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| << | < | > | >> |Pagina 10Hanno assassinato Amilcar Cabral. Lo dice la televisione, ma sono di là, in cucina, e forse non ho capito bene. Invece è proprio di lui che parlano. L'hanno assassinato come tanti altri, come toccherà ad altri dopo di lui e in ogni luogo. E soltanto così qualcuno si accorgerà di lui, che era così lontano. Ne parleranno, scriveranno, necrologi, piangiate, certo. E magari stamperanno i poster e te li ritroverai dappertutto, nelle case degli intellettuali di sinistra e di ultrasinistra, nei cortei e alle vetrine dei negozi, in galleria. Ma Amilcar Cabral non era nemmeno bello come il Che. Era un omino piccolo e nero dagli occhi vivacissimi, ansiosi, composto e gentile. Stava seduto al suo tavolo nel ristorante dell'Aletti, quella mattina che lo vidi, vestito di scuro come un professorino, con la camicia bianca e la cravatta e succhiava un uovo alla coque, intento, con piccoli gesti meticolosi. C'era un convegno quel giorno all'Aletti, lo seppi per caso, perché nella hall mi trovai faccia a faccia con Bonetti, Gallico, Ledda che erano lì per quello. Passavano e ripassavano grandi negri dai paludamenti ricchi e coloratissimi, i gesti ampi e le facce spalancate al sorriso... Eravamo appena approdati dall'alberghetto brulicante di cafards e la capretta sul terrazzino. Bonetti raccontava storielle arrotando la erre nel suo italiano d'oltralpe e Cabral se ne stava silenzioso nel suo angolo. Non so come mi ritrovai accanto a lui, timida a rivolgergli domande che, me ne rendo conto, dovevano sembrargli sciocche, convenzionali; avrei voluto potergli chiedere tutt'altre cose del suo paese, della sua terra, della sua gente... Ora l'hanno assassinato e così appartiene a tutti, alla storia; così potranno parlarne tutti, anche il corriere della sera, anche la televisione, anche gli americani e i portoghesi e tutti quelli che, da vivo, non gli avrebbero mai stretto la mano. C'è la sua firma sul mio quadernino sbertucciato, tra tanti arruffati ricordi di un viaggio in Barberia, ma che senso ha. C'è forse una fotografia da qualche parte, di quella mattina del '68 all'Aletti di Algeri, con la macchina pronta a partire, il bagaglio sistemato sul tetto, la pena di andarsene, di lasciare quella città indimenticabile.La televisione ha smesso di parlare di Cabral e ora mi viene in mente un altro compagno morto. Assassinato. Sì, in un certo senso. Un omuncolo sgorbio e mancino che amava la vita e la natura, gli uccelli e gli alberi, le farfalle e i fiori, che voleva sapere, capire, in un'ansia continua. È precipitato da un'impalcatura, costruiva la casa del prete a Rapallo, ma aveva le mani goffe, inadatte a queste cose, incapaci alla presa. Mi viene in mente una mattina di sole e tutta la gente alle porte e alle finestre a vederlo passare e noi dietro, stroncati dalla pena di sapere che non sarebbe più stato lì ad aspettarci. Prima e forse unica persona amata in un luogo non amato. Faceva tanto caldo e la strada fino al piccolo cimitero in collina era lunga, la camicia mi si attaccava alla schiena e il sole mi batteva implacabile sul capo. Doveva essere giugno, certo, il due giugno, la festa della repubblica. E avrebbe potuto anche sembrare una festa con quel mare di bandiere e fiori e fazzoletti al collo, solo che gli occhi erano rossi e gonfi e il passo strascicato e pesante, non c'era allegria in noi che lo seguivamo, ma un dolore lacerante. Era un compagno, un piccolo uomo solo e disperato contro tutti. Anche mio padre era un compagno; anche lui un piccolo uomo disperato e morì solo in una stanzetta di ospedale un pomeriggio mentre provava a dirmi qualcosa e annaspava in cerca di una matita. L'ultima cosa volle farla proprio da intellettuale. Ma non ci riuscì. Non eravamo d'accordo su tante cose, mio padre e io. Lui voleva che facessi la maestra, che sposassi un bravo compagno, che la smettessi di buttarmi a capofitto nelle storie complicate e assurde, nelle battaglie contro i mulini a vento. Era un compagno, ma anche per lui era importante rispettare le regole, comportarsi bene a tavola, non far tardi la sera, non farsi vedere in giro con gli uomini, compagni o no, è lo stesso. Gli piacevano le cose semplici, i libri di storia, le enciclopedie e l'amore della lettura lo devo a lui. Le lunghe sere davanti al camino con alle spalle il freddo e la desolazione di una casa straniera e gli occhi inebriati di fiamme e di avventure, a sentire la sua voce. La sua faccia che a tratti si contraeva, per lo spasimo che gli saliva dalle viscere, il male che già lo insidiava, lo divorava. Sigfrido, Brunilde e l'Oro del Reno. Guardavamo le fiamme e il ronzio della sua voce si mescolava al crepitìo del fuoco. Poi il freddo alla schiena diventava un brivido, la legna si sfaceva mollemente e la cenere in un attimo diventava fredda, ostile. Il giorno che lo portarono via – erano riusciti a insultarlo per l'ultima volta e io non potei far altro che aspettare fuori della chiesa, dura, fedele – c'erano le bandiere come per il piccolo compagno muratore e poeta precipitato dall'impalcatura. Le bandiere del mio partito e anche del suo, dopotutto, e c'erano anche allora tanti compagni giovani che non lo conoscevano che non sapevano niente ed erano lì, come si va alle manifestazioni, perché te lo dice il partito, a «onorare la morte di un vecchio compagno» che da vivo qualche volta era stato indesiderato e scomodo. Ma c'erano, e la strada era lunga e io non ero né con lui né con loro, perché odio i funerali, anche quelli con le bandiere rosse, odio i cimiteri, per questo non sono mai andata a portargli un fiore e non so neppure dove abbiano sistemato le sue ossa. Quando morirò non voglio essere sepolta, non voglio «tornare alla terra». Vorrei essere cremata, ma pare che sia complicato e costoso. Vorrei essere gettata a mare, in un mare profondo e azzurro, davanti alla Grecia, la Grecia che un tempo amavo e che ora mi respinge per ciò che le stanno facendo. Avrei paura di andarci e vedere la gente tranquilla, rassegnata, seduta ai caffè a bere ouzo nelle piazze bianche di sole, come se niente fosse, come se le torture, le persecuzioni, il martirio dei giovani, l'assassinio della terra fosse un fatto lontano, di altri; non potrei bearmi delle sue bellezze fredde.
Vorrei finire in mare come Saffo, e lo dico senza presunzione, mi
sembra solo molto bello, un bel modo di scomparire, di essere cancellati, di non
essere ricordati. Perché i ricordi pesano, fanno male, avvelenano la vita.
Chi ha detto che Milano è una brutta città? Oggi il sole batte sui vetri e fa caldo, un caldo pulito e sotto c'è l'aiola verdissima con due grandi alberi fronzuti e una ragazza in pelliccia che fa correre un lupo scagliando sassi e ridendo. Le macchine non hanno il tono ringhioso di sempre, passano attorno all'isola, lucide nel sole, e vecchiette spuntate da chissà dove attraversano le strisce pedonali, tranquille, senza paura, e di là suona un disco, non so chi sia, ma è bello, mi sembra del buon jazz puro, non imbastardito, non ruffianesco, come ho imparato ad amarlo in certe lontane sere a Parigi.
Si potrebbe andare in Brianza, correre sui prati, respirare a pieni
polmoni questo regalo inaspettato, si dovrebbe avere il coraggio di
piantar tutto e andare a vedere il cielo da vicino. Ma sono qui, attaccata ai
vetri della mia stanzetta e scrivo, provo a scrivere quello
che mi passa, e nel mio cuore c'è un lago di dolcezza.
Milano è bella, questi suoi palazzotti rosei dai balconcini ornati
dove vive gente che non so, che non vedo mai, se non dal fornaio
lezioso e fascista il sabato mattina. E fa caldo, un vero caldo mite
e pulito. Il telegiornale ha appena detto che oggi è la prima giornata di pace
in Vietnam, ma ci sono stati degli scontri. Lo studente colpito dalla polizia
davanti ai cancelli della Bocconi è sempre in fin di vita, ma non è stato solo
un poliziotto in preda a choc a sparargli. La perizia balistica, dice la
televisione, dimostra che è stato anche un borghese. Caccia al borghese e tutto
si mette a tacere.
Si potrebbe andare in Brianza, in un posto chiamato Robiate, prendere la strada di Vimercate, passare supermarket, aree di servizio e rondò, semafori e cartelli stradali coperti da sacchetti grigi della spazzatura ma tuttora in vigore, continuare per Imbersago, Bernareggio, salire e scendere e trovare strade comunali ombreggiate da tigli, vedere sulla sinistra una casa gialla a due piani; ma non è lì che ci aspettano, ancora più avanti, in discesa e poi, in fondo, la costruzione canadese, col tetto di ardesia e il camino altissimo. Non è difficile, e poi si può sempre telefonare lungo la strada e farci venire a prendere dalla Lella mascherata da idraulico per l'occasione. Ma non ho voglia. Stanotte ho fatto molto tardi a leggere il professor Bernardi e poi sono stata male. Niente di grave: extrasistole. (Sono così denominate delle contrazioni cardiache extra, ossia anormali per forza e per tempo di insorgenza, di modo che l'extrasistolia è causa di aritmia cardiaca, ossia di più o meno grave compromissione della regolarità del ritmo con cui si succedono le pulsazioni cardiache. Lo leggo sull'enciclopedia medica). Ma la mia sarà di natura sinuatriale o ventricolare? Questo è il punto. O sarà piuttosto un disturbo dell'innervazione neuro-vegetativa cardiaca, magari provocata da intossicazione da nicotina – oggi ho fumato molto: Marlboro, sigarette infami, le peggiori, come mi spiegò una volta il professor Arcoleo, molto peggiori della marijuana – o da qualche troppo intensa e vivace emozione? Comunque, niente di grave. Trenta gocce di valium e mi placo. Aspetto diligente e immobile il treno per il sonno. Un lungo sonno, spero, senza sogni confusi e stremanti. E così è stato. E stamattina il sole splendeva alla finestra, e Marcello faceva colazione tutto solo in cucina, caffè panna e madeleinette, i biscotti alsaziani che piacciono tanto a me. A fatica ho riempito la macchinetta e ho aspettato di sentirla brontolare. Questo valium mi ha davvero intontita. Dicono che non fa niente, che trenta gocce si danno ai bambini. Ma io sono peggio dei bambini: quattro mandrax mi stendono e venti buscopan mi spediscono dritta dritta all'ospedale franco-musulmano di Bobigny 93, France. Mi sveglio con un suono di voci straniere nelle orecchie: ça pique, ah, ça pique, il va me faire du mal, la piqûre. Ho il braccio destro indolenzito, intorpidito e la testa confusa, la vista confusa, i ricordi confusi. Vengono di continuo a vedere l'urina, pare che sia molto importante. Qualcuno mi punge la pianta dei piedi. Ci sono dei libri sul comodino: Baudelaire. Sorrido. È stata Claire. È stata Claire a spezzare la chiavetta del 128 che abbiamo dovuto mollare lì, davanti alla Sorbonne. E poi la lunga notte, place des Vosges, la Resserre e infine Saint Michel, l'ultimo pernod e le pastiglie. Lo farà? ancora? No. Non credo. Perché l'ha fatto? Non rispondo. Pensava di morire? Ancora non rispondo. Non lo so. Non so niente, non ricordo, c'è troppa confusione in me. Aspetto che qualcuno mi spieghi, mi dica, mi faccia capire. Che qualcuno lo faccia al mio posto: ecco, forse era proprio questo, volevo che qualcuno prendesse il mio posto.
Cominciano i controlli, le analisi, i viaggi sulla seggiola a rotelle
attraverso vialetti e giardini dell'ospedale franco-musulmano, da
un reparto all'altro: sono madame sgiatostì, quella che voleva morire con venti
o trenta buscopan. Che scema.
Sono le quattro e mezzo, il sole è scivolato via dai vetri, si è spostato
sulla sinistra, illumina i tetti delle macchine ferme in fila lungo
la strada, abbacina i cristalli del lunotto. Una signora in pelliccia fa
fare i bisognini al barboncino marrone sull'aiola della piazzetta e
ora il verde dell'erba non è più lucido e smagliante, ma giallastro e
triste. La signora in pelliccia legge un biglietto. Forse una lettera
d'amore. Tutte le donne, in pelliccia o no, hanno una storia d'amore, magari
segreta. Anch'io ho la pelliccia e una storia d'amore,
solo che non è segreta e la pelliccia è un tenero coniglietto nero acquistata al
Gum di Mosca una mattina gelida e splendente d'inverno, con undici gradi sotto e
una grande felicità nell'anima.
