Copertina
Autore Immanuel Kant
Titolo Critica della ragion pratica
Sottotitoloe altri scritti morali
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006 [1970], Classici del pensiero , pag. 766, cop.fle., dim. 120x190x42 mm , Isbn 978-88-02-07354-5
OriginaleKritik der Praktischen Vernunft [1788]
CuratorePietro Chiodi
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe filosofia , antropologia , etica
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Indice

  7 Introduzione
 29 Nota bibliografica

    FONDAZIONE DELLA METAFISICA DEI COSTUMI

 43 Prefazione
 49 Parte prima. Passaggio dalla conoscenza razionale comune
    della moralità alla conoscenza filosofica
 63 Parte seconda. Passaggio dalla filosofia morale popolare
    alla metafisica dei costumi
107 Parte terza. Passaggio dalla metafisica dei costumi alla
    critica della ragion pura pratica


    CRITICA DELLA RAGION PRATICA

135 Prefazione
149 Introduzione. Intorno all'idea di una critica della ragion
    pratica

151 PARTE PRIMA. DOTTRINA DEGLI ELEMENTI DELLA RAGION PURA PRATICA

153 Libro I. Analitica della ragion pura pratica
    Capitolo I. Intorno ai princìpi della ragion pura pratica, 153
    Capitolo II. Del concetto di un oggetto della ragion
    pura pratica, 197
    Capitolo III. Dei moventi della ragion pura pratica, 213
253 Libro II. Dialettica della ragion pura pratica
    Capitolo I. Di una dialettica della ragion pura pratica
    in generale, 253
    Capitolo II. Della dialettica della ragion pura nella
    determinazione del concetto del sommo bene, 257

299 PARTE SECONDA. DOTTRINA DEL METODO DELLA RAGION PURA PRATICA

313 Conclusione


    LA RELIGIONE NEI LIMITI DELLA SEMPLICE RAGIONE

323 Prefazione alla prima edizione
333 Prefazione alla seconda edizione

337 Parte prima. Della compresenza del principio del male accanto
    a quello del bene o del male radicale della natura umana
    I. Della disposizione originaria al bene nella natura
    umana, 345
    II. Della tendenza al male nella natura umana, 348
    III. L'uomo è cattivo per natura, 352
    IV. Dell'origine del male nella natura umana, 360
    Osservazione generale. Della restituzione nella sua forza
    della disposizione originaria al bene, 366

377 Parte seconda. Della lotta fra il principio buono e il cattivo
    per il dominio sull'uomo
    Sezione prima. Della giusta pretesa del principio buono
    al dominio sull'uomo, 381
    Sezione seconda. Della pretesa del principio cattivo al
    dominio sull'uomo e della lotta dei due princìpi l'uno
    contro l'altro, 402

417 Parte terza. La vittoria del principio buono sul cattivo e
    la fondazione di un regno di Dio sulla terra
    Divisione prima. Rappresentazione filosofica della vittoria
    del principio buono mediante la fondazione di un regno di Dio
    sulla terra, 420
    Divisione seconda. Rappresentazione storica della fondazione
    graduale del dominio del principio buono sulla terra, 452

479 Parte quarta. Intorno al culto vero e al culto falso sotto
    il dominio del principio buono, o intorno alla religione e
    al sacerdozio
    Divisione prima. intorno al culto di Dio in una religione
    generale, 482
        Sezione prima. La religione cristiana come religione
        naturale, 486
        Sezione seconda. La religione cristiana come religione
        dotta, 492
    Divisione seconda. Intorno al falso culto di Dio nella
    religione statutaria, 497


    ANTROPOLOGIA DAL PUNTO DI VISTA PRAGMATICO

541 Prefazione

545 PARTE PRIMA. DIDATTICA ANTROPOLOGICA.
    Del modo di conoscere l'interno e l'esterno dell'uomo
    Libro I. Della facoltà di conoscere, 547
    Libro II. Il sentimento del piacere e del dolore, 651
    Libro III. Della facoltà di desiderare, 673

