Copertina
Autore Jean-Sélim Kanaan
Titolo La mia guerra all'indifferenza
EdizioneMarco Tropea, Milano, 2004, I Tigli , pag. 222, dim. 122x190x21 mm , Isbn 978-88-438-0489-4
OriginaleMa guerre à l'indifférence
EdizioneRobert Laffont, Paris, 2002
PrefazioneGiovanni Porzio, Gabriella Simoni, Christine Ockrent
TraduttoreChiara Bongiovanni
LettorePergiorgio Siena, 2005
Classe storia contemporanea , guerra-pace , biografie , viaggi
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Indice


Introduzione                                 11

di Giovanni Porzio e di Gabriella Simoni

Prefazione                                   25

di Christine Ockrent

    Un giovane cittadino del mondo

1.  New York in una bella mattina
    di settembre...                          29
2.  Jean-Sélim di Roma                       36
3.  L'urlo                                   43
4.  Bambino                                  51
5.  Volontario usa e getta                   60
6.  Nell'inferno bosniaco                    78
7.  I bambini di Sarajevo                    95
8.  "Post-traumatic stress disorder"        113
9.  Dalle ONG a Harvard                     124
10. Passaporto blu                          136
11. "Ministro" dello sport in Kosovo        145
12. Uno zombie al "Palazzo di vetro"        158
13. Tornare a casa                          171

Epilogo.
    Spero che sarebbe stato fiero di me     185

Appendice. Resoconti da Baghdad             193
Primo resoconto da questa bella
    città di Baghdad                        195
Secondo resoconto da Baghdad
    25 giugno 2003                          200
Terzo resoconto da Baghdad:
    un concerto importante                  207
Quarto resoconto da Baghdad
    1° luglio 2003                          214
Messaggio di Kofi Annan                     221

 

 

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Pagina 54

Nell'autunno del 1992 la Somalia era un paese in cui regnavano la guerra civile e una terribile carestia. Mogadiscio, la capitale, era divisa in due parti, separate da una "linea verde". Il sud della città era controllato dal clan degli Habr Gedirs, agli ordini di Aidid, il nord invece dal clan degli Abgals, il cui capo era Ali Mahdi. Il resto del paese era suddiviso tra altre fazioni che si richiamavano a questo o quell'uomo forte. Solo qualche ONG tentava, per quanto era possibile, di venire in aiuto alle popolazioni affamate, prese tra due fuochi. I numerosi campi profughi dipendevano unicamente dagli aiuti umanitari.

Ricordo anche la sensazione particolare che ho provato durante quella prima giornata sul suolo somalo: la paura, una paura improvvisa e violenta, una sensazione che chiude lo stomaco e gela il sangue e che non mi avrebbe abbandonato fino alla fine della missione. Ho capito in fretta che avrei vissuto per mesi in un paese in cui si poteva morire per una pallottola semplicemente perché un adolescente eccitato armato di kalashnikov aveva esagerato con il khat.

Le strade di Mogadiscio erano continuamente interrotte da checkpoints, controllati dalle diverse fazioni in guerra. Spesso fatti di qualche pietra, vecchi barili di petrolio o un po' di granate disposte di traverso sulla strada, questi checkpoints servivano soprattutto a taglieggiare i viaggiatori e a controllare i movimenti di merci e cibo. I guardiani stavano in una capanna o all'ombra di un albero sul bordo della strada. Il superamento dei checkpoints obbediva, come quasi tutto in quel paese, alle oscure regole su cui si basavano i rapporti tra le diverse fazioni e i clan belligeranti, le cui alleanze potevano cambiare da un giorno all'altro. Quando ci avvicinavamo a questi sbarramenti improvvisati e agli uomini armati, non sapevamo mai che cosa aspettarci. Era evidente che le nostre guardie, che appartenevano anche loro a un clan ben preciso, si aspettavano ogni volta il peggio. Armavano rumorosamente i fucili mitragliatori e le impressionanti mitragliatrici collocate sulla 4x4. Poi cominciava il rituale del "dialogo". Volavano intimidazioni reciproche e i due gruppi si squadravano; qualche volta alcune sigarette o foglie di khat, estratte dal fondo di una tasca sporca e sfondata, cambiavano di mano. Passavamo o non passavamo a seconda dell'umore e del grado di intossicazione da khat dei guardiani.

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Pagina 84

In una delle mie prime serate a Zenica, ricordo che siamo stati invitati a cena da Emir Sokolovic, un artista locale, pittore e poeta. Una casa ammobiliata poveramente, un pasto frugale innaffiato di slivovica (la grappa di prugne locale), ma con l'incredibile calore umano di questi luoghi, l'ospitalità offerta come si offre un sacrificio. Quando ha saputo che parlavo italiano, Emir mi ha regalato una traduzione delle sue poesie su cui dopo cena ha scritto una dedica. Poesie dolorose e dirette che parlavano degli orrori della guerra. Per la prima volta allora ho fatto questa sconvolgente riflessione: quest'uomo è un artista, sensibile e intelligente, ha viaggiato, conosce l'Europa e il mondo. Avrebbe potuto benissimo vivere a Parigi o a Roma e invece ci riceve qui, nel suo paese, dove si sta svolgendo una delle peggiori barbarie del nostro secolo. Ho continuato, anche in seguito, a incontrare bosniaci immersi come lui, loro malgrado, in quella spirale di orrori: medici, traduttori, farmacisti, ex professori... E ho continuato a pormi sempre la stessa domanda: Che cosa hanno fatto per meritarsi questo? Che cos'hanno in comune con quei dementi che governano il loro paese e le cui milizie saccheggiano, uccidono, bruciano e scacciano le popolazioni civili?

Paragonata alla situazione bosniaca la guerriglia somala era una buffonata: dei clan dotati di armi pesanti che giocavano alla guerra e che, con le loro azioni, affamavano la popolazione. Qui avevamo a che fare con eserciti e milizie fascisteggianti il cui obiettivo era lo sterminio del maggior numero possibile di civili e l'ampliamento dei loro territori con il terrore e il saccheggio.

Zenica veniva bombardata praticamente tutti i giorni. Era in questo modo che i miliziani serbi mantenevano la città sotto pressione. Appostati sulle colline dei dintorni, prendevano di mira soprattutto la piazza centrale, con i suoi caffè pieni di gente. Eppure, malgrado ci fossero spesso vittime, la vita non si fermava mai; i giovani di Zenica continuavano a uscire, come per sfidare il destino e la guerra. Su un tratto di strada, all'uscita della città in dirczione di Kiseljak, che percorrevamo spesso in macchina, ho avuto modo di sperimentare presto un'altra realtà bosniaca, i cecchini. Erano nascosti sulla collina di fronte e, a seconda del loro umore o del tasso alcolico, cercavano di fare un po' di tiro al bersaglio sulle macchine. Il rituale era sempre lo stesso. Ci mettevamo i giubbotti antiproiettile, alzavamo la musica al massimo e passavamo in terza facendo ruggire il motore.

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Pagina 163

[...] Ma ho perso ben presto ogni illusione: lavorare all'ONU non è certo una panacea. Il centro di tutte le operazioni della maggior organizzazione del mondo resta un covo di burocrati, di imboscati e di funzionari. Per rendersene conto basta girare per i corridoi: tutti hanno l'aria seria, indaffarata, motivata, ma se chiedete a qualcuno che cosa ha fatto di concreto nel corso della giornata, vi risponderà o con un'alzata di spalle o in un incomprensibile gergo amministrativo da cui non ricaverete assolutamente niente. La cosa più incredibile è che la gente non è felice. Bisogna dirlo. Gli impiegati di quest'organizzazione, che dovrebbe essere pieni di speranza in un mondo migliore, sono persone tristi. Volti pallidi e immusoniti, schiene curve, sguardi spenti: nei nostri corridoi si incrociano veri e propri zombie. Nel giro di poche settimane ho cominciato a riconoscere i depressi, gli alcolizzati e quelli che vanno avanti a tranquillanti. E poi ci sono quelli che vedo solo raramente perché sono sempre in congedo per malattia.

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Pagina 167

[...] Ma non bisogna dimenticare che, agli occhi della gente, l'ONU continua a essere il simbolo di un certo ideale e rappresenta spesso l'ultima speranza. In un conflitto, l'ONU viene sempre chiamata come estrema risorsa. Bisogna arrendersi all'evidenza: questo salottino mondiale, punto d'incontro di diplomatici e funzìonari, che per molto tempo è stato il discendente diretto di una Società delle nazioni, priva di qualsiasi potere reale, è diventato per forza di cose un servizio di pronto soccorso per il mondo intero, l'ultima via d'uscita per popolazioni minacciate di sterminio o l'ultimo garante di fragili paci. E, miracolo, qualche volta funziona! Penso al Kosovo, al Guatemala o anche a Timor Est. Ma un certo numero di errori recenti dell'ONU sono imperdonabili e, se si pensa al premio Nobel per la pace consegnato all'Organizzazione, davvero sconcertanti: Sarajevo, Srebrenica, Ruanda... Sono stato, e sono tutt'ora, fiero di alcune missioni a cui ho partecipato sotto l'egida dell'ONU, ma mi vergogno di questi episodi. Nella ex Jugoslavia dobbiamo purtroppo proprio all'ONU quella politica odiosa che consisteva nel trattare allo stesso modo vittime e carnefici. I difensori di Sarajevo, gli uomini politici che difendevano un ideale multietnico e i criminali di Mladic. Quando ripenso ai salamelecchi del rappresentante dell'ONU all'epoca, Yasushi Akashi, perfetto esempio dell'indecenza e dell'insensibilità dell'ONU, mi sento davvero disgustato. Prendiamo anche il caso di Srebrenica, enclave musulmana sotto la protezione dell'ONU in territorio serbo, in cui le truppe del generale Mladic hanno compiuto uno dei peggiori massacri della ex Jugoslavia (più di seimilacinquecento morti gettati in fosse comuni di cui sono state ritrovate a poco a poco le tracce) mentre i dirigenti dell'ONU, responsabili politici e militari, facevano a scaricabarile, in attesa che i miliziani avessero finito il loro sporco lavoro. Del resto è interessante che il governo olandese abbia dato le dimissioni in blocco dopo la pubblicazione, nell'aprile 2002, del rapporto su Srebrenica, mentre non c'è stata alcuna reazione alla sede delle Nazioni unite. E non parliamo del Ruanda: il più grande omicidio premeditato di civili del decennio - un genocidio - si è svolto sotto gli occhi dell'ONU. Queste domande me le pongo tutti i giorni, tutti i momenti, e trovo incredibile che l'attuale segretario generale (che era il numero due dell'Organizzazione in quel periodo) possa ricevere il premio Nobel per la pace senza dedicare neppure una parola alle vittime di quei massacri, senza un minuto di silenzio per tutti quei morti trucidati che le Nazioni unite non hanno potuto salvare dalla barbarie.

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Pagina 174

Gli Stati Uniti sono un grande paese, certo. Ma sono anche un paese di ignoranti. Con questo non voglio dire che gli americani siano degli incapaci: qui quanto più elevato è il livello di studi tanto più si è abili e capaci nel proprio campo. Ma anche completamente inadatti a parlare di qualunque altra cosa che non sia il proprio lavoro.

