Copertina
Autore Ryszard Kapuscinski
Titolo Imperium
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2000 [1994], UE 1326 , pag. 278, dim. 125x195x16 mm , Isbn 978-88-07-81326-9
OriginaleImperium [1994]
TraduttoreVera Verdiani
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe politica , viaggi , storia contemporanea , storia criminale , paesi: Russia
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Indice


  9  Introduzione

 11  PRIMI INCONTRI (1939-1967)

 13  Pinsk, '39
 26  Transiberiana, '58
 40  Sud, '67

 75  A VOLO D'UCCELLO (1989-1991)

 77  La Terza Roma
 86  Il tempio e il palazzo. (Ancora a Mosca)
 97  Guardiamo, piangiamo
106  L'uomo sul monte d'asfalto
115  Fuga da se stessi
124  Vorkuta, gelare nel fuoco
141  Domani, rivolta dei Baskiri
148  Misterium russo
156  Saltando le pozzanghere
165  Kolyma, nebbia e nebbia
186  Cremlino, la montagna incantata
195  La trappola
214  Asia Centrale, annientamento di un mare
223  La Pomona della piccola città di Drohobycz
246  Ritorno alla città natale

255  CONTINUA (1992-1993)

257  Continua

 

 

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Pagina 9

Questo libro è diviso in tre parti: la prima, intitolata "Primi incontri 1939-1967", è una relazione dei miei primi soggiorni nell'Impero. Vi si descrivono l'ingresso delle truppe sovietiche nella mia cittadina natale del Podlasie (oggi Bielorussia), un viaggio nella Siberia deserta e coperta di neve, una spedizione in Transcaucasia e nelle repubbliche dell'Asia Centrale, ossia in zone dell'ex Urss ricche di esotismo, di conflitti e di una particolare atmosfera densa di emozioni e sentimenti.

La seconda parte, intitolata "A volo d'uccello 1989-1991", descrive successivi e più lunghi vagabondaggi nei vasti territori dell'Impero, compiuti durante gli anni del suo declino e della sua definitiva caduta (definitiva almeno per quanto riguarda il suo assetto fino al 1991). Si tratta di viaggi compiuti da solo, fuori dalle istituzioni e dai percorsi ufficiali, che mi hanno portato da Brest (il confine dell'ex Urss con la Polonia) a Magadan sul Pacifico e da Vorkuta, oltre il Circolo Polare, a Termez (alla frontiera con l'Afghanistan). In tutto un sessantamila chilometri.

La terza parte, intitolata "Continua", è un insieme di pensieri, di riflessioni e di appunti emersi in margine ai miei viaggi, conversazioni e letture.

Si tratta di un libro polifonico, nel senso che nelle sue pagine si incontrano personaggi, luoghi e temi che possono riaffacciarsi a più riprese in anni e contesti diversi. Ma alla fine l'insieme, anziché concludersi in una sintesi superiore e definitiva come impongono le leggi della polifonia, si disintegra e va in pezzi, per la buona ragione che mentre il libro veniva scritto è andato in pezzi il principale tema e oggetto: la grande potenza sovietica. Al suo posto sorgono nuovi stati e tra di essi la Russia, questo paese immenso, abitato da un popolo governato e tenuto insieme per secoli dall' ambizione imperiale.

Il presente libro non è una storia della Russia e dell'ex Urss, né un resoconto dell'ascesa e caduta del comunismo in questo stato e neanche un manualistico concentrato di conoscenze sull'Impero.

È la mia relazione personale di viaggi compiuti nelle sconfinate distese di questo paese (o meglio di questa parte del mondo), cercando sempre di arrivare fin dove me lo consentivano il tempo, le forze e le possibilità.

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Pagina 13

Pinsk, '39



Il mio primo incontro con l'Impero avviene accanto al ponte che collega la cittadina di Pinsk con il mezzogiorno del mondo. È la fine del settembre 1939. Guerra ovunque. Villaggi in fiamme, gente che in boschi e fossati cerca un rifugio purchessia dalle incursioni. Sulla nostra strada giacciono cavalli morti. Se volete proseguire, dice un tale, dovete spostarli da una parte. Ma che fatica, quanto sudore: i cavalli morti pesano in modo incredibile.

Torme di fuggiaschi nel polverone, nella caligine, nel panico. Che se ne fanno di tutti quei fagotti, di tutte quelle valigie? Perché tante teiere e casseruole? Perché inveiscono cosi? Perché chiedono continuamente qualcosa? A piedi, a bordo di un mezzo, vanno, corrono da qualche parte, non si sa dove. Mia mamma invece lo sa dov'è che andiamo. Ha preso per mano me e mia sorella e tutti e tre andiamo a Pinsk, nel nostro appartamento di via Wesola. La guerra ci ha sorpresi vicino a Rejowiec, in vacanza presso lo zio, e ora dobbiamo tornare a casa. Tutti a casa!

Ma quando, dopo giorni e giorni di cammino, arriviamo finalmente vicino a Pinsk e da lontano già si intravedono le case della città, gli alberi dello splendido parco e i campanili delle chiese, sulla strada vicino al ponte spuntano all'improvviso alcuni marinai. Hanno lunghe carabine e acuminate baionette, sui berretti rotondi una stella rossa. Alcuni giorni fa sono arrivati qui in nave fin dal Mar Nero, hanno affondato le nostre cannoniere, ucciso i nostri marinai e ora non vogliono lasciarci entrare in città. Ci fanno restare a distanza, "Fermi li!" gridano tenendoci sotto tiro con le carabine. La mamma e anche le altre donne con i bambini, ormai se ne è raccolto un bel gruppo, piangono e invocano pietà. "Chiedete pietà!" ci supplicano le madri folli di paura, ma che altro possiamo fare noi bambini, è già tanto se ci inginocchiamo per la strada, singhiozziamo e alziamo in aria le braccia.

Grida, pianti, carabine e baionette, le facce alterate dei marinai sudati e rabbiosi, un nonsoché di furibondo, di minaccioso e di inaudito: tutto questo sta lì, accanto al ponte sul Pina, in quel mondo dove faccio il mio ingresso all'età di sette anni.


A scuola fin dalla prima lezione ci insegnano l'alfabeto russo. Si incomincia dalla lettera 's'. "Perché dalla 's'?'" chiede una voce in fondo alla classe. "Di solìto si incomincia dalla 'a'!" "Bambini," ci dice con voce depressa il maestro (che è polacco) "guardate la copertina del nostro libro. Qual è la prima lettera?" La 's'! Petrus, che è un bielorusso, sa leggere tutto il titolo: Stalin, Problemi del leninismo. È l'unico libro su cui studiamo il russo, l'unico esemplare esistente. Sulla copertina rigida rilegata in tela grigia spiccano grandi lettere dorate.

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Pagina 26

Transiberiana, '58



Luogo del mio secondo incontro con l'impero: lontano, nelle steppe e nelle nevi dell'Asia, in zone difficilmente raggiungibili la cui geografia porta nomi barbari e strampalati. I fiumi si chiamano Argun, Unda, Cajhar; le montagne Cingan, Ilcuri, