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| << | < | > | >> |IndicePremessa 9 Prefazione 11 Introduzione 15 Parole di donne irachene Quando i giorni diventano crepuscolo 65 di Hayat Sharara Desideri... 73 di Rim Qaïs Kobba Il ritorno del prigioniero 75 di Buthaina Al-Nassiri Lee Anderson 87 di Lamea Abbas Amara Voci da paradisi temporanei 89 di Lotfiya Al- Dilaimi Le gallerie della memoria 95 di Haifaa Zangana Stoffe 117 di Gulala Nouri La ragazzina 121 di Alia Mamdouh Memorie di un'onda fuori dal mare 129 di Dunya Mikhall Vietato entrare - Vietato uscire 139 di Salam Khayyat Gli amanti 145 di May Mudhaffar Un uomo dietro la porta 153 di Maysaloun Hadi Cronache di Baghdad 161 di Noha AL-Rahdi Postfazione 173 |
| << | < | > | >> |Pagina 9PremessaDice la leggenda che Sherazade, Nella Baghdad delle Mille e Una Notte, Abbia ingannato la morte con un racconto La sera, incominciava una storia E smetteva all'aurora, fino a quando le era permesso parlare. Le sue nipoti, oggi, usano Praticamente la stessa astuzia: Ingannano il destino con racconti Che dicono la verità più di tutti i bollettini del mondo. Ho voluto trasmettervi i loro racconti inganna-destino. Meritano di essere letti, come se fossero gli inni che da sempre i dannati della Terra cantano per la libertà. Inaam Kachachi Parigi: gennaio 2003 | << | < | > | >> |Pagina 15IntroduzioneIl nipote che consuma una matita ogni due mesi Scrivere non è certamente facile. Ma oggi scrivere in Iraq diventa una vera impresa, quando si conoscono le innumerevoli difficoltà, materiali ed etiche, causate dalla guerra - le guerre - e soprattutto dall'embargo. D'altronde, l'attività dell'editore è quasi una missione impossibile in un Paese dove manca carta, inchiostro, pezzi di ricambio per stampanti. E soprattutto manca quella bella rosa dai petali splendenti, ovunque agognata: la libertà di espressione. Laggiù, dopo aver messo a letto i bambini, le donne scrivono nell'oscurità di eterne interruzioni di elettricità. L'ispirazione raggiunge occhi affaticati e spenti. Occhi che non possono permettersi una matita di kajal importata, perché ha un prezzo esorbitante: come cento biro, tre polli o ottanta gallette di pane. Insomma, l'intero stipendio di un mese! Gli iracheni scrivono su fogli di carta scura, scarti di stampa, fogli già usati, vecchi quaderni di scuola. Scrivono una strofa di poesia o il passaggio di un romanzo su tutto ciò che sia utilizzabile: una vecchia ricevuta, una fattura non pagata, un sacchetto di carta spiegazzato che una volta è servito per portare frutta a casa (per coloro che allora potevano permetterselo). Scrivono anche sul retro delle ricette mediche... Una mia vecchia collega giornalista mi ha raccontato che un giorno aveva dovuto punire il suo nipotino e poi si era ritirata in camera a piangere. Gli aveva dato una botta sulla mano perché temperava troppo la matita, incurante della fatica che a lei costava comprare il prezioso articolo: anche le matite sono sottoposte all'embargo, poiché i Signori delle commissioni ONU sostengono che «la grafite contenuta nelle matite potrebbe essere usata per scopi bellici» (sic). La mia amica giornalista dirige ormai una rubrica in un quotidiano del governo. Per l'equivalente di un pugno di euro al mese. Lei, che ha terminato l'università da una trentina di anni, non ha potuto far continuare gli studi alla sua unica figlia per mancanza di mezzi: iscrizione, trasporti, abbigliamento, materiale necessario... tutto questo è inaccessibile. La ragazza si è sposata prima di compiere vent'anni. Ha messo al mondo un bambino, un monello che consuma un'intera matita ogni due mesi. Che spreco! Intrattengo ancora con lei un'assidua corrispondenza. In ogni lettera aggiungo un foglio bianco per permetterle di rispondermi. Sarebbe troppo rischioso spedirle un intero quaderno: un plico pesante attirerebbe l'attenzione e rischierebbe di essere rubato prima della consegna; la mia lettera