705 PARTE SECONDA. LA CARATTERISTICA ANTROPOLOGICA.
    Intorno al modo di conoscere l'interno dell'uomo
    dal suo esterno
    I. Del naturale, 708
    II. Del temperamento, 708
    III. Del carattere come modo di pensare, 713

759 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 43

FONDAZIONE
DELLA METAFISICA DEI COSTUMI



PREFAZIONE



La filosofia greca antica si divideva in tre scienze: fisica, etica e logica. Questa divisione è perfettamente conforme alla natura della cosa e non richiede altro miglioramento se non quello dell'aggiunta del principio su cui si fonda, per potere, da un lato, assicurarsi della sua compiutezza e, dall'altro, stabilire con esattezza le suddivisioni richieste.

Ogni conoscenza razionale è o materiale, e concerne qualche oggetto, o formale, e prende in esame esclusivamente la forma dell'intelletto e della ragione stessa, nonché le regole universali del pensiero in generale, senza distinzione di oggetti. La filosofia formale si chiama logica, mentre la materiale, che tratta di oggetti determinati e delle leggi a cui sottostanno, si divide a sua volta in due parti, a seconda che si tratti di leggi della natura o della libertà. La scienza delle prime si chiama fisica, quella delle seconde etica; la prima è anche detta dottrina della natura, la seconda dottrina dei costumi.

La logica non può avere nessuna parte empirica, ossia tale che le leggi universali e necessarie del pensiero risultino fondate su princìpi tratti dall'esperienza, perché in tal caso non sarebbe una logica, cioè un canone per l'intelletto o per la ragione che vale per ogni pensiero e deve essere dimostrato. Invece, così la filosofia naturale come la filosofia morale possono avere una parte empirica, perché devono prescrivere le loro leggi, la prima alla natura in quanto oggetto d'esperienza e la seconda alla volontà dell'uomo in quanto affetta dalla natura; nel primo caso si tratta delle leggi secondo cui tutto accade, nel secondo delle leggi secondo cui tutto deve accadere, compreso l'esame delle condizioni per cui ciò che deve accadere sovente non accade.

Si può chiamare empirica ogni filosofia che ha il suo fondamento nell'esperienza, pura invece quella che presenta le sue dottrine desumendole esclusivamente da principi a priori. Quest'ultima, quando è semplicemente formale, si chiama logica; quando è circoscritta a determinati oggetti dell'intelletto, si chiama metafisica.

Sorge così l'idea di una duplice metafisica: della natura e dei costumi. La fisica avrà quindi una sua parte empirica, ma anche una parte razionale; lo stesso l'etica, benché in questo caso la parte empirica potrebbe chiamarsi propriamente antropologia pratica e la razionale più propriamente morale.

Tutte le industrie, i mestieri e le arti hanno tratto vantaggio dalla divisione del lavoro, cioè dal fatto che il singolo non fa tutto, ma ognuno si limita a un particolare lavoro che, per il modo in cui è eseguito, si distingue nettamente dagli altri, per compierlo nel modo migliore e con la minore fatica. Dove i lavori non sono così distinti e divisi, dove ognuno sa fare mille cose, le industrie sono ancora nella più grande arretratezza. Perciò sarebbe certamente utile vedere se la filosofia pura non esiga, in tutte le sue parti, il suo uomo adatto e se l'insieme dell'impresa culturale non si reggerebbe meglio se coloro che, assecondando il gusto del pubblico, sono abituati a spacciare mescolati l'empirico e il razionale in varie proporzioni a loro stessi ignote e, proclamandosi pensatori autentici, chiamano azzeccagarbugli quanti si occupano della parte prettamente razionale, fossero diffidati dal fare tutt'uno di due cose diversissime, per ciascuna delle quali si richiede forse un talento particolare e la cui riunione in una sola persona non produce che guastamestieri. Qui mi limito a domandare se la natura della scienza non richieda che si separi sempre con cura la parte empirica dalla parte razionale e se alla fisica propriamente detta (empirica) non debba essere anteposta una metafisica della natura e all'antropologia pratica una metafisica dei costumi l'una e l'altra accuratamente purificate da ogni elemento empirico, col proposito di conoscere quanto la ragion pura sia in grado di fare nell'uno e nell'altro caso e da quali sorgenti essa attinga questo suo insegnamento a priori; quest'ultimo compito potrà essere intrapreso da tutti i teorici della morale (il cui nome è legione) o soltanto da alcuni che vi si sentono chiamati.

Siccome qui mi riferisco propriamente alla filosofia morale, limito la domanda precedente solo a questo: se non si ritenga di estrema necessità elaborare, una buona volta, una filosofia morale pura, completamente liberata da tutto ciò che non può essere che empirico e attinente all'antropologia; che ci debba essere una filosofia del genere, risulta infatti con piena evidenza dalla comune idea del dovere e delle leggi morali. Ognuno deve riconoscere che una legge, per avere valore morale, cioè per valere come principio di obbligazione, deve comportare una necessità assoluta; ognuno deve riconoscere che il comando: «Non devi mentire», non deve valere solo per gli uomini, ma per ogni essere ragionevole; lo stesso dicasi di ogni altra legge morale propriamente detta; perciò, in questo caso, il principio dell'obbligazione non dev'essere cercato nella natura dell'uomo o nelle circostanze in cui esso si trova nel mondo, ma a priori, esclusivamente nei concetti della ragion pura; sicché ogni altra prescrizione fondata sui principi della semplice esperienza anche se, per taluni aspetti, universale, se è basata, se pur in minima parte, magari per un semplice movente, su principi empirici, può portare il nome di regola pratica, ma in nessun caso quello di legge morale.

Così non soltanto le leggi morali e i loro princìpi si distinguono, nell'àmbito della conoscenza pratica, da tutto ciò che comporta qualcosa di empirico, ma anche l'intera filosofia morale poggia interamente sulla sua parte pura e, nella sua applicazione all'uomo, non trae neppure alcun elemento dalla conoscenza di esso (antropologia), ma gli prescrive, in quanto essere ragionevole, leggi a priori. Queste leggi richiedono, certo, una facoltà di giudicare scaltrita dall'esperienza, sia per saper distinguere i casi in cui sono applicabili, sia perché trovino accoglimento e applicazione nella volontà dell'uomo, il quale, affetto com'è da molte inclinazioni, pur essendo capace dell'idea di una ragion pura pratica, non può tradurla facilmente in pratica nel suo comportamento.

Una metafisica dei costumi è quindi assolutamente necessaria non solo per ragioni speculative, al fine di scoprire la fonte dei principi pratici a priori della nostra ragione, ma perché i costumi stessi sono esposti a ogni sorta di corruzione fin che manca questo filo conduttore e questa regola del nostro retto giudizio. Giacché non basta che il moralmente buono sia conforme alla legge morale, ma deve anche esser compiuto in vita della legge; diversamente questa conformità è accidentale e malsicura, perché ogni principio diverso dalla moralità potrà produrre, di quando in quando, azioni conformi alla legge, ma sovente ne produrrà di contrarie. Ora, la legge morale nella sua purezza e genuinità (che è ciò che più conta nella pratica) è da cercarsi solo nella filosofia pura; bisogna dunque che questa (la metafisica) preceda, altrimenti non può darsi alcuna filosofia morale; difatti la filosofia che confonde i princìpi puri con gli empirici non è degna del nome di filosofia (che si distingue dalla conoscenza razionale comune perché presenta in una scienza a sé stante ciò che questa non si preoccupa di separare) e meno ancora è degna del nome di filosofia morale, perché tale mescolanza pregiudica la purezza della morale e contrasta con la finalità propria di essa.

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Pagina 135

CRITICA DELLA RAGION PRATICA



PREFAZIONE



Il parallelismo della ragione pratica con la ragione speculativa avrebbe richiesto che quest'opera portasse il titolo di Critica della ragion pura pratica anziché di Critica della ragion pratica in generale come essa porta; l'opera stessa spiegherà sufficientemente il motivo del titolo adottato. Essa si propone semplicemente di far vedere che c'è una ragion pura pratica, e in vista di ciò ne critica l'intera facoltà pratica. Se questa impresa riesce, essa non ha alcun bisogno di criticare la facoltà pura stessa, per stabilire se la ragione in questo caso varca i propri limiti, spinta da una semplice presunzione (com'è il caso della ragione speculativa). Infatti se la ragione, in quanto ragion pura, è effettivamente pratica, attesta la propria realtà e quella dei propri concetti per mezzo del fatto, rendendo inutile ogni argomentazione capziosa contro tale possibilità.

Con questa facoltà è anche saldamente stabilita la libertà trascendentale, e proprio nel significato assoluto che occorreva alla ragione speculativa nel suo uso del concetto di causalità per sfuggire alla antinomia a cui soggiace inevitabilmente quando si propone di pensare l' incondizionato nella serie delle relazioni causali; ma questo concetto poteva esser stabilito da essa soltanto in modo problematico, come non impossibile a pensarsi, non già come garantito nella sua realtà oggettiva, al solo scopo di non essere attaccata nella propria essenza e gettata in un abisso di scetticismo in conseguenza della pretesa impossibilità di ciò che essa deve far valere almeno come pensabile.

Siccome la realtà della libertà è provata da una legge apodittica della ragion pratica, il concetto di libertà costituisce la chiave di volta di tutto l'edificio di un sistema della ragion pura, compresa la speculativa, e tutti gli altri concetti (quelli di Dio e dell'immortalità), i quali, in quanto semplici idee, mancano di base nella ragione speculativa, si congiungono a quello della libertà e ricevono con esso e per esso consistenza e realtà oggettiva, sicché la possibilità di essi ha la sua prova nella realtà della libertà; difatti questa idea si manifesta mediante la legge morale.

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Pagina 225

È molto bello beneficare gli uomini per amore o per benvolenza o essere giusti per amore dell'ordine; ma non è ancora la massima morale genuina del nostro comportamento, conforme al nostro trovarci fra esseri razionali in quanto uomini, se pretendiamo, come soldati volontari, di far a meno del pensiero del dovere e, indipendenti da ogni comando, fare esclusivamente per il nostro piacere ciò per cui nessun comando ci sarebbe necessario. Noi sottostiamo a una disciplina della ragione e in tutte le nostre massime non dobbiamo né dimenticare l'assoggettamento ad essa, né toglierle alcunché, né sminuire, per insensatezza egoistica, l'autorità della legge (benché sia la nostra stessa ragione a conferirgliela), ponendo il motivo determinante della nostra volontà, anche se conforme alla legge, in qualcosa di diverso dalla legge stessa e dal rispetto per essa. Dovere e obbligo sono denominazioni che dobbiamo riservare soltanto alla nostra relazione con la legge morale. Noi siamo certamente membri legislativi di un regno dei costumi, possibile mediante la libertà, e che la ragion pratica ci prospetta come oggetto di rispetto; ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non il sovrano, e non voler riconoscere il nostro rango inferiore di creature col rifiuto presuntuoso dell'autorità della legge santa, è già un venir meno alla legge secondo lo spirito, anche se ne è ottemperata la lettera.

Ma con tutto ciò si accorda completamente la possibilità di un comandamento come questo: «Ama Dio al di sopra di tutto e il tuo prossimo come te stesso». Si tratta infatti di un comandamento che esige il rispetto per una legge che comanda l'amore e non abbandona all'arbitrio la scelta di esso quale principio. Ma l'amore di Dio è qualcosa di impossibile come inclinazione (amore patologico), perché Dio non è un oggetto dei sensi. Un amore del genere è certamente possibile nei confronti degli uomini, ma non può esserci comandato, perché nessun uomo può amare un altro solo per precetto. Ciò a cui si allude in quel nucleo di tutte le leggi è dunque semplicemente l' amore pratico. In questa accezione amare Dio significa obbedire volentieri ai suoi comandamenti, amare il prossimo equivale a ottemperare volentieri a tutti i doveri verso di esso. Però il comando che ce ne fa una regola non può prescriverci di avere questa intenzione nelle azioni conformi al dovere, ma solo di aspirare a ciò. Infatti un comando che ci ordini di fare qualcosa volentieri è contraddittorio in se stesso, perché, se sapessimo già da noi stessi ciò che siamo tenuti a fare e se inoltre avessimo coscienza di farlo volentieri, ogni comando sarebbe inutile, e se lo facessimo, ma non volentieri e soltanto per rispetto della legge, un comando, che facesse di tale rispetto il movente della massima, agirebbe in modo del tutto contrario all'intenzione comandata. Questa legge di tutte le leggi presenta pertanto, come tutti i precetti morali del Vangelo, l'intenzione morale nella sua totale perfezione come un ideale di santità che nessuna creatura è in grado di raggiungere, ma che è tuttavia il modello originario cui dobbiamo sforzarci di avvicinarci e adeguarci in un processo ininterrotto ma infinito. Se una creatura razionale potesse essere in grado di ottemperare del tutto volentieri alle leggi morali, ciò significherebbe che in nessun caso si potrebbe trovare in essa la possibilità di un impulso che la eccita ad allontanarsi da esse, dato che la vittoria su tale impulso richiede sempre un sacrificio al soggetto e quindi una coercizione di sé, cioè una costrizione interna, il che non si fa mai volentieri. Ma nessuna creatura può mai giungere a questo grado di intenzione morale. Difatti, essendo una creatura, perciò sempre dipendente, quanto a ciò di cui abbisogna per essere interamente soddisfatta del proprio stato, non può mai esser del tutto libera da appetiti e inclinazioni, i quali, connessi come sono a cause fisiche, non si accordano da sé con la legge morale che ha origini del tutto diverse, quindi rendono sempre necessario, per quanto li concerne, fondare l'intenzione delle proprie massime sulla costrizione morale; non però sulla remissione sottomessa, ma sul rispetto che richiede l'osservanza della legge, anche se ha luogo malvolentieri; non già sull'amore che non teme alcuna titubanza interna della volontà in cospetto della legge, ma facendo di questo, cioè del semplice amore per la legge (che cesserebbe in tal caso di essere un comando, mentre la moralità, che si trasformerebbe soggettivamente in santità, cesserebbe di essere virtù) lo scopo costante, anche se irraggiungibile, dei propri sforzi. In verità, in ciò che stimiamo altamente, ma che tuttavia temiamo (a causa della coscienza della nostra debolezza), il timore rispettoso, a causa della maggiore facilità di soddisfarlo, si muta in propensione e il rispetto in amore; questa sarebbe almeno la perfezione di un'intenzione consacrata alla legge, se fosse raggiungibile da una creatura.

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Pagina 541

ANTROPOLOGIA
DAL PUNTO DI VISTA PRAGMATICO



PREFAZIONE



Tutti i progressi nella cultura, mediante i quali l'uomo compie la propria educazione, hanno per fine l'applicazione delle conoscenze e delle abilità così acquisite al loro uso nel mondo; ma nel mondo l'oggetto più importante a cui rivolgere questa applicazione è l'uomo, perché l'uomo è il fine ultimo di se stesso. Quindi la conoscenza dell'uomo, nella sua qualità di essere terrestre dotato di ragione, merita in modo particolare di esser detta conoscenza del mondo, benché l'uomo sia solo una parte delle creature terrestri.

Una dottrina della conoscenza dell'uomo, trattata sistematicamente (antropologia), può esser condotta o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. La conoscenza fisiologica dell'uomo si propone di indagare ciò che la natura fa dell'uomo, la pragmatica ciò che l'uomo, in quanto essere libero, fa o può fare o deve fare di se stesso. Chi indaga le cause naturali su cui poggia, per esempio, la facoltà della memoria, può andare arzigogolando (come ha fatto Cartesio) sulle tracce delle impressioni lasciate dalle sensazioni, ma dovrà riconoscere che in questo giuoco egli non è che lo spettatore delle proprie rappresentazioni; dovrà quindi lasciar fare la natura perché non conosce i nervi e le fibre cerebrali e non è in grado di servirsene per i propri fini; di conseguenza ogni sottigliezza teoretica in questo campo è una perdita di tempo. Ma se egli si servisse delle osservazioni e delle scoperte su ciò che favorisce o ostacola la memoria, al fine di renderla più vasta e più pronta, avvalendosi in ciò della conoscenza dell'uomo, la sua ricerca costituirebbe una parte dell'antropologia dal punto di vista pragmatico, che è appunto quella di cui noi ci occupiamo.