Nella colorata gazzarra dell'immenso salone disadorno aspettavamo svagati e annoiati che battessero le ore. Poi a un tratto San Basilio attaccava. Nel silenzio terso della notte undici, dodici colpi. L'entusiasmo ci coglieva improvviso, e senza bisogno di dirci nulla, correvamo fuori, nell'aria gelida, pungente contro il viso e in quattro salti eravamo sulla grande piazza bella e lì, sulla sinistra, si svolgeva, puntuale, il balletto. C'era sempre una piccola folla a guardarli, a tutte le ore, quei ragazzi chiari, giovani, eleganti. Dentro, diceva lui, c'era il baccalà, ma lo diceva senza mancanza di rispetto, solo con un sorriso sulle labbra. Ricordo un pittore – o scultore, o architetto – che, pigiato tra la folla, volle parlarci a tutti i costi. Il suo nome finiva con jan, come Micojan e tutti quelli della sua repubblica. Ci fece capire a gesti che era un artista e poi ci seguì fino in albergo. Ma non volle entrare, forse intimidito dal mastodonte d'acciaio. Più tardi, guardando fuori, lo vidi occhieggiare dai vetri e mi sorrise, un sorriso segreto e struggente. Cercai ancora di parlargli, ma non conosceva nessuna lingua. Perché non è affatto vero che in Unione Sovietica tutti sappiano le lingue, come ci dicevano al partito. Entrare nei negozi era sempre un'avventura e chiedere una bottiglia d'acqua minerale alla responsabile di piano nel grande albergo, appollaiata con quell'aria di contadina burbera dietro la sua cattedra, era uno sforzo inutile. Ma esisteva un linguaggio dei gesti, degli oggetti, più caldo e commovente. Il georgiano al ristorante, in fila per la prima colazione, che si siede al nostro tavolo e offre una mela a Marcello, e vuole che la mangi, e gliela sbuccia, è tutto un sorriso, grande, grosso e nero, come grandi e grosse sono le donne che ti urtano in metrò, senza neppure voltarsi a chiederti scusa, vanno avanti come bulldozer, la testa incassata, il fazzoletto calato sulla fronte, le gambe polpacciute da contadine arrivate in città per la fiera. Il pittore, il georgiano, la ragazza legnosa che ci fa da guida e inghiotte arrossendo le battute pesanti e smaliziate degli intellettuali e continua a distribuire distintivi. La contadina che posa un mazzetto di fiori sotto il monumento a Puškin... Il freddo è tutto sulla faccia e sulle orecchie. Col mio cappottino me ne vado in giro, i pugni nelle tasche a guardare i bambini mangiare il gelato e le lunghe file al grande magazzino per un paio di calze e un berretto di pelo sintetico. Vado in giro e sono felice e tutto mi sembra bello, la casetta rossa di Cecov e gli orrori architettonici della metropolitana che costa niente ed è piena di folla. Sulle scale mobili la gente legge. Hanno sempre un libro, un giornale. Leggono e ti spingono e non si curano di te. Per la strada vanno dritti davanti a sé, ma senza fretta, senza astio. Non ti guardano, ma sono pronti a sorriderti, a riconoscerti se appena fai cenno di aver bisogno di loro. Italianski italianski, e subito ridono e vorrebbero baciarti. È bello vedere la contadina che porta i fiori a Puškin; è bello andarsene in giro per le strade larghe. Le macchine sono pochissime, il traffico è lento e disteso; c'è silenzio e il cielo è limpido in questa mattina gelata d'inverno, a Mosca. Giro svagata senza sapere niente, senza aspettarmi niente e, accanto ai luminosi grattacieli, trovo la casetta rossa a due piani col giardinetto intorno dove visse il dottor Cecov. Il fiume ha lo stesso ritmo della città, è pigro e placido. Lo guardo passare lento e incolore, guardo i grandi viali innevati e le mura misteriose del Cremlino e le cupole di San Basilio e le colline dove bambini imbacuccati con le guance rosse giocano, biondi, grassi e dispettosi. Non sento nemmeno il freddo. Non ho i guanti e il cappottino nero mi arriva appena alle ginocchia, ma non ho freddo, non ho nemmeno tirato su il cappuccio e mi sembra di essere ritornata la ragazza della Garbatella, con tanti sogni nel cuore. Più tardi, sul pullman, le mani e la bocca impiastricciate di gelato, gli occhi incollati al finestrino, vorrei pregare il conducente di rallentare, sostare un momento per assaporare quest'aria che sento e riconosco di colpo. Ma già arriva la vocetta nasale e legnosa della guida che, nel suo italiano scolastico, spiega che stiamo attraversando il quartiere di Natascia, di Pierre e del principe Andrej. Non dico niente e sono commossa. Come mi ha commosso il piccolo armeno pallido, il suo volto occhieggiante dietro i vetri dell'assurdo albergo più grande del mondo, il suo sorriso segreto. Mi porto nel cuore il calore di quell'incontro davanti alla guardia, alle undici di sera, di fronte al mausoleo. Come mi ha commosso il Vassili georgiano che regala la mela a Marcello, al ristorante del piano, dove facevamo la fila al mattino per avere due uova e del porco freddo. Mi tornano alla mente certi discorsi del Nino: eravamo molto poveri a quel tempo e ci ritrovavamo spesso alla sua tavola ospitale e c'era anche il Galli con la moglie, una ragazzotta buffa dalla faccia gonfia e i capelli crespi e gialli. Nino ci colmava i piatti con affettuosa insistenza, poi carezzava le mele e diceva: i ragazzini russi, che cosa non darebbero per una mela così, non hanno mele così, i russi. Prendi, prendi il burro. Cosa non darebbe un russo per del burro sul pane, invece niente burro per loro, niente burro, solo cannoni... Questo diceva Nino, ex compagno, ex uomo felice che aveva visto il vecchio Stalin a un passo di distanza, in tribuna, e c'era anche Mao, quell'anno. Lo raccontava con gli occhi stralunati: Arriva Mao che era come un sole, un sole così, e accompagnava le parole con un gesto ampio, il viso illuminato, attonito. Il sole, ti dico, e Stalin si alza e va a pisciare, pianta lì tutti, anche il Mao. Nino diceva queste cose e tante altre che ho dimenticate. Ma non scorderò mai quel giorno che arrivò in casa, su all'ottavo piano di via Domenichino; allora spesso non avevamo di che mangiare e io aspettavo un figlio. Arrivò con la sua faccia chiara, aperta, fiera, i suoi capelli biondi, scomposti e mi portò un lettino di ferro con le sponde di corda intrecciata che si tiravano giù e il gancio per le tendine. Il primo letto di Marcello. Non lo dimenticherò. Anche se oggi mi riempie di sgomento leggere il suo «bagaglio» che non scotta, ma fa tanta tristezza. Non seppi dirgli neppure grazie. Avrei voluto abbracciarlo forte e fargli sentire come mi batteva il cuore, ma lui capì e mi fece una carezza goffa sui capelli e mi chiamò, come sempre, madre coraggio. Non si è poveri e non si è soli quando ci sono uomini come Nino. Non importa saltare i pasti o andare in giro con un vecchio cappotto rivoltato e riadattato cento volte per le strade dure e ostili di una città nuova, ricca e pasciuta come Milano. Non importa entrare nei negozi più forniti del triangolo industriale e sentirsi insultati dal sorrisetto dei commessi che sembrano uscieri. Non importa sentirsi scivolare addosso lo sguardo della signora in visone, che nemmeno ti vede. Non importa se hai le scarpe consunte, le calze smagliate, il pullover sfilacciato e ti pesa addosso la miseria di sempre. | << | < | > | >> |Pagina 23Così arrivavo a Milano, una mattina livida di febbraio degli anni Cinquanta, con due valigie e poche lire in tasca, scendendo da un treno del sud coi ragazzini che frignavano e l'omino nero che sbucciava l'arancia e la donna che tirava su col naso e non parlava. Il cappottino mi arrivava appena alle ginocchia e il freddo mi pungeva la faccia.Milano è buia, è grigia, è una città senza fiume, ma a volte, di colpo, diventa dolcissima, si scopre il cielo, vengono fuori i colori, rosa, violetti, verdi. In fondo a uno stradone, tra due file di palazzi vecchiotti e stinti, il tramonto scoppia rosso, quasi innaturale, e sopra il grigiazzurro si stempera a poco a poco. La mia casa era vicinissima a Brera, non era una casa vera, ma una pensione. A volte, finito il lavoro, scendevo e mi aggiravo solitaria per le strade del quartiere a guardare cose e gente. Mi spingevo fino a corso Garibaldi, la strada più bella di Milano, a far spese. Più tardi mi ritrovavo al Giamaica e lì incontravo Ugo, lo studente sardo che faceva il fotografo e raccontava bellissime storie. C'era sempre, lui, in questo caffè, dove si incontravano pittori, fotografi, giornalisti: si somigliavano, avevano tutti un modo di vestirsi, di parlare, cantavano le stesse canzoni e se ne stavano lì, isolati: il vicoletto ghiaioso dietro il bar pareva un lembo strappato al resto della città, un'oasi-lazzaretto per intellettuali della predestalinizzazione. C'erano anche Ettore, confusionario e trotskista, e Furio, il pittore elbano, che mi sorrideva e mi offriva da bere, se gli restavano cinquanta lire. Furio non era un intellettuale, aveva le vesciche alle mani e mi chiedevo come facesse a maneggiare i pennelli. Ma dopo un po' quel posto non mi piaceva e andavo via. Mi sentivo diversa e non riuscivo a legare, a entrare nel giro. Poi non mi piacevano certe persone: la donna seduta nell'angolo, col volto teso, i denti gialli che sparlava ad alta voce. Avevo sentito dire che dirigeva una piccola casa editrice fallimentare, era separata dal marito e aveva il pallino del femminismo, dei problemi della donna: antifecondativi, parto indolore, prostituzione... Non mi piaceva la poetessa astiosa, snob, coi seni penduli e tanti braccialetti ai polsi. Il suo mondo era fatto solo di lei e di quelli che avevano letto le sue poesie e magari ne avevano parlato e scritto.
