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| << | < | > | >> |IndicePremessa all'edizione italiana 7 Ringraziamenti 17 Parole, parole, parole 21 La madre di tutte le stragi 51 Rigori e impunità 91 Il caso Sofri 125 I mezzi di seduzione 155 La parola e la pietra 185 Meno tasse per tutti 219 Forzismo 257 Penisola felice 287 Note bibliografiche 305 |
| << | < | > | >> |Pagina 82Quella sera, seduto in una spoglia camera da letto d'hotel in via Venezia, ho trovato finalmente la descrizione perfetta della politica italiana. Viene da un editorialista dell'«Espresso»: «In Italia, come in chimica, nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma...». In altre parole, considerando il tempo come un catalizzatore, le apparenze possono cambiare, ma gli elementi coinvolti rimangono esattamente gli stessi. In entrambi i membri dell'equazione, il passato e il presente, esistono gli stessi personaggi, solo configurati in modo leggermente diverso, riordinati in nuove, confuse coalizioni. È questo che provoca una sensazione surreale quando, a distanza di anni, si scrive delle stragi o degli anni di piombo: alcuni dei nomi che ricorrono sempre nei libri di storia o nei casi giudiziari sono ancora attivi ad alto livello nella politica contemporanea. Sembra che non ci sia delitto o condanna sufficiente a porre fine alla carriera di un politico italiano, che non ci sia un fatto storico che non possa essere utilmente dimenticato.Ciò sarebbe comprensibile se l'Italia fosse passata attraverso un vero processo di pace. Ma, a differenza dell'Irlanda del Nord e del Sudafrica, qui non ci si è confrontati con il passato prima di dimenticarlo. «Una costante della scuola italiana è quella di rimuovere la storia del mezzo secolo precedente,» ha scritto Giorgio Bocca «quanto a dire degli italiani ancora in vita, ancora al potere... La paura della storia sembra congenita, la gente ha in qualche modo capito che parlare di storia, interrogarsi sulla storia non è prudente, che c'è nella storia qualcosa di sconveniente.» Il risultato è che non c'è un posto al mondo in cui si sia altrettanto bravi a reinventare e a riabilitare quanto in Italia. È il gattopardismo, in base al quale, come spiega Tomasi di Lampedusa, tutto finge di cambiare per rimanere com'è. È simile al concetto di trasformismo, nato nei primi decenni dell'Italia unita per definire una politica (promossa da Depretis) in cui gli accordi di potere cancellavano le distinzioni tra i partiti o tra maggioranza e opposizione. Cosi ai Governi italiani è facile associare l'immagine di una «porta girevole»: il portiere attuale, e tutti quelli che entrano ed escono, restano gli stessi per decenni dandosi semplicemente il cambio. Un ex corrispondente della Bbc una volta definì questo sistema la versione italiana delle «sedie musicali», in cui però non si toglie mai nemmeno una sedia. La musica politica può cambiare, e la gente si getta su altre «poltrone», ma fondamentalmente rimangono sempre in gioco gli stessi giocatori. | << | < | > | >> |Pagina 86[...] Un processo non si basa sul buon senso o sui precedenti, ma sul produrre documenti alternativi che superano quelli degli altri grazie alla loro intricata assurdità. Per essere convincenti si deve esibire una impenetrabile pomposità. È così che funziona il potere in Italia, imbrogliando l'ascoltatore: «Utilizzando un diritto "dotto"», ha scritto giustamente uno studioso,per sua natura inaccessibile ai più, il potere italiano si costituì come qualcosa di naturalmente lontano dal popolo, così come il linguaggio del suo comando era lontano e diverso dalla lingua quotidiana. La legge si staccò dalla vita. Divenne un fatto di specialisti, tanto intellettualmente raffinato e coerente, magari, quanto improntato ad un elevato coefficiente di astrattezza. L'impiego di qualcosa di così rozzo e democratico come la giuria anglosassone sarebbe stato impensabile in un contesto siffatto, così come impensabile sarebbe stata la pretesa di una parità tra la parte pubblica e quella privata. Il paradosso è che l'Italia, ossessionata in maniera esasperante dalle leggi, è di conseguenza quasi senza legge. Se ci sono così tante leggi puoi farci qualunque cosa. Puoi distorcerle, risistemarle, riscriverle. Qui, le leggi e i fatti sono come carte