In effetti, mi aspettavo che gli americani avessero una maggiore apertura mentale. Mi aspettavo semplicemente che gli Stati Uniti facessero parte del mondo. Che delusione! Ho scoperto un universo con regole tutte sue, autosufficiente, arrogante e spesso pieno di disprezzo nei confronti degli altri. Raramente mi sono sentito così tagliato fuori. Cosa potevo fare? Integrarmi, diventare un bravo americano medio, una macchina che consuma cultura pop, senza porsi domande?

Mi sarebbe piaciuto provare a giocare secondo le loro regole, andare fino in fondo all'"American Dream", ma mi sono reso conto che era al di là delle mie forze: non ero capace di andare a fare la spesa in Space Wagon, di vivere in una casa di periferia ricca, di mangiare male come loro, di divertirmi come loro.

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Pagina 203

[...] Ma l'Iraq oggi è un paese occupato e occupato male. Fattori importanti come la cultura non vengono neanche presi in considerazione. Com'è possibile? Nella terra degli Assiri, nel bel mezzo della Mesopotamia non c'è cultura? Una delle culle della civiltà umana è stata completamente abbandonata e saccheggiata. Lasciata al vandalismo gratuito di gruppi di sbandati. Avreste dovuto vedere la faccia di uno dei capi della coalizione civile quando gli abbiamo fatto notare che, secondo il codice di guerra e altri strumenti legali che stabiliscono i diritti e i doveri di qualunque potenza occupante, spettava alle forze di occupazione proteggere i siti di rilevanza culturale. «Ma quali siti di rilevanza culturale?» ci ha risposto candidamente. «Babele per esempio, per citarne uno solo.» «Ah va bene, come possiamo avere una lista di tutti questi posti insieme alla loro posizione geografica?» Mi vergognavo veramente per quell'australiano tirato a lucido. Non si rendeva neppure conto di quello che aveva appena detto. Queste situazioni sono così frequenti, disarmanti e surreali che ne ridiamo tra noi.

Il livello è basso e contribuisce ogni giorno a dimostrare che questa guerra non è stata preparata, che è una guerra di saccheggio mascherata con ogni sorta di scuse e pretesti per far ingoiare la pillola a un popolo americano ignorante e facilmente manipolabile.

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Pagina 205

I paesi arabi non sono contenti. Al Vertice economico mondiale straordinario che si è appena tenuto ad Amman, in Giordania, hanno dichiarato apertamente di considerare quest'occupazione l'ennesima umiliazione da parte di un Occidente presuntuoso e arrogante. Ma il concetto di Occidente si sta restringendo, alla fine ci saranno solo gli Stati Uniti contro il resto del mondo.

Stiamo entrando in un momento storico pericoloso in cui un paese inebriato dalla sua potenza impone a destra e a manca le sue condizioni e i suoi desideri. Vende la sua mercanzia, in senso proprio e figurato, a tutti i piccoli mafiosi che proclamano a gran voce la loro fede in valori nobili come la democrazia, i diritti dell'uomo, la giustizia, il liberismo economico. Ma in realtà tutto questo si traduce in brogli elettorali, spedizioni punitive, detenzioni abusive, leggi protezioniste, creazione di imperi economici che schiacciano completamente il cittadino medio, distruzione terribile e pianificata dell'ambiente. Qualche volta faccio sogni, o incubi, a occhi aperti, portando avanti il mio ragionamento fino all'assurdo. In quanto testimone dell'abisso crescente che ci separa dallo stile di vita e dallo schema intellettuale americano vedo uno scontro profilarsi all'orizzonte. I poveri tirano le pietre, quelli un po' più agiati usano il terrorismo per resistere e i ricchi (cioè noi) che cosa faranno? La prossima guerra contrapporrà la vecchia Europa agli Stati Uniti? Ci si può porre la domanda tanto sono profonde e fondamentali alcune differenze. Si può ancora parlare di valori comuni quando gli Stati Uniti sembrano seguire soltanto i loro interessi economici? Non lo so ma comincio a farmi delle domande.

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