Copertina
Autore Howard Jacobson
Titolo Un amore perfetto
EdizioneCargo, Napoli-Roma, 2010, Narratori 1 , pag. 384, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x2,8 cm , Isbn 978-88-6005-039-7
OriginaleThe Act of Love [2008]
TraduttoreMilena Zemira Ciccimarra
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe narrativa inglese , erotica
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Pagina 9

PROLOGO



Le quattro andavano bene a tutti: la moglie, il marito, l'amante.

Le quattro: l'ora in cui il tempo in città oscilla sul proprio asse – il giorno non si è ancora consumato, e le ruote della sera iniziano appena a girare.

L'ora del passaggio di consegne, così la chiamava Marius tra sé e sé.

Marius il cinico. Marius, che credeva che la menzogna fosse un dono della selezione naturale a Dio, e dell'umanità alla selezione naturale. Marius che dal futuro non si aspettava più alcuna grande avventura, nemmeno quell'ultima avventura concessa all'uomo moderno: un amore estatico, smodato, riprovevole, travolgente. Marius che andava fiero di essere immune a ogni sorpresa o delusione, perché non ci si poteva attendere niente da nessuno, men che meno da lui. Marius l'afflitto.

Aveva trentacinque anni – anche se dall'aspetto e dalla voce sembrava più vecchio – era alto e pericolosamente ben fatto, con una faccia che evocava la catastrofe ecologica: occhi smarriti come due Atlantidi, guance devastate, un letto di fiume prosciugato al posto della bocca. Le donne lo trovavano attraente, scambiando la loro incertezza per la sua. Anch'io lo trovavo attraente, nonostante fossimo in tutto e per tutto diversi. Io ero l'uomo estatico con cui lui era convinto che il mondo avesse chiuso. Io sono quello che si lascia travolgere dall'amore.

Oggi siamo tutti fondamentalisti, gli atei come i credenti. In entrambi i casi si richiede devozione. Marius si prostrava davanti all'altare dello Scetticismo. Io a quello dell'Eros. A ciascuno il suo dio.

Si dice che la fede renda forti. La mia fede era di ben altro genere. Io credevo per indebolirmi. Sono un flagellante dell'amore, nella debolezza trovo la mia unicità.

Comunque sia, era alle quattro. L'ora del passaggio di consegne. Un paragone così sconcio che quasi mi manca il respiro nell'immaginare Marius che lo pensa.

Quanto a chi consegnasse cosa, non è una faccenda che si possa risolvere in una frase, ammesso che la si possa risolvere in qualche modo. Il bello di un patto osceno è che tutti ne ricavano qualcosa.

La moglie, l'amante, il marito.


Io ero il marito.

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Pagina 13

La prima volta che vidi Marius, quando non potevo avere nemmeno il lontano sentore che un giorno mi sarebbe stato utile – o che io lo sarei stato a lui, se è per questo – fu a un funerale in un cimitero di campagna nello Shropshire. Una di quelle classiche mattine del Wrekin rese note dal poeta Housman – una pioggia grondante che si riversava sulla lapide e sul poggio, un vento fortissimo che sconquassava gli esili alberelli, una mattina alluvionata, fradicia, di quelle in cui è meglio essere morti che vivi. A me non importava, io non ero di lì. Potevo infilarmi le galosce prima di lasciare l'albergo, aprire l'ombrello, resistere finché c'era da resistere e poi filarmela. Ma alcuni dei presenti alla sepoltura avevano scelto di vivere in quel luogo dimenticato dalla speranza. Non chiedetemi perché. Per contribuire alla loro prematura inumazione, suppongo. Per farla finita con la vita ancor prima che la vita l'avesse fatta finita con loro.

C'è una tale smania di soffrire, lì fuori. Una tale apocalittica impazienza. Non intendo solo nello Shropshire, per quanto a loro potrebbe esserne toccata una fetta più grande, intendo ovunque. Dateci l'atomica, gridiamo, e pubblicate su internet le istruzioni per fabbricarla. Soffiate venti a squarciarvi le guance: inaridiamo la terra, montiamo la tenda ai piedi di un iceberg che si sta sciogliendo o di un vulcano in attività, prendiamo il sole lungo il percorso di uno tsunami. Non vediamo l'ora che sia finita. Masochisti che non siamo altro!

E dire che potremmo saggiare le più deliziose delle pene pur continuando a vivere, se solo sapessimo dove guardare. Nei nostri letti, per esempio. Nella persona amata stesa accanto a noi.