Me ne andavo perché non mi sentivo una di loro. Ti chiedevano chi
sei con chi stai di che ti occupi di cosa ti interessi ma a Roma che facevi e
adesso cosa conti di fare e tu dici scrivere, tanto per dire qualcosa ma ti
senti falsa anche se davvero vorresti scrivere, raccontare.
Ma a cosa serve scrivere? Scrivere come faccio io da vent'anni è solo pane quotidiano, il modo di pagare i conti, tutti i conti, meno quelli con te stesso. Da vent'anni faccio questo mestiere per pagare l'affitto, le rate, le bollette, la donna di servizio, i libri, la benzina. Non importa cosa. Usare le parole come te le chiedono a tanto a cartella. Questo è il mio mestiere e lo so fare, so adeguarmi alla richiesta del mercato. Oggi, per esempio, va di moda la pornografia. Ci sono dei rischi, è vero, ma basta imparare le regole e rispettarle. Ti metti alla macchina da scrivere e produci la novella, l'articolo pornografico, il libro. Un romanzetto di cento cartelle che butti giù in una settimana lo porti all'editore amico che non lo legge nemmeno, lo sbatte in tipografia con un fotocolor sexy in copertina e ti allunga l'assegno. Una bella sommetta anche se le tasse te ne rosicchiano una parte. Per guadagnare altrettanto con una traduzione dall'inglese o dal francese metti per la casa editrice Del Duca che te le paga millessette a cartella meno la ritenuta devi metterci almeno tre mesi. Con la pornografia, se hai un po' di mestiere e di estro, il guadagno è facile. Io faccio questo lavoro da anni e ho cominciato per puro caso. Le cose che ho scritto prima non le ha lette nessuno, al massimo pochi amici o la rivistina impegnata inglese, tipo New Left. Il primo romanzo uscito nel '60 mi fruttò centomila lire, un contratto con la Cecoslovacchia andato a monte per la crisi della carta e una proposta di film smarritasi nelle spire labirintiche di Cinecittà. Così sono passata in serie B e faccio la pornografa otto ore al giorno in un giornale, anzi in due, tre giornali e non ho preoccupazioni materiali. Qui da noi succede così, fanno presto ad affibbiarti l'etichetta. Scrivi un racconto, esce su ABC e subito diventi la pornografa; ti chiamano, ti telefonano, ti vengono a scovare nella casa al mare, ti fanno firmare contratti. Tu in principio ti diverti, ci stai, ti vedi arrivare tanti soldi e quei soldi, guarda caso, ti aiutano a uscire da una certa situazione personale, ti aiutano a risolvere certi guai e così continui e ti ritrovi invischiato fino al collo. Basta parlare di sesso. Perché in Italia di sesso non si sa nulla. Siamo una specie di colonia svedese, ci arrivano i sottoprodotti, deformati, ingigantiti e noi edifichiamo su quelli la nostra ignoranza, la nostra confusione, la nostra fame atavica. Ed ecco che nasce questo bubbone della pornografia. Si prendono quattro individui che sanno a malapena discorrere di corpi, di giustezze e di stamperie, che sanno come si tira giù un menabò, che sanno scrivere – si fa per dire – quattro pezzi giusti, si condisce il tutto con tante donne nude: pance, tette, cosce, ombelichi, pelo pubico e magari anche un po' di petti villosi, di braccia muscolose, facce da marchettari di periferia, si fanno un po' di conti, di statistiche all'ingrosso, si calcola il rapporto tiratura costo vendita, tenuto conto anche degli eventuali sequestri, e si scopre che si può fare una barca di quattrini.
Qualcuno, per non vergognarsi, dice che in fondo anche questo
serve, è necessario per sbloccare la gente, per farla esplodere, che è
sempre meglio parlare di sesso che di altre cose: fate l'amore non
fate la guerra e roba del genere. Il guaio è che la gente non fa l'amore, ma ne
parla, lo guarda, ne favoleggia e si imbesuisce. Questo è il guaio.
Io in questa nuova industria della pornografia mi ci son trovata per caso, poi per divertimento, infine per necessità. E quando provai a liberarmene e decisi di fare allo scoperto ciò che da vent'anni facevo più o meno clandestinamente, m'è andata male. Ero sola, senza una lira e andai dagli amici della grande Casa. Sapevano tutto di me. Anche e soprattutto che adesso ero sola, non avevo più un grande scrittore alle spalle. Vediamo un po' come se la cava, facciamole fare il saggio e vediamo. Ma io ho già tradotto per voi... Pearl S. Buck e altro, ricordate? Non importa, facciamo il saggio. D'accordo, farò il saggio. So quanto sia duro guadagnarsi da vivere per sé e per un figlio traducendo, lo so molto bene, ma volevo farlo. Finalmente, mi dissi, dopo decine e decine di libri tradotti e scritti sotto altri nomi o senza nome del tutto metterò la firma, quella mia vera, l'unica. Tradotto dall'inglese da. Tradotto dal francese da. Tradotto dall'americano da. Così telefonai e presi appuntamento con l'amico della grande Casa. C'ero stata tante volte in quel posto, ma ora mi appariva diverso. Fu complicatissimo arrivare fino al personaggio. Dovetti percorrere lunghi corridoi, imboccare ascensori, bussare a porticine seminascoste. Una vera caccia. Finalmente arrivai. Stava lì, seduto dietro la sua scrivania, oltre uno spesso paravento di dizionari e volumi. Mi frugava con gli occhietti intenti, curiosi, mi faceva l'esame. Mi dava perfino del lei, ora. Non ricordava più. Accennai, allusi, abbozzai un riferimento. Lui mi guardava gentile e curioso: è la prassi. Tornai a casa col libro. E cominciò l'ansia, le ore alla macchina da scrivere con la paura di sbagliare e gli occhietti del censore addosso. I vocabolari aperti tutt'attorno sul tavolino laccato che zoppicava un po' e la seggiolina troppo bassa che bisognava metterci un cuscino, o meglio ancora le guide del telefono una sull'altra. A bere caffè e frugare nel deserto del Webster, regalo di compleanno dell'amico Vacchelli. A parte la pena e il terrore era un bel libro. Lo leggevo di notte, quando di notte mi riusciva di leggere, e me ne entusiasmavo. Mi sembrava una storia mia, in un certo senso, con certi parallelismi, quella figura del padre, il padre di Daniel, romantico, mite, un po' fuori del mondo, e la madre pragmatica, tutta d'un pezzo, e la sorella in manicomio, tutti quei continui tuffi nell'infanzia, nei ricordi: Daniel a scuola, Daniel in biblioteca, Daniel che fa l'autostop col bambino a tracolla come uno zaino, Daniel che fa l'amore con Phyllis, la ragazza buffa dalle grandi cosce, Daniel che tiene stretta la mano del dottore e percorre le strade e viene travolto dalla folla e issato su un palco e ci sono bandiere e discorsi e i nomi di suo padre e sua madre. Si potrebbe cominciare con la sera prima, la vigilia del Memorial Day quando squillò il telefono. Con Daniel e la sposa bambina che fanno l'amore e la musica dei Rolling Stones. Un formidabile inizio per un libro e poteva essere un buon inizio anche per me. Ma le cose andarono diversamente e finii a fare la rivista scientifica a quattrocento mensili fisse, sicure, orario buono, settimana corta. Così il libro di Daniel ritornò nelle manine dell'ex amico dagli occhietti inquisitori che perse anche lui un'occasione, quella di farmi l'esame. Poi anche la rivista scientifica finì, per asfissia e mancanza di lettori, ed eccomi qui. Ma questa volta voglio tener duro, scrivere un libro tutto d'un fiato. | << | < | > | >> |Pagina 37Anche Furio parla di Céline. Devi scrivere come Céline, dice. Ma io non posso scrivere come Céline, né come Tolstoi o Melville e nemmeno come Natalia Ginzburg perché lei è brava è colta e importante, è una persona che conta e ha sempre conosciuto e frequentato la gente giusta. Potrei, è vero, raccontare anch'io di aver conosciuto Giulio Einaudi, coi suoi occhi freddi e azzurri, i capelli precocemente bianchi, di averlo conosciuto le sere a Bocca di Magra insieme a tanti altri come lui. Tanti, davvero, e si stava insieme, a scherzare, a mangiare il gelato, a ballare, a fare le gite, ma io me ne stavo sempre in disparte, nell'angolo più buio e Giansiro mi chiamava la sauvageonne, stesa mezza nuda al sole a non parlare con nessuno, gli occhi chiusi, una specie di sordo rancore nell'anima per non essere come loro, per sentirmi diversa.
