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| << | < | > | >> |IndiceALBERT LONDRES 17 ALCOLISMO E INSEGNAMENTO 19 ALLEGRA COME UN PASSEROTTO 21 ALLEVAMENTO NAZISTA 23 ALTO MARE 25 ALZHEIMER INSONORIZZATO 27 AMARE LACRIME DI CODARDI 29 AMERICAN WAY OF LIFE 31 AMICI A CENA 33 AMMANETTEREMO DIO 35 AMMINISTRATORE 37 ANCHE I SENTIMENTI MARCISCONO 39 [...] CANI ROGNOSI 97 CANTANTI FROCI 99 CAPPUCCIO 101 CAREZZE MAGICHE 103 CARINO COME UN CRIMINE 105 CARO NONNINO 107 CARRARMATO 109 CASERME DI OZIOSI 111 CASTELLI SCHELETRITI 113 CASTONE 115 CAVALLI ALL'ABBEVERATOIO 117 [...] CUOCERE IL TEMPO 183 DANDY 185 DAVANTI AI BAMBINI 187 DEA TIEPIDA 189 DEMOLIZIONE CON ESPLOSIVO 191 DENTATURA E CIVETTERIA 193 DIO È UN DETERSIVO 195 DOPO IL PASTO 197 DOPOGUERRA 199 EDITORE UBRIACO 201 [...] GIURAMENTI DA SUPERMERCATO 269 GLI ARTISTI NON SONO GENTE ONESTA 271 GLI SGUARDI DEGLI ALTRI 273 GLORIOSI AVI 275 GRAAL 277 GRAZIE 279 GROTTESCO GURU 281 GUÊPIÉRE 283 GUERRA D'ALGERIA 285 [...] IL SOCCORSO CATTOLICO 355 IL SUCCO DI OGNI ISTANTE 357 IL SUPPLIZIO DI TANTALO 359 IL TERRIBILE BASTONE DELLO STILE 361 IL TETTO DEL MONDO 363 IL VOSTRO SCRITTORE PREFERITO 365 IMPIEGATI PAZZI 367 IN CASO D'INCENDIO 369 [...] LA CONTRAFFAZIONE DELLA FELICITÀ 441 CRUDELTÀ È UN DIRITTO DELL'UOMO 443 LA FAMIGLIA VALE AMPIAMENTE L'ORGASMO 445 LA FEMMINA DELL'UOMO 447 LA GENEROSITÀ È UN PECCATO MORTALE 449 LA GIOIA È SPIETATA 451 LA HOOVER RIMARRÀ SEMPRE UN MUST 539 [...] LEXOTAN 527 LO CHIAMAVANO RÉGISSETTE JAUJAU 529 LO SCRITTORE È UN OMETTO 531 LO STATUS DI ASSASSINO 533 LUCE DELLE CASSEFORTI OSCURE 535 LUDI CIRCENSI 537 [...] NIENTE ANIMALI A CASA NOSTRA 613 NIETZSCHE 615 NOMENKLATURA 617 NON CONVIENE PIÙ ESSERE ONESTI 619 NON DOTATO PER IL DOLORE 621 [...] PIENA GUARIGIONE 699 PIOGGIA BUIA 701 PIÙ FELICITÀ 703 POLIANDRIA 705 [...] SAN VALENTINO 785 SARDINE E SGOMBRI 787 SARTRE, CAMUS, CERDAN 789 [...] TESTA IN SECCA 871 TI AMO 873 [...] UNA SCIARPA GIALLO LIMONE 957 [...] NOTA SU (METÀ) DELLA TRADUZIONE 1018 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Sono un insegnante. Rimprovero i miei alunni come fa un capo con i dipendenti. Se avessi ereditato un bel patrimonio da mio padre, invece di questo bilocale grande come un paio di vasetti di yogurt, non dovrei subirmi la loro giovinezza radiosa e rivoltante per un cinquantenne mezzo sgangherato già avviato verso la vecchiaia e la morte. Il liceo dove insegno si trova in un quartierone borghese della capitale. I genitori non si preoccupano per niente del rendimento dei loro bei rampolli. Bastano le loro conoscenze, e a fine anno il preside riceve una telefonatina imperativa da un ministro o magari dal consiglio scolastico, che gli ordina di farli promuovere alla classe successiva. Nonostante tutto, amo il mio lavoro. Per le vacanze, gli scioperi, i congedi per malattia. Inoltre, posso fare lezione mezzo sbronzo senza che mi arrivi il minimo rimprovero dai piani alti. Quindici anni fa, ho incontrato in sala professori una collega di fresca nomina. Abbiamo fatto l'amore nei bagni della palestra. Andavamo al ritmo delle flessioni che facevano gli alunni seguendo i colpi di fischietto dell'allenatrice. Siamo venuti mentre tiravamo lo sciacquone per coprire il rumore dei nostri gemiti. Ci siamo sposati il mese dopo per motivi fiscali. Oggi ci sentiamo raramente, per telefono. Non è proprio matta, ma per come è combinata ha bisogno di un ricovero all'anno. Ha dei rapporti squallidi con altri malati che forniscono prestazioni deplorevoli a causa degli psicofarmaci. Benché non abbia nessun problema di tipo pratico, e il cibo sia decente, le capita comunque di emettere una lamentela che sembra il primo tiro di una sigaretta infinita, e sembra che lei mi sbuffi tutto il fumo in faccia. Riattacco per paura di buttarmi giù. Sono già abbastanza depresso tra le maree di birra e gin. È da tanto che faccio a meno del sesso. L'alcol mi piace di gran lunga di più, è anonimo, muto, basta aprire la bocca per raggiungere l'ebbrezza, l'estasi, l'orgasmo stupefacente degli ubriaconi. Pazienza se mi fa toccare il fondo. E pace per quelle nausee mattutine che mi fanno sentire come se mi avesse ingravidato durante la notte. | << | < | > | >> |Pagina 31New York City, Usa. Ancora una torre che un aereo ha appena scapitozzato all'altezza del quarantaduesimo piano. Non bene per noi, ci accuseranno sicuramente di aver permesso all'11 settembre di riprodursi un 14 aprile. Magari è un incidente. Un pilota avrà mancato l'aeroporto Kennedy, e avrà provato ad atterrare sul tetto. I pompieri, se la sbrighino loro, qui mica sono le pompe funebri. Siamo ancora più apolitici delle nostre pistole, e non dobbiamo impelagarci in questi pasticci. Tizi armati fino ai denti che si nascondono nei tunnel scavati nelle montagne, e, perché no, in fondo al lago Michigan. «Non siamo sommozzatori». La vita è già abbastanza dura. I bambini che non fanno un cavolo a scuola, una moglie alcolizzata, una madre obesa, e con quest'aria condizionata scassata del piffero che va a gogo e mi fa venire la goccia al naso. Credetemi, ci sono giorni in cui scambierei volentieri la mia vita con una jeep per andare a fare un giro in Arizona. «Ed ecco che ricomincia». Tre elicotteri che sfondano l'Empire State Building. Ancora un simbolo dell'American way of life che va a puttane. Farebbero prima a radere al suolo la città in un colpo solo. Che ci trasferiscano nel Wyoming. Se ne fregano i terroristi del