Ama qualcuno con sufficiente intensità e avrai accesso a tutto il dolore che si possa desiderare.

Un pensiero questo, devo dire, che non formulai certo all'epoca, non avendo ancora conosciuto, sposato, donato cuore e mente alla donna che sarebbe divenuta la mia aguzzina. Marisa arrivò dopo. Ma nel buio vegetativo che la precedette, non avevo mai dubitato che la mia scorza si stesse assottigliando nell'attesa di qualcuno. Facile giudicare con il senno di poi e vedere Marisa come il soddisfacimento di tutti i miei desideri, la donna che aspettavo da sempre; ma prima di incontrarla naturalmente non pensavo, quando m'innamoravo, che fossero solo relazioni provvisorie. Ogni volta che donavo il cuore e la mente, credevo di averli persi per sempre. Eppure non appena riacquistavo l'equilibrio capivo che la donna che mi avrebbe completamente avvinto – che mi avrebbe fatto suo come nessun'altra fino ad allora, un uomo posseduto nel vero senso della parola – era ancora lì fuori, in attesa del suo totale appagamento come io era in attesa del mio. Il che, presumo, spiega il mio interesse per Marius ancor prima di comprendere quale ruolo avrebbe giocato in quell'appagamento. Devo aver ravvisato in lui il complemento pornografico delle mie brame non ancora del tutto definite.

Dal suo contegno al funerale era impossibile dire se fosse uno dei parenti stretti del defunto. Aveva un'espressione corrucciata, quasi risentita, tutto imbacuccato in una sciarpa e avvolto in un mantello nero pece come Amleto; eppure, anche se offriva chiaramente il suo sostegno alla vedova – una donna che non conoscevo, ma alla quale era appiccicata una sorta di vergognosa consapevolezza di antico scandalo, come le donne perdute dei romanzi vittoriani –, ebbi la sensazione che non fosse il figlio del morto. La sua sofferenza, ammesso che di sofferenza si trattasse, era di ordine diverso. Se dovessi riassumerla in una parola, direi che la sua era invidia – quasi pensasse che la gente stesse piangendo la persona sbagliata. Ci sono uomini così, che partecipano ai funerali con una specie di possessività, con la voglia di appropriarsene, e Marius mi parve uno di quegli uomini.

Avevo conosciuto il morto per affari. Era stato professore di letteratura all'università e possedeva una voluminosa biblioteca personale. Ero venuto da Londra per valutarla, ma le trattative non avevano dato alcun esito. I volumi erano mal conservati e gli si erano sbriciolati tra le mani ancor prima che riuscissi a formulare un'offerta. A suo modo fu una fortuna, dato che il professore non voleva davvero separarsi dai suoi libri, per quanto malridotti. Era una persona amabile, un uomo fuori dal tempo e dallo spazio, che levava contro le crudeltà della vita un debole squittio di protesta. Era uno dei delusi della vita. Però non lo avevo conosciuto così bene da potermi avvicinare a parenti e amici per chiedere loro chi fosse il Principe Nero. E attaccare discorso direttamente con lui era impensabile. Era caparbiamente chiuso a ogni contatto visivo o presentazione, almeno quanto la salma stessa.

Quando, nella piccola sala municipale con riscaldamento centralizzato dove ci eravamo spostati dopo la cerimonia, curvi come gli alberelli sferzati dal vento, presi a osservarlo, mi chiesi se non fosse stata la cupezza del tempo a conferirgli quell'aspetto al cimitero: adesso, liberatosi del soprabito, della sciarpa e, se non andavo errato, anche della vedova, appariva molto meno saturnino. Dire che era allegro sarebbe eccessivo, ma si era fatto animatamente inavvicinabile, invece che solo inavvicinabile. Da lui sembrava scaturire un fuoco freddo, come le scintille da una stellina di Natale.

Era bello, sempre che vi piacciano gli uomini alti e con l'aria rapace. Personalmente, non avendo un animo da predatore, mi sentivo intimorito da lui. Ma essere belli significa anche questo, immagino: infondere paura.

Stazionava accanto al tavolo con salsicce e pasticcio di carne di maiale, intralciando il passaggio agli altri, e flirtava freddamente con due ragazze rotondette che presi per sorelle, se non altro perché lui sembrava volerle separare. Giusta o sbagliata che fosse, dava l'impressione di un uomo capace di oltrepassare ogni limite se l'impresa richiedeva una buona dose di torbida malizia. Fu proprio questa impressione a farmi domandare se, tutto sommato, le ragazze fossero grandi abbastanza da potersi permettere con loro una simile libertà. Quanti anni avessero di preciso non saprei dirlo – quando non si hanno figli propri (e io non ho alcun interesse a riprodurmi) si perde la capacità di distinguere una dodicenne da una ventisettenne – ma avevano quell'espressione scopertamente birichina delle ragazze che sanno di poterti spedire in carcere.