Questa antropologia, in quanto conoscenza del mondo, deve seguire la scuola, quindi potrà esser detta propriamente pragmatica non perché contiene una conoscenza estesa delle cose del mondo — per esempio degli animali, delle piante, dei minerali nei diversi paesi e climi —, ma solo perché contiene la conoscenza dell'uomo come cittadino del mondo. Di conseguenza la stessa conoscenza delle razze umane, come prodotti del gioco della natura, non fa ancora parte della conoscenza pragmatica del mondo ma soltanto della conoscenza teoretica del mondo.

Anche le due espressioni: «conoscere il mondo» e «aver pratica del mondo» sono abbastanza lontane nel loro significato, perché nel primo caso si tratta solo della conoscenza di un giuoco a cui si assiste, mentre nel secondo si partecipa al gioco. Nel giudicare il cosiddetto gran mondo, il ceto privilegiato, l'antropologo si trova in una condizione sfavorevole perché gli appartenenti a quel ceto sono troppo vicini fra di loro e troppo lontani dagli altri.

Fra i mezzi adatti ad allargare il campo dell'antropologia c'è il viaggiare, o almeno la lettura dei resoconti di viaggio. Ma occorre prima acquistare in patria, frequentando i propri concittadini e compatrioti la conoscenza degli uomini, se si vuol sapere dove cercare altrove il maggior ampliamento di essa. Senza un piano di questo genere (che suppone già la conoscenza dell'uomo) il cittadino del mondo resta sempre assai limitato in fatto di antropologia. Qui la conoscenza generale precede sempre la conoscenza locale, se si vuole che la prima sia ordinata e guidata dalla filosofia: senza di ciò ogni conoscenza acquisita non può essere che il frutto di un vagabondare frammentario, non una scienza.


* * *



Gli sforzi per istituire con fondatezza una scienza del genere incontrano notevoli difficoltà che derivano dalla stessa natura umana.

1. L'uomo che si accorge di essere osservato e studiato o cadrà in imbarazzo, nel qual caso non potrà mostrarsi com'è, o si nasconderà e non vorrà essere conosciuto com'è.

2. Se si vorrà indagare solo noi stessi ci si troverà in una situazione critica, particolarmente per ciò che riguarda gli stati affettivi che non permettono solitamente alcun artificio; se i moti sono in atto, non ci si osserva; se invece ci si osserva i moti cessano.

3. Le circostanze di luogo e di tempo, se durevoli, producono abitudini che sono, come si suoi dire, una seconda natura e rendono difficile il giudizio su di sé, sicché l'uomo deve astenersi dal farsene un concetto, specialmente quando si tratta di altri con cui si è in relazione; infatti la mutevolezza della situazione imposta all'uomo dal destino o in cui egli di suo arbitrio si pone, rende molto difficile all'antropologia elevarsi al rango di scienza formale.

Infine l'antropologia non ha quasi fonti, ma solo mezzi di rimedio: storia, biografie e anche teatro e romanzi. Benché questi due ultimi non si fondino sull'esperienza e sulla verità, ma sull'invenzione, e in essi sia quindi lecito esagerare come in sogno i caratteri e le situazioni in cui gli uomini vengono a trovarsi, sicché pare che non diano alcun apporto alla conoscenza degli uomini, tuttavia quei caratteri, delineati da un Richardson o da un Molière, non possono esser stati ricavati, nei loro tratti essenziali, che dalla osservazione di ciò che l'uomo fa e non fa: malgrado l'esagerazione per ciò che concerne la quantità, essi devono, per la qualità, trovare corrispondenza nella natura umana.

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