Potrei scrivere di certe lunghe serate sul fiume, quando l'acqua si faceva
diafana e piatta e il verde della sponda opposta incupiva, diventava indistinto.
Gli avambracci posati sulla balaustra, il busto in avanti, stavamo a guardar
saltare i mùggini. Un salto doppio e ricadevano
con la pancia in giù, con un rumore secco e schioccante e un balenìo
d'argento. La prima volta credetti che qualcuno, dalla terrazza dell'albergo,
avesse gettato un sasso, un grosso sasso bianco, liscio. Invece
saltano tutto il giorno, solo che a quest'ora, col cielo e il fiume annebbiati
dalla sera, con l'orizzonte che si dilata e il silenzio che ti cala
addosso inaspettato, allora li vedi, argentei, inarcati, tesi sul pelo
dell'acqua, in una specie di danza festosa e ritmica. Più tardi il cameriere
siciliano ce li serviva a tavola con un sorriso, il rosmarino infilato
nella pancia. La Bianca, prima moglie di Feltrinelli, odia questo posto
e dice che questi pesci sanno di escrementi, ma non è vero. È un posto
bellissimo e i pesci non hanno quel sapore.
Più tardi arrivavano tutti. Il fiume era buio e l'aria umida e fredda. Camuffati nei maglioni da marinaio e nei blue jeans – sembrava una divisa – a bere china calda e ascoltare le storie del Giulio con gli occhi azzurri e freddi. Il poeta parlava poco, prendeva accordi per la barca; se è bello, domani si va a Punta Bianca, ma bisogna stare attenti alle secche, il fiume inganna da queste parti. Ieri si sono incagliati due motori e un uomo a riva agitava le braccia imprecando. S'era visto tutto il giorno il pescatore laggiù, sulla riva opposta, verso il ponte, dove la prima volta persi l'anello tuffandomi. Vibrava nell'aria il rezzaglio che s'apriva a corolla e poi s'afflosciava e cadeva rigonfio nell'acqua a forma di fungo. La mattina la rete s'è invischiata in una pianta sottomarina, è rimasta impigliata nei rami coriacei, l'hanno ritirata tutta lacera, a brandelli. Il pescatore piangeva. Domani, dice qualcuno, sarà tempo cattivo. Vedremo passare il barcaiolo col berretto calato sul naso vermiglio, gli occhietti a spillo, la faccia cotta, a dire che non si va, c'è troppa corrente verso la Punta.
Tutto il giorno in pantaloni e camicia blu, sulla sdraio della terrazza a
leggere un libro o a tradurre la storia del mondo per Cino
Del Duca. Passava Giansiro e diceva: Ma non ti vesti mai da donna, ragazzaccio?
Poi arrivava la Pigot che aveva sempre fame e si lasciava invitare a pranzo
volentieri e tutto ciò che mangiava le andava nelle guance rosee e paffute sul
visetto di cera. E quando arrivava la sera ci ritrovavamo di nuovo tutti lì,
attorno a un tavolino, maglioni e china calda a tremare per il freddo e a
guardarci in viso. Quello che aveva i nervi con la moglie, quell'altra che aveva
sonno, e le lamentele querule, i discorsi paralleli, gli scherzi del
Giulio che lanciava le idee ma non si muoveva e i risolini segreti del
Vittorio.
Potrei raccontare di Calvino che disegnava canguretti per Marcello su fogli rubati alla traduzione dei Tropici e diceva: Ma che sei matta, ti ci metti anche tu a scrivere libri? e cercava di convincermi delle bellezze del Po e del Valentino, che cosa stavamo a farci a Milano? Pensateci bene, non è una proposta da buttar via quella del Giulio, o del Mastronardi che prendeva tutto sul serio e invece di rose regalava cassette di Cinzano alle donne amate e insultava i ferrovieri finendo in manicomio; del Crippa che parlava sempre di spazi e di cieli e già era tutto ricucito; del Manzoni poveretto; della Nanda architetta pazza; della Gae compasso d'oro e del Meana che ancora non era così importante e irraggiungibile.
O di Giangiacomo Feltrinelli, di quando andavamo a mangiare
tutti insieme, giusto vent'anni fa, e lui ci prestò perfino dei soldi, e
a modo suo mi fece anche un po' il filo. A modo suo, perché Giangi era uno snob
e io ero Maria della Garbatella, una testona tutta
d'un pezzo, una selvaggia, niente smance, niente ruffianerie. I padroni son
sempre padroni. Però era simpatico, perché era vulnerabile, disponibile e in
buona fede, come può esserlo uno con tanti
miliardi. Uno così... pericoloso, dicevano i compagni, e gli stavano
intorno. Ma a me il Giangi era simpatico proprio perché sbagliava
e si lasciava usare da quelli più furbi di lui, che volevano i suoi soldi e
sfruttavano la sua disponibilità.
