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| << | < | > | >> |Indice9 I 11 I fedayin 26 Caino e Abele 37 La Via Crucis 51 La battaglia per le alture del Golan 61 II 63 Cristo con il fucile in spalla 87 L'uomo ha paura dell'uomo 93 Victoriano Gómez davanti alle telecamere 96 Perché è stato ucciso Karl von Spreti 162 Guevara e Allende 171 III 173 Il primo sparo per il Mozambico |
| << | < | > | >> |Pagina 37Valle del Giordano, le cinque del pomeriggio. L'incendio della giornata tropicale si va placando. Il sole, rimasto per ore allo zenit, si è dato una mossa e ha cominciato a spostarsi verso ovest, verso le colline di Samaria e la città santa di Gerusalemme. Č l'ora in cui la gente comincia a spuntare all'aperto. Sbuca dai più reconditi recessi, da ogni possibile anfratto, nascondiglio e riparo ombroso. La valle morta si riscuote dal torpore pomeridiano, si mette in moto e respira. Dalla tenda del posto di guardia israeliano escono dei soldati. Sono cinque. Nello stesso tempo, sull'altra riva del Giordano, qualcuno esce dalla baracca che alberga il posto di guardia giordano. Sono in cinque anche loro. Un giusto equilibrio militare. I due eserciti appaiono sbottonati, sbracati, giovani e riposati. Si osservano per un momento a vicenda con i binocoli, poi si mettono a fare il caffè per placare la sete e svegliarsi dal pisolino pomeridiano. Sulla riva del fiume compare un soldato giordano che ci ordina di uscire dall'acqua. Bagnarsi nel Giordano, dice, è una grossa sciocchezza: gli israeliani riempiono il fiume di mine. La mina scorre portata dalla corrente e ti spedisce in cielo a brandelli. Molti ci hanno rimesso la vita, la gente continua a non capire che la guerra è guerra. Il meno che se ne possa dire è che se uno la fa, tanto vale farla il meglio possibile, e infatti le parti in gioco se ne inventano di tutti i colori. Adesso hanno tirato fuori queste mine che quasi non si vedono: dall'acqua sporge solo una capocchia di spillo talmente piccola che chi non è esperto nell'arte di uccidere a tradimento neanche ci fa caso. Scacciati dal fiume dopo l'incontro con i soldati, ci dirigiamo verso il sud della valle, verso il Mar Morto nel quale sbocca il Giordano. (La valle del Giordano, chiusa a est e a ovest da montagne e posta a qualche centinaio di metri sotto il livello degli oceani, è la maggiore depressione del mondo, la faglia tettonica più profonda e costituisce una specie di gigantesca serra naturale del Medio Oriente, dove frutta e verdura maturano tre o quattro mesi prima che nelle vicine zone della Palestina, Giordania, Siria e Libano, per non parlare dell'Europa. Entrando nella valle in un pomeriggio d'estate, si ha l'impressione di essere stati gettati in un altoforno. A causa del grande calore, l'evaporazione del Mar Morto raggiunge livelli impressionanti; è stato calcolato che in un solo giorno evaporino otto milioni e mezzo di tonnellate d'acqua. Il che fa sì che l'acqua del Mar Morto sia terribilmente salata. In superficie ogni litro d'acqua contiene un quarto di chilo di sale e, più si scende, più la quantità di sale aumenta. Come risultato, in questo mare non ci sono né pesci, né plancton, né altre forme biologiche, cosa che gli ha valso l'appellativo di Mar Morto. Chi sostiene che vi si possa camminare sopra esagera, ma chi dice che ci si può sdraiare e restare immobili per ore senza affogare, dice la verità. Vicino al Mar Morto, sulla strada tra Gerusalemme e Amman, uno zio di Zuhdi gestisce una locanda. Si tratta di un edificio raffazzonato alla meglio e senza il minimo garbo architettonico: una sistemazione provvisoria in stile arabo, il primo passo sull'allettante quanto incerta via del grande business. Sul retro dell'albergo si stende un giardino con qualche tavolo per i clienti. Alcuni bambini distribuiscono l'unica merce di cui dispone lo zio di Zuhdi: bibite rinfrescanti. Si possono avere succo d'arancia, limonata e Pepsi-Cola. Impossibile invece avere una Coca-Cola, visto che i prodotti di questa marca – dominio, a quanto pare, dei sionisti – sono boicottati in tutti i paesi arabi. Il contrabbando di Coca-Cola viene osteggiato come in Europa quello della droga. Nel giardino dello zio stanno seduti alcuni arabi intenti a guardare la valle del Giordano. Sono gli ultimi attimi del giorno morente. Sulla strada si affolla un gregge di pecore. Le pecore si dirigono verso un recinto che da qui non si vede e dietro di esse cammina il pastore, un uomo alto con una veste fino ai piedi, il volto intento e la barbetta bionda. Una di quelle figure che in Europa si vedono sulle vetrate. Poi, a dorso di mulo, passa un vecchio curvo, dalla lunga barba bianca. Attaccata alla sella ha una bisaccia dalla quale spuntano degli strumenti da falegname. San Giuseppe. Poi tre donne che vanno ad attingere acqua al pozzo. Dove sia il pozzo lo si capisce dal fatto che tutt'intorno crescono cipressi scuri, alti come le colonne di un tempio romano. Le donne indossano vesti nere lunghe fino a terra e portano in testa grandi brocche d'argilla. Parlano, ma da qui non si sente quello che dicono. Le tre Marie. Il sole è ormai sparito: ora è su Gerusalemme, ma l'aria è ancora impregnata di luce. La luce emana dalle montagne che dapprima prendono il colore del rame, poi quello dell'oro. Per qualche minuto restano immerse nell'oro. Gli arabi tacciono, interrompendo le loro interminabili discussioni. Sulla valle cala il silenzio. Solo in lontananza, in fondo all'orizzonte, passano due caccia, non so se Phantom o Mig. Poi lo spettacolo del presepe messo in scena nel suo ambiente naturale si spegne di colpo e cala una fitta oscurità. [...] Ovviamente, le ragioni obiettive di queste discussioni e divisioni sono del tutto diverse. I palestinesi sono stati espulsi dalla loro terra in due fasi. La prima ondata dell'esodo è avvenuta dopo la guerra del 1948-1949. La seconda, dopo l'invasione israeliana del 1967. Gli arabi palestinesi dispersi si sono ritrovati a vivere in vari paesi. Quasi mezzo milione sta all'interno delle frontiere israeliane anteriori al giugno 1967. Circa un milione nei territori occupati da Israele nel giugno 1967. Un altro mezzo milione nei paesi arabi (soprattutto in Giordania). Una parte è finita anche in Europa e in America. In tutti gli esodi registrati dalla storia si riscontrano i medesimi