da gioco: basta mescolarle e distribuirle finché non fanno al caso proprio. È vero in tutto il mondo, ma in Italia di più: gli innocenti sono quelli che hanno i migliori avvocati. | << | < | > | >> |Pagina 102Quanto più studiavo il calcio, tanto più nasceva in me il sospetto che la partita vera non si giocasse sul campo, ma nelle sale dei Consigli di amministrazione, nei corridoi e nelle suite presidenziali. È difficile esprimerlo a parole, ma avevo l'oscura sensazione che il calcio andasse al di là del semplice atto di prendere un pallone a pedate. In parte dipendeva dal fatto che ero abituato all'Inghilterra, dove i proprietari delle società calcistiche sono anonimi. Qui, invece, sembrano signori medioevali che non tollerano il dissenso. Appartengono a dinastie familiari che, invariabilmente, non si fermano al calcio, ma sconfinano nella politica e nei media.Osservando il calcio cominciai ad avere l'impressione che il Paese si basasse su poche oligarchie molto potenti. È una situazione che ricorda il Rinascimento, quando una decina di famiglie importanti si erano spartite il Paese. Perché, invariabilmente, è una «questione di famiglia». Ricorrono sempre gli stessi cognomi, non importa se si parla di politica, di televisione o di calcio, se si legge un quotidiano contemporaneo o uno degli anni Sessanta. I figli e i fratelli (a volte una sorella o una madre) entrano a far parte dell'entourage del calcio, che spesso è un apprendistato prima di entrare in Parlamento o diventare l'editore del giornale di famiglia. Molti dei figli di importanti presidenti di club sono «procuratori», che significa che prendono una percentuale su ogni affare concluso dai loro padri. Il concetto di conflitto d'interesse non esiste: conta la voglia disperata, la determinazione assoluta di ottenere lo «strapotere». Appena arrivato a Parma, vivevo in un appartamento in quella parte della città che si estende oltre il fiume, e che i parmigiani chiamano Oltretorrente o «di là dall'acqua». Dividevo la casa con tre studenti di Matera che, tutte le sere, quando guardavano il telegiornale, mi spiegavano chi erano i vari personaggi di cui si parlava: «Quello» mi diceva Gino indicando lo schermo «è Vittorio Cecchi Gori. È il proprietario della Fiorentina, è un impresario cinematografico, possiede il canale televisivo che stiamo guardando adesso ed è anche il produttore del film che manderanno in onda dopo il telegiornale». Oppure: «Quello è Massimo Moratti, un petroliere proprietario dell'Inter di Milano. Sua cognata Letizia è l'ex presidente della Rai. Il 10 per cento dell'Inter» spiegava Gino con precisione, ridendo di fronte alla mia incredulità «è di proprietà di Marco Tronchetti Provera, che possiede la Pirelli». (Poco dopo, anche la rete del mio cellulare e il canale televisivo che guardavo sarebbero diventati suoi.) Nelle settimane seguenti mi descrissero le carriere di Agnelli, Berlusconi, Benetton e Franco Carraro, e la mia sensazione di una bizzarra struttura di potere oligarchico si faceva sempre più forte. Ho cercato di spiegare la situazione italiana ad alcuni miei amici inglesi: «Provate a immaginare che il principe Carlo e Tony Blair siano entrambi proprietari di una squadra di calcio, di qualche giornale e magari anche di un paio di canali televisivi e comincerete a farvi un'idea. Oppure immaginate che il presidente dell'Arsenal diventi ministro». Qui sembra che ci sia un continuo scambio di cariche senza il minimo imbarazzo. È un mondo così piccolo che i cognomi sono sempre gli stessi. Le conseguenze di una simile struttura di potere, della contiguità tra calcio, politica e alta finanza sono molte. La prima è che si alimentano sospetti, perché molta gente percepisce il calcio in balia di oscure trame. Il calcio è talmente legato ai potenti che gli arbitri, si dice, sentono una specie di «sudditanza psicologica» quando devono dirigere certe partite. Così, alla fine di un campionato, è quasi obbligatorio che gli sconfitti sostengano di essere stati penalizzati dai «poteri forti». | << | < | > | >> |Pagina 169Il servizio più importante della Tv è fornire informazione. I telegiornali sono di gran lunga i maggiori fornitori di notizie in Italia. Persino le notizie dei telegiornali, tuttavia, sono state ridotte a pettegolezzi e