Furio mi dice che vuole tornare a Milano. Dice che è stanco di provincialismo, di cricche. A Firenze non si respira più. A Milano almeno hai il tuo spazio, ti lasciano vivere: sono i vantaggi della disumanizzazione. E mi sembrano i discorsi del cinquantacinque, al Giamaica. Sei solo nella tua isoletta, ma vivi, sei una persona. Anche una donna a Milano ha il suo spazio, vive, lavora. A Milano una donna non è considerata una cosa con un buco in mezzo. Credo che Furio abbia ragione. Ciò che conta è sentirsi una persona e qui è più facile. Per questo non capisco certe mie amiche femministe che non fanno che piangere e lamentarsi e parlano come ciclostilati. Io non getterò mai all'aria reggipetti, non odio gli uomini, non li considero nemici, non voglio l'aborto obbligatorio e il controllo delle nascite a tutti i costi, non voglio l'orgasmo clitorideo coatto. Sono una persona-donna e sono felice di avere un corpo di donna, una faccia di donna, sono felice di essere madre, sono felice di amare, di fare l'amore da donna. La libertà, la dignità che voglio non è una libertà «femminile», ma una condizione umana. Io voglio che ci si possa guardare in faccia senza mai vergognarci, che ci si possa liberare per sempre dai sensi di colpa, dalla paura, dalla miseria, dall'umiliazione, tutti insieme, uomini e donne. Voglio che non prevalga l'ottusità che è peggiore della violenza. Non m'importa il divorzio, l'aborto, la pianificazione familiare, l'ecologia e il sesso. Tutto questo alla fine ce lo lasciano fare per distrarci e tenerci buoni. Io voglio comunicare a mio figlio l'orrore del fascismo e che poi si masturbi e faccia l'amore in libertà, quanto e come vuole. Di queste cose Marcello e io parliamo poco perché ci fidiamo. Io credo di non avere colpe e così oggi le sue smanie, le sue ansie, la sua ricerca mi appaiono come il risultato di ciò che gli ho dato da quando coi pugnetti chiusi sul cuscino guardava il soffitto con occhi vacui. Non tremo per lui. So che è nel giusto. Gli dico soltanto sta' attento, il nemico è infido e forte e la lotta sarà dura. Niente è cambiato da quando per le strade di Roma offrivamo il petto al fuoco dei poliziotti di Scelba, da quando a Reggio Emilia cadevano gli operai come piante falciate. Tutto si ripete. Oggi sparano su di lui e io gli dico sta' attento. Lui vuole far cadere il governo Andreotti e dice perdio ma perché non stiamo tutti insieme se vogliamo la stessa cosa, perché Capanna ce l'ha con quegli altri e quegli altri con quegli altri ancora e il partito, il grande partito, ce l'ha con tutti, niente gruppuscoli, noi non c'entriamo, noi siamo per l'ordine, per le riforme, per il governo. Sono inutili e pericolosi, improvvisatori, avventuristi, anarchici. | << | < | > | >> |Pagina 107La primavera è bizzosa quest'anno. Ho sempre freddo, un freddo profondo, nelle ossa. Ho tanto desiderio di sole, voglia di camminare nel verde, di riposare, di non pensare per un po. Ovvero di pensare veramente. Ho voglia di vedere il baluginìo del sole sopra le onde, di respirare l'aria acuta del mare quando ha piovuto e l'acqua è verde e torbida e odora forte. Voglia di sedermi su uno scoglio e ascoltare il silenzio, guardare lo spazio e sentire il sole togliermi le forze, farmi diventare una cosa molle, senza nervi.La primavera mi ricorda la miseria. A primavera i poveri si sentono più deboli, vengono fuori i malanni, le anemie, gli esaurimenti e bisogna fare la curetta ricostituente che ti passa la mutua. L'odore della primavera si confonde all'odore di quelle orribili fiale da bere che sanno di albicocca e fanno venire l'urto di vomito e che non compenseranno mai le deficienze di uno che per trent'anni non ha mai mangiato una bistecca. Appena ho avuto un po' di soldi ho cominciato a mangiare bistecche. Ora le odio. Uno che è vissuto nella ricchezza lo riconosci da come mangia la carne: di solito ne scarta la metà. Chi ha avuto un'infanzia povera, invece, pulisce bene il piatto, non lascia una briciola di pane, mangia avidamente, anche se non ha più fame.
Oggi un etto di carne tipo famiglia costa trecento lire. Se vuoi fare la
carne per tutti la sera ti va una giornata di lavoro di un operaio. Una giornata
di lavoro per una fetta di carne. E questo lo chiamano benessere e per questo
benessere siamo disposti a tacere, a stare tranquilli, a essere civili. Ci
appaghiamo di un benessere apparente e non sappiamo quanta gente non ha neppure
questo.
Quanta gente non ha un lavoro, quanta gente è senza casa, quanti
malati non hanno un letto, quanti vecchi non hanno un rifugio decente, quanti
matti finiscono nell'inferno dei manicomi, quanti disadattati si rifugiano
nell'alcool o nella droga. Chi di noi sa veramente a quanto ammonti il reddito
annuo dell'italiano medio?
Forse la gente non ha più voglia di parlare di miseria. La gente non
vuole pensare, preferisce credere che l'Italia sia quella che ci propina la
televisione ogni sera. Domani è la festa del papà e se papà è
un vero uomo devi regalargli il suo brandy e perfino alla mammina devi regalare
il mandarinetto e che si droghino in pace. Beviamoci tutti sopra e tic-tac. Poi
spegniamo il televisore e andiamocene a letto intorpiditi, rincoglioniti, magari
con un sonnifero in corpo per toglierci ogni residua facoltà di reagire.
Sfilano le macchine nella piazzetta in questa domenica primaverile. C'è un gran traffico perché è tempo di fiera. Decido di scrivere a mia madre. Sono anni che non ci vediamo, che non ne so nulla. Sarà invecchiata, amareggiata. Penso spesso a lei, a come si è spenta lentamente, ripiegata su se stessa dopo una vita di stenti, di frustrazioni. Troppo debole per volere qualcosa, ha vissuto di riflesso, all'ombra di un uomo dilaniato, stanco, deluso. Poi lui è morto e lei è rimasta sola, indifesa, con noi giovani che non capivamo, che non le tendevamo la mano, che eravamo pieni di rancore, moralisti e idioti. Quante cose dovrei spiegarle e non posso. Come farle capire quello che succede, quello che è successo in questi anni; come farle capire il perché della mia scelta, della mia lotta quotidiana. Non capirebbe. Un giorno cercai di farlo. Ero giovane, piena d'entusiasmo e di determinazione. Ma lei non capì. Mi considerava una matta testona e sapeva bene che non mi avrebbe mai fermata. Abbracciandomi sulla soglia mi lasciò una raccomandazione: Figlia mia non ti scordare di noi. Ricordo quelle parole e la sua faccia sul ballatoio mentre me ne andavo con le due valigie, quella sera d'inverno degli anni Cinquanta. Avevo tanto freddo nel cuore lasciando la casa dove m'ero svegliata a un'adolescenza sofferta, tardiva, di povera. Le lunghe notti insonni quando era difficile carpire il senso della vita e il nero di un cielo stellato mi struggeva fino allo spasimo. Quante notti alla finestra della mia stanzetta, sul buio del cortile a pensare alla morte, odiando il peso del mio corpo. E lei mi spediva in ambulatorio a fare i raggi e mi imbottiva di calcio. Mandavo giù la pallottola bianca dell'ostia che si sfaceva in gola. Non sapeva quanto odiassi la mia apparenza di bambina anemica e goffa mentre mi si agitavano dentro pensieri, sentimenti, desideri di donna. Avevo il cuore colmo d'amore per il mondo intero, ma il mondo non si accorgeva di quella ragazzina sciatta e pallida dai capelli corti e gli occhi brucianti di febbre. Erano gli ultimi anni della guerra, della fame, della miseria. Ma poi, un bel giorno d'estate venne la pace, rumorosa, festosa, piena di illusioni e la pace scese anche dentro di me. Tutto cambiò, diventai finalmente donna, diventai Maria della Garbatella e non avevo più voglia di morire, non ebbi più il tempo di passare le notti a struggermi su me stessa. C'era bisogno di me, anche di me, nella grande famiglia del grande partito. Tutto l'amore che era in me trovò finalmente il suo sbocco, la sua ragione: il popolo, la gente, la lotta.
Ma mia madre continuava a non capire. Brontolava e si lamentava perché avevo
abbandonato gli studi e la sera tornavo a casa troppo tardi. Qualche volta non
tornavo del tutto, chiusa ad aspettare l'alba in qualche gelida stanza di
commissariato, dopo la manifestazione per il patto atlantico o la Corea.