meccanismi. Chiunque conosca la storia dei vari esodi polacchi non ha difficoltà a capire la situazione dei palestinesi. Un certo gruppo di persone comincia a collaborare con l'amministrazione dell'occupante. In genere si tratta di una parte dell'aristocrazia e della borghesia, oppure degli emarginati sociali. Ma la stragrande maggioranza lotta per la libertà. Coloro che vogliono la libertà si dividono invariabilmente in due partiti: il primo spera di ottenerla grazie agli interventi diplomatici e alla politica dei governi simpatizzanti con la loro causa; il secondo, insurrezionista, pensa che la libertà si conquisti solo impugnando le armi. Sono queste le tre posizioni presenti in tutte le popolazioni sottomesse e, quindi, anche in quella palestinese. Il fatto che esistano una ventina di organizzazioni e di partiti politici palestinesi è secondario visto che, in definitiva, ognuno di essi si trova in uno dei tre campi: quello collaborazionista, quello diplomatico o quello insurrezionista. Non esiste ambiente dell'emigrazione dove non fervano interminabili discussioni. [...] "Potrà esserci un'altra guerra, magari anche due, ma poi basta. La guerra non risolve nulla, la via della guerra porta a un vicolo cieco in fondo al quale c'è il muro del pianto. Date retta a me, io vivo a Gerusalemme e vedo ogni cosa. C'è la crisi: un sacco di gente se ne va e non arriva nessuno di nuovo. Vivere in Israele è pericoloso, non si sa mai quando può arrivarti una granata dalla finestra, o che cosa tenga in tasca l'arabo che passa per strada. "Dobbiamo avere uno scopo preciso e dire chiaramente che cosa vogliamo. Dobbiamo rifarci alla nostra storia. Da che mondo è mondo, arabi ed ebrei hanno convissuto. Chiunque sostenga il contrario mente, è ignorante o in malafede. Basta leggere i nostri cronisti. Ovunque gli arabi intraprendessero una spedizione, gli ebrei li seguivano. Gli arabi conquistavano le terre sulle quali in seguito gli ebrei sviluppavano i commerci. Erano gli ebrei a organizzare gli approvvigionamenti per gli eserciti arabi. L'Inquisizione e i pogrom contro gli ebrei sono stati inventati in Europa. Nella storia del Medio Oriente non esistono pogrom. I forni crematori sono stati costruiti in Europa, non in Medio Oriente. Perché mai noi arabi dovremmo pagare i cocci rotti della storia europea? Non so chi possa rispondere a questa domanda. "A Gerusalemme ho per vicino un ebreo di Damasco. Lui ha il suo dio, io il mio. Va bene così, sono nostre faccende private. Al piano di sopra abita un ebreo di Londra, un impiegato di banca. Che cosa hanno in comune l'uno con l'altro? Il mio vicino parla solo l'arabo, mentre l'impiegato non ne mastica neanche una parola. Il mio vicino non riesce a imparare l'ebraico, perché è una lingua difficile. Lo scrittore satirico israeliano Kishon ha detto, molto spiritosamente, che l'ebreo che arriva in Israele, dopo quattro anni passati a studiare l'ebraico ne sa giusto quanto basta per chiedere a qualcuno per strada: 'Mi scusi, saprebbe dirmi – ma in inglese – che ore sono?'. Il mio vicino parla arabo, vive come un arabo e ha l'aspetto di un arabo. A Damasco era uno stimato commerciante, qui è un cittadino di seconda categoria, un sudicio ebreuccio che l'impiegato londinese guarda con disgusto dall'alto in basso. Il mio vicino e io abbiamo molti argomenti in comune perché siamo nati e cresciuti nella stessa terra; ogni volta che torno dalla Siria mi chiede notizie di Damasco. Ma che gliene importa di Damasco, all'impiegato di Londra? Per lui è solo una delle tante sporche città arabe. Londra, quella sì che è una città! Il mio vicino e io arrostiamo la carne d'agnello, cosa che fa infuriare l'impiegato di banca secondo il quale la carne d'agnello puzza; a lui piacciono solo le sue eggs and bacon e il suo afternoon tea. 'Senti senti,' dico al mio vicino, 'secondo lui la carne d'agnello puzza,' e quello annuisce perché sa quello che intendo dire. "Dobbiamo presentare al mondo il nostro programma. Dire apertamente quello che vogliamo. Il nostro obiettivo è la creazione di uno stato democratico palestinese nel quale convivano in pace due nazioni. Ogni arabo e ogni ebreo potranno dare il proprio voto: se verrà eletto presidente un ebreo, sarà presidente un ebreo. Se verrà eletto un arabo, sarà presidente un arabo. Quello della fede resterà un fatto privato di ogni singolo individuo. Manterremo rapporti d'amicizia con tutti i paesi del mondo. Gli ebrei sono una parte della nostra storia: solo un pazzo può parlare di gettarli a mare, frase che il sionista si affretterà a fare sua per gridarla ai quattro venti. Dobbiamo definire con chiarezza il nostro nemico: l'apparato dello stato sionista mantenuto dall'imperialismo." | << | < | > | >> |Pagina 51Lo incontro a Damasco, nell'ascensore di un piccolo albergo. Č palestinese, ma a vederlo lo si direbbe appena arrivato dalla Siberia. Indossa stivali di feltro, una giubba pesante stretta in vita da un cinturone e un berretto di pelo con i paraorecchi. Per fortuna le sere a Damasco sono fredde e si può anche girare con addosso un giaccone imbottito senza morire di caldo. Durante il percorso in ascensore tira fuori dalla borsa una mela e me la offre. Il sistema palestinese per fare conoscenza: offrire un frutto alla persona incontrata. La frutta è la maggiore — in realtà l'unica — ricchezza della Palestina e offrirla a qualcuno equivale a dargli tutto quello che si possiede. Mi invita nella sua stanza. Si trattiene a Damasco una sola notte, domani andrà a Beirut per incontrarsi con Arafat. Stamattina era ancora al fronte. Č il comandante di uno dei gruppi di fedayin che combattono sul monte Hermon. Non conviene chiedergli come si chiami né altri dettagli riguardanti la sua persona. Č della Galilea, e tanto mi basti. I fedayin dell'Hermon fanno parte del gruppo as-Saika, legato alla Siria. Sono il ramo palestinese dell'esercito siriano. Al fronte devono indossare abiti pesanti, giacconi imbottiti e berretti con i paraorecchi perché l'Hermon, un monte alto come l'Olimpo, è coperto di neve e spazzato da venti gelidi. Di notte gli uomini muoiono dal freddo e anche durante il giorno, quando i bombardamenti sono particolarmente intensi, giacciono per ore immobili congelandosi contro le rocce. Purtroppo non riescono ad abituarsi alla neve e al freddo. Per loro è