battute sulle celebrità. Ormai, quando guardate Studio Aperto, vedete due o tre «servizi» con donne in topless: una controversia sull'ex fidanzata di Valentino Rossi che sta posando per un calendario sexy (devono farvi vedere le foto, è il necessario approfondimento della notizia). Poi ci sarà qualcosa sulla Canalis che ritorna con Bobo. Il che porta il giornalista a presentare un altro approfondimento: «In che modo il sesso favorisce le prestazioni dei nostri campioni?». Altro montaggio di calciatori che baciano ragazze bellissime. Quando il telegiornale non ha lo scopo di produrre eccitazione, allora è preso tra l'«infotainment» (informazione e intrattenimento) e l'«adformation» (un'informazione che in realtà è pubblicità): i film e gli album in uscita. I programmi della rete - e persino la fiction della sera prima - vengono presentati e pubblicizzati come se avessero una grande importanza culturale. «Ieri sera» annuncerà il conduttore «otto milioni di italiani hanno seguito la nuova grande fiction, XY!», e parte un servizio su di noi che guardiamo quello che loro hanno trasmesso la sera prima. Maltempo, cronaca, incidenti stradali: le hard news, le notizie serie di politica ed economia, passano in secondo piano.In questo esercizio di ipnosi di massa è fondamentale l'uso del corpo femminile. I programmi, ormai, hanno un «impatto culturale» solo se il presentatore di mezza età è circondato da adolescenti anonime, che sorridono tutte in modo seducente e si gloriano dei loro diminutivi: letterine, veline, schedine e via di seguito. La falsità di tutto l'insieme è stupefacente, ma ci siamo cosi abituati che non notiamo più l'anormalità assoluta. Non c'è nessun erotismo, non c'è il brivido che può dare un vero incontro. È roba da fantasie di plastica, la versione gonfiabile della donna dei sogni. Un tipico numero è quello della ragazza in bikini che scivola dentro una vasca da bagno trasparente riempita di latte. Tra i gridolini di piacere del pubblico in studio si spoglierà, nascosta dal latte, e passerà il bikini all'eccitato presentatore. E tutto ciò non è niente in confronto all'isteria mediatica che circonda Miss Italia. Ogni anno, nella cittadina termale di Salsomaggiore, si radunano, provenienti da tutta Italia, le più belle ragazze del Paese per conquistare il titolo di «Miss». Per una settimana intera la nazione è ossessionata dal concorso: gli amici scommettono sulla vincitrice, discutono gli svariati attributi delle partecipanti. Per la sera del gala finale, il sabato, non c'è nient'altro alla televisione peep-show. Sono andato in edicola a comprare una delle riviste del presidente del Consiglio, «TV Sorrisi e Canzoni». Già nel titolo accenna all'aspetto più importante della televisione: il karaoke. I karaoke di oggi sono gli squallidi discendenti di Canzonissima, nei quali personaggi come Fabrizio Frizzi o Luisa Corna afferrano il microfono e noi a casa - grazie ai testi forniti da «Sorrisi e Canzoni» - cantiamo con loro. Cercavo di distinguere un programma da quello successivo, ma alla fine sembravano tutti esattamente la stessa cosa. I personaggi erano gli stessi; le canzoni erano le stesse (le preferite sono di solito My Way o Volare). Il varietà era tanto onnipresente da non offrire nessuna varietà. Non è affatto sorprendente, pensavo guardando quello spettacolo assurdo e melenso, che i più grandi cantanti italiani, da Lucio Battisti a Mina, da Fabrizio De André a Francesco De Gregori, di solito si siano tenuti alla larga dalla televisione. Poi era la volta del grande evento di Sanremo. Lo guardavo tutte le sere, religiosamente, cercando di capire perché la televisione italiana fosse rimasta impigliata, come in una piega spaziotemporale, negli anni Cinquanta. Tutto quello che ricordo del dimenticabile spettacolo è che l'umorismo ruotava intorno a chi sarebbe riuscito a toccare le palle di Pippo Baudo. Un'altra conseguenza è che la politica è diventata spettacolo. Nessun politico può permettersi di non rendere omaggio alla corte di Bruno Vespa o di Maurizio Costanzo. Questi studi sono i veri poteri bicamerali della politica italiana. Sono il vero Parlamento. Quello che succede lì cambia le opinioni di milioni di persone. Che andrebbe benissimo, forse, se fossero seri programmi di analisi politica. Ma non lo sono: la trasmissione di Vespa mischia il dibattito politico con le conversazioni serali sull'ultimo calendario osé con la Weber. Costanzo è come il direttore di un circo equestre, che introduce cabaret, commedia e, di tanto in tanto, messaggi di forte impatto emotivo. Entrambi vivono della retorica televisiva che stabilisce, in una sorta di cortocircuito: «Ciò che appare è buono; ciò che è buono appare». Non rendere omaggio a questo circo equivarrebbe a un suicidio politico. Una cosa tanto terra terra come un discorso al vero Parlamento diventa quasi irrilevante. | << | < | > | >> |Pagina 180[...] La stessa settimana, alcuni dei paladini del garantismo, gli stessi che si battevano per reintrodurre l'immunità parlamentare, ventilavano la proposta di punire con tre anni di carcere la diffamazione a mezzo stampa. Mi dispiace, ma trovo tutto ciò poco democratico. La democrazia implica l'accettazione degli insulti, delle critiche e della satira. Berlusconi spesso chiede alla Rai standard di imparzialità che sono interamente assenti sui suoi canali. In termini calcistici, è come pretendere che un guardalinee sia del tutto imparziale mentre l'altro alza la bandierina per segnalare il fuorigioco ogni volta che l'avversario attacca. La par condicio è applicabile solo alla televisione pubblica: l'altro «guardalinee» è privatizzato.Ma oltre che essere semplicemente parziali con il proprio capo, le televisioni del gruppo Mediaset hanno raggiunto qualcosa di ancora più sottile. Per molti versi, il vero problema di Mediaset non è che sia politica nel senso più puro del termine: è che non è per niente politica. Le sole cose che offre sono seni, calcio e soldi. Anche uno che apprezzi tutte e tre le cose alla fine lo trova noioso. La televisione ha creato un'implosione culturale e intellettuale. Per usare le parole di Andrea Camilleri: Se io fossi un credente vero - non di quelli che solo vanno a messa - di quei credenti che sono perfettamente convinti della loro fede, io di Berlusconi direi che è il male, con la emme maiuscola (anche se lui non lo sa)... non parlo del male dal punto di vista della sua ricchezza... [ma] in che modo Berlusconi ha impiegato quei soldi? Lui ha impiegato questi soldi nella televisione nel modo peggiore. A lui non l'ha mai sfiorato il pensiero che la televisione potesse essere un'altra cosa da quella che lui fa. Lui ha ripreso un heri dicebamus... ha abbassato il livello culturale della televisione e quindi dell'Italia. E siccome per me questo abbassamento culturale è la causa di tante cose, io incolpo proprio lui per questo. «Panem et circenses,» dice Filippo «ecco come lo chiamavano gli antichi romani: "pane e un po' di spettacolo". Dalli alle masse e saranno felici.» Un amico americano, citando Pynchon a proposito della paranoia, è ancora più sbrigativo: «Se riescono a farti fare la domanda sbagliata, non dovranno preoccuparsi delle risposte!». Ho un amico che lavora per una pay-tv, una specie di mago della tecnica. Dice che una volta ogni tanto - molto raramente - c'è un guasto grave e le immagini si bloccano. Ricevono decine di migliaia di telefonate di lamentele dai telespettatori disperati. La gente protesta riguardo ai propri «diritti». La sola conclusione possibile è che uno schermo nero provoca maggior panico e sdegno dei politici che decidono che cosa deve apparire su quei teleschermi. Questo fa venire in mente un pensiero di Leopardi, secondo il quale noi preferiamo «i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de' sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito», cosa che ci spinge all'«assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell'animo e alla negligenza e pigrizia». Gli italiani che non sono mai stati all'estero pensano che non ci sia alternativa. «È lo stesso dappertutto» mi dicono a volte. «La televisione è fatta cosi.» È come quegli inglesi orgogliosi della propria insularità che - avendo mangiato solo il nostro cibo monotono e insapore - pensano che il cibo sia sempre e dappertutto così. Probabilmente è un fatto a cui non si dà importanza, finché non si è sperimentato che ci sono altre cose a disposizione, altre cose possibili. «Uno Stato totalitario davvero efficiente» continuava Huxley «sarà quello in cui un potentissimo esecutivo di capi politici e il loro esercito di manager controlleranno una popolazione di schiavi che non dovranno essere tenuti in catene perché amano la loro schiavitù.» Diversamente da Orwell, suggeriva che saremmo diventati dolcemente complici della politica autoritaria, del Grande Fratello, non con la coercizione, ma per mezzo della distrazione. Saremmo stati talmente inondati di banalità e di pettegolezzi, continuava, che alla fine sarebbe stata intaccata in modo definitivo la nostra capacità di distinguere il bene dal male, il bello dal brutto. Non ci sarebbe stato bisogno di vietare i libri perché nessuno avrebbe più voluto leggerli. Saremmo stati rovinati da quello che amiamo, non da quello che odiamo. Il sonnifero della televisione, non la minaccia del manganello, sarebbe stato lo strumento del controllo politico. La scelta della Rai di mettersi in competizione con Mediaset sul terreno deciso da Mediaset si è dimostrata quanto mai infelice. È stata ferocemente criticata dai suoi più strenui sostenitori: coloro che credono nel servizio pubblico televisivo, e pensano che la Rai abbia sbagliato ad accettare la sfida commerciale. Dopo aver perso la reputazione, la Rai ha perso anche la battaglia per gli ascolti. Anno dopo anno, gli spettatori di Mediaset crescono, e ogni punto di share perduto dalla Rai equivale a 50 milioni di euro di entrate in meno. La Rai si trova, così, in cattive acque finanziarie. I suoi ricavi pubblicitari ammontano all'incirca alla metà di quelli di Mediaset. Si trova nell'imbarazzante situazione di dover pensare a contratti con Medusa (stessa proprietà di Mediaset) per i film da trasmettere. Nel 2000, non è riuscita a trovare i 92,96 milioni di euro necessari per comprare i diritti televisivi della Champions League 2000-2001. Due anni dopo, Mediaset avrebbe vinto ampiamente la battaglia degli ascolti, nel momento in cui tre squadre italiane si sono contese la coppa. Una di loro, naturalmente, apparteneva alla stessa persona che trasmetteva le partite. Tra la metà di marzo e la metà di giugno del 2003, la quotazione in borsa di Mediaset è cresciuta da 6,2 euro per azione a 8,15, e la crescita non mostra segni di rallentamento. | << | < | > | >> |Pagina 270A Berlusconi si adatta un adagio famoso (usato, per esempio, per illustrare l'utilità del comunismo per i democristiani: «Se il Partito Comunista non fosse esistito, avremmo dovuto inventarlo»). Se il Cavaliere non fosse oggetto di procedimenti giudiziari, dovrebbe inventarseli. È un'opposizione che gli è molto utile. Se non fosse stato accusato di diversi reati, oggi non sarebbe così forte. Perché alimentano un punto chiave della sua strategia: il vittimismo. È una strategia brillante. Prima di tutto, perché tutti siamo disposti a identificarci con un uomo afflitto e perseguitato da forze malvagie e occulte. È una grande formula narrativa perché attira la simpatia e l'immedesimazione. È l'unico aspetto della sua vita che lo rende «uno di noi». In secondo luogo, permette a Berlusconi di giocare la carta del patriottismo. Quanto più all'estero lo accusano di condotta impropria e scorretta, tanto più lo ammirano in patria. In terzo luogo - ed è solo un'impressione fuggevole - le persecuzioni creano la sensazione che egli sia «l'uomo della strada»: viene accusato di fare quello che ogni altro italiano ha sempre fatto. È la classica difesa basata non su una pretesa di innocenza, ma su quella di essere colpevole quanto gli altri. Quello che accade al Cavaliere potrebbe altrettanto facilmente accadere a noi. Siamo tutti - come ha detto di recente Carlo Taormina - colpevoli di qualche peccatuccio. Così, il fatto di votare per il Cavaliere, assolve lui e noi. Il risultato elettorale fa le veci di un'assoluzione. Adesso siamo tutti al sicuro. È, almeno simbolicamente, un condono generale.Per completare la restaurazione dell'Ancien Régime, è stata reintrodotta l'immunità. Molti equiparano l'immunità all'impunità. Non è una forma di protezione, bensì di evasione. È la dichiarazione provocatoria che certa gente è al di sopra della legge. Anche in questo caso, non è che l'Italia sia un Paese più criminale di altri (un altro stereotipo in voga tra gli stranieri); il fatto è che i reati vengono ignorati, o confusi, o perdonati, o trascinati nel corso di decenni. Diventano così contorti che la gente non riesce a seguire l'accusa più semplice e così finisce per provare pena per l'accusato. Il tragico caso di Enzo Tortora è l'esempio citato come prova del fatto che la caccia alle streghe da parte della magistratura esiste davvero. Così, nutriti di immagini televisive che ritraggono il leader come una vittima, milioni di elettori di Forza Italia accettano l'immunità quasi senza obiezioni, come se rappresentasse un sano e normale comportamento parlamentare. In Inghilterra, ovviamente, abbiamo decine di politici disonesti. Ogni nazione ha i suoi. La differenza consiste nel fatto che, se vengono giudicati colpevoli, finiscono in carcere. Persino quando sono in attesa dell'appello. L'ex olimpionico, autore di bestseller e già presidente del Partito Conservatore Jeffrey Archer; l'ex vice ministro, ed ex compagno di Carol Thatcher, Jonathan Aitken... L'elenco dei nostri politici incarcerati potrebbe andare avanti. Non mi danno gioia le loro condanne, ma mi rassicura il fatto che siano stati puniti i reati che hanno commesso. In Italia sarebbe impensabile, ma quei politici non hanno nemmeno fatto ricorso in appello dopo la prima sentenza: sapevano, come tutti, di aver violato la legge. Berlusconi è stato condannato e assolto così tante volte che nessuno può dichiarare, nero su bianco, la sua innocenza o colpevolezza. Il solo indizio è il suo comportamento: la fretta brutale con cui sono scritte le leggi - di solito durante i mesi estivi quando la gente è in ferie, lontana dagli spasmi della politica - che gli consentono di sottrarsi alle udienze. Non è dignitoso e trovo che la difesa - che sia in corso un colpo di stato da parte della magistratura - non sia convincente. Leonardo Sciascia una volta ha definito il fascismo come un «sottrarsi alle stesse sue leggi»; uno potrebbe adattare la frase al forzismo e dire che è la «costante legislazione dell'evasione». Quando un governo decriminalizza la falsificazione delle firme necessarie per presentare liste elettorali (la pena prevede adesso una piccola multa invece di un massimo di quattro anni di reclusione), c'è qualcosa di molto preoccupante in corso. | << | < | > | >> |Pagina 278Preso come movimento in un vuoto ideologico, il forzismo risalta. È qualcosa che riguarda la conquista e il mantenimento del potere. Non ha un'ideologia alle spalle; senza il leader l'intero progetto crollerebbe. Spesso si sostiene che il Cavaliere è la Thatcher d'Italia, il cancelliere di ferro che trasformerà l'economia italiana in una vera economia di mercato. È il punto in cui il forzismo si avvicina di più a una identità ben delineata, ed è qui che la sua retorica è più lontana dalla realtà. All'estero, il forzismo è aspramente criticato dalle pubblicazioni economiche di destra proprio perché il paragone con la Thatcher è assurdo. Molti degli atti più significativi del Governo dal suo insediamento - i provvedimenti sul falso in bilancio, sulle rogatorie, sul rientro dei capitali sembrano sbarazzarsi della pietra angolare del capitalismo: l'onestà contabile. Aggiungete il fatto che c'è stato l'ennesimo condono e comincerete a comprendere perché il paragone con la Thatcher è risibile. Il capitalismo, nel bene e nel male, si basa sulla trasparenza del mercato e ho paura che l'Italia resti più opaca che mai sotto il Cavaliere. Uno dei suoi più stretti alleati, sul banco dei testimoni a Milano, ha ammesso che i miliardi di lire conservati in una banca svizzera erano stati depositati là per evitare di pagare le tasse. È stato difeso a gran voce come se si trattasse di un comportamento normale. L'altra ragione per cui il paragone fallisce è che la Thatcher era davvero controcorrente, sfidava chiunque: gli aristocratici, la Bbc, i sindacati, la Chiesa anglicana. Anche coloro che la odiavano ammiravano la sua fortissima personalità. Berlusconi, nonostante tutto il potere concentrato nelle sue mani, in confronto è timido.E qui si arriva al miglior sistema che conosca per giudicare una persona. In inglese - come in italiano - c'è un vecchio detto secondo il quale una persona va giudicata sulla base delle compagnie che frequenta. Secondo questo parametro, il Cavaliere è in una posizione scomoda. Non è necessario portare fino alle estreme conseguenze la storia di Vittorio Mangano per rendersi conto che la sua presenza nelle scuderie di Arcore dimostra una profonda mancanza di giudizio. Marcello Dell'Utri è stato condannato in via definitiva per fatture false a Publitalia ed è attualmente sotto processo a Palermo, accusato di legami con la mafia. Cesare Previti nella maggior parte delle altre nazioni sarebbe in carcere per aver ammesso di aver nascosto miliardi di vecchie lire al fisco. Queste persone, invece, sono i battistrada del progetto forzista. Quando il processo di Piazza Fontana giunse alla sua conclusione, nel 2001 - condanna all'ergastolo per tutti gli imputati -, la difesa del più scomodo dei camerati fu assunta, come abbiamo visto, da un importante esponente della maggioranza. Guadagnare sessantun seggi parlamentari su sessantuno in Sicilia non implica che il forzismo conviva intenzionalmente con il crimine organizzato; ma il sospetto è l'anticamera della verità, e ci sono certamente motivi di sospetto. La compagnia che frequenta il leader è, nella migliore delle ipotesi, imprudente; nella peggiore, profondamente allarmante. Il ruolo dei media è altrettanto preoccupante. Forse uno che non ha mai lavorato nella comunicazione può sottostimare la loro portata, ma chiunque faccia parte della categoria sa che sono puro potere. La forza, la tenacia e l'influenza dei media, e in special modo della televisione, è tale da togliere il fiato. L'abilità di un uomo, di fronte alle telecamere, di parlare direttamente a noi, davanti ai televisori, è il suo asso nella manica. Gli basta inviare una videocassetta a una rete televisiva che, nella maggior parte dei casi, la trasmette puntualmente per cambiare i termini del dibattito. Il pubblico - anche questo non è un segreto per chiunque lavori nei media - è malleabile in maniera stupefacente. Le opinioni possono variare, soprattutto se vengono bombardate da svariati messaggi. Non è propaganda diretta, ma fornisce l'iconografia sulla quale si basa il forzismo: in primo luogo, idealizza un mondo fantastico fatto di uomini ricchi e donne bellissime. Il problema non consiste nella mancanza di una libera stampa o nei telegiornali orientati; la questione principale è il fatto che sembriamo incatenati alla vendita di uno stile di vita che non ha niente a che fare con la realtà. In modo subliminale, il leader diventa un primus inter pares. Non c'è un'architettura associata al forzismo: non ci sono aquile e palazzi littori e il classicismo agli steroidi di ottant'anni fa. Ma il forzismo ha in qualche modo modificato la linea dell'orizzonte: le antenne della televisione e le parabole satellitari sono simboli sacri, quasi bandiere che issiamo a dimostrazione della nostra devozione. Per adattare la frase di Benjamin, il forzismo non è l'estetizzazione della politica, ma la sua «subliminalizzazione». Berlusconi diventa l'interfaccia per milioni di transazioni quotidiane che sembrano del tutto estranee alla sfera politica. Quando si compra un libro o una rivista, è molto probabile che il prodotto faccia parte dell'impero del primo ministro. Molti dei film che guardiamo sono stati distribuiti da Medusa o noleggiati in un Blockbuster. Quando paghiamo il biglietto per andare a vedere il Milan a San Siro, quando guardiamo la finale di Champions League all'Old Trafford trasmessa da Mediaset, quando compriamo un prodotto delle millecinquecento società che fanno pubblicità sulle reti Mediaset, tutti finiamo per essere inestricabilmente legati a Berlusconi. La sua presenza aleggia sullo sfondo, ed essere finanziariamente liberi dalla sua influenza è impossibile. Le scelte più semplici assumono connotazioni politiche. Persino il pettegolezzo mediatico fa parte del processo politico: Natalia Estrada, leggiamo sui giornali, sta per diventare cognata del primo ministro. L'informazione non ha, ovviamente, alcun contenuto politico, ma ha conseguenze politiche: mantiene l'immagine di una dinastia alla moda, diventa un simbolo della nostra era post-ideologica. «Sono incapace di dire di no;» ha scherzato una volta il leader «per fortuna sono un uomo e non una donna.» È evidente che nel suo aspetto c'è qualcosa di vorace e di rapace. Non c'è fine alla sua ambizione che è contagiosa o infettiva, a seconda della posizione