Per parte sua Marius, pur facendo loro credere di avere l'esclusiva sulla sua attenzione e di essere le sole beneficiarie del suo ingegno, riusciva allo stesso tempo a usarle a mo' di rimprovero verso le persone riunite nella sala, come se solo la loro tediosità lo obbligasse a perder tempo con due ochette con il rossetto nero e l'anello al naso. Ma forse ero io a fraintendere. Forse era profondamente addolorato, consumato da una pena che solo un indiscreto contatto con la gioventù e l'esercizio della seduzione potevano lenire.

Mi chiedevo cosa ci vedessero in lui, quelle due, in grado di cancellare l'indifferenza che di solito le giovani provano verso gli uomini dall'intelligenza lugubre e con il doppio dei loro anni. Ridevano con un trasporto che sarebbe stato oltraggioso persino a un ballo delle debuttanti, figuriamoci a un funerale. Levavano su di lui i pericolosi visi da folletto, scoperti e arrossati, eccitate dalla consapevolezza dell'audacia insita nella sua scintillante attenzione, un'audacia che esigeva da loro altrettanta spavalderia.

Poi all'improvviso, come se temesse una scenata, lui si fermò, ricordando a se stesso quel che doveva al caro estinto e alla vedova, per quanto noiosa fosse la circostanza. Ma un attimo prima di lasciare le ragazze, lo vidi rivolgere loro una frase a fior di labbra – metà in segreto, metà no. Io almeno non ebbi difficoltà a interpretare il messaggio, ma d'altro canto sono particolarmente ricettivo a tutto ciò che racchiude in sé la promessa di qualcosa di sconveniente. E, sì, ammetto che scoverei il vizio anche laddove non ve ne fosse traccia. In ogni modo, non fu questo il caso.

«Quattro... in... punto» disse senza emettere un suono.

Che intenzioni aveva? Incontrarle all'uscita da scuola?


Le quattro.

L'ora del tremito.


Se era davvero un convegno amoroso, lui non ci sarebbe andato – questo era quel che credevo. Le minorenni sì; una delle due, o più probabilmente entrambe, impegnate a darsi man forte a vicenda mentre, dritte all'angolo di una strada, lì dove Marius aveva detto loro di attenderlo, tiravano su le maniche piene di ruche per consultare gli orologetti di Topolino un minuto sì e uno no, ridendo nei fazzoletti, con i cuori polposi che gli martellavano in petto sotto la divisa della scuola. Loro sì. Ma non Marius. Quel che voleva dalle ragazze se l'era già preso.

Come si possa stabilire in base a una valutazione così affrettata (fatta per lo più da dietro) che un uomo sia un libertino assenteista, cui piaccia accendere il desiderio più che vederlo divampare e che all'ultimo momento preferisca negare i suoi favori sessuali piuttosto che concederli, non so spiegarlo. Magari è un genere di sadismo che traspare dalla curvatura della colonna vertebrale. O forse sono semplicemente bravo a vedere quel che voglio vedere. Comunque la si voglia mettere, sentivo in anticipo «la puntura dell'indifferenza» – rubo l'espressione a Leopold Bloom, santo protettore di ogni uomo soggiogato e tradito - altrettanto acutamente di quanto l'avrebbero sentita quelle ragazzine alle quattro in punto del giorno in cui Marius non si sarebbe presentato all'appuntamento.

È il mio terreno: l'affronto sessuale. Sono un intenditore in materia. Potrei scrivere un trattato di mille pagine, in una dozzina di lingue, alcune delle quali morte, sulla differenza tra la puntura e il conseguente bruciore. Un'erudizione che deriva in parte dall'estesa e forse eccessivamente partecipata lettura di quella categoria di romanzi classici (inglesi, francesi, russi e quant'altro) il cui tema di fondo è l'umiliazione. Sarei tentato di chiedere se esistano altre categorie di classici. Ma riconosco – sebbene la cosa mi lasci perplesso – che certi lettori aprono un libro allo scopo di farsi avvolgere dal mistero di stravaganti vicende, o appassionare da atti di prosaico eroismo. Io devo esser nato senza il gusto del mistero o dell'eroico.

L'amore, solo di questo mi è sempre importato leggere. L'amore e le pene d'amore.