Wyoming, credono che sia una marca di reggiseni. Laggiù giocheremo ai cow-boy, e staremo in pace. Non ce la piglieremo con i terroristi, ma uccideremo vacche. Almeno saremo sicuri di non mancarle. Non siamo degli intellettuali. Confondo ancora le p e le q quando sono ubriaco. Mio padre era uno tutto d'un pezzo. Il vero piccolo Bianco coi paraocchi, Ku Klux Klan e compagnia bella, che picchiava ogni sera mia madre con la scusa che era di colore. Non che io venissi rispettato di più. Una mozzarella affumicata, ecco cos'ero. «Fai vergogna al mio sperma». A parte questo, un brav'uomo. Si schiantava di lavoro per farci trovare qualcosa nel piatto. Il suo vecchio aveva conosciuto la crisi del 1929, sapeva il valore del lavoro. A quattordici anni mi ha sbattuto fuori sparandomi dietro con la sua Winchester, per farmi vedere il mondo e imparare la vita. È vero che ho vagabondato abbastanza prima di diventare sbirro. Mi sono anche fatto tre anni di galera a Lampoc per aver fatto fuori un vecchio hippy che si fumava pure il cappello. Capite bene che Guantanamo mi fa un baffo. Da noi non ci sono mai stati diritti umani negli hamburger. | << | < | > | >> |Pagina 37«Nel nostro palazzo non è tollerata alcuna sessualità». I vigilantes possono spuntare i qualsiasi momento per verificare secchezza delle vulve e mollezza dei peni. Il medico di zona è a disposizione dei giovani e degli adulti erotomani per somministrare un'iniezione che sederà la loro libido. In caso di crimine, l'espulsione sarà immediata e definitiva. A causa di una polluzione notturna, una famiglia di alti funzionari dello Stato si è ritrovata sul marciapiede con mobili e vestiti per il giorno di Tutti i Santi. «Andate a stare in un bordello, piuttosto». Sono scomparsi a testa bassa, e doverosamente denunciati a nostra cura, sono stati deportati in un paese soggetto a terremoti in cui le scosse telluriche a quest'ora devono aver ricoperto i loro squittii e i loro rantoli. I nostri appartamenti sono abitati da gente felice. Qualsiasi persona affetta da un acceso di tristezza è tenuta a segnalarlo a un guardiano, prima di andarsene immediatamente. Le vittime di un raffreddamento, di un'indigestione, di un qualunque malessere, non devono ulteriormente contare sul nostro lassismo. Una malattia, sia pur benigna, comporta disordini devastanti quanto un coito. Lo stesso vale per il sentimento d'amore e per l'affetto, che ben lungi dal migliorare i rapporti tra gli esseri umani, non fanno che renderli appiccicosi, malsani, deleteri come quelle paludi in cui se non si muore impantanati si viene assaliti da zanzare che si incaricano di trasmettere un male di cui si morirà paralitici. Se amate qualcuno, uomo, donna, bambino, bestiola di qualunque genere, siete liberi di scegliere la distruzione e la morte, ma da noi ci se ne guarda bene come dal gettarsi a testa in avanti dentro una caldaia a gasolio. «Qui non tolleriamo gli svaghi». Niente tivvù, niente radio, nessun apparecchio elettronico ha diritto di cittadinanza. Bambole, peluche, giocattoli di qualsiasi tipo, sono banditi. Serate e giorni festivi sono dedicati alla manutenzione degli appartamenti. Pareti e infissi devono essere completamente ridipinti una volta al mese. In gennaio ogni famiglia dovrà laccare di nero tutte le stanze. Il colore imposto in febbraio sarà affisso all'ingresso tre giorni prima della data prevista per l'inizio dei nuovi lavori. Lo stesso accadrà nei mesi a seguire. «Vernici, spazzole e rulli sono a carico degli inquilini». | << | < | > | >> |Pagina 47«Sono educato, ma si tolga dalla testa che io possa sopportare la sua arroganza per tutto il pomeriggio». Il mio salotto non è un confessionale, né lo studio di uno psicanalista. La sua storia non mi interessa nel modo più assoluto. Tra dieci o vent'anni se le fa piacere la potrà imporre ai suoi nipotini invece di ingozzarli con i racconti di Perrault. «No, non può fumare a casa mia». Tenga presente tra l'altro che i bagni sono stati murati ai tempi della Rivoluzione, e il frigorifero è stato allucchettato da Luigi XVI il giorno prima di essere ghigliottinato sull'attuale Place de la Concorde. Resti in piedi, non ho comprato quella poltrona perché lei ne schianti le molle prematuramente. E non si appoggi allo schienale, rischia di lasciare la traccia indelebile delle sue zampe da gorilla. Non guardi il gatto in quel modo, e soprattutto non si azzardi a carezzarlo. «È cattivo come la rogna». Smetta anche di fissare quel tappeto, rischia di scolorirlo e di ingarbugliare i suoi arabeschi. Inoltre non pensi che le tende siano state messe con grande spesa per permetterle di spiare come un maniaco il seno nudo di una donna che fa il bagno senza costume in una caletta. Il parquet è fragile, i suoi scarponi lo graffiano quando si agita, e mi sembra così taccagno da rifiutarsi di pagare il conto quando per colpa sua sarò costretto a farlo lucidare di nuovo. «Mi chiedo come diavolo le sia venuto in mente di venire a trovarmi». Giusto ieri ho detto in tivvù quanto detesto le visite. Lei sostiene di essere un mio amico d'infanzia, ma anche a quell'epoca non ricordo di essere stato così bizzarro da lasciar intendere a un qualunque moccioso di essermi amico. Sappia che conto i miei amici sulle dita di una sola mano, e amo la gente quanto lo scorbuto. «Quanto alle donne, sono rimasto vergine». Non mi masturbo nemmeno, il mio sesso in erezione mi ricorda troppo un ridicolo pulcinella con il cappello rosso, e