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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 PRIMA PARTE 1. Il mito della formica regina 23 SECONDA PARTE 2. Marciapiedi 61 3. Configurazioni 87 4. Feedback 113 5. Controllo d'artista 145 TERZA PARTE 6. Lettori della mente 175 7. Stare a vedere che cosa accade 205 Note 213 Bibliografia 241 Ringraziamenti 252 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Nell'agosto del 2000 lo scienziato giapponese Toshiyuki Nakagaki ha annunciato di avere addestrato un organismo ameboide chiamato Dictyostelium discoideum [noto in italiano anche con il nome inglese, slime mold] a trovare la strada più breve in un labirinto. Nakagaki ha sistemato Dictyostelium in un piccolo labirinto composto da quattro possibili percorsi e ha collocato del cibo a due delle uscite. Nonostante sia un organismo incredibilmente primitivo (un parente prossimo dei comuni funghi), senza sistema nervoso centrale, Dictyostelium discoideum è riuscito a trovare i percorsi migliori per il cibo, allungando il proprio corpo attraverso il labirinto così da collegarsi direttamente alle due fonti di nutrimento. Apparentemente privo di risorse cognitive, Dictyostelium ha «risolto» il problema del labirinto. Per essere un organismo così semplice, il pedigree intellettuale di Dictyostelium è impressionante. L'esperimento di Nakagaki è stato solo l'ultimo di una serie di indagini sulle sottigliezze del comportamento di Dictyostelium. Per gli scienziati che cercano di capire i sistemi che fanno uso di componenti relativamente semplici per costruire intelligenza di livello più elevato, Dictyostelium può in certo modo essere considerato l'equivalente dei fringuelli e delle tartarughe osservati da Darwin alle Galapagos. Com'è possibile che un organismo così inferiore sia potuto arrivare a giocare un importante ruolo scientifico? La storia inizia verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, a New York, con una scienziata di nome Evelyn Fox Keller. A Harvard, la Keller aveva presentato una tesi di laurea in biologia molecolare, per la quale aveva esplorato l'allora nascente campo della «termodinamica dei processi irreversibili», che più tardi sarebbe stata associata alla teoria della complessità. Nel 1968 lavorava allo Sloan-Kettering, a Manhattan, dove cercava di applicare la matematica ai problemi biologici. La matematica era stata così fondamentale per ampliare la nostra comprensione della fisica, pensava la Keller, che forse sarebbe potuta tornare utile anche per capire i sistemi viventi. Nella primavera del 1968 la Keller conobbe Lee Segel, un matematico che condivideva i suoi interessi. Fu Segel a introdurla al curioso comportamento di Dictyostelium, e assieme iniziarono una serie di indagini che avrebbero aiutato a trasformare non solo la nostra visione dello sviluppo biologico, ma anche i mondi delle neuroscienze, della progettazione di software e dell'urbanistica. | << | < | > | >> |Pagina 11«Lavoravo al dipartimento di biomatematica dello Sloan-Kettering, un dipartimento davvero molto piccolo», dice oggi la Keller, ridendo. Alla fine degli anni Sessanta il campo della biomatematica era relativamente nuovo, ma era stato prefigurato anni prima da un affascinante ed enigmatico scritto di Alan Turing, il brillante decifratore di codici segreti durante la seconda guerra mondiale, che aveva anche contribuito alla nascita dei computer digitali. Uno degli ultimi articoli pubblicati da Turing prima della morte, avvenuta nel 1954, affrontava l'enigma della «morfogenesi» - la capacità di tutte le forme viventi di sviluppare corpi di complessità barocca a partire da elementi di estrema semplicità. L'articolo di Turing era incentrato soprattutto sulle configurazioni numeriche ricorrenti nei fiori, e facendo uso di strumenti matematici dimostrava come un organismo complesso potesse autoassemblarsi senza l'ausilio di un capomastro che gli facesse seguire un progetto prefissato.«Era da un po' che pensavo alla possibilità di adottare l'aggregazione di Dictyostelium come modello di pensiero sullo sviluppo, quando mi capitò tra le mani l'articolo di Turing», dice oggi la Keller, nel suo ufficio al MIT. «E pensai: tombola!». Da qualche tempo i ricercatori avevano capito che le cellule di Dictyostelium emettono una sostanza chiamata acrasina (nota anche come AMP ciclico), in qualche modo coinvolta nel processo di aggregazione. Ma fino a quando la Keller non iniziò le sue ricerche, l'opinione convenzionale era che gli sciami di Dictyostelium si formassero al comando di cellule «pacemaker» che ordinavano alle altre cellule di cominciare ad aggregarsi. | << | < | > | >> |Pagina 13L'intuizione della Keller e di Segel portò a risultati notevoli. Privi