Copertina
Autore Benito Jacovitti
Titolo Eia eia baccalà
SottotitoloLa guerra è finita!
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2010 , pag. 178, ill., cop.fle., dim. 28x28x1,4 cm , Isbn 978-88-6222-113-9
CuratoreGoffredo Fofi, Anna Saleppichi
PrefazioneGianni Brunoro
LettoreGiangiacomo Pisa, 2010
Classe fumetti , satira
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Indice


Jacovitti e l'interregno...
Goffredo Fofi                                     5


1940-1943                                        11
Il giovane Jac e la guerra del regime
Anna Saleppichi                                  13

Pippo e gli inglesi                              19


1943-1945                                        27
Lisca di pesce e la pace armata                  29

Battista l'ingenuo fascista                      31
Pippo e il dittatore                             47
Pippo e la guerra                                67
Pippo e la pace                                  85


1945-1950                                       101
Jacovitti e il turbolento dopoguerra            103

Raimondo il vagabondo                           121
La famiglia Spaccabue                           135
Ghigno il maligno                               153

Battista e Raimondo: metafore di un'Italietta
Gianni Brunoro                                  171


 

 

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Pagina 5

Jacovitti e l'interregno...

Goffredo Fofi


Nei primi anni Ottanta dello scorso secolo scrissi su "Linus" un articolo intitolato Perché non possiamo non dirci qualunquisti. Mi è tornato in mente leggendo gli Jacovitti di questo volume. In esso parlavo del ritorno in tante parti della società italiana (anche in quelle di cui mi sentivo parte) della crescente diffidenza verso i partiti e le loro proposte, verso il loro modo di occupare lo spazio pubblico e il dibattito pubblico, di occupare lo Stato. Sulle molte accezioni del termine "qualunquismo" bisognerebbe tornare a discutere anche oggi, di fronte a una situazione politica così preoccupante, e alla trasformazione della democrazia in una sorta di dittatura culturale da parte di una maggioranza manipolata dai media, appiattita su modelli di consumo unici e ossessivi, su uno stesso stile di vita, accettante una stessa logica e uno stesso sistema, assolutamente conformista anche se apparentemente divisa tra opzioni ideologiche diverse.

Leggendo questi Jacovitti, alcuni dei quali (Battista l'ingenuo fascista, Pippo e il dittatore...) sono radicati nei ricordi della mia infanzia, mi è tornato in mente come, negli anni Trenta, in Francia, gli studenti protagonisti del romanzo di Paul Nizan La cospirazione volessero fondare una rivista che avrebbe dovuto chiamarsi "La guerra civile", un titolo che era stato seriamente vagheggiato dai primi surrealisti per una rivista che non si fece, o così mi pare di ricordare. Quel titolo rappresentava per gli studenti di Nizan un'aspirazione e un'idealizzazione conseguenti a certe convinzioni dell'epoca, tra marxiste e, appunto, surrealiste, secondo le quali tutte le guerre sono, in ultima istanza, delle guerre civili, ogni guerra viene dichiarata e combattuta contro il proletariato, e la guerra per eccellenza è quella del proletariato contro la borghesia ed è quindi una guerra interna alla società classista, una guerra di classe, una guerra, in definitiva, tra i ricchi e i poveri di ciascun paese e di tutto il mondo, una guerra civile. La guerra di cui Jacovitti ci ha parlato nei primi anni della sua carriera è stata quella coloniale, africana, ed è stata quella del regime fascista contro le democrazie occidentali, ma più tardi egli ci ha parlato anche di un'altra guerra, questa sì immediatamente "civile", combattuta tra fascisti e partigiani, tra "repubblichini" (aderenti alla Repubblica di Salò) e "partigiani" (forze della Resistenza).

Jacovitti non ha mai avuto simpatie per il marxismo e tanto meno per il comunismo e per le sue alleanze. Ne ha avute, invece, come mi sembra evidente dai suoi primi lavori di narrazione a fumetti, per il fascismo e per la guerra fascista, anche se, via via, come è stato per la gran maggioranza degli italiani, la sua simpatia è stata messa alla prova dagli effetti della guerra, ed è stata, via via, mitigata o soffocata dalla parte cattolica della sua cultura e, possiamo dire, della sua anima.