non giungerebbe mai a destinazione e sarebbe un vero peccato. Il mezzo migliore è ancora quello di affidare il necessario a un viaggiatore che si reca a Baghdad. E l'accezione di necessario è consegnata al giudizio di noi privilegiati, incredibilmente fortunati che abbiamo potuto trasferirci all'estero. Per loro, laggiù, il necessario può andare da un sacchetto di cotton-fioc o una confezione di aspirina fino all'ultima raccolta del poeta palestinese Mahmoud Darwish. La mia amica, per esempio, preferirebbe il libro di Darwish. Si tratta, in ogni caso, di un rimedio contro l'emicrania. Gli ambienti culturali iracheni accolgono i libri entrati di nascosto dall'estero con un entusiasmo paragonabile a quello della terra assetata nei confronti delle poche gocce di una pioggia avara e sporadica. In Iraq esiste un sistema parallelo, non ufficiale - che riesce spesso a sfuggire al controllo delle autorità - consistente nell'impadronirsi dei libri provenienti dall'estero, «clonarli» su piccole fotocopiatrici d'occasione arrivate da poco via mare dagli Emirati Arabi Uniti, e rivendere poi le copie a scrittori, appassionati di arte e letteratura, universitari o studenti. Queste copie hanno un prezzo sostenibile per un bilancio medio. E comunque questo sistema di libreria parallela offre anche un servizio di prestito di copie a chi non può acquistarle. Grazie a quella che comunemente a Baghdad si chiama «cultura della fotocopia», il popolo iracheno ha potuto conoscere le opere (di autori stranieri o nazionali) che non erano state approvate dalle istituzioni pubbliche, le stesse che da trentacinque anni monopolizzano in Iraq il novanta per cento del mercato editoriale e della distribuzione. | << | < | > | >> |Pagina 75Per cominciare: la casa cui faceva ritorno non era più la sua; né sua moglie era più la sua; né i suoi figli erano più i suoi. L'auto lo depositò davanti a una casa a un piano, dipinta di bianco e circondata da un grande giardino. Non aveva mai messo piede prima in questo quartiere alla periferia della città. Sulla soglia c'era una donna, le vene del collo le pulsavano per il nervosismo. Il sorriso finto sulle sue labbra nell'accogliere colui che tornava non riuscì a dissimulare il cipiglio della fronte aggrottata. Quando l'uomo mise piede in casa, si precipitò verso di lui, poi, all'improvviso, come trattenuta da una forza invisibile, si fermò di colpo, contentandosi di tendergli la mano. I bambini erano rimasti immobili, seduti sui divani del salone. Il loro imbarazzo era palese, come se fossero costretti a comportarsi bene e a mostrarsi educati durante la visita di un ospite sconosciuto che presto se ne sarebbe andato. Tre li conosceva. Al momento però doveva fare uno sforzo per ricordarne i nomi e sapere chi era chi. Quanto al quarto, il più piccolo, non l'aveva mai visto: non era ancora nato dieci anni prima, quando era andato via, lasciando sua moglie incinta. Le presentazioni cominciarono con domande di ordine generale da parte sua e con risposte evasive da parte loro. Terminarono in un silenzio imbarazzato e pesante. Senza osare guardarla negli occhi, domandò alla moglie: «Quando avete comprato la casa?» La voce della donna cambiò, si fece più grave: «Non l'abbiamo comprata bell'e fatta. L'ho fatta costruire pezzo per pezzo. Avevo venduto la casa vecchia e preso un prestito in banca. Ho sorvegliato di persona i lavori tutti i giorni. Sono stati momenti difficili, con quattro bambini da tirare su». «Hai fatto un lavoro magnifico», disse lui alzando gli occhi verso il soffitto. «Ho pagato l'ultima tratta l'anno scorso.» «Non ti avrei mai creduta capace di occuparti di cose concrete. La donna che conoscevo contava su di me per tutto. Quando pensavo a voi, laggiù, quest'idea mi tormentava.» «Sono stati momenti difficili. E poi, dieci anni non sono pochi.» «No, in effetti.» «Col tempo, uno cambia...» «Sì, effettivamente.» «Vuoi vedere la casa?» disse lei con entusiasmo.