degli attuali strumenti di calcolo, con solo carta e penna i due produssero una serie di equazioni che dimostravano come le cellule di Dictyostelium potessero avviare l'aggregazione senza seguire un capo, ma semplicemente modificando il quantitativo di AMP cielico rilasciato da ciascun individuo e seguendo poi le tracce di feromone che incontravano vagando nell'ambiente. Se le cellule di Dictyostelium emettevano una quantità sufficiente di AMP ciclico, allora avrebbero incominciato a formarsi gruppi di cellule, le quali avrebbero incominciato a seguire le tracce create da altre cellule, creando una risposta a loop positivo che avrebbe incoraggiato ulteriori altre cellule a unirsi al gruppo. Se ciascuna singola cellula semplicemente rilasciava AMP ciclico basandosi sulla propria personale valutazione delle condizioni generali, affermarono la Keller e Segel in un articolo pubblicato nel 1969, allora la più grande comunità di Dictyostelium sarebbe stata senz'altro in grado di aggregarsi sulla base di cambiamenti globali nell'ambiente - e senza bisogno di una cellula pacemaker.«La scoperta era molto interessante», ricorda oggi la Keller. «Si trattava di roba vecchia per chi padroneggiava la matematica applicata o aveva esperienza di dinamiche dei fluidi. Ma per la biologia era ancora qualcosa di insensato. Tenevo seminari per biologi, e quelli mi dicevano: "Be', dov'è la cellula principale? Dov'è il pacemaker?" La teoria non piaceva loro per niente». E così l'ipotesi del pacemaker continuò a essere il modello regnante per un altro decennio, fino a quando una serie di esperimenti provò in modo convincente che le cellule di Dictyostelium si organizzavano dal basso. «Mi stupisce sempre vedere come sia difficile per le persone pensare in termini di fenomeni collettivi», dice la Keller. | << | < | > | >> |Pagina 17Le complessità emergenti senza adattamento sono come gli intricati cristalli che formano i fiocchi di neve: belle configurazioni perfettamente inutili. Le forme di comportamento emergente che esamineremo in questo libro possiedono la particolare qualità di divenire più «intelligenti» [smart] nel tempo, e di rispondere alle specifiche e mutevoli necessità del loro ambiente. In questo senso, la maggior parte dei sistemi che esamineremo sono più dinamici del nostro tavolo da biliardo adattativo: raramente si congelano in una singola forma; costruiscono configurazioni sia nel tempo sia nello spazio. La domanda è: come spingere un sistema emergente verso un comportamento che ci torni utile o torni utile al sistema stesso? Com'è possibile rendere più adattativo un sistema auto-organizzante?Questa domanda è oggi particolarmente cruciale, perché negli ultimi anni la storia dell'emergenza è entrata in una nuova fase, una fase che potrebbe rivelarsi ben più rivoluzionaria delle due che l'hanno preceduta. Nella prima fase, menti indagatrici si sono sforzate di comprendere le forze dell'auto-organizzazione senza tuttavia realizzare la portata della questione. Nella seconda, alcuni settori della comunità scientifica hanno incominciato a vedere l'auto-organizzazione come un problema che trascendeva le discipline locali, e si sono disposti ad affrontare quel problema, per esempio confrontando il comportamento di un ambito di studio con il comportamento di un altro ambito. Ponendo a confronto le cellule di Dictyostelium con le colonie di formiche, si può riscontrare un comportamento condiviso in misura inimmaginabile - fatto che può benissimo sfuggire osservando singolarmente l'uno o l'altro dei fenomeni. Infine, lo studio dell'auto-organizzazione è diventato una disciplina a sé stante, e ha portato alla creazione di centri di ricerca come il Santa Fe Institute, dedito allo studio della complessità in tutte le sue diverse forme.
Ma nella terza fase - iniziata negli anni Novanta, e al centro di questo
libro - abbiamo smesso di analizzare l'emergenza e abbiamo incominciato a
crearla.
Abbiamo iniziato a costruire sistemi auto-organizzanti nelle applicazioni
software, nei videogiochi, nell'arte, nella musica. Abbiamo costruito sistemi
emergenti per raccomandare nuovi libri nei negozi on-line, per riconoscere le
voci o trovarci una fidanzata o un fidanzato. Da quando esistono, gli organismi
complessi hanno vissuto sotto le leggi dell'auto-organizzazione, ma negli anni
recenti la nostra vita quotidiana è stata invasa da emergenza artificiale:
sistemi costruiti con una comprensione consapevole di che cosa sia l'emergenza,
sistemi progettati per utilizzare quelle leggi allo stesso modo in cui i
reattori nucleari poggiano sulle leggi della fisica nucleare. Fin'oggi, i
filosofi dell'emergenza si sono indaffarati per interpretare il mondo. Ora
stanno incominciando a cambiario.