come combattere su un altro pianeta. Il monte continua a passare di mano in mano. Chi conquista la vetta, vi pianta la propria bandiera. Poi scoppia una nuova battaglia, cui di solito segue un cambio di bandiera. I caduti rimangono lassù, ma il vero problema sono i feriti. Non essendoci modo di trasportarli a valle, soffrono molto perché il freddo acuisce il dolore. Tra le nevi dell'Hermon i fedayin combattono la loro guerra palestinese. Sulla cima si svolgono le lotte più accanite, quelle a distanza ravvicinata, corpo a corpo, ai due lati di una medesima roccia, su uno stretto crinale dal quale i soldati si spingono a vicenda nell'abisso. Sul fondo dell'abisso si stende, tra dolci ondulazioni, una terra grigia, spoglia e desolata: le alture del Golan. Anch'esso è uno scenario bellico, quello della guerra israelo-siriana. Il comandante dell'Hermon mi chiede che cosa penso delle battaglie sulle alture del Golan e di quella guerra in genere. Gli rispondo che prima d'ora non ne avevo mai viste di simili. La nostra è stata molto diversa ed è finita molto tempo fa, nel 1945, alla Porta di Brandeburgo a Berlino. Era una guerra di milioni e milioni di persone. Le trincee si susseguivano per un'infinità di chilometri. Non c'è bosco, da noi, in cui ancora oggi non se ne trovino le tracce. Ognuno di noi ha compiuto uno sforzo sovrumano per sopravvivere, abbiamo scavato ogni metro di terra con le nostre mani. Quando risuonava l'ordine dell'attacco, dalle trincee balzava fuori una miriade di soldati, una massa umana si spargeva nei campi e riempiva i boschi e le strade. Non c'era luogo dove non si incontrasse un uomo armato di fucile. Nel mio paese la guerra non ha risparmiato nessuno, è entrata in ogni casa, ha sfondato con il calcio del fucile tutte le porte, ha incendiato dozzine di città e migliaia di villaggi. La guerra ha ferito tutti e chi le è sopravvissuto non riesce a guarirne. Una persona che ha vissuto una grande guerra è diversa da chi non ne ha vissuta nessuna. Appartengono a due generi umani diversi. Non troveranno mai un linguaggio comune, perché, in realtà, la guerra non si può descrivere né condividere; non puoi dire a qualcuno: "Prenditi un po' della mia guerra". Ognuno deve tenersela per sé per tutta la vita. La guerra è la cosa più crudele di tutte per una ragione molto semplice, ossia per lo spaventoso numero di vittime che esige. I miei compatrioti arrivati alla Porta di Brandeburgo possono dire quanto costi la vittoria. Chi vuole conoscere il prezzo da pagare per vincere una guerra, vada a vedere i nostri cimiteri. Chi afferma che è possibile riportare una vittoria duratura senza subire perdite ingenti, che esistono guerre senza cimiteri, non sa quello che dice. E ci tengo a sottolineare una cosa: l'essenza della guerra sta nel fatto che la sua ala nera si spiega indistintamente su tutti. Nessuno può tenersi in disparte, nessuno può restare comodamente seduto a bersi un caffè quando viene il momento di tirare le bombe a mano. Alla guerra d'Algeria hanno preso parte tutti gli algerini. A quella del Vietnam tutti i vietnamiti. Gli arabi non hanno mai combattuto allo stesso modo contro Israele. Perché hanno perso la guerra del 1967? Molte cose sono state dette in proposito. Si è sentito dire che Israele ha vinto perché gli ebrei sono coraggiosi e gli arabi codardi; che gli ebrei sono intelligenti e gli arabi primitivi; che le armi degli ebrei sono migliori di quelle degli arabi... Niente di tutto questo. Anche gli arabi sono intelligenti, coraggiosi e dotati di buone armi. La differenza sta altrove: in un diverso atteggiamento verso la guerra, nelle diverse teorie sulla guerra. In Israele, alla guerra partecipa tutto il popolo; nei paesi arabi, soltanto l'esercito. Quando scoppia la guerra, gli israeliani vanno tutti al fronte e la vita civile rimane come sospesa. In Siria, invece, molta gente ha saputo della guerra del 1967 solo dopo la sua fine. Eppure in quella guerra la Siria aveva perso la sua principale zona strategica, le alture del Golan. La Siria perdeva le alture del Golan e nello stesso tempo, nello stesso giorno, alla stessa ora, venti chilometri più in là, a Damasco, i caffè traboccavano di avventori, mentre la gente in piedi cercava disperatamente un tavolo libero. Nella guerra del 1967 saranno morti neanche cento soldati siriani. Un anno prima, a Damasco, durante una rivolta di palazzo erano morte duecento persone. Un conflitto politico aveva causato un numero di vittime doppio rispetto alle perdite subite in una guerra durante la quale uno stato aveva perso il suo territorio più importante e il nemico era arrivato a un tiro di schioppo dalla capitale. Al fronte un soldato può essere più o meno bravo, ma ogni soldato è innanzitutto un uomo. I giovani sono quelli che rischiano di più: nel momento stesso in cui sbocciano alla vita, si vedono il mondo crollare addosso. La morte li attacca da tutte le parti: mine che esplodono sotto i piedi, pallottole che sibilano nell'aria, bombe che piovono dal cielo. Difficile resistere a un inferno del genere. Č noto che, per quanto terribile sia il nemico, ne esiste un altro ancora più tremendo: la solitudine di fronte alla morte. Il soldato non può stare solo, il soldato non resiste a sentirsi un condannato, a sapere che in quello stesso momento uno dei suoi fratelli gioca a domino al caffè, un altro sguazza in piscina e gli altri si preoccupano di trovare un tavolo libero al bar. Ha bisogno di sentire che quello che fa è necessario e importante per qualcuno, che gli altri lo guardano, lo aiutano, stanno al suo fianco. Se non è così, lascia perdere tutto e torna a casa. La guerra non può restare circoscritta esclusivamente all'esercito: il suo peso è troppo alto perché i soldati riescano a sostenerlo da soli. Ma gli arabi la pensavano diversamente, e hanno perso. Dico al comandante dell'Hermon che una delle cose del mondo arabo che più mi hanno colpito è stato l'assoluto distacco, la totale mancanza di collegamento, in tempo di guerra, tra il fronte e il paese, tra la vita del soldato e quella del commerciante; il fatto che i due vivessero in mondi diversi, preoccupandosi di cose diverse: uno pensava a come sopravvivere ancora un'ora, l'altro a come vendere a miglior prezzo la propria mercanzia. Due problemi completamente slegati l'uno dall'altro.