La "guerra" di cui allora comincia a parlare non è più quella, impari e vile, del colonialismo africano, contro dei poveri che hanno il torto di essere persino più poveri dei soldati invasori, e neanche quella "mondiale" guerreggiata con aerei e navi, bombe e moschetti, contro i soldati di altri paesi (una guerra tra uomini della terra, fratelli in quanto uomini: una "guerra civile"), ma quella interna, tra italiani e non quella dei soldati italiani contro i soldati di altri paesi (la nostra "guerra civile"). La guerra che lo colpisce più profondamente e che è il sottofondo di tante sue narrazioni comiche che non nascondono interrogazioni e problemi, è quella che ha avuto il suo apice negli anni 1943-45 e nello scontro armato tra fascisti e antifascisti (repubblichini contro partigiani).

A questa drastica contrapposizione Jacovitti si dichiara estraneo, di essa cerca di lavarsi le mani come fece buona parte del nostro popolo, scegliendo subito la parte degli apparentemente senza colpa, dei membri di quella che Primo Levi e altri dopo di lui hanno definito "la zona grigia". Il grigio, un colore che si mette a mezzo tra il rosso e il nero, negli anni dello scontro armato, diventa più tardi, in Jacovitti e in una gran parte del nostro popolo, il bianco democristiano e vaticano.

Jacovitti tra il grigio e il bianco, dunque. Dalla parte della "gente comune" che la storia ha voluto trascinare da tutte le parti ma che ha mirato anzitutto alla sopravvivenza, per amore della vita e per amore, per amore delle persone care, della famiglia. (E non è inopportuno rimandare qui al dibattito degli anni successivi sul "familismo amorale" che, secondo sociologi di altrove, caratterizzava il nostro popolo – e ancora lo caratterizza.) Senza mai aderire compiutamente a una delle due parti in causa, nel corso della "guerra civile", e a guerra finita, negli anni tra la liberazione di Roma (giugno 1944) e le elezioni del 18 aprile 1948 che contrapposero, di fatto, non più Monarchia a Repubblica (e Jacovitti aveva, temiamo, ma né più né meno di un Benedetto Croce, più simpatia per la Monarchia che per la Repubblica), non dovendo più scegliere tra rossi e neri, con la sconfitta secca, anche se forse transitoria, dei neri, bensì tra i bianchi e i rossi, tra "cattolici" e "comunisti" secondo due schieramenti che, nel nostro popolo, non hanno mai comportato una seria coscienza di ciò che significasse cattolicesimo e di ciò che significasse comunismo... Da un Iato, la Democrazia cristiana (simbolo lo scudo crociato), dall'altro il Fronte delle sinistre (simbolo il simpatico faccione, usato con spregiudicatezza, di Garibaldi). La parte più interessante dell'opera di Jacovitti raccolta nel presente volume, riguarda questo periodo storico, di transizione tra guerra e pace, tra monarchia e repubblica, tra distruzione e ricostruzione. Tra una "guerra civile" e una pace turbolenta.

Va ricordato, intanto, che la definizione di "guerra civile" applicata allo scontro tra le forze della Resistenza e quelle della Repubblica di Salò direttamente sostenute dall'esercito di occupazione nazista, fu molto osteggiata dagli storici ufficiali della sinistra, che predilessero quella di "guerra di popolo" o di "guerra di liberazione nazionale"; alcuni, una minoranza, quella di "guerra rivoluzionaria", che avrebbe dovuto aprire la strada a una guerra rivoluzionaria.

Fu soltanto nel 1991 che un grande storico, Claudio Pavone, ha potuto intitolare il suo fondamentale saggio sugli anni 1943-45 dell'Italia in guerra Una guerra civile. Abbatteva un tabù della sinistra, anzi, più precisamente, del Partito comunista italiano. La discussa amnistia per i crimini bellici e fascisti promulgata da Togliatti, segretario del Pci e ministro della giustizia del primo governo post-bellico, mirava a pacificare il paese e ad aprire una nuova stagione politica, e aveva il significato di una conciliazione. Sull'eredità di una "guerra civile" non sarebbe stato possibile ricostruire, e tuttavia risultò estremamente difficile cancellare i torti del passato, se è vero che ancora oggi (a 65 anni di distanza!) di quella guerra civile perdura l'eco nelle contrapposizioni politiche del nuovo secolo.