«Come vuoi.»
I mobili della camera da letto non erano cambiati. Era l'unico ricordo della loro vita passata rimasto intatto - e ne provò un sentimento di gratitudine verso di lei. L'armadio era lì, con le sue quattro ante, e le sue decorazioni a fiori e uccelli. Anche la toeletta con lo specchio quadrato era lì, quello specchio in cui non riconobbe i tratti che vi aveva visto per l'ultima volta dieci anni prima. Adesso vedeva un volto smagrito e ossuto, una testa canuta, delle spalle spioventi... La sua vera età era stata appesantita da falsi anni supplementari. Al momento di coricarsi, scoprì lo stesso letto che, un tempo, aveva ospitato i loro sogni insieme. Quando era prigioniero, aveva spesso sognato l'attimo in cui vi si sarebbe infilato di nuovo. Ma l'uomo e la donna erano divenuti estranei. Badò a non sfiorare il corpo allungato al suo fianco nel grande letto matrimoniale; aveva notato che lei si teneva discosta, rannicchiata su se stessa. Fissò il soffitto illuminato dalla luce della luna che penetrava dalla finestra. I suoi pensieri presero a viaggiare a migliaia di chilometri da lì, attraversando le frontiere, fino al campo di detenzione. Vide i compagni che erano rimasti laggiù, li immaginò immersi in un sonno profondo per compensare la fatica dello star svegli durante il giorno. Rivide i loro sorrisi furtivi nel fantasticare del ritorno a casa. Ricordò il cigolio delle massicce porte di ferro, l'ordine urlato dei guardiani: «Sveglia». Strappati ai loro sogni, vengono condotti a suon di bastone in cortile e lui cerca di farsi piccolo in mezzo alla lunga fila di prigionieri. La voce monotona di un ufficiale senza volto martella: «Il vostro Paese vi ha abbandonato. Resterete qui, con noi, fino a marcire». I raggi del sole si fanno sempre più cocenti. Le braccia e le gambe sono come paralizzate, la bocca riarsa. Non ne può più: cade a terra. I guardiani si accaniscono su di lui tirandolo per le braccia, così forte che per un attimo crede che si strapperanno. La porta di una piccola cella sepolcrale si apre. Lo gettano dentro. Lo scatto della porta che si richiude gli rimbomba a lungo nel cranio. Si accorge che l'altezza della cella lo costringe a chinarsi per sedersi. | << | < | > | >> |Pagina 99I primi incontri [di Haifaa Zangana]Intorno a un camino orfano, eccoci riunite. Cerchi e cerchi di donne costrette alla coabitazione. Cerchi di corpi sformati e di pelli flaccide, sfibrate dalla paura del futuro, putrefatte dall'incertezza. Cerchi di un silenzio improbabile, immutabile, beato. Lineamenti svuotati, occhi che fissano il medesimo punto. Talvolta le vedevo svegliarsi in piena notte, come per gettare un ultimo sguardo, ai loro giorni e alla Terra. Un addio ai figli e alla casa, un addio perfino a quella penosa afflizione che strappava la membrana del cuore e vi si sostituiva. «Buongiorno.» «Una visita per te.» Oum Wahid gridava con la sua voce penetrante. Non camminava, correva, gesticolando con le braccia e le mani per aggiustarsi il velo sulla testa e impedire che cadesse, benché fosse fissato con un piccolo spillo d'oro regalatole da una detenuta che un tempo aveva occupato la mia cella. Questa precedente inquilina è stata uccisa un anno dopo essere stata liberata. Alcuni hanno sostenuto che l'assassino