[...]
Sappiamo tutti che la vita è difficile e che non esiste un popolo che non sia oppresso da infiniti problemi. Un giorno i popoli della terra si rivolsero a Dio pregandolo di concedere loro una vita più facile, di sollevarli da almeno una parte delle preoccupazioni, dei conflitti e dei problemi che da soli non riuscivano a risolvere. Dio acconsentì. "Va bene," disse. "Ognuno depositi pure sulla mia terra eletta la propria parte di male in eccesso. Č la terra del mio profeta Mosè, del mio profeta Gesù e del mio profeta Maometto: sono uomini saggi e pazienti, sapranno certo come cavarsela." I popoli fecero quanto era stato detto loro. Ma poiché, nella loro esultanza per la bontà divina, avevano fatto a gara nello scaricare i loro problemi e conflitti, scaraventandoli in fretta e furia dove capitava, finirono per creare una confusione, una bolgia, un groviglio inestricabile, un nodo apocalittico, un caos mostruoso. Ecco perché il problema palestinese è così difficile da risolvere. | << | < | > | >> |Pagina 63Il rettore mi riceve nel suo ufficio all'undicesimo piano del grattacielo che ospita l'Università San Andrés. Il grattacielo si trova al limitare del centro storico di La Paz e il suo aspetto ricorda quello di molti edifici di Varsavia dopo l'insurrezione. Pareti sforacchiate dai proiettili, qua e là muri sfondati dalle cannonate. Molte finestre sono senza vetri e poiché ci troviamo a un'altitudine di quasi quattromila metri, nei corridoi scorrazzano raffiche ghiacciate. Gli studenti seguono le lezioni rattrappiti dal freddo, mentre folate di vento fanno volare gli appunti sparpagliandoli in strada. Per fortuna le lezioni non sono frequenti. Ogni volta che lo spirito d'opposizione degli studenti si fa minaccioso, il governo chiude l'università per alcuni mesi. Nei periodi di apertura, gli studenti entrano spesso in sciopero per chiedere le dimissioni del governo. E se lo sciopero non ottiene effetto, organizzano una nuova rivolta. Nessuno pensa a studiare, cosa più che comprensibile. In Bolivia gli studenti, insieme ai minatori, costituiscono la principale forza d'opposizione, il peso della lotta contro il regime grava principalmente sulle loro spalle. In questo paese fare l'universitario è un'occupazione rischiosa. Molti di loro trovano la morte nelle manifestazioni di piazza, altri nel corso delle cariche dell'esercito contro l'università, altri ancora nelle file della guerriglia. Vanno all'università armati. L'edificio è pieno di armi. Ci sono mitra, cassette di granate. Ricordo che un tempo c'era anche una mitragliatrice antiaerea acquistata di contrabbando: l'avevano piazzata sul tetto del grattacielo e la usavano per sparare contro gli aerei che venivano a bombardare l'università. Anche l'ufficio del rettore presenta numerose tracce di proiettili. Sono tracce recenti, vestigia della guerra fratricida scoppiata da qualche tempo tra gli studenti. I giovani non sono tutti di sinistra. Una parte si è messa al servizio dell'oligarchia, altri appartengono a raggruppamenti quanto mai contrastanti tra loro: si va dagli anarchici ai trockisti, dai maoisti ai democratici cristiani indipendenti, dai socialfascisti ai nazionalisti rivoluzionari. Nella facoltà di Medicina sono attivi tredici partiti politici. In tutta l'università, una ventina, ma è difficile tenerne il conto preciso perché molti di essi spariscono una settimana dopo essere nati. La vita politica dell'America Latina è caratterizzata da una continua proliferazione, da una moltiplicazione straordinariamente fertile di partiti. Per un latinoamericano è quasi impossibile sottomettersi a una qualsivoglia disciplina, per cui il primo riflesso di chi vuole dedicarsi alla politica è quello di creare un partito tutto suo. Si potrebbe citare una lunga lista di politici latinoamericani che nel corso della loro vita hanno creato una decina, talvolta anche una quindicina di partiti politici. A lasciare quelle tracce nell'ufficio del rettore è stata la guerra tra i trockisti e gli anarchici. I primi, dichiaratisi il potere supremo della comunità studentesca, hanno preteso di venire riconosciuti dagli altri gruppi. In Bolivia i trockisti rappresentano una forza considerevole. Pare che la Bolivia e lo Sri Lanka siano i due principali centri del trockismo mondiale. Gli anarchici, nemici di ogni potere costituito e organizzato, risposero che i trockisti erano degli usurpatori e degli agenti governativi. Chiamare "agente governativo" uno studente boliviano equivale a rivolgergli il peggiore degli insulti: si arriva subito alla sparatoria. Nel corso del conflitto i trockisti occuparono l'edificio dell'università, mentre gli anarchici si trincerarono nell'attigua casa dello studente. Il fuoco incrociato si protrasse per due settimane. Il governo stava a guardare con indifferenza, ben contento che gli studenti si dissanguassero tra loro. Il governo ha continui problemi con l'opinione pubblica, che lo considera responsabile della morte di ogni studente. In questo caso, tuttavia, nessuno poté dire che il presidente o qualcuno dei suoi ministri si fossero macchiati le mani del giovane sangue studentesco. L'essenziale per il governo era il fatto che quella guerra intestina gli concedesse un attimo di tregua, permettendogli di mettere momentaneamente da parte, anche se per poco, il chiodo fisso del problema dell'università, e di aggiornare le interminabili discussioni su che cosa farne: tenerla aperta, o chiusa? Bombardarla, o lasciarla perdere? Questioni di vitale importanza, visto che la metà dei gabinetti boliviani è caduta per effetto delle manifestazioni studentesche. Non c'è governo capace di mantenersi al potere quando gli studenti riescono a formare un'alleanza antigovernativa con i minatori o con una parte dell'esercito. Il rettore passa poi a raccontarmi di come abbia svolto le sue funzioni nel corso di quella guerra fratricida. In primo luogo, ha cercato di mantenere la calma e la dignità, cosa tutt'altro che facile. Era costretto a introdursi nel suo ufficio di nascosto e, invece di starsene seduto alla scrivania, trascorreva ore sotto di essa, poiché le pallottole fischiavano da tutte le parti. Una scrivania imponente, tutta scolpita in massiccio legno di tek. Mi indica i punti in cui i proiettili si sono incastrati nel legno. Mostrandomeli, scuote la testa commiserando il suo triste destino di rettore. Si chiama Oscar Prudencio, ha solo trentaquattro anni e insegna alla facoltà di Stomatologia. Simpatico, franco, aperto. E stato eletto dagli studenti. Qui sono gli studenti a decidere ogni cosa: chi sarà rettore, quale professore occuperà una certa cattedra, quanti allievi ammettere al primo anno, quale sarà il programma di studi. Durante i giorni di guerra il rettore aveva smesso di ricevere visitatori: entrare nel suo ufficio poteva costare loro la vita. Sdraiato sotto la scrivania, stendeva appelli per invitare alla pace. Ammette di non avere ottenuto un grande risultato. Si è dovuto attendere che l'ondata d'odio calasse, che i contendenti cominciassero a riflettere e ad aprire gli occhi. Ci sono state numerose vittime da entrambe le parti. "Perché?," si chiede il rettore. "Perché tutte queste morti? Da noi," prosegue, "la vita umana non conta un accidente. Con la povertà e con la fame che ci ritroviamo, il confine tra la vita e la morte diventa labile. Lo si varca senza scosse, come una cosa normale. L'esistenza di un nostro minatore dura in media trent'anni. I cimiteri delle zone minerarie sembrano altrettanti cimiteri di guerra: tutti giovani. I cimiteri studenteschi: tutti giovani. E giovani sono anche i soldati che muoiono lottando contro i minatori. In Europa la gente muore durante le guerre: in guerra la morte si porta via milioni di vite, ma è la messe di una sola stagione. Da noi la morte, pur mietendo milioni di vite, assume una forma diversa, fa parte del quotidiano, è un elemento familiare sempre presente: comune, semplice, normale, insito in noi da sempre." Faccio per accomiatarmi, ma il rettore mi chiede se posso trattenermi ancora un po'. "Se ha un po' di tempo," mi dice, "andiamo a rendere omaggio ai caduti di Teoponte." E aggiunge:
"A rendere loro l'estremo saluto".
Il saluto ha luogo al piano terra, in una grande sala stracolma. All'ingresso, studenti armati sorvegliano chi entra per evitare la presenza di elementi dell'estrema destra, capaci di lanciare un ordigno tra la gente. Ma poiché niente è impossibile, nell'aria grava la minaccia della strage e in sala si avvertono nervosismo e tensione. La folla ondeggia gridando slogan bellicosi. Si chiede l'annientamento della reazione. La forca per alcuni generali. La nazionalizzazione dell'industria e delle banche. La chiusura dell'ambasciata degli Stati Uniti, la morte dell'imperialismo mondiale. In fondo alla sala sono appesi un ritratto di Che Guevara, un disegno rappresentante Gesù Cristo con un fucile in spalla e una grande foto di Nestor Paz, l'eroe di Teoponte. Sulla pedana siedono in semicerchio i rappresentanti dei minatori e dei contadini (indios dai volti concentrati e pensosi), i rappresentanti di vari partiti politici (legali e illegali), i leader degli studenti (tra cui i trockisti e gli anarchici, ormai riconciliati). Le prime file sono occupate dai familiari dei caduti. La signora canuta, vestita di nero, è María Luisa Bonadona de Quiroga: i suoi figli sono morti tutti e tre, lo stesso giorno, a Teoponte. La bella bionda dai magnifici occhi scuri è María Cecilia, la moglie dell'eroe Nestor Paz. Appena ventun anni, e già vedova. Porta appuntato tra i capelli un fiocco nero a farfalla, guanti neri e giarrettiere dello stesso colore che spuntano da sotto la minigonna. L'uomo brizzolato e tarchiato è il generale a riposo Anastasio Villanueva. Suo figlio è morto a Teoponte, dove era andato a espiare le colpe del padre che, ai tempi in cui era in servizio, aveva sparato sui contadini in sciopero. | << | < | > | >> |Pagina 100Gli autori dei libri di storia dedicano troppa attenzione ai cosiddetti "momenti forti" e troppo poca ai momenti di silenzio. Si tratta di una mancanza di intuizione: di quell'infallibile intuizione comune a ogni madre appena si accorge che dalla camera del suo bambino non proviene alcun rumore. La madre sa che quel silenzio non significa niente di buono, che nasconde qualcosa. Corre a intervenire perché sente il male aleggiare nell'aria. Questa medesima funzione, il silenzio la svolge nella storia e nella politica. Il silenzio è un segnale di disgrazia e non di rado di un crimine. Č uno strumento politico, esattamente come il fragore delle armi o i discorsi di un comizio. Uno strumento di cui hanno bisogno i tiranni e gli occupanti che vigilano affinché la loro opera sia accompagnata dal silenzio. Pensiamo a come i vari colonialismi tutelassero il silenzio. Con quanta discrezione lavorasse la Santa Inquisizione. Con quanta cura Leónidas