L'amore era per me un tormento.

Non conosco distinzione tra letteratura e vita. Nelle storie che assai presto avevo iniziato a divorare con avidità venivo naturalmente attratto dalla sofferenza – dai dolori del giovane Werther o del più maturo Aleksej Aleksandrovic Karenin, dalla fanciullesca ombrosità di Julien Sorel, così facilmente ferita, e dalla profonda tristezza, contemplativa in modo tutto femminile, di Anne Elliot. Ma nella vita non era mai stato diverso per me. Ero nato con il mal d'amore – non corrisposto, ipersensibile, ansiosamente geloso, con un malsano anelito a donare il mio cuore ben prima che ci fosse qualcuno cui offrirlo.

Non dubitai mai che anch'io sarei stato respinto, lasciato a macerarmi nel dolore come gli eroi e le eroine delle mie letture.

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Dopo il funerale non ripresi il treno per Londra come avevo programmato. Un vago sesto senso mi spinse a rimanere a Much Wenlock. Non certo il desiderio di andare a far baldoria, anche se era un sabato sera. Ordinai dei tramezzini in albergo e li mangiai in camera. Nell'hotel era tutto sbilenco: i tramezzini scivolavano dal vassoio, la bottiglia di birra scivolava dal comodino, e solo tenendomi al materasso potei evitare di cadere dal letto.

Ma la stortura del posto si accordava al mio umore. Ero scombussolato.

Fui risvegliato dal suono delle campane domenicali. Un sole beffardo si insinuava tra le tende. Il vecchio era stato seppellito e la vita poteva ricominciare. Decisi di approfittare di quello che poteva anche essere l'unico sole che lo Shropshire avrebbe visto in un centinaio d'anni e mi vestii rapidamente. Avevo bisogno di fare colazione e non ero disposto a rischiare di farmi scivolare in grembo un uovo al tegamino, così uscii in cerca di un bar. Dopo di che gironzolai un po', visitai il monastero, alcuni edifici antichi in legno e muratura, e alla fine mi imbattei in un paio di librerie, quel genere di librerie che mi sento in dovere di esaminare con cura quando sono fuori città. Raramente trovo qualcosa di valore, ma non manco mai di acquistare un libro o due, come manifestazione di solidarietà tra colleghi. Di tutte le forme di inumazione prematura, vendere libri in una cittadina di provincia è la più penosa. I titolari se ne stanno seduti dietro i tavoli di legno fingendo di leggere – sebbene abbiano già letto tutta la loro merce una dozzina di volte – e registrando le poche vendite in un libro mastro con una matita spuntata. Avrei potuto benissimo esserci io al loro posto, penso sempre, se non fosse stato per l'avveduta lungimiranza dei miei antenati, i quali si assicurarono che il nostro destino fosse a Marylebone, vera città nella città di Londra. Felix Quinn - Libraio Antiquario: nella pacata sicurezza del cognome credo traspaia la fiducia di una famiglia che non poteva immaginare di vivere a più di poche centinaia di metri da tutte quelle cose di cui l'anima e il corpo di un uomo necessitano: gallerie d'arte, sale da concerto, buoni ristoranti, rivenditori di vino e formaggi, ospedali, bordelli.

Altri devono viaggiare per soddisfare questi bisogni; a noi bastava allungare una mano.

In effetti, una delle fetide battute che mio padre amava tanto ripetere era che alla sua età la felicità consisteva esclusivamente nella possibilità di infilare una mano sotto la gonna di una donna. E non si riferiva a mia madre.

