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| << | < | > | >> |Pagina 17"A che pensa?", domandò."Ha letto Lenoren Lied di Bürger?", chiesi all'improvviso. Fece no con la testa. "E Ludmilla di Zhukovski?" "Questo sì, l'abbiamo studiato a scuola." "È la stessa storia", dissi, "Zhukovski l'ha tradotta da Bürger.» "Ricordo vagamente quello che ne ha detto il professore", disse lei, "anche se ai russi non piace rievocare queste cose." Faceva capire che non provava simpatia per i russi. "Eppure nemmeno Bürger ha inventato nulla di nuovo», continuai. "Anche lui ha preso la storia da altri, e come Zhukovski l'ha piuttosto snaturata." "Bürger è tedesco, vero?" "Sì." "E da chi l'ha presa?" Aprii la bocca per dire "da noi", ma mi trattenni subito per non mettermi a fare come quei rappresentanti dei piccoli popoli sempre ansiosi di poter dire "noi", "da noi" con una specie di fierezza, di enfasi che mi sembravano deprimenti, perché sentivo che neppure loro credevano a quel che dicevano. Incominciai a parlare, ma con prudenza. Le dissi che Omero aveva visto la luce dei Balcani, i quali erano quindi la terra madre della grande poesia; che nei Balcani si trovavano molte leggende e ballate di ineguagliabile bellezza, e che proprio a una di queste, la leggenda del morto che esce dalla tomba per mantenere la parola data, si era ispirato Bürger nel Lenoren Lina anche se l'aveva fatto in un modo pietoso. Aggiunsi che tutti i popoli balcanici avevano elaborato varianti di questa leggenda, e che non doveva considerarmi sciovinista, ma la nostra era davvero la più struggente, la più bella. Anche un poeta greco che faceva gli stessi miei studi a Mosca era della stessa opinione. "La credo", disse. "Perché dovrei trovare superiore la variante greca?" "Per via di Omero", risposi. "Dal momento che è uno di loro..." "Capisco, certo, ha ragione. Ma mi racconti questa leggenda." Aspettavo che me lo chiedesse. Immediatamente, mi dissi, la sentirai immediatamente. Sembrava che quell'estate dovessi raccontare quella leggenda a ogni costo. Probabilmente non l'avevo fatto a Rijski Vokzal mentre mi separavo da Lida perché la mia coscienza non l'aveva ancora sufficientemente elaborata in modo che la potessi esporre in forma perfetta. Ora avevo l'impressione che il momento fosse venuto. Respirai profondamente, concentrai tutte le mie energie e le mie facoltà, e incominciai a spiegare alla mia compagna che cosa significasse per un'albanese madre di dodici figli sposare la sua unica ragazza in un posto lontano, "al di là di sette montagne". Sentivo che lei mi ascoltava, e sentivo anche che il Baltico, massa d'acqua straniera, mi aiutava con il suo rimbombo nordico. La donna non voleva che la figlia si sposasse in un posto così lontano perché sapeva che non sarebbe mai potuta tornare per un matrimonio, né per un funerale. Ma il figlio prediletto, Costantino, le promise che qualsiasi cosa fosse accaduta le avrebbe riportato la ragazza dalle terre più lontane. Allora la madre accettò e fece sposare Doruntina a un cavaliere che viveva lontano. Ma ahimè, sopraggiunse un terribile inverno e insieme una guerra sanguinosa; i dodici figli caddero in battaglia e la donna restò sola con le sue lacrime e la sua disperazione. "Ma io non ricordo nulla di tutto questo", sbottò. "Certo, l'hanno cancellato tutto", dissi con voce minacciosa, come se Bürger e Zhukovski fossero stati ladri di cavalli. Non mi staccava gli occhi di dosso. "La tomba di Costantino", ripresi, "era allagata, piena di fango, perché il giovane aveva tradito la bessa. Da noi la parola data, la bessa appunto, è un qualcosa di assoluto, e infrangerla è la più abominevole delle ignominie. Capisci? Si dice addirittura che i rami della quercia che tradisce la fiducia si disseccano." "Com'è affascinante!", si lasciò sfuggire. Continuai la narrazione, le raccontai che una domenica la madre andò a visitare come sempre le dodici tombe dei figli e accese una candela