Trujillo evitasse ogni pubblicità.Quale silenzio emana dai paesi che traboccano di prigioni! Lo stato di Anastasio Somoza: silenzio. Lo stato di François Duvalier: silenzio. Che grande impegno mette ognuno di questi dittatori nel mantenere quell'ideale stato di silenzio che qualcuno cerca continuamente di turbare! Quante vittime per questo motivo, e quali costi! Il silenzio ha le sue leggi e le sue esigenze. Il silenzio esige che i campi di concentramento sorgano in luoghi appartati. Il silenzio necessita di un enorme apparato poliziesco e di un esercito di delatori. Il silenzio esige che i nemici del silenzio spariscano all'improvviso e senza lasciare traccia. Il silenzio vorrebbe che nessuna voce – di lamento, di protesta, di indignazione – disturbasse la sua pace. Ovunque risuoni una voce del genere, il silenzio colpisce con tutte le forze e ristabilisce lo stato precedente, ossia lo stato di silenzio. Il silenzio possiede la facoltà di espandersi, ragion per cui adoperiamo espressioni quali: il silenzio "regnava all'intorno", o "avvolgeva ogni cosa". Il silenzio ha anche la capacità di aumentare di peso: non per niente si parla di un "silenzio pesante", allo stesso modo in cui si parla del peso dei corpi solidi o liquidi. La parola "silenzio" appare quasi sempre associata a termini quali "cimitero" (un silenzio di tomba), "campo di battaglia" (il silenzio dopo la battaglia), o "sotterranei" (i sotterranei immersi nel silenzio). Non si tratta di associazioni casuali. Oggi si parla molto della lotta contro il rumore, mentre è molto più importante combattere il silenzio. Nella lotta al rumore è in gioco la pace dei nervi, nella lotta al silenzio la vita umana. Nessuno giustifica né difende chi fa molto rumore, mentre chi impone il silenzio nel proprio stato viene sempre protetto da un apparato repressivo. Per questo la lotta al silenzio è così difficile. Per infrangere il silenzio nel paese di Duvalier occorrerebbe una rivoluzione. Chi volesse spezzare il silenzio in cui la United Fruit Company compie le sue macchinazioni esporrebbe il proprio paese a un intervento dei marines degli Stati Uniti. Sarebbe interessante analizzare in quale misura i sistemi di comunicazione di massa lavorino al servizio dell'informazione e in quale misura al servizio del silenzio. Sono più le cose che vengono dette o quelle che vengono taciute? Č possibile fare il calcolo delle persone che lavorano nel campo della pubblicità: e se facessimo il calcolo di quelle che lavorano a mantenere il silenzio? Quale delle due cifre risulterebbe maggiore? Quando, in Guatemala, mi sintonizzo su una radio locale che trasmette solo canzoni, pubblicità della birra e, per tutta notizia dal mondo, la nascita in India di due gemelli siamesi, so con certezza che quella radio lavora al servizio del silenzio. Al servizio del silenzio hanno lavorato i dittatori succedutisi in questo paese, i loro protettori di Miami e di Boston, l'esercito e la polizia locali. Per questo Eduardo Galeano inizia il suo libro sul Guatemala, Guatemala, un paese occupato con la frase: "Il Guatemala, come l'intera America Latina, è vittima della congiura del silenzio e della menzogna". In effetti, nella storia di questo paese si susseguono volta a volta lunghi periodi di silenzio. | << | < | > | >> |Pagina 112La giunta militare indisse le elezioni. Fu eletto presidente della Repubblica un professore universitario, profugo politico sotto il governo di Ubico: Arévalo Bermejo. Le riforme introdotte da Arévalo possono sembrare insignificanti, ma in quel paese ognuna di esse rappresentò una svolta cruciale. Pedagogo per professione e per passione, nonché autore di un libro intitolato La pedagogia de la personalidad, Arévalo, per esempio, cominciò a costruire scuole. La fazione liberale dell'oligarchia considerò quella trovata come una delle tante fisime del professore, ma i liberali erano in minoranza. La maggioranza conservatrice gli dichiarò guerra. Agli occhi dell'élite guatemalteca, costruire scuole è tuttora un delitto. Ricordiamoci le parole del ministro: "Si rende conto di dove andremmo a finire, caro signore... ecc.".
Nel 1947, su iniziativa di Arévalo, il parlamento approvò
il Codice del Lavoro, che aumentava lo stipendio minimo da
cinque a ottanta centesimi al giorno. In Guatemala il sessanta per cento dei
lavoratori vive dello stipendio minimo. Il sessanta per cento delle persone,
dopo un mese di duro lavoro, portava a casa
un dollaro.
D'ora in poi, ne avrebbe portati diciassette. Si
trattava comunque di un salario da fame, visto
che in Guatemala i prezzi sono alti come negli Stati Uniti. Ma
i reazionari locali accolsero il codice di Arévalo come una specie di "manifesto
comunista" e scatenarono un attacco in piena regola. Dopo sei anni di governo,
nel passare le consegne
al suo successore, il professor Arévalo dichiarò in un discorso di circostanza
di aver dovuto sventare trentatré congiure
della United Fruit e dell'oligarchia locale miranti a rovesciare a mano armata
il governo. In seguito Arévalo pubblicò vari libri circa la politica di
Washington nell'America Latina.
Essendo stato presidente, sapeva molte cose e quei libri (tra cui
Fàbula del tiburón y las sardinas,
e
Guatemala, la democracia y el imperio),
scritti in uno stile irruente e un po' caotico, contengono centinaia di
ripugnanti prove della brutalità e del cinismo del colonialismo statunitense. La
più totale amoralità, la più totale abiezione.