era il suo amante, altri che le autorità l'avevano soppressa. La notizia è stata uno shock per Oum Wahid, che ha cominciato a battersi il viso e il petto. Poi ha chiesto alla guardiana che chiamiamo l'Alwiyya di comprarle dell'halva di datteri per un quarto di dinaro. Quella sera, le detenute hanno organizzato la cerimonia funebre di Al-Fatiha e versato lacrime amare in ricordo della loro ex compagna di prigionia; la carceriera Alwiyya ha fatto le veci della prefica in modo del tutto credibile. Dopo aver distribuito l'halva di datteri, Oum Wahid ha accettato le condoglianze. «Hai una visita. Una visita!» Questa volta era la voce di Oum Jassem che m'incalzava. Perché dunque per un attimo sono rimasta paralizzata, tremante? Ho lasciato l'ala della prigione passando attraverso il corridoio di cemento che porta al primo cortile, l'ho attraversato per raggiungere il secondo edificio. Lì c'era l'ufficio della direttrice e della segretaria e, accanto, la sala delle guardiane e un magazzino. Sono uscita da quest'edificio e mi sono ritrovata nel cortile anteriore, vuoto, a eccezione di quattro sedili colati nel cemento, due guardiane e due guardiani. Su uno dei sedili mia madre, mentre mio padre percorreva i cento passi del cortile, angosciato come al suo solito. Per tutto il colloquio pesava su di noi il fantasma di domande improferibili. Io avrei voluto chiedere notizie dei miei amici; loro avrebbero voluto sapere che cosa mi era veramente successo... Alla fine ci siamo accontentati di dire: «Stai bene?» «Sì.» «Dormi bene.» «Sì. Sto bene e dormo bene.» «Il cibo è buono?» «Sì.» «Hai bisogno di soldi?» «No, grazie.» Eravamo lì, tutti e tre, a scambiarci battute tra sordi, che non svelavano nulla di quello che volevamo davvero dire. | << | < | > | >> |Pagina 129Come nottambuli, partiamo per la guerra e sprofondiamo in una melma fonda. Il bambino, sognando, allenava il pugno nell'udire il monotono appello: «Colpisci i nemici, colpisci!» Il bambino si è svegliato, ha domandato alla madre: «Mamma, che vuol dire, nemico?» «Sono fantasmi appostati dietro la linea del fronte che puntano i fucili alla luna.» «Ma la luna è loro e nostra. Quindi puntano soltanto alla nostra parte di luna?» «Sì. A volte, quando raggiungono il bersaglio, più di metà cade. Allora la luna diventa una mezzaluna. A volte sparisce completamente.» «Questo vuol dire che a volte colpiscono anche la loro metà di luna, la loro stessa metà?» «Sì. È quello che si chiama sacrificio: sacrificano quello che hanno per distruggere quello che abbiamo noi.» «Per guadagnarci cosa?» «Per toglierci il vantaggio.» «Quale vantaggio, mamma?» «Di condannarci alla perdita.» «Quale perdita?» «La perdita del vantaggio, o il vantaggio della perdita dell'altro.» «Quando partiremo?» «Partire per dove?» «Dove la luna non cade.» Ieri la luna è caduta nel forno e si è cotta con il pane. Allora ho sbagliato a pregare. Ho detto: «Padre nostro che sei nei cieli, dacci oggi la nostra luna quotidiana...» Ho voluto correggermi. Ho detto: «Perdonami per aver mangiato la luna». So che sei in ogni luogo. Ma attendo impaziente la Tua canzone come se aspettassi qualcuno dato per disperso. Ogni giorno consegnamo i nostri voti scritti su pezzetti di carta che mettiamo in un sacco. È vero che il Diavolo