Quell'amnistia fu discussa non solo per la sua essenza (perché permetteva a molti criminali di guerra, a molti responsabili della dittatura e della guerra, di uscirne con le mani pulite, in particolare i burocrati dello Stato fascista, e di riprendere tranquillamente il loro posto in una logica perfettamente "continuista"), ma anche perché veniva al seguito di una precedente epurazione, anch'essa molto discutibile perché aveva colpito piuttosto i deboli che non i forti, i "pesci piccoli" che non i grandi, i minori che non i maggiori tra i responsabili della dittatura e della guerra, e spesso qualche incolpevole trascinato o costretto dagli eventi e dai ricatti degli "anni del consenso".

È esemplare, in questo senso, la ricostruzione che ne fece nel 1948 il bellissimo film di Zampa Anni difficili, che Vitaliano Brancati scrisse a partire dal suo racconto Il vecchio con gli stivali. La storia voltava le sue pagine con grande rapidità, e al suo giudizio riuscirono a sottrarsi in tanti, certamente i più abili e non i meno colpevoli.

L'opera di jacovitti degli anni di guerra appare datata e schierata – ed è peraltro assai fiacca: misero ancora il segno, condizionata, incerta, non autonoma la visione, ma è bene ricordare che nel 1943 Jacovitti aveva vent'anni! – Negli anni della transizione tra 1944 e 1948 il suo talento esplode in tutta la sua originalità e in tutto il suo vigore, sia attraverso la fortunata serie dei Pippo, Pertica e Palla, destinata a un pubblico di ragazzini, e tuttavia molto radicata nel presente storico, che in quella dai molti titoli della Famiglia Spaccabue o Grattasassi, specchio di una piccola borghesia travolta dalla storia e dai suoi risvolti prettamente economici, ma anche insidiata al suo interno da tutte le malattie congenite del ceto di appartenenza.

Il piccolo o piccolissimo borghese di quegli anni (e di tanti anni prima e di tanti anni ancora) è insicuro per definizione, diviso com'è tra la paura di cadere nella massificata indistinzione del popolo e la difficoltà di ascendere a qualche gradino superiore in una società che è estremamente classista. Questa insicurezza è apparentemente scomparsa nel mondo di oggi, dove tutto è diventato piccolo-borghese nello status dei consumi e plebeo nella cultura.

Pochissimi anni dopo La famiglia Spaccabue, Aldo Fabrizi, con l'ausilio di un umorista bizzarro come Anton Germano Rossi, inventore di un surreale horror casalingo e metropolitano con la serie dei Porco qui, porco là e membro influente della banda del "Marc'Aurelio", ci donerà in cinema la trilogia della Famiglia Passaguai il cui capolavoro fu il secondo film o episodio, Papà diventa mamma, erede non troppo indiretta delle "famiglie" di jacovitti... La scuola è la stessa, e lo abbiamo osservato più e più volte, è la stessa da cui proviene Fellini e da cui, sulla scia dello stesso Jacovitti, verrà più tardi il geniale Altan; a riprova le loro deformazioni, le loro "piazze", i loro "tutto-pieno", gli ingorghi di folla stralunata e strapaesana, le grandi tavole fitte di piccole situazioni assurde che contraddistingueranno un'ispirazione comune: la visione di un'Italia sgangherata e caotica il cui culmine troveremo nell'ultimo capolavoro del riminese (la Sagra dello Gnocco che chiude la sua opera e, con le sue isteriche luci e con il suo frastornante baccano, copre sia la luce sia la voce della luna).

Torniamo all'epoca di quei succosi viaggi nella storia di quegli anni che Jacovitti ha affrontato in fumetti rivelatori e che sono alla base della sua affermazione di differenza e di genio, torniamo agli anni di La rovina in Commedia, di Pippo e il dittatore (molto più bello di Pippo e la guerra, che è più avventuroso e infantile, per quanto grazioso) e infine del formidabile e rivelatore Battista l'ingenuo fascista... Sarà stato un caso se, negli anni della mia infanzia, quando riempivamo albi con la collezione di figurine jacovittiane (sulla scia di quelle anni Trenta de I quattro moschettieri di Nizza e Morbelli nati nella radio, anzi nei microfoni dell'Eiar, e subito diventati libro con immagini, e le immagini diventate "figurine" da concorso, la più rara delle quali era Il feroce Saladino, che diventò anche un film con Angelo Musco) la figurina per eccellenza, la figurina più introvabile di tutte e dunque quella che, negli scambi, aveva il maggior valore, era proprio quella di Battista il fascista, da non confondere, assolutamente, con quella molto comune di un altro Battista venuto da un'altra storia, Battista l'aiuto-regista?