lo trovo importuno quanto quei rappresentanti appiccicosi che vanno tutti i giorni a tormentare i diabetici. «Non sorrida». Non si sorride a casa della gente esattamente come non si fuma. E soprattutto non si azzardi a ridere, non farebbe che fomentare la mia voglia di tagliarle via la calotta cranica con una sciabolata. «Se ne vada o la faccio fuori». E infine, le ordino di non leggere più nessuno dei miei libri. E non si dimentichi di buttare via tornato a casa tutti quelli che ha avuto l'impudenza di allineare nella sua biblioteca. | << | < | > | >> |Pagina 275Grazie al telelavoro, vivo come un principe in un paese sottosviluppato dell'Africa occidentale. Ho due domestici, mentre in Europa ero ridotto a pulire casa da solo e a stirarmi le camicie. Avevo un budget limitato per divertirmi, e per quanto offrissi da bere alle ragazze nei locali notturni, verso le quattro del mattino loro se ne andavano con un altro. Non sono mai stato così affascinante, anche se non sono veramente brutto. Credo anche che molti uomini sgradevoli sarebbero felici di barattare il loro volto con il mio. «Adesso faccio l'amore ogni volta che mi va». Mi basta passeggiare pochi minuti per le strade di Dakar per scegliere una nuova bellezza che nella serata mi faccio come una crespella di manioca. Loro apprezzano talmente la cena che precede i nostri spassi da non volermene per un'eiaculazione così precoce da potersene liberare con un colpo di spugna sul pube. Poi do loro la mancia per prendere un taxi e sloggiare. Non sembrano sorprese, come se prevedessero fin dal nostro incontro di essere mandate via dopo il mio orgasmo. «La mia vita sessuale mi soddisfa pienamente». Non ho nessuna vocazione alla filantropia, e non vedo perché dovrei preoccuparmi di condividere il mio piacere con chicchessia. Il mio piacere che qui è al suo meglio come in una festa, anche se intorno si muore e se l'acqua della mia vasca potrebbe impedire a un'intera famiglia di morire di sete. Non mi riconosco nessun altro dovere tranne quello di prosperare, e di non angustiarmi per la sorte degli altri se non nella stretta misura in cui potrebbe compromettere la mia. «Qualche secolo fa i vostri antenati facevano la tratta degli schiavi». Poi vi siete astenuti dal restituire la fortuna che avevano costruito commerciandoli. Avete anche conservato il titolo nobiliare che i vostri gloriosi avi avevano potuto all'epoca comprare per il prezzo di un carico. Io avrei potuto essere nella stiva di una delle loro navi, e mi avrebbero buttato in mare alla minima febbre per evitare che contaminassi il resto della mercanzia. Non conta che io sia nato bianco nel 1976. Avrei potuto nascere pellerossa nel 1804, prostituta gialla sotto la dinastia Ming in un bordello di Pechino o nero in uno zoo umano all'inizio del XX secolo. La roulette delle razze, dei sessi e del tempo ci ha distribuiti a caso. Non si può chiedere a dei numeri tirati a sorte di essere solidali gli uni con gli altri, o di provare compassione per le cifre più deboli. Io sono la mia unica patria. «Se un giorno dovessi rischiare la vita, sarebbe per salvarmi la pelle». | << | < | > | >> |Pagina 295«Sono Adolf Hitler». Dovete aver sentito parlare di me alla tivvù, o addirittura vi siete consumati studiando gli eventi che hanno segnato la mia esistenza dopo avermi scelto come oggetto del vostro esame orale finale a scienze politiche. Sono un mostro, sono il primo a riconoscerlo, e non chiedo ai posteri di concedermi la grazia. Quando sono morto mi sarei volentieri arrostito all'inferno insieme alla mia guardia del corpo, ma come ha scritto Giovanni Paolo II all'inferno non c'è nessuno. «Nemmeno Giuda». Con mia grande sorpresa mi sono quindi ritrovato in paradiso, e a forza di sotterfugi sono riuscito a infilarmi fino alla destra del Padre. Non dispero di fomentare un giorno un colpo di Stato, e di poter a mia volta esercitare la magistratura suprema. Come all'epoca della Seconda guerra mondiale, avrò il Papa e il popolo cristiano ai miei piedi, e i fedeli più anziani si ricorderanno con nostalgia il tempo in cui potevano così facilmente guadagnarsi la vita ricorrendo all'antisemitismo e alla delazione. Si prosterneranno, e nonostante l'artrite tenteranno di scalare la croce sulla quale io avrò ormai sostituito il Nazareno, per baciare con passione i miei baffi con il fervore degli storpi che baciano i piedi della Vergine prima di essere spediti nella piscina dove solitamente annegano. «Non commetterò più gli stessi crimini». Mi contenterò di perpetuare l'opera della Santa Madre Chiesa trascinando l'umanità in un crescente oscurantismo. Incoraggerò i vescovi a scomunicare le ragazze madri come si faceva una volta, e a organizzare sedute sadomasochistiche come negli anni d'oro dell'Inquisizione. Per riconoscenza verso quella gioventù che mi ha sostenuto fin dentro il bunker, vorrei un Papa che si sia fatto le ossa nella Hitler Jugend. Ricorderò con emozione quella mattina del 1943 in cui gli avevo scompigliato i capelli con gesto paterno per incoraggiarlo a diventare un vero nazista. Mi obbedirà come un bastone nelle mani di un vecchio, e ogni anno decreterà una giornata di lutto per commemorare l'anniversario del mio suicidio. La basilica di San Pietro suonerà a distesa il rintocco funebre del suo nuovo Signore, e riecheggerà allegramente il giorno della mia rettilinea ascensione dalla Berlino in fiamme del 30 aprile 1945 al paradiso eterno in cui gli impresari