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«Il modo in cui un uomo si sfila la giacca ti dice tutto quello che c'è da sapere su di lui» diceva sempre mia nonna. «Se non riesci a farlo con aria sicura, allora è meglio tenerla addosso». Quando Marisa si sfilò la giacca – una bella giacca di sartoria, con una fila di bottoni e ampi risvolti, e un peplo che le fasciava i fianchi – mi disse tutto ciò che c'era da sapere su me stesso. Ero cotto. In verità un cameriere l'aiutò a toglierla, già di per sé una prova di sicurezza, ma lei rispose ai suoi movimenti – inclinando il busto verso di lui e poi liberandosi con una lieve scrollata – come se gli uomini l'avessero aiutata a sfilarsi la giacca per tutta la vita. Sotto indossava una sottilissima camicia di satin che avviluppava il suo corpo più che vestirlo. Nessun décolleté. Come avrei scoperto, non era il tipo. Non possedeva nulla di scollato. C'è sempre un che di disperato nelle donne che vogliono farti scivolare l'occhio sul seno. Marisa portava il suo con assoluta confidenza, sapendo che la bellezza del suo petto era frontale e non abissale, e derivava da un'armoniosa interrelazione tra torace e addome, tra braccia, schiena e spalle, non dalla mera forma e protuberanza delle mammelle. Lo sottolineo perché non sono mai stato particolarmente attratto dai seni in quanto oggetti in sé, di cui godere indipendentemente dalla donna cui appartengono. Fu il modo in cui Marisa portava il suo seno, a mo' di introduzione o frontespizio di se stessa – al tempo stesso morbido e scolpito, e non troppo grande, anche se l'effetto complessivo era godurioso – ad attrarmi. Nel momento in cui si sedette, comunque, dovetti distogliere lo sguardo per non restare accecato. Se fu per questo che rise, non saprei dirlo, ma era una di quelle donne che sanno di dover rispondere con una risata al turbamento suscitato negli uomini dalla loro sensualità. E la sua era una calda risata da contralto, piena di bassi, evanescente e materiale al contempo, come tutto in lei, in grado di evocare risate di estati da tempo trascorse o ancora da venire.

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Anche se dico che fu un'esperienza rivelatrice, le emozioni da cui venni sopraffatto nella stanza d'albergo in Florida non mi erano del tutto nuove. Perlomeno non ero all'oscuro della loro esistenza nell'animo umano.

Quando avevo sedici anni divenni amico di un collega di mio padre, Victor Gowan, che un tempo era stato un editore di successo e, nel breve periodo che io lo conobbi, si trasferì da uno scuro, rumoroso e cadente ufficio di fronte al British Museum in una sileziosa casa con una grande finestra che affacciava sul Tamigi a Cookham – nella campagna di Stanley Spencer. Non so come la vedesse Victor, ma ai miei occhi il trasloco appariva come una sorta di pensionamento. All'epoca del suo trasferimento lui non poteva avere più di cinquant'anni, ma mentre nel suo ufficio era loquace e allegro, quando lo vidi a Cookham era pensoso e afflitto.

Stare tutto il giorno a guardare un fiume può avere quest'effetto, naturalmente, ma non credevo che la causa del suo cambiamento fosse il fiume. Qualche disgrazia di cui non si parlava, comunque, doveva essergli capitata, perché i suoi rapporti con mio padre avevano avuto inizio quando era stato costretto a svendere la sua biblioteca quasi pezzo per pezzo. Non parlo dei libri che pubblicava – quelli non sarebbero stati di grande interesse per noi – ma di una collezione privata abbastanza buona di testi classici, sia negli originali greci e latini che in traduzione. Come ho detto, è una faccenda triste per chi ama i libri doverli vendere. Ogni libro da cui ci si separa è una piccola morte. Ed è per questo che un negozio come il nostro è necessariamente un luogo funereo. Siamo a tutti gli effetti degli impresari di pompe funebri. Vestiamo di nero, ci muoviamo senza far rumore e cerchiamo di rendere l'estinzione di una passione che dura da una vita, la dipartita di un vecchio amico, il più possibile serena e dignitosa.

Nel caso di Victor mio padre capì che una cerimonia solenne era fuori luogo. Victor reagiva alle sue perdite con aria spavalda, fiducioso che prima o poi sarebbe stato in condizione di riacquistare tutto ciò che ci aveva venduto, una fantasia che mio padre riteneva fosse nel nostro interesse di incoraggiare. A tale scopo – quantunque non debba essere troppo cinico, perché penso che il suo atteggiamento fosse anche dettato da autentica amicizia – mio padre lo frequentò molto, a volte passando da lui nel suo scricchiolante ufficio dickensiano con me al seguito, e poi, dopo il desolante trasloco di Victor, invitandolo a cena da noi quando era in città. Fu durante una di quelle serate che Victor mi propose di andarlo a trovare a Cookham.

Il pretesto fu quello dei miei studi. Da giovane aveva studiato lettere classiche al Balliol College, e probabilmente io avrei fatto lo stesso. A ogni modo, la cosa mi fu presentata come una vantaggiosa opportunità: avrei passato un fine settimana con lui in campagna, visto la sua biblioteca ancora così cospicua, cenato con lui, parlato di letteratura, magari avrei fatto un po' di canottaggio, e conosciuto sua moglie, una donna un tempo assai bella, biografa della cerchia di Fitzrovia, della quale si vociferava che in gioventù fosse stata l'amante di più di uno di quei mascalzoni, ma che ora, purtroppo, era costretta a letto. Sebbene fosse troppo malata per partecipare alla vita di società o per dedicarsi alle ricerche necessarie nella sua professione, Joyce Gowan amava ancora ricevere visite in casa propria.