Arrivavamo a due, a tre, a gruppetti sparsi, sbucando da tutte le strade che convergono sulla grande piazza. Eravamo vestiti a festa. I compagni non stavano nelle giacchette e non riuscivano a muoversi pacati, avevano la faccia arrossata, i gesti concitati, il passo nervoso, ora accelerato ora allentato, si guardavano attorno, a riconoscersi, a strizzarsi l'occhio, a farsi un cenno del capo, un sorriso. Le ragazze acchittate come per andare in balera o a passeggio in centro a guardare le vetrine di lusso, avevano il viso tirato e pallido, si toccavano di continuo i guanti, a disagio. Quelle delle borgate si erano tirate via i capelli crespi dalla faccia e avevano l'aria sperduta e selvatica nella gonna strizzata e i tacchi alti. Quando incrociavano uno sguardo amico allargavano le labbra in un sorriso spavaldo. Facevamo su e giù girando attorno all'isolato e ci rincontravamo, e ogni volta erano gomitate, risolini, cenni d'intesa. Qua e là riconoscevamo i dirigenti della federazione giovanile, i segretari di sezione, gli agit-prop, gli organizzativi. Qualcuno ci bisbigliava un ordine al passaggio: tutti a san Silvestro... spargetevi, e a mano a mano si vedeva quella folla strana, colorata, diversa, stridente muoversi verso un'unica direzione. Ma così ci imbottigliano, diceva qualcuno, è un errore. Giù per il Tritone. Su per il Tritone. Piazza Barberini, via Veneto. Attenzione, muoversi a gruppetti, dividersi, non dare nell'occhio, non farsi notare, è pieno di celerotti in borghese. È una parola. Si vede lontano un miglio che quello è Benito di Sciangai e che quella giacca a quadri non è la sua, e quell'altra è Norma: si è messa un chilo di rossetto sulle labbra e le calze con la riga, sembra una puttana. È convinta di confondersi con la gente di via Veneto. Ecco ci siamo. Qualcuno mi tocca il gomito. Stiamo insieme, dice. Tu stai con me e fai finta di niente. Dammi un bacio, chiacchieriamo come se nulla fosse. Quando si comincia? Stiamo attenti ai compagni della federazione. Non perdere d'occhio Gastone. Gastone è alto, sovrasta gli altri con la sua testa ricciuta e nera, la sua faccia altera e volgare. Ora l'ho perso di vista, ma ci siamo, si sente, si avverte nell'eccitazione che ci prende tutti. E partono i primi slogan. I primi urli, i primi fischi. Perfettamente sincronizzate, nello stesso istante, le sirene a perdifiato della celere. In un attimo la folla sparpagliata un momento fa e ora compatta e vociante si smembra, si rompe, si sgretola. In un attimo abbiamo smesso l'aria compunta e falsa delle comparse e ci sentiamo quelli che siamo e sappiamo cosa siamo venuti a fare. Lo strepito delle sirene è vicino, minaccioso; le camionette impazzano, salgono sui marciapiedi, irrompono rabbiose, ringhiose, e noi siamo lì, gettata la maschera, irridenti, tremanti di rabbia, a temere e aspettare che l'odio ci travolga, impotenti. E quando la furia si abbatte su di noi ci sentiamo ruggenti e felici e le nostre voci si levano in un urlo collettivo che scuote il silenzio degli alti palazzi, dei viali alberati e chiusi nella penombra. Il clamore straccia la quiete ottusa dei quartieri signorili, turba i tranquilli bottegai che s'affrettano, pallidi, a calare le saracinesche sui nostri passi. Una ragazza sviene tra le mie braccia, la sorreggo e mi scaravento col suo peso dentro una farmacia. Il dottore mi guarda con odio, non vuole darmi retta. Non vuole impicciarsi. Potrei ucciderlo, quest'ometto pavido e schifoso. Forse lo capisce e si decide. Guardo fuori. In mezzo alla strada c'è un compagno coperto di sangue e attorno le camionette continuano il carosello cieco. I nostri appaiono e scompaiono, fuggono e ritornano, gridano, qualcuno tira sassi, i manganelli roteano sulle teste. Il corpo insanguinato in mezzo alla strada dei signori. Nessuno si ferma. Nessuno va ad alzarlo. Il cuore mi batte forte, non riesco a muovermi. Vorrei parlare ma balbetto, non so più niente. C'è solo quel sangue davanti a me e sto male. Molto male. Penso a mio padre, anche lui qui, da qualche parte. Non l'ho più visto da piazza Colonna. Vorrei che fosse al mio fianco.
Il farmacista farabutto ha finito e la compagna ha ripreso i sensi,
sta in piedi. Vuole cacciarci, e fuori ci sono le camionette, i manganelli
pronti, quell'uomo per terra, il sangue.
È stato tremendo. Sul tram, di ritorno al quartiere, in sezione, me ne sto sul fondo aggrappata agli altri. Mi tremano le gambe e ho una gran paura di vomitare. C'è Benito un po' più avanti. È ferito alla fronte, il sangue gli ha macchiato la buffa giacca a quadri che non gli sta nelle spalle. Come attraverso una nebbia sento qualcuno accanto a me parlare. Povera Maria è proprio conciata. Era la prima volta. Oggi è stata dura. Erano scatenati, non l'avevano mai fatto. E sarà sempre peggio, compagni. Guardala, sta proprio male.
Non importa. Le farà bene. È stato il suo battesimo. Le toglierà di
dosso gli ultimi residui borghesi.
Con la testa fuori del finestrino, vomito tutto. | << | < | > | >> |Pagina 135A Milano, la gente sfila in via Fatebenefratelli a mettere fiori, a piangere su quel pezzetto di marciapiede di fronte alla questura al di qua del cortile dove qualche anno fa fu «suicidato» l'anarchico Pinelli e dove l'altro giorno è stata scoperta la lapide a uno dei responsabili del «suicidio». Piangono per quegli innocenti che hanno pagato il gesto di un folle, di un estremista.Dall'ufficio abbiamo sentito il botto e siamo corse fuori, Isotta, io, gli altri. La gente era tutta intorno. Volevano linciarlo, impiccarlo, torturarlo, metterlo alla ruota, sbranarlo, staccargli la testa e infilzarla a una picca perché tutti la vedessero, magari issarla alla guglia più alta del Duomo, al posto della madunina tuta d'ora. Ma ancora una volta il Paese ha dato prova di civiltà. L'autore della strage è stato preso e già si affrettano a diffondere la notizia: anarchico individualista. Perché la gente sappia bene chi odiare. Che importa se più tardi si scopriranno i suoi legami coi gruppi fascisti, l'appartenenza a un'organizzazione finanziata dalla CIA, il soggiorno, guarda caso, in un kibbutz, noti centri paramilitari israeliani dove si addestrano i giovani alla caccia all'arabo, dove nasce il nazismo di base; cosa importa se la nota dominante della sua squallida biografia è l'anticomunismo, e perfino la televisione, così obiettiva, lo dirà? Ormai la gente ha ben chiara in testa la frase, un'etichetta: anarchico individualista. Un altro Valpreda, poi se ne impadronisce la magistratura, la gente se ne scorda, confonde, e tutto viene messo a tacere. Dopo tre mesi i giornali annunciano che l'agente che ha assassinato il compagno Franceschi davanti alla Bocconi non era in stato di choc. Ma chi se ne ricorda più? Chi era questo Franceschi? Ciò che conta è la prima impressione, è l'avversione per la violenza, la voglia di ordine, il bisogno dell'Uomo, del polso di ferro che rimetta le cose a posto, che preservi la libertà dell'individuo contro i vili sanguinari attentati degli estremisti di tutti i colori. Ciò che ci vuole è un bel governo forte e autoritario.
L'altro giorno a Reggio Calabria hanno accoltellato sette studenti
antifascisti. Ieri a Bologna ne hanno picchiati a sangue altri due,
diciassettenni. A Wounded Knee si sono arresi, a Parigi sono ripresi i colloqui
Kissinger-Le Duc To, ma intanto continuano i bombardamenti. Thieu ammassa
prigionieri, in Francia si mettono
fuori legge fascisti e trotskisti, sullo stesso piano. In Cambogia gli
americani le prendono grazie a dio e in Perù i colonnelli avviano la
riforma agraria armando i contadini. Ma tutte queste cose sono
lontane. Intanto noi qui giochiamo e quizziamo tutti insieme, senza frontiere,
seduti nelle poltrone dei nostri tranquilli salotti eurovisivi.