dell'assassinio vengono accolti come il figliol prodigo. | << | < | > | >> |Pagina 351«Un furto, non un omicidio». Una camicia a cui tenevo molto. Devono essere entrati dalla finestra della camera. Una bella camicia a righe che porto piuttosto regolarmente da una decina d'anni, e che sembra nuova come se fosse ancora in vetrina. Ne parlo al presente, come se si trovasse tuttora nella mia valigia. Ma temo che non la rivedrò mai più. Lei mi dice che la direzione mi rimborserà, ma ormai i tessuti sono d'importazione cinese, e non potrò mai più ricomprarne una uguale. Senza contare che alla lunga le camicie finiscono per amarti, e quando le scegli la mattina in mezzo al mucchio, con il loro modo di frusciare quando le apri si sente benissimo che ti stanno facendo le feste come i cani. Non hanno occhi, ma sembra che i bottoni ti guardino con tenerezza e che accettino docilmente di alienare la propria libertà lasciandosi abbottonare dalle tue dita per cui provano un vero affetto. La camicia è il più caro di tutti gli indumenti. Non ha l'arroganza delle mutande, la meschinità dei calzini, né la canaglieria dei pantaloni che si sgualciscono al minimo battibecco con i sedili della macchina. Quanto alle scarpe, non hanno nessun amor proprio e sono sempre pronte ad avvilirsi accusando i piedi di logorarle. Non credo di dirle niente di nuovo ricordandole che i cappotti sono altezzosi, sbruffoni come ombrelli, e cercano di volare via alla minima ventata. «Mi creda, solo le camicie sono le nostre vere amiche». Compagne fedeli. Vivono come in un harem nel guardaroba, senza ingelosirsi, senza avercela con te quando le abbandoni sotto una pila per anni. Sanno che siamo buoni padroni e che finiremo per accordargli di nuovo i nostri favori. Allora sono assai fiere di uscire dall'oscurità in cui per capriccio le avevamo affondate da così tanto tempo. Del resto non è raro che gli si rizzi un po' il collo, come la fronte di un marchesino gonfio d'orgoglio. «Non le ha mai viste fare il bagno». Si tuffano nel detersivo con la grazia di una bagnante di Ingres o di Auguste Renoir. E si mettono subito a sguazzare, a intrecciarsi, a rannicchiarsi, come ragazzine che saltano di gioia in un baule messo in mezzo al prato in un giorno di giugno. «E quando girano nell'asciugatrice». Sembrano gattini che giocano. Ma gattini pieni di spirito, brillanti, a volte perfino ironici come il vecchio Socrate. Sotto il ferro da stiro, si mostrano di nuovo piene di dignità, e accolgono la piastra del ferro con la riconoscenza di un prode cavaliere a cui il re dà una pacca sulla spalla con il piatto della spada immersa a Costantinopoli nel sangue del Graal. «Con quella camicia intrattenevo rapporti filiali». Anche a brandelli, la supplico di ritrovarla. Che io possa almeno assicurarle una dignitosa sepoltura. | << | < | > | >> |Pagina 361«Ancora una giornata di scrittura». Sofferenza e vomito. La letteratura è la quintessenza del pensiero e del dolore degli uomini. Per scrivere, sono costretto a farmi attaccare al mio computer con le catene, e un guardiano mi colpisce ogni volta che, spossato, alzo le mani dalla tastiera. Le frasi che poco per volta strappo al niente sono pesanti come palle di ferro, e le metto una dopo l'altra nella mia gerla, il cui peso non tarda a indolenzirmi e a spezzarmi la schiena. Quando finalmente me ne libero, è solo a frustate che riconquisto quella baracca interiore in cui mi rifugio tra un capitolo e l'altro. Là, sdraiato sul mio giaciglio, remando nella galera dell'insonnia, finisco per affondare in un sonno acido come l'aceto del quale di solito si fa un uso gastronomico. Un sonno agitato dagli incubi della sintassi, mentre, nodosa e scura, la lingua francese strazia le mie ferite e l'ortografia brucia sotto le mie unghie come le bacchette ardenti di una tortura cinese. Un rumore di macchina da scrivere mi sveglia ogni mattina, e la domenica è lo stridere di una penna d'oca che macera i miei timpani come zanne taglienti. «Mascelle da tragedia greca». A colpi di randello, vengo trascinato in bagno. Faccio una doccia d'inchiostro, e mi rado con la lama affilata di una metafora immersa nella crudele acqua della coniugazione. Poi c'è l'appello nel cortile ghiacciato da ventilatori che soffiano la brina, la grandine, e la robusta neve che arrossa, nonostante passamontagna e berretti, i visi degli sciatori nel mese di febbraio. I miei colleghi terrorizzati sono schierati come me. Piangono. I più giovani sono poco più che bambini, si soffiano con le dita il naso da cui esce ancora il latte saturo di consonanti del tempo in cui erano ancora bebè. Alcuni sono vecchi, e ai meno vigorosi si spacca il cranio a colpi di bastone. Il terribile bastone dello stile, irto delle punte taglienti della metafora. «Di corsa». E ognuno torna nel suo studio, e al banco a cui sono appese le parole ancora brucianti, perché i lessicologi le hanno forgiate nella notte, che dovremo assemblare fino a sera, con la minaccia di essere torturati nella camera dei superlativi, dove il boia ingozza i condannati fino a fargli esplodere la pancia. «Dura giornata per lo scribacchino, sterratore della lingua». | << | < | > | >> |Pagina 473«Un lavoro non è qualcosa di dovuto». È un favore che occorre meritarsi come una borraccia d'acqua quando ci si è persi in mezzo al deserto. Presto si dovrà probabilmente pagare caro per ottenere un posto e uno stipendio. Senza lavoro, si perde subito la propria dignità di uomo, e si diventa simili a uno di quei gatti di strada che le vecchie matte nutrono a rischio di farsi graffiare. Dopo la disoccupazione arriva lo sfratto dall'appartamento di cui non si paga l'affitto da sei mesi. L'ospitalità da parte di un amico dura solo un po' perché presto lui si stanca di quel corpo addormentato sul divano letto che occupa tutto il salotto. «Se i genitori sono ancora vivi, si può tornare da loro». La camera di quando si era un ragazzo è sempre in fondo al corridoio, ma è stata trasformata in laboratorio di bricolage. Il sonno davanti al banco da lavoro, su un materassino, con l'odore di colla, la vicinanza di trucioli e segatura, non varrà mai quanto una bella notte su uno yacht con la più bella ragazza di Saint-Tropez. «I genitori non ci mettono tanto a considerare il periodo troppo lungo». Finiscono per brontolare che si prende la carne due volte e che si beve il vino come fosse acqua. Una volta tagliati i ponti con la famiglia non resta che andare in giro per la città. Mentre si dorme in una stazione ci rubano la borsa in cui si teneva la roba da toilette e qualcosa per cambiarsi. Due giorni dopo la sporcizia ci ha già avvolto come una colata di caramello. Da dirigente che si era si è diventati un barbone. «E non è certo tremando in quel modo sulla sedia che mi convincerà ad assumerla». Un colloquio di lavoro ha qualcosa della danza nuziale praticata da alcuni cetacei. Lei deve sforzarsi di sedurmi dandomi l'impressione di girarmi intorno come un carosello di delfini. Non dimentichi che altri trecento candidati aspettano che lei morda miserevolmente la polvere. Se non si sa vendere, venderà talmente male i nostri prodotti da farci perdere quote di mercato. «Vedo che è divorziato». Non è un fattore di equilibrio. Ci siamo sentiti autorizzati anche a chiamare la direttrice della scuola che frequentano i suoi figli. Non ci piace avere come collaboratori genitori di alunni indisciplinati. E come se non bastasse, uno di loro soffre di una malattia genetica. Noi detestiamo i funerali, privano l'azienda di mezza giornata di lavoro. Quanto agli impiegati depressi che si permettono di rovinare l'atmosfera di una riunione, li cacciamo via. «Per non ingannarla, non penso che lei abbia il giusto profilo della persona che cerchiamo». | << | < | > | >> |Pagina 479Ti lascio i bambini, la casa e le due macchine. «Prendo il tavolino dell'ingresso». Ci tengo molto, me lo ha dato mia madre. Ti lascio i libri della biblioteca, puoi sempre provare a vendere quelli autografati a un libraio. Me ne vado con il cane e la scatola di caviale che ho comprato la settimana scorsa per il nostro decimo anniversario. Ti faccio grazia dei miei vestiti, dei tre cappotti, dei calzini, delle scarpe e della biancheria intima. «Tanti saluti». Mi chiudo la porta a doppia mandata dietro le spalle. Lei tornerà da Megève con i bambini alla fine della settimana. Non la rivedrò più e non rivedrò nemmeno i bambini. Non rivedrò più nessuno, tranne il mio viso quando dovrò stare in piedi davanti allo specchio per evitare di tagliarmi con il rasoio. Prima di lasciare l'edificio, rompo a metà il tavolo e lo butto nel cassonetto della spazzatura con il caviale. Mi sbarazzerò domani del bastardino alla Protezione animali. «Dirò che l'ho trovato per strada». Sabotare la propria vita, mandare all'aria la propria famiglia. Tutti ci pensano prima o poi, e quelli che lo fanno davvero, uccidono, bruciano e concludono la festa saltando a piedi uniti nel fuoco. Io ho preferito l'eutanasia. Naturalmente, mia moglie e i miei figli continueranno a vivere, forse saranno anche più felici di prima. Ma la nostra famiglia non esisterà più. «L'idea mi è venuta stamattina mentre facevo la doccia». Sono un uomo impulsivo. Da bambino rompevo i giocattoli quando mi sembrava che mi guardassero storto. Non davo loro scampo, e non vedo perché avrei dovuto rispettare queste persone più di un trenino elettrico o di una scatola di Lego. Quando si rompe con qualcuno, non si esita a farlo fuori con una frase dura e liscia come una pallottola. E si passa alla faccenda successiva senza guardarsi indietro. Non si vuota un bicchiere il cui contenuto all'improvviso ci disgusta. Una famiglia è un liquore che a forza di sbronzarti dà i postumi della sbornia. Un liquore che si diluisce nel tempo, che fa venire voglia di vomitare senza mai offrire l'ebbrezza, quella piccola gioia quotidiana degli ubriaconi. «Una stanza con vista sulla stazione». Sdraiato sul letto, non vedo niente. Ma mi basta sedermi per immaginarmi al posto delle rotaie. Ho l'impressione di quadrettare la terra, di smistare un numero infinito di treni che si intersecano. Stringo il pianeta come una calza. Quando tornerò a casa, spiegherò loro che avevo bisogno di cambiare emisfero. «La schizofrenia è un viaggio che mi concedo di tanto in tanto». | << | < | > | >> |Pagina 581Quando mi sono alzato, erano appena le sei del mattino. C'erano delle nuvole, ma il sole cominciava a spuntare. Sapevo già che avremmo avuto una di quelle belle giornate di settembre che fanno venir voglia di lasciare il lavoro e prolungare le vacanze fino alla fine del mese. Dormivi ancora, ho preso la bicicletta per andare a comprare il pane in paese. Il mare era calmo, le barche immobili, attaccate alla loro boa come cani docili. La fornaia mi ha detto che eravamo tra gli ultimi villeggianti. La domenica suo marito faceva al massimo una trentina di torte. «Altrimenti ci avanzano». Non mi ero portato il costume da bagno. Devo rinunciare a un tuffo tra le rocce. Avremmo potuto ripulire uno di quei fortini che le onde sommergono nei giorni di tempesta. Ci avremmo dormito qualche notte per dimenticare il rumore delle macchine, come nelle capanne che costruiscono i bambini per sentirsi come i naufraghi. Certe notti, quelle in cui facciamo l'amore. L'amore selvaggio, l'amore come una guerra, da cui alla fine usciamo vincitori entrambi. «Il nudismo è vietato sull'isola». Una signora anziana che mi fissa mentre mi rivesto. Mi urla insulti in bretone, poi se ne va sulle sue gambe corte di cui una è zoppa e da lontano le dà l'aspetto di una ballerina grassa che sperimenta un nuovo passo. «Svegliati, ho appena fatto il caffè». Continui a dormire, e quando ti scuoto rimani in posizione fetale. Ho paura che tu sia morta, si può morire nel sonno quando scoppia una vena nel cervello. Ma ti stiracchi, sbadigli, e sorridi mentre mi guardi. Ho l'impressione che oggi non litigheremo, che ci lasceremo scivolare giù dolcemente fino alla sera. Da quindici anni viviamo tranquilli e spensierati. «Raramente, è vero». Non siamo come quegli ingordi che la felicità finisce per disgustare per quanto se ne ingozzano. La apprezziamo come un eccellente champagne che non si beve più di una o due volte l'anno. Prendi il caffè in silenzio. Spengo la radio. Taccio. «Ci sono momenti così fragili che una sola parola li rovina». | << | < | > | >> |Pagina 679«La casa editrice mi mandava in giro come una pallina da flipper». L'opinione pubblica non mi aveva ancora consacrato il più grande scrittore di tutti i tempi. Bella rivincita oggi vedere Rabelais supplicarmi di accettare di disegnargli una giraffa, e respingere con un accenno di disprezzo la bocca di Racine che cerca in ginocchio di baciarmi la mano durante un banchetto. Respingo a bacchettate i Faulkner, i Céline, i Malaparte, che vanno a godere di vergogna su un divano. Gli accademici li infilzo, e i rari sopravvissuti adorano in Quai Conti la mia spada insanguinata, come ci si prostra davanti a una reliquia divina. Non dimentichi che è solo per cortesia che lei ha accesso a questo testo, e spero che prima di leggerlo abbia fatto le abluzioni e digiunato qualche mese come si addice a un asceta amante del Verbo. «Malgrado la mia gloria, sono rimasto molto umile». Ma non mi chiami mai più Régis Cacanet. Riconosco volentieri che la mia fama può irritare qualche bisognoso del genere Marte e Nettuno che non si sono mai ripresi dall'essere soltanto pianeti poco alfabetizzati e completamente incapaci di scrivere la minima fiaba di Perrault. Riconosco anche che a forza di abbagliarlo le mie pagine hanno reso cieco Omero, e che la potente musicalità della mia frase ha potuto rendere sordo Beethoven. Lo riconosco, ma mi faccia la grazia di non affibbiarmi più quell'umiliante nomignolo. Il mio nuovo pseudonimo. «Pene Geoffroy». È già abbastanza peso da portare. Il mio editore pensava che avrebbe attirato i lettori sempre pronti a prendersi gioco dei grandi uomini, come i prefetti del loro ministro. Ahimè, al contrario, questa manovra ha fatto cilecca, e i miei lettori non hanno tardato a sfaldarsi. Mi conoscerà d'ora in poi con il poco lusinghiero nome di Cazzo Culet, poi per gli stranieri diventerò Canis Dong, nella speranza di attirare i cinesi. Sono pronto a cadere anche più in basso per pagare i debiti. E poi ho veramente bisogno di cambiare macchina. «Una vecchia Lada». Morta parecchio tempo fa a capote aperta su un'area di sosta dell'autostrada. Vorrei anche avere i soldi per parcheggiare mia moglie in un canile e per comprarne un'altra da un proctologo. Mi servirebbe una moglie in buona salute, e soprattutto così allegra da permettermi di fare a meno di tutti questi farmaci contro la defenestrazione. Ma, anche se sono iscritto alla previdenza sociale, ho sentito dire che questo acquisto non verrebbe mai rimborsato. «Con il mio corpo tarchiato». Con i miei occhi color disincrostante, i capelli brizzolati e unti, nessuna donna accetterà mai di sposarmi per amore. Senza contare il fatto che passo per essere piuttosto stronzo, e che gli scrittori disgustano sempre un po' visto quanto puzzano di parole, di sudore e di quell'odore di vanità che fluttua nelle vetrine delle librerie. | << | < | > | >> |Pagina 709«I bambini mangiano a mensa a mezzogiorno». La sera troviamo sempre qualcosa da fargli sgranocchiare. Il caffeuccio di Rue Budin accetta di darci gli avanzi invece di buttarli nella spazzatura. È chiuso la domenica e il lunedì, ma noi teniamo sempre del riso e delle patate di riserva sul davanzale. D'estate il sole fa marcire tutto, proviamo a tenerli dentro, in un piatto posato sul fondo di una bacinella riempita a metà di acqua fredda che cambiamo il più spesso possibile. Viviamo in un locale di una casa occupata. Vediamo certe volte correre un ratto che cacciamo con una scopa. Gli altri che ci vivono sono più giovani di noi, e molti sono solo di passaggio, il tempo di passarsi la droga o di bucarsi. Da un mese, una giovane donna con un neonato si è rifugiata nel seminterrato nell'ex locale dei cassonetti condominiali. Le abbiamo procurato un sacco a pelo e diversi cuscini recuperati in un camion dell'immondizia. Viene a trovarci ogni sera. Due volte a settimana va all'ambulatorio, ma il suo bambino è sieronegativo. Ci ha detto che è sempre stata allegra sin dall'infanzia. «Allora, continuo». Ride e tira fuori dalla tasca delle compresse di vitamina C all'arancia che l'infermiera le ha dato la mattina, e ce le offre come fossero caramelle. Avrebbe preferito che il padre del bambino fosse rimasto con lei, ma si consola pensando che magari è tornato in Africa per occuparsi delle sorelle e dei genitori. Ci racconta del suo pomeriggio alla Fnac, dove, quando il piccolo non piange troppo, può guardare un film intero su uno schermo gigante. «Ma spesso l'audio è muto». Prima di venire qui, viveva in un ricovero. Di notte qualche volta le rubavano i vestiti, i soldi nascosti sotto il cuscino, e persino le sue medicine che sarebbero potute benissimo essere scambiate per droga. Era scappata via a inizio maggio, quando una donna aveva dato un calcio alla culla e le era saltata addosso per strangolarla. Faceva caldo, ha potuto vivere per strada qualche giorno. Poi la temperatura è crollata di dieci gradi nell'arco di una giornata, e ha avuto la fortuna di trovare questo immobile con la porta sfondata. Si è installata in una stanza a pianterreno, ma una coppia l'ha minacciata con un coltello per prendere il suo posto. Si è ritirata di sotto. «Ma dalla finestrella i raggi del sole entrano comunque». Quando vede che abbiamo sonno, se ne va mandandoci un bacio con la punta delle dita. Noi ci corichiamo sul materasso. Sentiamo di avere la fortuna di essere in due, e soprattutto di essere uniti. | << | < | > | >> |Pagina 717«Apparteniamo al ceto medio». Percepiamo redditi proporzionati alla nostra intelligenza, che, se è lontana dal fare schifo, non è affatto superiore alla vostra. Sono solo i cervelli di lusso che, giustamente, arricchiscono chi li indossa. Noi ci dobbiamo accontentare di un alloggio dignitoso, ma modesto. Di una sola macchina senza optional che possiamo cambiare soltanto ogni cinque anni. Di un bastardino, un sacco di pulci privo di alcun valore di mercato raccattato nel bosco una domenica. Quanta ai nostri figli, hanno un quoziente intellettivo simile al nostro, e non sono mai stati famosi per la loro grande bellezza. Anche i nostri genitori, da entrambi i lati, sono opachi come noi, e quando si ammalano non si aggiudicano mai un cancro o un infarto. Moriranno una volta raggiunto il limite dell'aspettativa media di vita che in quel momento sarà decretato dagli statistici. Dopo costose ricerche genealogiche, abbiamo potuto assodare che sin dall'XI secolo le nostre famiglie si sono sempre crogiolate nella mediocrità, e che, tra i nostri antenati, non risulta nemmeno un geometra o un capo qualunque. «Vorremmo essere ambiziosi». Ma sappiamo in partenza che sarebbe fatica sprecata. Quelle poche volte in cui abbiamo ceduto alla tentazione di prodotti esclusivi, come profumi di stilisti importanti o terrine di foie gras, puzzavamo così tanto ed eravamo talmente nauseati che tornare all'acqua di colonia e ai maccheroni al formaggio ci è sembrata una vera liberazione. Non ci piacciono nemmeno i viaggi, perché le hostess ci mettono in soggezione e in albergo ci sentiamo in dovere di rifarci la stanza tutte le mattine. Per questo, restiamo a casa per le vacanze, e per tenerci impegnati rovesciamo la spazzatura sul balcone. Il giorno dopo ci tocca ripulirlo, passarci lo straccio, e quando è asciutto allagarlo con bricchi interi di minestre precotte. Non siamo intellettuali, e se non ci imponessimo queste piccole corvée, ci annoieremmo al punto tale da farci venire le convulsioni. «Forse gli zotici direbbero che siamo dei poveri scemi». Ma vorrei ricordare loro che siamo comunque un campione rappresentativo della popolazione generale. | << | < | > | >> |Pagina 743«Sono un medico di quartiere». Mi svegliano la notte per un taglio, un'acidità di stomaco, o un principio di calvizie. Si dà il caso che riesco a dormire solo prendendo dei sonniferi. Arrivo all'auto con le gambe che mi tremano. Tengo il volante facendo del mio meglio, ma siccome non mi accorgo dei semafori rossi, mi capita di investire un pedone attardato. Gli presto i primi soccorsi con quel che ho dentro la mia valigetta, poi lo metto sul sedile posteriore e lo mollo davanti al pronto soccorso dell'ospedale più vicino. Preferisco conservare l'anonimato, perché anche se sono massone, alla lunga finirebbero per levarmi la patente e quindi per privarmi del mio mezzo di lavoro. Rispetto troppo i miei pazienti per abbandonarli al primo ciarlatano, o alla guardia medica che di notte tira a far ciccia per arrotondare lo stipendio. «Alla Loggia non mi vedono bene». Probabilmente nei prossimi mesi mi radieranno. Hanno delle antenne al Quai des Orfèvres. Laggiù sono sospettato di spacciare morfina e di far testimoniare a mio favore di tanto in tanto un vecchio malato quando comincia a perdere la testa. Non nego i fatti. Pratico anche iniezioni di curaro quando una famiglia ne ha abbastanza di avere a carico un ragazzo di venticinque anni che fuma spinelli e va a letto con ragazzette tatuate proprio sotto il loro stesso tetto. Al massimo mi prendo una mancia che mi permette a malapena di fare un weekend nel Loiret con mia moglie. In hotel. Perché vi faccio notare che a quarantacinque anni vivo in affitto, e non ho né una casa di campagna né un appartamento in Costa Brava. «Dopo otto anni di studi, converrete che non è il massimo». Eppure ho così tanta passione per il mio lavoro e ho perso il conto delle persone che mi devono una ricetta medica ben compilata, o anche la vita. Non sono uno di quei medici che passano il tempo al cimitero per seguire il carro funebre dei propri pazienti. Mi capita anche, per aiutare una povera donna, di dimenticarmi di farle pagare il prezzo della visita, senza pretendere da lei alcun servizietto come tanti miei colleghi che fanno scena alla radio o negli studi televisivi. «Perché sono credente». So che Dio mi ridarà il centuplo di tutti gli euro che abbono ai poveri. Sono proprio quello che nel XVII secolo avrebbero chiamato un devoto. Quando mi riduco a disobbedire al quinto comandamento, prego a squarciagola affinché intontito dalle mie urla, il Signore non si accorga della pistola che per preservare la sua verginità ficco in bocca agli stronzetti che ronzano intorno a mia figlia. Anche se non mi tiro indietro quando si tratta di curare, non sono il tipo di padre di famiglia che, pur di non uccidere, spinge ineluttabilmente i propri figli sul marciapiede. | << | < | > | >> |Pagina 905«Ti amo». Ha riso. Una risata inestinguibile, come se la mia confessione fosse la lingua di una capra che le solleticava la pianta dei piedi nudi. Mi è sembrata ancora più bella, con i capelli ramati che ondeggiavano sulla sua camicetta azzurra. Volevo baciarla, mi ha respinto dolcemente. Ha continuato a ridere. Ho avuto paura che finisse per soffocare. Sono andato a prenderle un bicchiere d'acqua in cucina. Ne ha bevuto un sorso. Poi mi ha guardato con una sorta di condiscendenza che venendo da lei mi ha colpito. «Sei proprio un buffone». «Ti assicuro che non volevo prenderti in giro». Si è messa il cappotto. «Ti do un passaggio in macchina». «Assolutamente no». L'ho preceduta nel corridoio. Le ho aperto la porta. «Mi dispiace, spero che un giorno mi perdonerai». «Mai e poi mai». Mi ha omaggiato di nuovo della sua risata. Se n'è andata. L'avrei volentieri guardata uscire dal palazzo, camminare per strada, sparire come un felino tra la folla. Ma a causa dei lavori di restauro, la facciata è coperta dalle impalcature. Al mio posto, ti saresti masturbato non appena rimasto solo, pensando al suo corpo interamente depilato che lascia fotografare per varie riviste maschili per pagarsi gli studi di architettura. Sarebbe stato anche facile per te prenderne una nell'armadio di camera mia, aprirla sul letto, sfogliarla, e cercare di intrufolarti furtivamente dentro le immagini come uno stupratore nella stanza di una ragazzina. Ma la rispetto troppo per ridurla a una fantasia. Non mi concedo la minima erezione in sua presenza, neanche quando è solo un po' d'inchiostro su carta patinata. Il nero dei suoi occhi potrebbe vedermi, e le sue mani uscire dalla pagina per strangolarmi. Mi sono seduto in poltrona. Respiravo il sentore del suo profumo, che stava svanendo troppo velocemente. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dall'impronta del suo corpo sul divano dove si era seduta poco prima. Ero felice. Mi aveva lasciato la sua meravigliosa risata. Mi è sembrato che avrebbe potuto portarla con sé uscendo per non lasciarmi nulla di suo, come una moglie trascurata strappa fino all'ultimo chiodo conficcato nella porta del bagno dove oscilla un calendario pubblicitario scaduto da venticinque anni. | << | < | > | >> |Pagina 929Scrivere è diventato un atto così doloroso che non scrivo più. Preferisco sciare d'inverno, e abbrustolirmi sul ponte di una barca durante i mesi estivi. La lettura mi sembra un supplizio quasi uguale, tutte quelle parole, tutti quei caratteri di stampa, che cercano di penetrarti la coscienza per turbare la tua fragile pace interiore infilandoci storie assurde, o piatte come la quotidianità. Non parlo nemmeno di libri scientifici, di filosofia, che somigliano a funerali con le loro formule opache come bare piombate e le loro idee cosparse sulle pagine come strisce di cenere cadute da un'urna. Mia moglie ama il lusso, ha mal sopportato che smettessi di sfornare libri. Non potevamo più cambiare così spesso l'auto, e dovevamo accontentarci di una camera negli hotel in cui gli anni precedenti prenotavamo una suite. Avrebbe voluto che accettassi almeno di produrre soggetti per il cinema o per la tivvù, oppure che vendessi una sceneggiatura di fantasie erotiche a un miliardario pervertito. Era anche pronta a farsi l'amante, e a obbligarmi a collezionare relazioni, per ricavare materia per un vaudeville redditizio. «E perché non chiami una cantante». Avrei potuto buttarle al volo trenta o quaranta parole giù nell'orecchio, e dopo aver sgraffignato qualche nota da un vecchio microsolco, lei ne avrebbe fatto una macchina da soldi che avrebbe rimpolpato il nostro conto. Ma, disgustato come sono dal linguaggio, quando apro la bocca emetto solo monosillabi, e per giorni interi sto zitto. «Sforzati, pensa ai soldi». Esasperata, ha preso la decisione di scrivere al mio posto. I lettori non si rendono conto che i miei libri sono redatti da qualcun altro. Il mio stile è basato su processi ripetitivi, semplici come gli ingranaggi di un meccanismo che basta mettere in moto per produrre testo.
Tra qualche anno, la mia morte non verrà resa nota, così lei potrà
continuare a scrivere la mia opera come se niente fosse. Quando
sarà morta a sua volta, subentreranno i miei nipoti, poi i miei pronipoti, e poi
i loro successori nei diritti. Si dirà che vivo recluso,
centocinquantenario paranoico, murato in una cantina sovralimentata di ossigeno,
e nutrito da una sonda gastrica mentre scopiazzo il
compito in classe come un imbroglione.
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