Non fingerò che consideravo la prospettiva di un fine settimana con lo sconsolato collega di mio padre e la sua moglie inferma molto piacevole. A sedici anni non si ha voglia di stare accanto a delle persone che non hanno quasi più speranze. Ma anche se ero convinto che una volta lì sarebbe stato tutto deprimente, il fatto di andarci aveva il sapore di un'avventura. Riempii una valigia, ricordandomi di portare una giacca e una cravatta per cena e pantaloni di flanella leggeri per andare a vogare, presi il treno da Paddington a Maidenhead e tesi la mano come un esperto viaggiatore quando Victor mi venne incontro lungo la banchina. In un lampo vidi il mio futuro: avrei preso treni da un'estremità all'altra del paese, scendendo in stazioni di campagna, tendendo la mano a collezionisti di libri depressi che stavano andando avanti negli anni ed erano costretti a vendere ciò che gli era tanto caro. E anche se non li avevo ancora conosciuti tutti, sentivo già di avere un legame con loro. Uomini che portavano incisi sul volto i propri sentimenti di perdita.

Mentre andavamo a Cookham in macchina Victor mi parlò di Stanley Spencer, il genius loci della zona, famoso, secondo lui, per alcuni splendidi murali che rappresentavano gente del posto che si levava dalle tombe, oltre che per un piccolo numero di dipinti scandalosamente sensuali in cui l'artista si era raffigurato insieme a una donna di nome Patricia Preece della quale era stato disperatamente innamorato – anche se si riteneva che il loro rapporto non fosse mai stato consumato, se capivo cosa intendeva. Volendo dimostrare che capivo perfettamente cosa intendeva, chiesi se non potesse essere proprio questo a rendere i dipinti tanto sensuali. «La frustrazione è la levatrice dell'immaginazione» dissi «e il dover dare corpo a ciò che ti è negato è un potente incentivo all'arte», anche se forse non usai proprio queste parole. E seppure lo avessi fatto, avrei capito solo indistintamente ciò di cui stavo parlando. Del mondo delle passioni non sapevo ancora nulla. Avevo letto molto, tutto qua. Ed ero uscito con la figlia di un insegnante di violoncello che mi aveva scaricato per qualcuno conosciuto mentre io le tenevo la mano al cinema. Ma come tanti ragazzi della mia età, fingevo bene.

Victor, ricordo, elogiò la mia precoce sagacia e non riusciva a immaginare ch'io potessi non approdare al Balliol (come in effetti accadde, anche se questo non è strettamente attinente a questa storia).

Da allora lo colsi diverse volte a osservarmi di sottecchi, come se non fosse sicuro di aver fatto la cosa giusta invitandomi. O forse era il contrario, pensava di aver fatto esattamente la cosa giusta.

Quando non mi guardava di sottecchi, io guardavo di sottecchi lui. Aveva un profilo imponente all'apparenza privo di nesso con il suo corpo, che era piuttosto delicato. Solo la testa pareva contare, ma aveva un aspetto terribilmente deteriorato: borse sotto gli occhi, peli che gli spuntavano a ciuffi dalle orecchie e dalle narici, le vene rotte sulle guance arrossate come per la troppa esposizione al sole di campagna, la nuca che iniziava a formare piccole pieghe sopra il colletto della camicia. Per ragioni che non avrei saputo e non so spiegare, sperai di diventare come lui un giorno. Un po' stanco del mondo. Stremato dallo sforzo di portare in giro una testa così grossa. E con una pena segreta che era anche un inspiegabile motivo di soddisfazione.

Non incontrai la signora Gowan la mia prima sera a Cookham. Avrebbe voluto salutarmi, mi spiegò Victor, ma non si sentiva abbastanza in forze per vedermi. In casa regnava il silenzio di una donna che non si sentiva abbastanza in forze per vedere nessuno. Era tutto in ordine, tutto al proprio posto, le tende erano tirate e si intuiva subito che non venivano aperte da tempo, un leggero strato di polvere ricopriva i mobili, i fiori nei vasi erano un po' appassiti, una stralunata aria di disuso pervadeva ogni cosa.

