale; 6) dagli eucarioti unicellulari agli organismi pluricellulari con cellule differenziate (piante, funghi e animali); 7) dagli individui solitari alle colonie e ai gruppi sociali; 8) dalle società dei primati a quelle umane caratterizzate dal linguaggio. Maynard Smith e Szathmàry suggeriscono che tutti questi passaggi siano stati associati a cambiamenti nella modalità di immagazzinamento, trasmissione o interpretazione delle informazioni. Dimostrano, inoltre, come le entità di livello superiore siano in grado di evolversi attraverso la selezione che agisce sulle unità di livello inferiore in quanto queste ultime possono trarre maggiore beneficio cooperando anziché entrando in competizione. Nel caso della maggior parte dei passaggi – fatta eccezione per il 3), il 5) e l'8) – un'unità che una volta si riproduceva in maniera indipendente è divenuta parte di un sistema integrato che ha formato una nuova unità di riproduzione. Il gene indipendente è, ad esempio, diventato parte di un cromosoma; nel caso della singola cellula, la nuova unità è stata un organismo pluricellulare. Secondo Maynard Smith e Szathmàry, una volta divenuta parte di un'unità riproduttiva più ampia, la vecchia entità non è più riuscita a sopravvivere e a riprodursi in maniera indipendente, poiché l'emergere dell'entità di livello superiore è stato accompagnato da meccanismi volti a garantirne la stabilità e a prevenirne la disintegrazione nelle parti componenti.

Il nostro approccio nei confronti dell'evoluzione è simile a quello di Maynard Smith e Szathmàry per il fatto che è centrato sulla trasmissione delle informazioni. Differisce, tuttavia, là dove si concentra su tipi nuovi o modificati di informazione ereditaria e li considera fattori cruciali nell'evoluzione di nuovi livelli di organizzazione; Maynard Smith e Szathmàry concepiscono, invece, tutta l'evoluzione, dall'insorgere delle prime cellule all'acquisizione del linguaggio da parte degli ominidi, in termini di variazioni del sistema genetico. Riconoscono, naturalmente, l'importanza degli EIS per lo sviluppo degli organismi pluricellulari, ma non li ritengono sistemi distinti di trasmissione dell'informazione in grado di influire in maniera diretta sull'evoluzione. L'informazione tramandata da una generazione all'altra non svolge, allo stesso modo, un ruolo diretto all'interno dei loro scenari evolutivi. Gli EIS e la trasmissione comportamentale vengono visti come risultati, anziché come agenti diretti dell'evoluzione. Fatta eccezione per la variazione fornita dal sistema linguistico, che guida l'evoluzione culturale, Maynard Smith e Szathmry presumono che le differenze genetiche forniscano tutta la variazione ereditabile su cui agisce la selezione naturale. Questa visione ristretta dell'ereditarietà indica che, nell'ambito delle loro ipotesi evolutive, non c'è spazio per i processi istruttivi, tranne che all'interno delle società umane. Si tratta, riteniamo, di un errore.

Siamo convinte che, per quanto riguarda tutti i principali cambiamenti evolutivi, occorra pensare ad almeno due dimensioni dell'ereditarietà: la genetica e l'epigenetica. Nel caso di molti animali risulta rilevante anche una terza, che coinvolge l'informazione trasmessa sul piano comportamentale, mentre in quello degli esseri umani i sistemi simbolici ne aggiungono una quarta. Tutte e quattro le modalità di trasmissione dell'informazione introducono, in misure e maniere diverse, dei meccanismi istruttivi all'interno dell'evoluzione. Tutte plasmano il cambiamento evolutivo. Eppure finora l'esistenza dell'aspetto istruttivo ha avuto scarso impatto sul pensiero in questo campo. Le cose devono presto cambiare: con la quantità via via crescente di conoscenze sull'eredità genetica svelata dalla biologia molecolare e la dimostrazione, da parte degli studi sul comportamento, di quanta informazione venga tramandata attraverso mezzi non genetici, i biologi si troveranno costretti ad abbandonare la loro attuale concezione di ereditarietà, modellata quasi un secolo fa, agli albori della genetica. Perché la teoria darwiniana possa rimanere in contatto con quanto già si conosce sul conto dell'ereditarietà e dell'evoluzione, bisogna fare degli sforzi per incorporarvi più di un sistema ereditario e i suoi propri tentativi più o meno mirati di cambiamento.

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