Le prossime pagine sono una visita guidata in campi che di solito non convivono in un medesimo libro. Ci occuperemo di giochi per computer che simulano ecologie viventi; del sistema delle arti della Firenze del XII secolo; della divisione cellulare iniziale che segna l'inizio della vita; e del software che consente di vedere le configurazioni presenti nei nostri cervelli. Ciò che unisce questi diversi fenomeni è una configurazione e una forma ricorrenti: una rete di auto-organizzazione, di agenti sparsi che inconsapevolmente creano un ordine di livello superiore. A ciascuna scala si possono scorgere le cellule convergenti di Dictyostelium; a ciascuna scala le leggi dell'emergenza sono vere. Questo libro segue all'incirca la cronologia delle tre fasi storiche. La prima parte presenta un eccellente risultato del mondo emergente - il comportamento delle colonie di insetti sociali come le formiche e le termiti - e prosegue a ritroso sulle tracce del pensiero decentrato, da Engels e le strade di Manchester alle forme di software emergente sviluppate in tempi recenti. La seconda parte è una visione d'insieme dell'emergenza così come la comprendiamo oggi; ciascuno dei suoi quattro capitoli esplora uno dei principi che stanno a fondamento del campo di studi: interazione di quartiere, riconoscimento di configurazioni, feedback, e controllo indiretto. La parte conclusiva guarda al futuro dell'emergenza artificiale e specula su ciò che accadrà quando i media e i movimenti politici verranno in gran parte plasmati da forze bottom-up e non top-down. | << | < | > | >> |Pagina 61A prima vista, gli esseri umani possono sembrare la specie di maggior successo sul pianeta - ma bisogna tener conto delle formiche. In termini numerici, le formiche e altri insetti sociali come le termiti dominano la terra in modo tale da far sembrare un incidente evolutivo la popolazione umana. Formiche e termiti costituiscono fino al 30 per cento di biomassa delle foreste pluviali amazzoniche. Con quasi diecimila specie conosciute, le formiche competono con l'uomo per diffusione: le uniche terre senza formiche native sono l'Antartico, l'Islanda, la Groenlandia e la Polinesia. E se è vero che non hanno ancora inventato gli spray con cui forare lo strato di ozono, le formiche esercitano comunque un fortissimo impatto ambientale, muovendo immense quantità di terreno e distribuendo nutrienti anche negli ambienti più ostili. Naturalmente sono prive del nostro avanzato proencefalo, d'altra parte l'intelligenza dell'uomo è solo uno dei parametri per misurarne il successo evolutivo. Tutto ciò porta a una domanda: se l'evoluzione non ha ritenuto di donare alle formiche il potere di calcolo proprio del cervello umano, come hanno fatto questi insetti a divenire una presenza così dominante sul pianeta? Se da un lato non esiste una singola spiegazione, dall'altro è senz'altro vero che l'intelligenza collettiva ha giocato un ruolo fondamentale nel determinare il successo degli insetti sociali. Chiamiamola logica di sciame: diecimila formiche - ciascuna limitata da un modestissimo vocabolario di feromoni e da minime abilità cognitive - si impegnano collettivamente in notevoli e improvvisate attività di problem-solving. Una colonia di formiche mietitrici, non solo può accertare quale sia la strada più breve per una fonte di cibo, ma stabilisce anche delle priorità di accesso a diverse fonti di cibo basandosi sulla loro distanza e sulla facilità per raggiungerle. In risposta alle mutevoli condizioni ambientali, le formiche operaie si dedicano ora alla costruzione del nido, ora alla ricerca di cibo, ora alla cura delle pupe. Le loro competenze ingegneristiche e sociali hanno un che di inquietante, soprattutto perché nessuna singola formica dirige o sovrintende alle operazioni. È questa connessione tra micro e macro-organizzazione ad avere spinto Deborah Gordon a occuparsi di formiche. «Ero interessata a sistemi in cui i singoli individui non sono in grado di valutare la situazione nella sua globalità, e tuttavia lavorano assieme in modo coordinato», dice. «E lo fanno utilizzando solo informazione locale». Locale si rivela essere il termine chiave per capire la logica di sciame. Osserviamo comportamento emergente quando i singoli individui in un sistema - per esempio una colonia di formiche - rivolgono l'attenzione all'immediato vicino anziché attendere ordini dall'alto, quando pensano localmente e agiscono localmente, ma la loro azione collettiva produce comportamento globale. Si prenda la relazione tra ricerca del cibo e dimensione della colonia. Le colonie di formiche mietitrici modificano costantemente il numero di individui impegnati attivamente nella ricerca del cibo, basandosi su alcune variabili: dimensione complessiva della colonia (e quindi bocche da sfamare); quantità di cibo immagazzinato nel nido; quantità di cibo disponibile nella zona circostante la colonia; presenza di altre colonie nelle vicinanze. Nessuna singola formica è in grado di valutare anche solo una di queste variabili. In altre parole, il mondo percettivo di una formica è limitato al livello del terreno. Non sono disponibili visioni a volo d'uccello della colonia, e d'altra parte non sarebbero neppure disponibili apparati cognitivi in grado di dare senso a una tale visione. «Vedere l'insieme» è un'impossibilità sia percettiva sia concettuale per qualsiasi formica. A dire il vero, nel mondo delle formiche è persino inappropriato parlare di «visione». Alcune specie di formiche possiedono un equipaggiamento ottico sorprendentemente ben sviluppato (la sudamericana Gigantiops destructor ha occhi enormi), ma in generale nelle formiche la maggior parte dell'elaborazione delle informazioni si appoggia a composti chimici feromonici, noti anche come semiochimici per il modo in cui creano un sistema di segnali funzionali. Per comunicare con altri individui, le formiche secernono un numero finito di sostanze chimiche, e di quando in quando rigurgitano il cibo digerito di recente. Quei segnali chimici sono la chiave per capire la logica di sciame. «L'insieme delle prove di cui disponiamo», scrivono E.O. Wilson e Bert Hölldobler nel loro epico libro Le formiche, «indica che i feromoni giocano il ruolo centrale nell'organizzazione delle colonie». Confrontato con il linguaggio umano, il sistema di comunicazione delle formiche può apparire rozzo, possedendo da dieci a venti segni. La comunicazione tra le operaie delle colonie di Solenopsis invicta - studiate approfonditamente da Wilson all'inizio degli anni Sessanta del Novecento - si affida a un vocabolario di dieci segnali, nove dei quali basati su feromoni. (L'unica eccezione è la comunicazione tattile diretta tra formiche). Tra altre cose, questi codici semiochimici segnalano: attività di ricognizione («sono alla ricerca di cibo»); successo della ricognizione («c'è cibo, qui!»); comportamento di allarme («fuggiamo!»); e comportamento da necroforo («dài, liberiamoci di queste compagne morte»). Il vocabolario delle formiche è semplice e rende impossibili strutture sintattiche complesse, ma è capace di sfumature che aumentano le sue possibilità espressive. Molti semiochimici operano in modo binario, segnalando per esempio se una formica sia amica o nemica. Ma le formiche sono in grado di rilevare anche gradienti nei feromoni, riuscendo così a individuare la direzione verso cui la traccia cresce d'intensità, una capacità simile a quella dei segugi. La rilevazione di gradiente è fondamentale per tracciare quei percorsi che tutti conosciamo: quelle interminabili scie di formiche comicamente sovraccariche di briciole e semi. I gradienti di feromone fanno la differenza tra il dire «c'è cibo qui in giro da qualche parte» e «va' a nord e troverai da mangiare». | << | < | > | >> |Pagina 87Verso la fine del XII secolo la Societas mercatorum, l'organizzazione di mercanti che per quasi un secolo aveva presieduto alla cultura commerciale fiorentina, cominciò a frammentarsi in diverse corporazioni con nomi come Arte di Por Santa Maria e Arte di Calimala, strutturate attorno a specifiche attività - fabbri, usurai, mercanti di vini. Alcune corporazioni raggrupparono mestieri diversi. Una di queste, l'Arte di Por Santa Maria, comprendeva sia i tessitori di seta sia gli orafi. Il nuovo sistema delle corporazioni cambiò letteralmente il mondo. Agli storici piace enfatizzare i risultati estetici del Rinascimento, spesso ignorando che il sistema delle arti di cui Firenze fu pioniere ebbe un impatto sulla civiltà occidentale pari a quello di una qualsiasi creazione di Leonardo o di Brunelleschi. Il fiorino d'oro, la moneta locale coniata dalle corporazioni fiorentine, fu una delle prime, dal tempo dei romani, a essere accettata quasi ovunque. Un numero di invenzioni che si rivelarono fondamentali per la moderna vita del commercio - la partita doppia, per citarne una - risalgono all'epoca aurea delle corporazioni. Se, come vuole la tradizione storiografica, nell'Italia del XII e XIII secolo si rimise in funzione il motore della storia, allora le corporazioni furono le sue turbine.
La corporazione di
Por Santa Maria prese il nome da una strada centrale che conduceva direttamente
al Ponte Vecchio, affollato di botteghe. Già nel 1100 alcuni registri segnalano
la presenza di tessitori di seta lungo Por Santa Maria, cento anni prima che si
unissero agli orafi per dar vita alla propria corporazione. I mercanti di seta e
i fiorentini ricchi potevano fare quattro passi lungo Por Santa Maria e
confrontare prezzi e
qualità dei prodotti, mentre i loro servi perlustravano il Ponte Vecchio
cercando la carne migliore venduta dai macellai che lo popolavano. Le botteghe
sono ancora lì oggi. Si percorra la zona una mattina feriale, e ancora si
troveranno negozi ricolmi di sete raffinate, sotto forma di camicette o di
sciarpe o di materia prima - esattamente come un millennio fa. Le città
imparano? Intendo dire: non gli individui che popolano le città, non le
istituzioni che le governano, ma le città in quanto tali? Penso di sì. E i
tessitori di seta fiorentini possono aiutare a spiegare come.
L'imparare è una di quelle attività che solitamente associamo alla consapevolezza - sappiamo di fare le esperienze che facciamo. Ma imparare è un fenomeno complesso che esiste simultaneamente a più livelli. Quando diciamo che «riconosciamo la faccia di qualcuno» mettiamo in primo piano la nostra coscienza: quando si vede qualcuno che si conosce proviamo in prima persona qualcosa di differente, e quella sensazione è parte di ciò che intendiamo per apprendimento - abbiamo imparato a conoscere il volto di una certa persona -, al punto che a volte apprendimento ed esperienza ci sembrano coincidere. Ma non sempre l'apprendimento ha a che fare con la coscienza. Il nostro sistema immunitario apprende costruendo vocabolari di anticorpi che evolvono in risposta alle minacce poste da microrganismi invasori. La maggior parte di noi ha sviluppato immunità nei confronti del virus della varicella, un'immunità data dalla nostra esposizione a quel virus nell'infanzia. L'immunità si acquisisce attraverso un processo di apprendimento: gli anticorpi del nostro sistema immunitario imparano a neutralizzare gli antigeni del virus e ricordano quelle strategie di neutralizzazione per il resto della vita dell'organismo che li ospita. Non veniamo al mondo predisposti per respingere il virus della varicella: i nostri corpi imparano a tenerlo a bada lungo il percorso della vita senza che vi sia alcun bisogno di uno specifico addestramento. Gli anticorpi funzionano come un «sistema di riconoscimento», utilizzando le parole di Edelman; attaccano con successo il virus e immagazzinano le informazioni che lo riguardano, e richiamano quelle informazioni ogni qualvolta il virus si ripresenti all'orizzonte. Come un bambino di sei mesi, il sistema immunitario impara dapprima a riconoscere le cose diverse da sé, dopo di che si predispone a controllare quelle cose. Già così è un processo stupefacente. Ma c'è di più: il processo di riconoscimento avviene a un livello puramente cellulare - noi non siamo in alcun modo consapevoli del virus della varicella, e se la nostra mente è in grado di ricordare le sensazioni associate a quella malattia contratta da piccoli, la nostra memoria cosciente non ha comunque niente a che fare con la nostra resistenza alla malattia. Il corpo apprende senza coscienza, e così fanno le città, perché imparare non è solo una questione di consapevolezza dell'informazione, riguarda anche l'immagazzinamento dell'informazione e il sapere dove recuperarla. Riguarda la capacità di riconoscere e rispondere a configurazioni mutevoli: nello stesso modo attuato dal Pandemonium di Oliver Selfridge e dalle formiche mietitrici di Deborah Gordon. Riguarda l'alterare il comportamento del proprio sistema in risposta a quelle configurazioni, in modi che aumentino il successo del sistema, indipendentemente dai suoi obiettivi. Il sistema non ha bisogno di sapere di essere capace di quel tipo di apprendimento, così come il sistema immunitario non ha bisogno di essere cosciente per imparare a proteggerci dalla varicella. | << | < | > | >> |Pagina 175A che cosa state pensando, in questo momento? A causa del fatto che le mie parole vi sono comunicate con il medium a senso unico della pagina stampata, è una domanda cui mi è difficile rispondere. Ma se vi stessi parlando faccia a faccia avrei la possibilità di azzardare una risposta verosimile quand'anche rimaneste silenziosi per tutto il tempo. I movimenti del volto, quelli degli occhi, il linguaggio del corpo mi invierebbero un costante flusso di informazioni circa il vostro stato interiore, segnali che intuitivamente raccoglierei e interpreterei. Potrei vedere le vostre palpebre cercare di chiudersi nei momenti di noia della conversazione, potrei notare la risatina in risposta a una mia battuta più o meno riuscita, registrare il modo in cui raddrizzate la schiena sulla sedia quando le mie parole raggiungono la vostra attenzione. E non potrei in alcun modo proibire alla mia mente di fare questo genere di valutazioni, non più di quanto voi potreste impedire alla vostra mente di interpretare le mie parole in termini di linguaggio (assumendo che stessimo entrambi parlando la stessa lingua, ovviamente). Siamo tutti imprigionati in una danza comunicativa straordinariamente profonda - eppure siamo pressoché inconsapevoli di questo processo. Gli esseri umani sono lettori innati della mente. La nostra capacità di immaginare gli altrui stati mentali rivaleggia per versatilità con la nostra predisposizione per il linguaggio e i nostri pullici opponibili. Ci viene così naturale e ha generato un corollario di così numerosi effetti collaterali che è difficile per noi pensarla come una competenza specifica. Eppure alla maggior parte degli animali manca la capacità di lettura della mente di un bambino di quattro anni. Veniamo al mondo con una predisposizione genetica a costruire «teorie delle menti altrui» e ad adattarle al volo in risposta alle varie forme di interazione sociale. A metà degli anni Ottanta del Novecento, gli psicologi Simon Baron-Cohen, Alan Leslie e Uta Frith condussero un fondamentale esperimento per valutare le capacità di lettura della mente di bambini piccoli. Misero alcune matite in una scatola di Smarties, quelle caramelline colorate, e chiesero poi a una serie di bambini di quattro anni di aprire la scatola, e quindi di fare la spiacevole scoperta delle matite al posto delle caramelle. Dopo aver richiuso la scatola, i ricercatori fecero entrare un adulto nella stanza. Domandarono ai bambini che cosa l'adulto si sarebbe aspettato di trovare all'interno della scatola di Smarties - si noti, non ciò che avrebbe trovato, ma ciò che si aspettava di trovare. Tutti i bambini diedero la risposta corretta: l'adulto si aspettava di trovare caramelle, non matite. I bambini erano stati in grado di separare la propria conoscenza circa il reale contenuto della scatola dalla conoscenza di un'altra persona. Afferravano in pieno la distinzione tra il mondo esterno come loro lo percepivano e così come era percepito da altri. Gli psicologi ripeterono poi l'esperimento con bambini di tre anni, ottenendo il risultato opposto. I bambini assunsero che nella scatola l'adulto si aspettasse di trovare matite, non caramelle. Non avevano ancora sviluppato la facoltà di costruire modelli degli stati mentali di altre persone - erano ancora intrappolati in una sorta di onniscienza infantile, dove la conoscenza che si possiede è condivisa con il mondo intero. L'idea di due stati mentali radicalmente distinti, ciascuno contenente informazioni differenti sul mondo, oltrepassava le facoltà delle loro menti, ma emergeva in modo naturale nei bambini di quattro anni. | << | < | > | >> |Pagina 184Fatto notevole, questo processo è tornato al punto di partenza. Centinaia di migliaia, se non milioni - di anni fa, i nostri cervelli hanno sviluppato un meccanismo di feedback che ci ha consentito di costruire teorie delle altre menti. Oggi stiamo cominciando a creare applicazioni software capaci di sviluppare una teoria delle nostre menti. Questi programmi, flessibili e auto-organizzanti, rintracciano i nostri gusti e interessi, e li considerano contro lo sfondo del comportamento della popolazione nel suo insieme. Questi programmi sono l'inizio di un percorso tecnologico che nel giro di alcuni anni ci porterà in un mondo in cui interagiremo regolarmente con media che sembreranno in qualche modo conoscerci. I software individueranno le nostre abitudini, anticiperanno i nostri desideri, si adatteranno ai nostri umori. La prima generazione di software emergente - programmi come SimCity e StarLogo - mostrano un'accattivante qualità organica: sembrano più forme di vita che sterili insiemi di istruzioni. La prossima generazione di software farà aumentare quella sensazione di organicità: il nuovo software utilizzerà gli strumenti dell'auto-organizzazione per costruire modelli dei nostri stati mentali. Non saranno programmi coscienti e non potranno superare nessun test di Turing, ma ci faranno sembrare dei fenomeni autistici le esperienze mediatiche cui siamo abituati. Saranno lettori della mente.Da un certo punto di vista è storia vecchia. La grande rivoluzione del software degli anni Settanta e Ottanta - l'invenzione dell'interfaccia grafica - si è anch'essa basata su una teoria delle altre menti. I principi progettuali soggiacenti all'interfaccia grafica si sono appoggiati a valutazioni delle qualità dei sistemi percettivi e cognitivi umani. La nostra memoria spaziale, per esempio, è più potente della nostra memoria testuale, così le interfacce grafiche enfatizzano le icone rispetto ai comandi scritti. Possediamo un dono naturale per il pensiero associativo, grazie alle formidabili competenze di accoppiamento di configurazioni della rete distribuita del cervello, così l'interfaccia grafica ha preso a prestito metafore visuali del mondo reale: scrivanie, cartellette, cestini della carta. L'interfaccia grafica è stata progettata per utilizzare i talenti innati della mente umana e per aggirare il più possibile i suoi difetti. Se le formiche fossero state la prima specie a inventare il personal computer, avrebbero sicuramente elaborato interfacce feromoniche, ma poiché noi abbiamo ereditato le eccezionali competenze visive della famiglia dei primati, abbiamo adottato metafore spaziali sui monitor dei nostri computer. A dire il vero, la capacità di lettura della mente dell'interfaccia grafica è piuttosto generica. Le metafore basate su finestre e scrivanie sono costruite sulle previsioni relative a una mente umana, non alla vostra mente. Sono teorie di taglia unica e mancano di un qualsiasi reale meccanismo di feedback per familiarizzare con le vostre specifiche abitudini. Inoltre, le loro previsioni sono decisamente il prodotto di un'ingegneria top-down. Il software non apprende per conto suo che esiste una specie visuale; i ricercatori della Xerox-Parc e del MIT già sapevano della nostra memoria visiva, e hanno usato quella conoscenza per creare la prima generazione di metafore spaziali. Ma queste limitazioni faranno presto la fine delle valvole termoioniche e delle schede perforate. Il nostro software svilupperà modelli evolutivi e ricchi di sfumature dei nostri stati mentali, e quell'apprendimento emergerà in un sistema bottom-up. Questo software fornirà informazione tagliata su misura dei vostri interessi e appetiti, e le sue capacità di lettura della mente saranno molto meno isolate di quanto gli attuali critici vorrebbero farci credere. Nel futuro prossimo potrete leggere qualcosa di simile al «Daily Me» - una sorta di giornale di quello che farò e avrò voglia di fare -, ma quel giornale digitale sarà redatto seguendo gli interessi e le abitudini di lettura di milioni di altri esseri umani. Interagire con un software emergente è già oggi più come coltivare un orto che come guidare l'automobile o leggere un libro. Nel futuro prossimo, lavoreremo assieme ad altri milioni di giardinieri. Saremo in possesso di potenti strumenti di personalizzazione più di quanto riusciamo oggi a immaginare - ma questi strumenti saranno creati da grandi gruppi disseminati su tutto il pianeta. Quando nei primi anni Novanta, al MIT Patti Maes cominciò a sviluppare un software per la raccomandazione di prodotti, lo chiamò filtraggio collaborativo. Nei prossimi anni, disporremo di filtri personalizzati oltre i nostri sogni più azzardati. Ma anche collaboreremo su una scala confrontabile solo a quella delle città che abbiamo cominciato a costruire seimila anni fa. | << | < | > | >> |Pagina 202Se l'intelligenza distribuita può trasformare il modo in cui funzionano le attività produttive, che cosa può fare per la politica? Quelle tante aziende della New Economy che hanno prontamente abbracciato l'emergente visione del mondo per quanto riguarda sia i prodotti sia le strutture - possono a volte far sembrare che l'emergenza appartenga grosso modo all'ambito libertario. Sicuramente l'enfasi posta sul controllo locale e sulla resistenza ai sistemi di comando risuona fascinosa per coloro contrari all'accentramento del potere politico. Ma le politiche dell'emergenza non sono facilmente classificabili. Per il regno animale, l'intelligenza delle colonie di formiche può essere l'argomento più convincente a favore del potere collettivo. A molti libertari estremisti piace sparare a zero contro l'autorità centralizzata dello stato, d'altra parte oggi la maggior parte degli uomini politici viene eletta democraticamente, a differenza dei dirigenti della maggior parte delle multinazionali. Non esiste alcuna ragione per cui i progressisti non dovrebbero abbracciare strategie decentrate, anche se quelle stesse strategie sono al centro dell'attenzione dei pensatori di destra e delle aziende dotcom. Di fatto, le necessità dei movimenti più progressisti si adattano perfettamente ai sistemi auto-organizzanti: sia quei movimenti sia quei sistemi possiedono un orecchio fino per la saggezza collettiva; entrambi sono naturalmente ostili alle eccessive concentrazioni di potere; ed entrambi sono amici dei cambiamenti. Per qualsiasi movimento che miri a un ruolo globale senza doversi affidare a un potere centrale, l'auto-organizzazione adattativa è probabilmente l'unica strada percorribile.In nessun altro ambito le potenzialità dell'emergenza sono immediatamente visibili come nei movimenti di protesta cosiddetti no-global, i quali si sono esplicitamente modellati sulle strutture cellulari distribuite dei sistemi auto-organizzanti. Le proteste di Seattle del 1999 sono state caratterizzate da una forma straordinaria di organizzazione distribuita: i piccoli gruppi creati da cause specifiche - critici anti-Nike, anarchici, ambientalisti radicali, sindacalisti - hanno operato indipendentemente per la maggior parte del tempo, riunendosi occasionalmente per dei «gran consigli», in cui ciascun gruppo eleggeva un suo membro in rappresentanza dei suoi interessi. Ad alcuni progressisti di una o più generazioni precedenti, appartenenti alla tradizione più gerarchica dei sindacati storici, questi diversi «gruppi di affinità» sono sembrati troppo dispersi e senza obiettivi, privi di un linguaggio comune e di un'ideologia unificatori. È pressoché impossibile pensare a un altro movimento politico che abbia attirato una così grande attenzione del pubblico senza produrre un autentico leader - un Jesse Jackson o un Cesar Chavez -, se non altro a beneficio delle telecamere. Le immagini che associamo alle proteste antiglobalizzazione non sono mai quelle di una folla di scalmanati con il pugno alzato verso l'osannato oratore sul palco. Quella è l'iconografia di un modello superato di protesta. Ciò che vediamo con la nuova ondata di critica sociale sono immagini di gruppi i più diversi: fantocci satirici, anarchici vestiti di nero, sit in, performance artistiche ma nessun capo. Per i progressisti della vecchia scuola, i contestatori di Seattle appaiono allo sbando, fuori controllo, uno sciame di piccole cause senza alcun principio organizzatore e in effetti, in certa misura vedono bene. Ciò di cui non si accorgono è che in uno sciame può esistere forza e intelligenza, e che se si cerca di combattere contro una rete distribuita come il capitalismo globale, è molto meglio farlo nella forma di una rete distribuita.
Il che non significa che sia opportuno abbracciare la pura
anarchia. Le colonie di formiche non hanno capi, tuttavia seguono rigorosamente
delle regole: devono tenere conto delle configurazioni nelle tracce feromoniche,
passare dalla ricerca del cibo alla costruzione del nido quando sia necessario,
rispondere alle altre formiche, e così via. Una colonia di formiche senza regole
locali non ha nessuna possibilità di creare un ordine di più alto livello,
nessuna possibilità di creare un'intelligenza collettiva. I movimenti
antiglobalizzazione stanno solo cominciando a individuare le regole per far
dialogare le proprie diverse cellule. I grandi raduni di Seattle sono stati un
inizio promettente, ma imparare a raggrupparsi prende tempo. Secondo Naomi
Klein, ciò che è emerso dalle strade di Seattle e Washington è stato un modello
di attivismo che rispecchia i percorsi organici e interconnessi di internet. Ma
come abbiamo visto molte volte nelle pagine precedenti, anche lo stesso web - il
più vasto sistema auto-organizzante creato dall'uomo - solo ora sta cominciando
a possedere capacità di autentica intelligenza collettiva. Nel migliore dei
casi, le sue capacità di lettura della mente sono allo stadio embrionale, perché
stiamo ancora semplicemente studiando le regole del sistema, ancora valutando
quanto i raggruppamenti adattativi intelligenti possano prosperare on-line. E
se l'intelligenza collettiva del web è ancora a uno stadio infantile, si pensi a
quanto spazio i nuovi movimenti di protesta dovranno disporre per crescere. In
ogni caso, i loro istinti sono ben predisposti. Sotto le vetrine fracassate dei
concerti dei Rage Against the Machine, gli attivisti no-global stanno facendo
qualcosa di profondo, anche in questi primi loro giorni. Pensano già come uno
sciame.
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