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Questa non è una storia familiare, non in senso convenzionale almeno. Semmai è una storia anti-familiare, visto che in sostanza illustra l'esempio di come un uomo possa affrancarsi dall'imperativo dell'evoluzione. Cosa importa, dico io, che fine fa il nostro seme. Che il seme degli altri mi scavalchi pure se la loro biologia glielo impone. Il mio non andrà da nessuna parte. Ecco la mia risposta alla convinzione di Marius che il genere umano fosse spacciato. Potete anche vedere in me la promessa di una nuova impavida umanità, eroicamente noncurante della selezione o dell'estinzione, finalmente uscita dalla palude darwiniana.

E come fa questa nuova, eroica umanità a perpetuarsi?

Domande, sempre domande. Il cornuto non è il solo a chiedersi perennemente cosa accadrà dopo.

Ci reggiamo sulle spalle di nani – è così che prosperiamo. Ci perpetuiamo perché ci appoggiamo in forma parassitaria ai comuni portatori di seme. E «il tuo parassita», come esulta Mosca, parassita di Volpone, «è la più preziosa delle cose, piovuto dall'alto, / Non allevato qui in terra tra stupidi e zoticoni».

Idem il cornuto: insensibile, vanesio, scivoloso come un'anguilla, ma è la più preziosa delle cose. Siamo un modello per gli uomini futuri, proprio perché nessun futuro può derivare da noi. Ci consumiamo tra le fiamme come la fenice. Quel che c'è di male in noi, muore con noi. Non abbiamo seguaci, non apparteniamo ad alcuna setta e non siamo schiavi di nessun sistema di credenze, sempre che una moglie non sia un sistema di credenze.

Tuttavia ho avuto anch'io una famiglia, anche se non ho intenzione di farmene una mia, e non penso di compromettere il mio esemplare rifiuto dell'evoluzione raccontando qualcosa di più sull'azienda di famiglia di cui sono l'unico dirigente. Nonostante mio padre fosse contrario al fatto che io ne assumessi il controllo, ritenendomi privo di attitudine per qualsiasi settore che non fosse quello dei "pianti nei cuscini", i miei zii mi riservarono una fiducia che io poi feci di tutto per giustificare, anche dopo che loro erano morti e mio padre stesso si era ormai ridotto a una vita di pianti nel cuscino, letti bagnati e partite a canasta dalla mattina alla sera in una casa di riposo con attempate signore che sedevano a gambe spalancate – ragion per cui lui faceva loro promesse che non poteva mantenere.

Abbiamo venduto libri rari e antichi per più di un secolo e mezzo, senza mai muoverci dagli stessi modesti locali, appena visibili a occhio nudo e inagibili a chiunque non abbia un appuntamento, in una tranquilla piazza a nord-ovest di Wigmore Street. Le persone che vengono da noi si guardano intorno prima di entrare e fanno lo stesso quando se ne vanno, come uomini che abbiano paura di essere sorpresi a bighellonare nei pressi di un bordello. È così che vogliamo si sentano i nostri clienti. Incoraggiamo un'atmosfera di segretezza e dubbie intenzioni, poco importa che la grande maggioranza delle migliaia di libri che passano per le nostre mani siano opere di una assoluta integrità.

Sono cresciuto in mezzo ai libri antichi e mi sento a mio agio tra di essi. In particolare mi piace acquistarli, un'attività che mi ha portato – esattamente come avevo previsto il giorno in cui Victor venne a prendermi a Maidenhead – nelle più suggestive località del paese e mi ha fatto conoscere la natura umana in alcuni dei suoi aspetti più dolci e più tristi.

La vendita la lascio in gran parte ai dipendenti. Oggigiorno si fa per lo più con l'ausilio della tecnologia. Ma l'acquisto di una biblioteca privata è una faccenda che coinvolge i sensi oltre che l'intelligenza. La qualità di una collezione la si fiuta ancor prima di averla esaminata, così come si intuisce quel che si otterrà da un'amante ancor prima di baciarla. Il sesso c'entra in tutto, nei libri e nella loro storia non meno che negli esseri umani – a volte più che negli esseri umani. Sugli autobus o nei treni, non vediamo forse la gente voltare le pagine di un libro con un'aspettativa dei sensi che altro non ci ricorda se non l'atto di svestire un'altra persona? E allorché il libro è consacrato dagli anni e dall'uso, voltare quelle pagine diventa ancor più attraente al pensiero di tutte le dita che le hanno percorse prima di noi. Lo so, non tutti la vedono a questo modo. Alcuni preferiscono l'odore di nuovo che emanano i libri in brossura, o una vergine illibata. Ognuno ha le sue malattie.