Nel frattempo a Washington, visto che in Europa tutto era tranquillo e il piano Marshall funzionava efficacemente, qualcuno si accorse che in Guatemala vigeva un governo democratico. Una brutta notizia. Purtroppo nessuna delle modeste riforme introdotte da Arévalo poteva venir fatta rientrare nel quadro di un'aggressione comunista. Fu grazie a ciò che Arévalo riuscì a salvarsi. Se avesse fatto un solo passo più in là, per esempio obbligando la United Fruit a pagare qualche dollaro di tasse, allora sì che si sarebbe potuto parlare di un'inequivocabile "aggressione comunista". In casi come quelli le cose diventavano semplici: scattava il meccanismo dell'opposizione al nemico e un intervento armato metteva automaticamente fine alla palese aggressione. Per il momento, tuttavia, si decise di tenere sott'occhio il Guatemala. Brutto segno. La storia insegna che quando Washington si mette a tener d'occhio qualcuno, il sospettato prima o poi cade in disgrazia. Sappiamo quello che accadde quando l'ambasciatore degli Stati Uniti in Brasile, Lincoln Gordon, cominciò a tenere d'occhio il presidente Goulart. Sappiamo quello che accadde quando il presidente Johnson cominciò a tenere d'occhio la Repubblica Dominicana. Questa volta – siamo nel 1951 – Washington inizia a tenere d'occhio il colonnello Jacobo Árbenz Guzmán. Árbenz è presidente della Repubblica dal mese di marzo. Ha trentasei anni e molta buona volontà. Uomo dalla mente semplice, più pratica che teorica, è comunque un Albert Einstein in confronto a tutti coloro che hanno governato il Guatemala fino al 1944, nonché in confronto a tutti quelli che lo governeranno dopo di lui. Il colonnello Árbenz è una delle figure tragiche della politica latinoamericana. La sua tragicità consisteva nel suo modo di ragionare lineare e nel fatto di enunciare verità evidenti. Ossia, in un modo di pensare e di parlare che in America Latina era assolutamente inammissibile. E, invece, Jacobo Árbenz Guzmán pensava. "Visto che la United Fruit," si diceva, "ricava dal Guatemala un guadagno di sessantasei milioni di dollari all'anno (nel 1950), mentre il settantacinque per cento della nostra popolazione va in giro scalza, ci paghi un milione di dollari di tasse e nel giro di due anni forniremo scarpe a tutti i bambini delle campagne." Altro esempio: "Visto che la United Fruit coltiva soltanto l'otto per cento dei suoi terreni lasciando il resto incolto, mentre un milione e mezzo di contadini guatemaltechi è privo di terra, ci restituisca una parte di quei terreni incolti e noi li distribuiremo a chi non li ha". Il presidente confidò a Tizio e a Caio le sue riflessioni e in men che non si dica sulla scrivania dell'ambasciatore degli Stati Uniti cominciarono a piovere le denunce. Poco tempo dopo, al dipartimento di Stato già si parlava della questione Árbenz e i prestiti al Guatemala venivano congelati. I guatemaltechi ricordano i tre anni di governo Árbenz come l'unico periodo in cui hanno avuto la sensazione di vivere in modo normale. Si poteva parlare a voce alta. Si potevano rivendicare i propri diritti. I contadini potevano organizzarsi in sindacati. Si parlava di dare il via a un piano edilizio di case popolari. Dí abolire il lavoro obbligatorio. Verso la metà del 1952 il governo di Árbenz promulgò il Decreto sulla riforma agraria. Era un documento equilibrato, moderato. Diceva che la riforma si proponeva come obiettivo la creazione di una "economia agraria capitalista". Il decreto conteneva tuttavia due misure che attirarono sul Guatemala l'intervento armato degli Usa. E cioè: – aboliva l'imperante sistema feudale ("è abolita qualsiasi forma di servitù della gleba e di schiavitù e, quindi, sono proibite le prestazioni personali gratuite dei contadini"); – introduceva il diritto di esproprio delle terre incolte: ma solo di quelle e, per giunta, "previo indennizzo". Le piantagioni e le altre terre coltivate non erano soggette all'esproprio. La riforma non si proponeva di eliminare i latifondi, ma solo di introdurre un minimo di razionalità e di buon senso: secondo i dati del censimento agrario del 1950, il settantuno e mezzo per cento dei latifondi non era mai stato coltivato e la United Fruit possedeva un novantadue per cento di terre in abbandono permanente. Nello stesso tempo (secondo i dati del medesimo anno), il cinquantasette per cento dei contadini non possedeva neanche un pugno di terra, e il rimanente ne possedeva giusto quel tanto sufficiente – come scrive Eduardo Galeano – "a scavarcisi la fossa". La fame decimava le campagne guatemalteche: il sessantasette per cento della popolazione moriva prima dei vent'anni. Se la riforma avesse colpito soltanto i magnati locali, Washington avrebbe magari lasciato correre. Ma nell'autunno del 1953 Árbenz confiscò quasi la metà dei terreni incolti della United Fruit: ottantatremila ettari. In cambio di quelle terre, ricevute gratuitamente dal presidente Estrada, la United Fruit era stata risarcita dal presidente Árbenz con un milione e duecentomila dollari. Ma che cos'erano mai, per la United Fruit, un milione e duecentomila dollari? Una somma ridicola. Il problema, comunque, non era il denaro. Lo scandalo stava nel fatto che Árbenz aveva tentato di creare un precedente inammissibile: violare il territorio di un monopolio statunitense. Per la mentalità del dipartimento di Stato, un terreno appartenente a un'impresa privata nordamericana, fosse anche in capo al mondo, rappresenta un'estensione del territorio degli Stati Uniti d'America. Toccarlo equivale ad attentare alla sacralità delle frontiere americane. Chi ignora questa mentalità difficilmente potrà capire la massa dei problemi che si addensano sulla testa dell'audace azzardatosi – entro i confini del proprio paese! – a strappare al monopolio statunitense mezz'ettaro di sabbia sterile. Le urla arrivano al cielo!
Violando i confini della United Fruit (ossia, secondo l'opinione degli
esperti di Washington, i confini degli Stati Uniti), il colonnello Árbenz aveva
pronunciato la sua stessa condanna. Neanche a farlo apposta, nello stesso
periodo in cui, per ordine del colonnello, gli aratri solcavano le terre incolte
dell'impero bananiero, a capo del dipartimento di Stato fu
nominato l'ex avvocato, e ora socio, della United Fruit, John
Foster Dulles. Dulles si gettò a capofitto nel gorgo del conflitto guatemalteco.
Insieme al fratello Allen Dulles, capo della Cia, si mise energicamente al
lavoro. La questione non presentava particolari difficoltà, poiché un misfatto
quale la confisca di terreni appartenenti al monopolio statunitense rientrava a
buon diritto nel novero delle "aggressioni comuniste".
A quel punto bastava semplicemente mettere in moto il meccanismo
dell'opposizione al nemico.