Il messaggio era chiaro, e Jacovitti non si stancava di ribadirlo: in un paese dove, almeno in certi anni, ben pochi erano stati gli antifascisti, ora tutti lo erano e di fascisti non c'era più traccia... Il povero Battista, che capisce sempre troppo tardi dove gira il vento e di conseguenza si mette perennemente nei guai, è una vittima delle situazioni, è una vittima della Storia. Come milioni di altre persone come lui, in tutto il mondo ex belligerante, e cioè in quasi tutto il mondo visto che si è trattato di una guerra "mondiale", la seconda di questo tipo, e che nell'aria è rimasta, con la "guerra fredda", la paura che una terza se ne prepari, definitiva in quanto "atomica"...

Ogni paese, si può dire, ha avuto il suo "Uomo qualunque" la cui piccola storia individuale e famigliare e di gruppo è stata travolta dalla Storia con la maiuscola ed è stata raccontata in decine e decine di romanzi e di film del Novecento (dal praghese Buon soldato Schwejk al tedesco Ballata berlinese al polacco Fortuna da vendere, eccetera) ma a ben vedere di sempre. E l'Italia disincantata del secondo dopoguerra ne ha avuti forse più degli altri, per il semplice motivo di una confusione reale: ha perso o vinto la guerra, l'Italia, prima alleata dei tedeschi e poi degli americani, per esempio? E come è possibile passare senza pagar qualche scotto di disorientamento e confusione da una dittatura (un sistema politico a pensiero unico, obbligato) a una democrazia (un sistema politico polifonico, fatto di tanti pensieri in contrasto tra loro)? Tanto più se ci si ritiene, in parte con ragione, vittime della storia, schiacciati da una storia che sono altri a "fare" sulle nostre spalle, e servendosi di noi come masse di manovra, nonché, all'occorrenza, come carne da cannone.

Il punto di vista di Battista – la simpatia che per lui Jacovitti non riesce a non provare sentendosi vicino alla sua confusione, al suo sbalestramento e a tutte le incongruenze che da questo derivano – è quello di una piccola borghesia che la guerra ha appiattito e impoverito, che è dominata nella sua mentalità dal culto del "particulare", e che si ritrova ora sottoposta a una varietà di proposte ideologiche e politiche: destra centro sinistra e non basta, perché la destra è fatta di tante destre, il centro di tanti centri, la sinistra di tante sinistre... Un mucchio di partiti coi loro simboli e i loro manifesti (la propaganda elettorale di quegli anni è propaganda murale e non rinuncia agli slogan e alle immagini a effetto dove gli uni accusano gli altri di mangiar bambini e stuprare suore, di esser servi di Baffone, e gli altri accusano gli uni di essere ladri e "forchettoni", schiavi dello Zio Sam).

Non poteva non prosperare, in questo contesto, un partito degli scontenti, quello appunto dell'Uomo Qualunque (il marchio: un omino schiacciato da un torchio) fondato da un commediografo da "telefoni bianchi" ma che in guerra ha perso l'amato figlio e che considera sua missione la difesa dei tartassati senza ideologia, con la sola ideologia della sopravvivenza. Benché... In questa ideologia compare la nostalgia di un tempo di pace, quello del fascismo degli anni Trenta, quando si sognava il traguardo delle "mille lire al mese" o finanche del "posto al sole" delle colonie, mentre non può comparire, come invece compare negli "uomini qualunque" a tutto tondo e negli ex fascisti convinti e nei neofascisti la nostalgia degli anni di guerra. Sulle mura di Roma, racconta Corrado Alvaro nei suoi bellissimi diari, nei tempi di carestia e di disordine dell'immediato dopoguerra comparve la scritta "Aridatece er puzzone", e diventò quasi proverbiale dire che "si stava meglio quando si stava peggio". Un'amara coscienza del negativo dell'oggi che fa rimpiangere il negativo di ieri...

Questo particolare qualunquismo, a volte di vena tutto sommato ottimista, da ricostruzione, a volte di vena radicalmente pessimista e in parte già "esistenzialista" e più triste, compare non solo nei fumetti di Jacovitti, ma anche negli editoriali dei giornalisti e nei libri degli scrittori, nei varietà e negli avanspettacoli, che si confrontano con fatica con le contraddizioni della nuova epoca. Vi dominano lo scetticismo di fronte a ogni proposta, la diffidenza verso le nuove parole d'ordine e i nuovi inquadramenti.

Sono stati forse gli scrittori più serenamente "borghesi" a restituirci al meglio il clima di quell'epoca, di quella transizione, con occhio acutissimo ma con più profonda saggezza di altri, troppo ideologici: è grazie a Savinio, Alvaro, Brancati, Moravia, Flaiano, eccetera che riusciamo oggi a capire meglio quel passaggio, a giudicarne meglio le componenti.


Un capitolo a parte merita la storia del nostro cinema prima che si tornasse, con gli effetti del 1948, all'affermazione anche in Italia della guerra fredda e delle sue contrapposizioni. La critica ha penalizzato molte opere di grandissimo interesse tacciandole di qualunquismo, a favore di quelle del neorealismo e dimenticando come anche questo grande fenomeno artistico sia stato il frutto di una transizione, come non sia nato dal nulla ma dalle contraddizioni degli anni di guerra e di guerra civile. Prima di Roma città aperta e di Paisà, Rossellini ha pur diretto Un pilota ritorna e altri film di guerra nella logica del potere di allora, e De Sica si è formato tra i "telefoni bianchi", autore di Teresa Venerdì prima che di Sciuscià e di Ladri di biciclette. Eccetera. E nella fase dell'interregno e della transizione, i grandi successi di pubblico arrisero a film che si chiamavano Abbasso la miseria con la Magnani e La vita ricomincia con la Valli, Vivere in pace con Fabrizi e Un uomo ritorna (con l'impressionante sequenza del tentato linciaggio di una spia repubblichina), Uno tra la folla con Eduardo De Filippo (un "uomo qualunque" i cui figli simpatizzano chi per la Resistenza chi per Salò) e Accidenti alla guerra con Taranto o Come persi la guerra con Macario, eccetera, molti e molti film più popolari che intellettuali che dimostrano, rivedendoli, un'aura assai vicina a quella dei fumetti di Jacovitti, che raccontano di stesse diffidenze o stesse speranze.


Oltre il qualunquismo, due riferimenti soprattutto incombono sullo Jacovitti della transizione: quello della morale cattolica — che si affermava nei messaggi di Papa Pacelli e dei suoi giornali o anche nei film prodotti indirettamente dal Vaticano, con il loro pacifismo particolare certamente più aperto all'America che alla Russia; e quello di un pacifismo più radicale, che a mio parere ha le sue radici nel Chaplin di Il dittatore (e come somiglia l'Hitler di Charlot a quello di Pippo!) o nella comicità più estrema dei Fratelli Marx (non posso sostenere che Jacovitti li conoscesse, ma sospetto di sì), e trovo soprattutto delle concordanze che sembra nascano da un humus comune piuttosto che da influenze dirette con la satira politica di film come Duck Soup, con il loro regno di Freedonia (variante della Ruritania del Prigioniero di Zenda) che così tanto somiglia alla Flittonia di Pippo e il dittatore.

Consideriamo dunque questo periodo della vita artistica di Jacovitti come un contributo importante alla conoscenza di un'epoca e dei suoi passaggi, tra fascismo e democrazia, tra monarchia e repubblica, tra pensiero unico e pensiero plurimo, e dei suoi effetti sulla parte del popolo italiano che la guerra prima e la democrazia poi hanno travolto e sconvolto, rendendole difficile saper vedere e capire.

La "zona grigia" diventò col tempo una "maggioranza silenziosa" fortemente condizionabile, ma negli anni che ci interessano fu essa a subire l'aggressione di cento tensioni, a essere la destinataria di cento messaggi contrastanti. La satira proposta da Jacovitti del sistema dei tanti partiti, con le loro varianti e sovrapposizioni, è tra le più spassose che l'arrivo rintronante della democrazia abbia prodotto nell'Italia del dopoguerra, e lì davvero ce n'è per tutti. Jacovitti non si tira indietro, non si crede diverso e superiore rispetto ai suoi personaggi, si fa, come mai più dopo, protagonista egli stesso, rischia, si mette in gioco, si confessa, e apprezza o detesta da perfetto rappresentante e specchio di un'epoca unica e irripetibile, ma soprattutto immensamente vitale. Della quale, sì, è possibile oggi avere qualche nostalgia. Non è il più grave dei peccati di oggi condividere anche noi, per una volta, il luogo comune secondo il quale "si stava meglio (culturalmente, democraticamente) quando si stava peggio (economicamente)".

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