politica in cui vi riconoscete. C'era un'aggressiva canzone di Benigni, il cui ritornello annunciava «È tutto mio». Questa, alla fine, è l'immagine che resta: quella del bambino viziato che vuole tutti i giocattoli per sé. È avidità di prim'ordine. Ricorda quella di Cecil Rhodes, uno dei protagonisti del colonialismo britannico dell'Ottocento, il saccheggiatore di gran parte dell'Africa per conto dell'impero. Ho il sospetto che Berlusconi possa far proprio il famoso e deprimente adagio di Rhodes: «Ognuno ha il suo prezzo». Quanto più si osserva Berlusconi, tanto più ci si rende conto che è l'equivalente politico di Vanna Marchi o del Baffo. È il prototipo del venditore da televendita: lo stesso abile modo di presentarsi, la parlantina che lascia senza fiato, il sorriso rapido, la gestualità. Stringe ogni dito tra il pollice e l'indice dell'altra mano per enunciare uno per uno i suoi punti. Usa sontuosi svolazzi retorici. Ci godiamo la cavalcata, ascoltiamo entusiasti. Quando sono nella stessa stanza con lui, come accade talvolta alle conferenze stampa, personalmente lo trovo affascinante. Parla, parla, parla. Non si vorrebbe mai che finisse perché ti offre il paradiso. Ti dice esattamente quello che vuoi sentire. Ma allora, ormai, si è stati catturati. Come succede con l'uomo delle televendite, se ascolti per troppo tempo sei perduto. Prenderai in mano il telefono per ordinare quella nuova pillola dimagrante o promettere rate mensili per pagare gioielli di plastica. Ma se il Cavaliere fosse solo uno che legge i tarocchi, terrei lo stesso gli occhi incollati su di lui. | << | < | > | >> |Pagina 284Primavera avanzata. Una sera ero in un bar a guardare una partita di calcio. Riconobbi in un angolo un ragazzo biondo a cui avevo fatto lezione circa due anni prima. Marco era uno di quei tipi silenziosi che in aula parlano raramente. Quando lo faceva, era sempre per colpire con una battuta memorabile uno dei compagni. Non aveva un'aria di superiorità; era solo molto studioso, un po' sarcastico e distaccato. Mi piaceva molto, sebbene in realtà non lo conoscessi.«Zio Tobia!» Mi invitò al suo tavolo e mi sedetti di fronte a lui. «Stai sempre scrivendo il tuo libro?» chiese. «Ho paura di sì» risposi. «Di cosa stai parlando adesso?» «Del Governo.» Mi guardò e tacque. Poi cominciò a scuotere il capo, facendo smorfie. «Ma tu, non ti rendi conto?» sibilò come se stesse accusandomi di qualcosa. E in effetti mi stava accusando, anche se in modo indiretto. «Voi giornalisti stranieri siete così spiritosi e condiscendenti. Non fate che scrivere che il nostro è un Paese terribile.» «Ma ripeto solo quello che mi dite voi.» «Lo so. Ma è il tono che usi. È questo che mi fa incazzare. Arrivate qui e ridete della farsa, e non vi rendete conto che per noi è una tragedia. Vieni qui con il tuo patriottismo britannico e ridi di noi per poi tornartene a casa. Se vuoi stare qui, non devi più ridere» disse. «È un Paese terribile e Berlusconi è una tragedia per l'Italia. Tutto è un'incredibile tragedia. Gli italiani sono dei poveri coglioni che eleggono la prima persona che pensano li farà diventare ricchi. Berlusconi parla solo alla pancia. Ma non devi più ridere di niente. Devi scrivere che l'Italia non è tutta qui.» Era incredibilmente arrabbiato; mentre mi puntava il dito contro il petto gli scendevano le lacrime sulle guance. «Devi scrivere che qui c'è un Paese completamente diverso che odia Berlusconi e tutti i suoi corrotti giannizzeri. Per noi la vita sarà molto difficile d'ora in poi. Tu non capisci, ma capirai...»
Restammo seduti in silenzio per cinque minuti, ignorandoci a vicenda e
fingendo di guardare la partita. Aveva ragione, naturalmente.
Ormai, dopo tutti quegli anni all'estero, sentivo il desiderio di tornare a
casa. Ero disgustato non solo da quello che stava accadendo, ma dal fatto che
veniva passivamente accettato. Saturati dai canali Mediaset, tutti sembravano
indifferenti. Mi accorgevo di aver iniziato a scrivere una prosa biliosa e
probabilmente, come autore, stavo diventando sia irritato che irritante. Marco,
tuttavia, sapeva che sarei rimasto, e sapeva che c'era «un Paese diverso», al di
fuori della portata del Cavaliere, che nel libro avevo del tutto ignorato.
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