ogni giorno porta via il sacco e lo getta all'Inferno? Fermalo, Padre, fermalo per strada. Ma non gettare quei pezzetti di carta su di noi: sono troppo pesanti. E anche se non fossero pesanti, ci ricorderebbero le nostre menzogne. Ci hai raccomandato di non mentire, Padre. Allora non lasciare che mentiamo a noi stessi con quei bigliettini. I nostri soldati si sono spinti in terre non arabili. Molti sono volati in cielo. Con le loro ali appuntite hanno trafitto le nuvole - che i nemici ci rispediscono indietro - e questo ha scatenato le piogge di lacrime delle madri. | << | < | > | >> |Pagina 161[...] Ottavo giorno Il cielo è stranamente silenzioso. Sono le sei del mattino e ancora niente raid. Ieri sera ho mangiato troppo. Non sono riuscita a dormire, mi torturavo per la tristezza e per l'amarezza al pensiero che il mondo intero ci detesta fino a questo punto, che gode così cinicamente nel vederci distrutti e sterminati. Pensieri profondamente dolorosi mi hanno assediata tutta la notte. Si direbbe che abbiamo addentato un boccone davvero troppo grosso per le nostre bocche. Ma avanza una teoria: «Il pianeta Terra è governato da due minuscoli Stati: Israele, con la sua potenza e la sua lobby schiacciante, e il Kuwait, con i suoi soldi e il suo petrolio». Che mondo incredibile! Saremmo dunque i soli ad aver commesso un errore? Tanti Paesi hanno commesso orrori. La Russia con gli afghani, la Turchia invadendo Cipro, Israele con l'occupazione della Palestina e le invasioni del Libano... Nessuno li ha bombardati né sanzionati, e neppure ha pensato di condannarli. Noi viceversa siamo un'altra cosa, ci bombardano spietatamente, con la volontà dichiarata di annientarci.
L'Iraq ha conosciuto parecchi alti e bassi nel corso della Storia. Non è la
prima volta. Soul ricorda che la nostra Storia è lunga, ricca di progressi e
regressi, di rivolgimenti e di turbolenze. «Perlomeno adesso Baghdad figura
chiaramente sulla carta; non dovrò più spiegare ogni volta alla gente dove sono
nato» sottolinea. [...]
Nono giorno Di fronte alle sciagure, come sono ridicole a volte le nostre reazioni! Ieri sera ho tirato fuori il mio vestito rosso e l'ho indossato. Poi sono andata a fare un bagno con la mia razione d'acqua. Uscendo non ho più trovato il mio vestito rosso, allora ne ho messo un altro. Stamane ho cercato ancora il vestito rosso, ma non l'ho ancora ritrovato. Possibile che sia sparito come per incanto?
Stamattina, mentre urlavano le sirene, zia Jalila, seduta in una posa di
serenità tutta ottomana, mi ha domandato: «Perché non prendiamo il treno della
linea Toros e andiamo a Istanbul?» È convinta che i treni viaggino ancora,
mentre invece tutto ha smesso di funzionare. Va detto però che è stata colpita
da sordità parziale. Da quando ha lasciato la sua casa si è sistemata da Talal.
Sembra terribilmente pensierosa. La sua casa è proprio sotto tiro, vicina a
quella del vecchio Henri. Povero Henri! Sono passata a trovarlo per convincerlo
a venire a rifugiarsi da noi. L'ho trovato livido come un cadavere. Si è
rifiutato di lasciare la sua casa. Dice che quello che teme di più è che un raid
lo fulmini mentre è senza pantaloni. Per questo pianifica accuratamente le sue
sedute in bagno. [...]
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