sulle prime undici, ma due su quella del suo prediletto. Poi chiamò Costantino e gli disse: "Costantino, hai dimenticato la promessa di portarmi mia figlia in caso di matrimonio o di funerale?". E fece quello che una madre albanese fa molto raramente, maledisse il figlio morto: "Tu che hai mancato alla parola data, possa la terra rifiutarti! E quando la notte...". Avevo appena finito di pronunciare quelle parole che la ragazza esclamò, prendendomi la mano: "Tutto questo è terribile!". E dopo un attimo, come per ricondurre a un tono naturale la conversazione, disse che nelle loro ballate non c'era nulla di simile. "Non mi parli di quei briganti", sbottai quasi con collera. "Dunque, quando la notte fu profonda e la luna rischiarò il cimitero, la pietra della tomba di Costantino si sollevò, e pallido, i capelli pieni di fango, si levò dalla terra il morto maledetto." Le tremava la mano, ma continuai. "Costantino sorse dalla tomba perché la parola data allontana i confini della morte, capisce?" Il tremito era passato anche alle spalle. E raccontai la corsa di Costantino sotto la luna verso le terre nelle quali si era sposata la sorella. Il giovane trovò Doruntina a una festa, e la prese sul suo cavallo per portarla dalla madre. Strada facendo la ragazza gli domandava: "Fratello, perché sei così pallido, perché hai la terra nei capelli?". E quello rispondeva: "È la stanchezza, è la polvere della strada". Cavalcarono così sullo stesso cavallo, il morto e la viva, fino al villaggio della madre. Davanti alla chiesa, Costantino fermò l'animale. La chiesa era buia, con il suo muro di cinta e i cancelli di ferro, e solo l'abside era debolmente illuminata. Costantino disse alla sorella: "Continua da sola, ho da fare qui". Spinse la porta di ferro ed entrò nel cimitero per non uscirne mai più. | << | < | > | >> |Pagina 55La solitudine si guarisce con la solitudine, pensavo cercando la chiave in tasca. Finalmente la trovai, mi avviai verso l'ala sinistra. Il parquet dei corridoi cigolava adagio alle mie spalle. Trovai la porta, l'aprii. Entrai. A tentoni posai la mano sull'interruttore. Sempre le stesse pareti tappezzate con carta a fiori su fondo verde, che ricordavano i motivi dei sarcofagi. Entrai in una camera, restai un attimo in piedi, le mani in tasca, completamente stranito. Giunsi alla porta dell'altra stanza, ma appena accesi la luce mi irrigidii: qualcuno aveva profanato il mio tempio. Interdetto, posai lo sguardo su un angolo della camera. C'erano una bottiglia vuota, una scatola di conserva e un oggetto che non vedevo bene. Feci due passi avanti e vidi accanto alla bottiglia un pezzo di carta da pacchi strappato, che doveva essere servito ad avvolgere qualcosa di unto. Un po' più in là, alcuni fogli di carta. Mi chinai, li presi. Erano scritti a macchina, con righe poco spaziate. Null'altro, intorno. Sembrava che lo sconosciuto fosse venuto per bere vodka e leggere quelle pagine dattiloscritte che forse non gli erano piaciute, e che aveva mollato lì con gli avanzi del pranzo. Per un attimo ebbi la sensazione che sarebbe tornato e avrebbe aperto bruscamente la porta, sorprendendomi. Ma gli avanzi della scatola erano secchi. Mi inginocchiai e presi il fascio di fogli. Dovevano essere due o trecento pagine. Al primo sguardo capii che doveva essere un'opera letteraria, dai trattini dei dialoghi. Mancavano l'inizio, circa la metà dell'opera, e naturalmente il titolo. Le cartelle incominciavano dal numero 304 e si fermavano al 514. Ebbi la tentazione di rimettere il manoscritto per terra, ma meccanicamente i miei occhi incominciarono a leggere la prima pagina, l'inizio del capitolo XXXI. "Zivago, Zivago", continuava a ripetere Strelnikov nel vagone sul quale erano appena saliti. "Un nome da commerciante o da aristocratico. Un professore, dottore a Mosca..." Saltai quaranta o cinquanta pagine e l'occhio mi cadde sulla frase: "Analizzava e commentava con la stessa passione I demoni di Dostoevskij