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Pagina 146

Ma ecco una domanda interessante e, ne sono certo, assolutamente riprovevole. Il fatto che Marisa avesse molti amanti, invece che uno soltanto, stuzzicava di più la mia ferita?

Sì e no. Non sto tergiversando. Ogni giorno che mi svegliavo con questa domanda in testa vi rispondevo in modo diverso, e poiché l'infedeltà di Marisa divenne lo schema consolidato della nostra esistenza, non mi svegliavo mai senza pensarvi. Entrambe le opzioni, a loro modo, mi stimolavano. Se parliamo di semplice gelosia, allora naturalmente il singolo amante mi teneva per la gola come il branco non fece mai. Lui da solo aveva tutta per sé l'attenzione di Marisa, dunque aveva ciò che spettava a me. E per di più fu il primo. Con lui dovetti imparare dal principio – né il dottore cubano né Quirin potevano essere definiti un principio – come sopportare ciò che non potevo far altro che sopportare. Chiunque fosse, mi strappò la mia verginità.

Ma come appresi – e apprendevo strada facendo – la semplice gelosia era solo una piccola parte del tutto. Sì, ero il guardone mentale di mia moglie: steso da solo nel nostro letto abbandonato, mi raffiguravo nel più implacabile e inesorabile dettaglio l'avanzamento delle dita del mio rivale mentre tracciavano il loro possesso fraudolento della carne di Marisa. Poro per poro, toccavo ciò che lui toccava, vivevo nelle sue mani, mi insediavo nella sua bocca e seguivo la sua lingua ovunque Marisa gli permettesse di infilarla. Dove lui andava, andavo anche io. Devo continuare? Ero lui più di quanto non lo fosse lui stesso. E forse ero me stesso più di quanto non lo fossi mai stato. Da solo, ero mai entrato dentro Marisa con lo stesso trasporto con cui ci entravamo insieme? Eppure neanche per un momento, durante questa profonda intimità condivisa con lui, fui curioso di sapere chi fosse. Non volevo vederlo né conoscerne il nome, non volevo scoprire che aspetto avesse o cosa facesse per vivere. Supponevo che non ci conoscessimo; Marisa non sarebbe mai stata così volgare da prendersi il suo primo amante (il suo primo amante dopo che noi eravamo diventati amanti) tra i nostri amici. Ma anche se ci conoscevamo, non volevo saperlo e non avrei rimproverato a Marisa la sua scelta. A contare era lei, non lui. La storia che davvero mi avvinceva era la storia di come Marisa allungava la mano per prendersi un amante, e poi diversi amanti, indipendentemente da chi fosse ognuno di loro. Una storia che, fondamentalmente, avrei preferito venisse scritta non da de Sade o Sacher-Masoch, bensì da Jane Austen. Cosa provava Marisa nel suo intimo, con quale risveglio delle emozioni e quale turbamento d'animo si era allontanata dalla retta via del nostro matrimonio per tuffarsi in quel primo tradimento? E con quale tumulto dei sentimenti, quale attesa di felicità o di smarrimento, quale aumento o diminuzione dell'autostima si era comportata con l'Amante Numero Uno – che doveva senza dubbio esser stato speciale per lei – esattamente come si era comportata con me, tradendolo per concedere le proprie grazie in maniera indifferenziata ora all'Amante Numero Due, ora all'Amante Numero Tre, ora a chissà quanti altri? Quale tra quelle era la più grande indecenza? Quale, anzi, la cosa che la faceva vergognare di più, ammesso che si fosse mai vergognata? E se non era vergogna ciò che provava – perché, come ho detto, era una creatura seria e riflessiva – allora cos'era? Amore? Possa il pensiero perire nell'istante stesso in cui viene espresso, ma non era possibile che si fosse un po' infatuata dell'Amante Numero Uno? O addirittura che ne fosse innamorata? E che l'affievolirsi dei suoi sentimenti per lui, mentre tendeva la sua rete allargandola sempre più, le avesse provocato dei rimpianti? Si rammaricava della sua infedeltà a Lui? O era la lascivia l'elemento in cui adesso nuotava?

Anche se non le posi mai queste domande di persona, gliele ponevo però in sua assenza, interrogando la sua anima. E non esito a definire amore questo incessante, febbrile interrogare. Non una mera infatuazione o un capriccio passeggero, non il debole spasimo d'amore che Marisa poteva aver provato per l'uomo con il quale per la prima volta mi aveva spodestato dal mio ruolo di marito, ma autentico, ostinato amore – l'amore per come lo intendo io, incondizionato, a prova di tempo, morbosamente tenace e sottomesso, totalizzante e assoluto.

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