Quest'anno piove sempre. Arriva la domenica e piove. Così non si esce. Si sta in casa. Io scrivo, Marcello ascolta musica con un amico e lui legge. Con questa pioggia e i campi marci non si può nemmeno giocare a pallone. Peccato perché una bella partita fa bene, come dice il professor Madeddu, scarica le energie e l'aggressività. Il professor Madeddu, alla sua bella età, gioca ancora nella squadra dei matti, a Mombello. Lui è uno di quelli che vogliono curare i drogati e gli alcolizzati. La gente non vuole saperlo ma in Italia di alcolizzati ce ne sono moltissimi. La gente dice: Si è preso una sbornia, ha dato fuori di matto, è un perdigiorno, uno scioperato, e non ci pensa più. Un alcolista è uno che non serve a nessuno, è uno che un giorno, dicono certi «quando faremo la rivoluzione, metteremo al muro, senza pietà, come i pederasti.» Chiunque non se ne stia tranquillo, chiunque non vesta una divisa non serve, anzi è dannoso e scomodo e allora intanto lo si rinchiude in manicomio dove lo legano, lo riempiono di tranquillanti, di psicofarmaci fino a farlo rientrare buono buono nei ranghi, bravo cittadino, bravo suddito che produce e consuma, obbedisce alle leggi, rispetta lo spazio altrui. «Ma cos'è che vuole 'sta gente. Se non siamo mai stati tanto bene. Per che cosa si agitano. Guadagnano un mucchio di soldi, ci hanno perfino abolito la differenza tra operai e impiegati, ohé, hanno il week end lungo, i ponti, l'automobile, la moto, ma cos'è che vogliono 'sti qua. Dove lo trovi un altro Paese così, ma va' che roba. Perché non vanno in Russia, col cavolo che lì possono scioperare, tutte scuse per minga laurà, e intanto i prezzi vanno alle stelle, aumenta la confusione, il caos, dico bene? La violenza, no guardi che stiamo diventando come Chicago, io ci ho paura a tirar su la gente, a noi tassisti ci toccherà girare armati, cara lei. Prendere il porto d'armi insieme alla patente. E chi ci passa più per certe strade di sera? E se ti aggrediscono? Se ti rapiscono il figlio? Se ti violentano la figlia tredicenne? La pena di morte ci vuole per 'sti qua, altro che sciopero e sciopero. Andé a laurà, lazarun. Tel disi mi. L'è tuta un'anarchia. Tuto un rebelot. Uno va a fare il passaporto in questura e arriva l'anarchico con la bomba. Ma lei è qui che lavora? Allora l'ha sentita la bomba l'altro giorno... Non ce l'ha minga le centocinquanta?» Così parla la gente. Ma questo Gadda qui chi era? Sì, questo qui che è morto e l'Unità la fa tanto lunga. Chi era, un bravo compagno? No, era un grande scrittore, uno che usava la lingua da dio, ma no, non era un compagno, solo un antifascista, Gil. Ma allora a che serve uno così, scusa? Alla rivoluzione uno così non serve. Dobbiamo fucilarlo. Non puoi fucilarlo, Gil. È morto. Ma quelli come lui bisogna fucilarli. Sono nemici della classe operaia, sporchi borghesi decadenti, nemici della rivoluzione. A che servono tutte queste baggianate che scrivono? Il compagno Mao sì che è un grande scrittore. Tutti gli altri vanno messi al muro. Chi non serve va messo al muro. Anche i pederasti, Gil, gli omosessuali, i drogati. Anche quelli che hanno la pelle di un colore diverso, magari, perché no? E perfino quelli che sfilano sotto la stessa bandiera ma invece di Stalin portano Trotskij. Sporchi traditori, bisogna metterli al muro. Tanto per cominciare, al Palasport gli diamo una bella lezione, traditori e provocatori. E gli alcolisti, caro Madeddu, bisogna far fuori anche loro. Che stiamo a perder tempo a curarli, recuperarli, reinserirli nella società. Tanto saranno sempre dei borghesi bacati e i loro problemi non interessano nessuno. Malcom X era alcolizzato, ma lui mica è andato dalla mamma, mia cara, mica si è fatto disintossicare, lui ha scelto la strada giusta e ce l'ha fatta da solo. Chi se ne frega di questi borghesi marci pieni di alcool. Un giorno li metteremo al muro... E io? Io che non so più trovare il mio posto, io che non sono più una brava compagna, io che sono fuori dal gioco, che sono una sporca individualista, con problemi personali e una lotta personale e un sogno personale e mi sono allontanata dalla base, dalla massa e non leggo, non discuto, non attacco manifesti, non vado a riunioni, non so distinguere la differenza tra Guevara e Ho chi min, tra l'Ira e i Tupamaros, io che mi dibatto in un'abissale confusione ideologica, metterete al muro anche me? Come i trotskisti e come gli alcolizzati? Ma cosa ne sapete voi della disperazione di un alcolista? Voi pensate che sia come prendersi una sbornia in compagnia, allegramente, e poi magari star male, fare gazzarra, spaccare qualche tavolino o fare a cazzotti con quelli accanto. Che ne sapete voi del mostro che si annida dentro di lui? Avete mai visto qualcuno ridursi schiavo della bottiglia, del bicchiere, avete mai visto qualcuno disfarsi lentamente, inesorabilmente, spappolarsi, avviarsi alla fine mentendo a se stesso e agli altri? Avete mai visto qualcuno calarsi nella follia, preda delle voci, delle allucinazioni, dei torpori mortali, dei conati frenetici di allegria, dell'insalata di parole, del farnetichìo, dell'eloquenza sconnessa e delirante? Avete mai cercato di spiegare a un figlio che vi guarda fisso negli occhi il perché, avete provato a salvarlo, preservarlo, avete mai cercato disperatamente di capire, di impedire la catastrofe? L'A.A., anonima alcolisti, non serve alla rivoluzione. D'accordo. Prima c'è il problema del pane, del lavoro, della giustizia sociale. D'accordo. Chi beve ha almeno i soldi per comprarsi da bere e per diventare alcolisti, pensate voi, bisogna bere roba costosa, di lusso. È un errore. Anche il vino, il goto de gianco, il bianchino spruzzato, l'amaro al mattino, la grappaccia da quattro soldi, il campari soda e perfino l'alcool denaturato allungato con qualche porcheria, tutto può rovinarti. Attenzione. Le nevrosi non sono lusso dei ricchi. Vi siete mai chiesti quanti operai, quanti tramvieri, quanti meccanici alla linea di montaggio finiscono alienati, matti? Quanti gruisti impazziscono per aver fatto tutta la vita un gesto soltanto, otto ore al giorno in cima a una cabina. E quelli che finiscono intossicati, impotenti, dove li mettete? E quelli che rincoglioniscono semplicemente? No, la follia non è un lusso. Attenzione a non sbagliare. I pazzi non servono alla rivoluzione, e sta bene, ma neanche l'ottusità è mai servita a nessuna rivoluzione. Che vale studiare, leggere libri, vivere, lottare, se non capiamo la gente e non l'amiamo? Prima di dare la caccia ai fascisti di strada combattiamo il fascismo vero e cominciamo a combatterlo dentro di noi. E poi guardiamoci dritto in faccia. Perché un giorno qualcuno raccoglierà la bandiera della rivoluzione e la porterà avanti. In questo io credo, nonostante tutto, con tutta me stessa.
Non ho mai smesso di crederci.
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