e il Manifesto del Partito Comunista, e...». Avrei certo continuato la lettura, ma alcuni fogli mi scivolarono dalle mani, e chinandomi per raccoglierli perdetti la cartella che stavo leggendo. Sfogliai rapidamente il manoscritto e mi fermai soltanto all'ultima pagina per leggere le righe sulle quali interrompeva: "Fuori nevicava. Il vento portava la neve dappertutto. Cadeva sempre più fitta, più spessa, come se stesse inseguendo qualcosa, e Juri Andreiev guardava dalla finestra come se non fosse neve, ma...".Che cos'è questo manoscritto?, mi chiesi. In un primo momento pensai che forse era stato dimenticato da qualcuno che aveva bevuto, ma ricordai la frase di Dostoevskij e il Manifesto del Partito Comunista, e mi venne in mente che poteva essere un manoscritto vietato che circolava di mano in mano. Da qualche tempo la cosa era piuttosto. diffusa. Tre mesi prima, tardi, dopo mezzanotte, forse subito prima dell'alba, Maskiavicius, completamente ubriaco, aveva bussato alla mia porta, o meglio vi si era accasciato davanti, e quando aprii mi porse alcune cartelle battute a macchina farfugliando: "Prendi, leggi che cosa ha scritto, sì, lui, Dante Tvardovskij, o meglio Margherita, no, Alessandro Alighieri". Soltanto un quarto d'ora dopo riuscii a capire che su quei fogli era battuto a macchina un poema vietato di Aleksandr Tvardovskij, intitolato Vassili Tiorkin nell'altro mondo. Lasciai il fascio di cartelle: dove le avevo raccolte, vicino alla bottiglia di vodka, alla scatola e alla carta da pacchi, e dopo aver gettato un ultimo sguardo a quella squallida natura morta spensi la luce e uscii. Ora l'unico posto dove potevo andare era la mia stanza. Ero stanco e mi allungai finalmente sul letto; tuttavia, malgrado i tentativi di addormentarmi, riuscivo soltanto a sfiorare i contorni del sonno, forme grigie, incolori, insonore, ma ero ben lontano dal centro pittorico del mio sonno e dei miei sogni. In quello stato di sonnolenza sentivo dalla strada il sibilo dei cavi dei filobus che si avvicinava alla fermata. I cervi indolenti delle fiabe cercavano di portarmi nel cuore di Mosca, ma non riuscivano ad accelerare la corsa, sgambavano disorientati nell'aria, con le corna che si conficcavano nelle nubi, e sotto il loro ventre strade grigie, sinuose e anonime aspettavano che cadessimo. | << | < | > | >> |Pagina 66Passarono parecchi minuti prima che tornasse il silenzio. Il professore, anche se irritato, tornò a Novodievichi, nel cimitero del monastero. C'ero andato un anno prima, e la descrizione dell'insegnante era esatta, solo che ora non ricordavo se le foglie rossastre sul marmo delle tombe fossero foglie di rame o semplici foglie morte d'autunno. Fra i sepolcri avevo notato quello délla moglie di Stalin, con le parole incise nel marmo: "Alla mia adorata Alliluieva, I. Stalin".Il professore continuava a parlare e il silenzio tornò padrone assoluto, forse perché si parlava di tombe, e certo tutti pensavano al loro sepolcro o alle loro poesie incise sulle tombe delle donne che avevano conosciuto e che forse non meritavano quell'onore, perché quasi sempre le loro relazioni erano state storie banali, noiose e piene di delusioni reciproche. L'uditorio era piombato di nuovo nel primitivo stato di sonnolenza, ma era una sonnolenza inconsueta, striata da un'ampia crepa, e c'era come un sibilo che solcava la fenditura da parte a parte. La neve mi cadeva accanto, ma la sua realtà mi faceva sfuggire soltanto brevi attimi di quel sibilo interiore che erodeva tutto. L'occhio torvo, olivastro, di Nutfulla Shakenov, con al centro quella specie di abisso, quasi toccava il mio occhio destro. Poco mancava che il suo temibile sopracciglio si attaccasse alla mia tempia come una sanguisuga. "Oh", sospirò qualcuno vicino a me, forse Shoghentsukov... Ma no, la sua faccia rifletteva un dolore soffocato accanto alla testa gialla, ai capelli trasparenti come acquerelli di Hieronym Stulpanz. Guardavo con la coda dell'occhio il volto languente di Shoghentsukov e mi dissi che non era là rabbia di aver perduto il posto (dolore primo ministeriale, scherzava Pogozian) ad aver devastato quella testa forte. Quell'ululato interiore che echeggiava nell'aula sbriciolando tutto come un trapano, doveva dipendere da qualcos'altro. In realtà si sentiva il nervosismo, ma era un nervosismo privo di gesti e spaventoso nella sua visceralità. Aleggiava da giorni, ne avevo osservati i sintomi sin dal venerdì precedente, anzi dal pomeriggio di giovedì, quando Abdullakhanov aveva detto ad alta voce: "Fratelli, shto to nie to". Poi, per l'intero pomeriggio e la sera di venerdì, tutti andavano e venivano in gran confusione nei corridoi e bussavano a porte che non vedevano, borbottando. Mentre Taburokov... All'improvviso mi parve evidente che la sua domanda su A.P. Kern era stata fuori posto, ed era la seconda del genere. La prima volta, il giorno prima della grande sbronza durante la quale Maskiavicius si era ferito sbattendo la testa contro il vetro della porta principale e i due Shota erano saliti nelle soffitte dell'Istituto, sopra il settimo piano, per darsele senza essere disturbati, il giorno prima di quella sbronza della quale si era parlato persino al comitato direttivo dell'Unione degli Scrittori dell'Urss, Taburokov aveva chiesto, durante la lezione di Psicologia della Creazione, chi fosse quel Boris Godunov che sentiva nominare per la prima volta. Chiaramente ora la sua domanda era altrettanto fuori posto. I sintomi erano evidenti sin da giovedì, e anche da prima, forse da martedì. Nell'aria vagava una specie di malinconia, quella noia che il russo definisce tanto bene con una parola greve, khandra... Finalmente la lezione terminò. Nel corridoio tutti si misero i pastrani e i berretti, ma nessuno uscì. Vagavano come nella nebbia, come se non vedessero più le porte, si osservavano a vicenda come se aspettassero un segnale, un messaggio. Finalmente in quella confusione, come una schiarita tra nubi soffocanti brillò scattante, rapida, la parola "sci". Era una parola d'ordine, un simbolo che li fece raggruppare tutti. Domani, domenica, sci... a Peredelkino... naturalmente, sci... s...c...i... Negli occhi di tutti scintillava un lampo folle. Gli occhi ravvicinati e strabici di Abdullakhanov. Gli occhi di Maskiavicius. I quattro occhi dei Shota, dagli sguardi incrociati. L'occhio registratore e onnipresente di Juri Goncharov. Taburokov e il gruppo del Karakum parlavano di sci. Ecco. Ora capivo il codice. Il complotto si svelava: parlavano di sci, ma volevano dire vodka. Così, l'indomani, a Peredelkino... Gli occhi dei congiurati continuavano a fissarsi a vicenda. Gli occhi velati come da una membrana ghiacciata (nella tundra il gelo era incominciato da tempo) di Kiuzenghesh. Gli occhi del greco Anteos, che mi propose: "E se andassimo a prendere un caffè al Praga?". Il Caffè Praga, in piazza Arbat, era l'unico luogo pubblico di Mosca nel quale servissero vero caffè, proprio nero. Lo portarono in servizietti di rame, e quasi tutti gli habitué dei circoli letterari e artistici andavano a prenderlo in quel posto. Noi invece ci andavamo per soddisfare la voglia di caffè balcanico. Ci incamminammo per il Tverskoi. La neve mista a pioggia era opprimente. "A quanto pare domani ci si sbronza come vacche." "Sì, sembra."
Stavo spesso con Anteos. Dopo la sconfitta dei partigiani
greci a Grammos, aveva attraversato con altri la frontiera, l'avevano curato per
un po' nella mia città, Gjirokäster. A quell'epoca facevo le medie e ricordo
che, quando mi capitava di passare di notte nel quartiere dell'ospedale,
rabbrividivo sentendo i lamenti dei greci feriti. "Forse ho sentito gemere anche
te" dicevo talvolta ad Anteos. Stava a Mosca da un po', si occupava di
letteratura, ed essendo stato condannato a morte in contumacia non aveva
nessunissima intenzione di tornare in Grecia.
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