L'invasione del Guatemala iniziò il 17 giugno 1954. | << | < | > | >> |Pagina 162Nel corso di un incontro, qualcuno dei presenti in sala mi chiede di tracciare un paragone tra la figura di Che Guevara e quella di Allende e di dire chi dei due avesse ragione. La domanda parte dal presupposto che solo uno dei due potesse averla e il pubblico si aspetta che io opti tra la via scelta da Ernesto Guevara e quella scelta da Salvador Allende. A un certo punto della vita, Guevara abbandona la sua carica, la sua scrivania di ministro e parte per la Bolivia, dove organizza un distaccamento partigiano alla testa del quale troverà la morte. Allende, al contrario, muore difendendo la sua scrivania e il suo ufficio di presidente dal quale — come aveva sempre detto — si sarebbe lasciato portare via solo "dentro un vestito di legno". Apparentemente si tratta di due morti molto diverse: in realtà, la differenza riguarda solo il luogo, il tempo e le circostanze esterne. Allende e Guevara sacrificano la loro vita per il potere del popolo. Il primo, difendendolo; il secondo, lottando per ottenerlo. La scrivania di Allende è solo un simbolo, così come lo sono le scarpe da contadino calzate da Guevara. Fino all'ultimo momento restano entrambi convinti di avere scelto la strada più giusta: per Guevara è quella dell'azione armata, che comporta inevitabilmente delle perdite umane. Per Allende è la via della lotta politica: vuole a tutti i costi evitare che ci siano vittime. Entrambi erano medici: Guevara chirurgo, Allende internista. Influì questa circostanza sui loro atteggiamenti? Č risaputo che, nello scegliere una professione, una persona viene guidata da una serie di motivi psicologici. Fu così anche in questo caso? Lo ignoro. Gli spari che mettono fine alla vita di Guevara e a quella di Allende non arrivano inaspettati. Sia l'uno che l'altro accettano coscientemente la propria morte, sapendo che sta per arrivare. Possono ancora salvarsi, ne hanno il tempo e l'opportunità. Tra la cattura di Guevara ferito e la sua esecuzione trascorrono venti ore. Il colonnello Zenteno gli promette la vita, a patto che acconsenta a comparire davanti a un tribunale in veste di accusato. Guevara respinge la proposta. Ammanettato, resta seduto in silenzio sul pavimento di terra battuta della scuola rurale di La Higuera, rifiutando di dire una sola parola. Soffre per la ferita alla coscia, soffre per i foruncoli, è soffocato dall'asma. Forse neanche sente né vede apparire alla finestra un sergente che preme il grilletto del mitra. Allende dispone di otto ore di tempo. La mattina viene informato di un aereo che lo aspetta: può andare dove vuole purché si dimetta, purché abbandoni il suo posto. Ma Allende non molla. Fino al giorno prima era un anziano signore dal volto stanco e preoccupato, ora grave e ora bonario, sempre vestito con sofisticata eleganza: oggi trabocca di nuove energie, di una forza e di una vitalità che lascia tutti stupefatti: spara, detta ordini, conduce la sua ultima battaglia. Le ore passano. Intorno a lui ci sono morti e feriti. Anche lui è ferito. Ma le mani si mantengono salde, la mitragliatrice non fallisce un colpo. L'esercito irrompe nel palazzo. In uno dei saloni, in mezzo al fumo e alla polvere, un uomo basso ma aitante, abbondantemente oltre la sessantina, in casco da minatore e pullover a collo alto continua a sparare fino all'ultimo: il presidente della Repubblica. Nel modo in cui muoiono Guevara e Allende ci sono un'implacabile determinazione, una deliberata inesorabilità, una folle dignità. In quelle ultime ore, tutto ciò che potrebbe favorire la salvezza, come i negoziati, i maneggi, i compromessi, la resa o la fuga, viene respinto. Il loro cammino, rettilineo e inequivocabile, porta dritto alla morte. Sia una morte che l'altra sono una dichiarazione, una sfida. Esprimono il desiderio di testimoniare pubblicamente la giustezza delle proprie convinzioni e la disponibilità, al di là di ogni esitazione, a pagare per essa il prezzo più alto. Sono costretto ad andarmene, ma non me ne vado del tutto, non interamente, non per sempre. Entrambi consapevoli di doversene andare, vi si preparano per tempo. Guevara si accomiata da Fidel, dai genitori e dai figli in lettere scritte molti mesi prima della fine. Allende inizia il suo ultimo, tragico giorno separandosi prima dalle figlie, e poi – in un discorso alla radio – dal popolo. A partire da quel momento, resteranno soli con il destino, attorniati da un pugno di uomini che li seguiranno fino in fondo. Andare fino in fondo: è questa l'idea che li accompagnerà nelle ultime ore rimaste. Agiscono fino all'ultimo, non hanno tempo, sono presi dai loro compiti. Cadono entrambi strada facendo. Due morti così simili e due vite così diverse. Due personalità antitetiche, due temperamenti opposti.
[...]
In questo suo rifiuto della guerra civile, Allende è guidato anche da un suo fondamentale principio morale. Assumendo la carica, lui, primo presidente popolare del Cile, ha giurato di rispettare la costituzione. La costituzione impone al presidente l'obbligo di evitare lo scoppio di una guerra civile. Allende vuole mantenere la sua onestà morale. Anche Guevara si comporta allo stesso modo. Il suo reparto non fa che catturare prigionieri, soldati semplici e ufficiali che vengono subito rilasciati. Da un punto di vista militare, si tratta di un grave errore: i prigionieri vanno immediatamente a riferire il luogo in cui si trova il reparto, il numero dei suoi membri e l'entità dei suoi armamenti. Ma Guevara non fucila nessuno. "Siete liberi," dice. "Noi rivoluzionari siamo gente moralmente onesta, non infieriamo su un nemico disarmato." Questo principio d'onestà morale è un tratto caratteristico della sinistra latinoamericana, nonché causa frequente delle sue disfatte. Bisogna tuttavia capire la situazione. Il giovane latinoamericano cresce in mezzo a un mondo di corruzione: un mondo dove la politica viene fatta dai soldi e per i soldi, il mondo della demagogia più sfrenata, dell'assassinio e del terrore poliziesco, di una plutocrazia implacabile e dissipatrice, di una borghesia avida di tutto, di arrivisti vacui e depravati, di ragazze che cambiano un uomo dopo l'altro come se nulla fosse. Un mondo che il giovane rivoluzionario rifiuta, che vorrebbe annientare e al quale, prima di essere in grado di distruggerlo, vuole contrapporre un mondo diverso, puro e onesto, vuole contrapporre se stesso. Nella ribellione della sinistra latinoamericana è sempre presente questo elemento di purificazione morale, questo senso di maggiore eticità, questa preoccupazione di mantenere la superiorità etica sull'avversario. Perderò, sarò ucciso, ma nessuno potrà mai accusarmi di non avere rispettato le regole del gioco, di avere tradito, di avere mancato, di avere le mani sporche. Sia Guevara che Allende sono i migliori esponenti di questo atteggiamento e di questa scuola di pensiero. La domanda da porsi è: nel loro operato si riscontra la consapevole intenzione di creare un modello per le generazioni future, per quel mondo in nome del quale combattono e muoiono?
Come stabilire chi dei due avesse ragione? L'avevano entrambi. Hanno agito
in circostanze diverse, ma lo scopo della
loro azione era il medesimo. Hanno commesso errori? Risposta: erano degli esseri
umani. Entrambi hanno scritto il primo capitolo della storia rivoluzionaria
dell'America Latina. Una storia che è appena agli inizi, che si sta appena
creando.
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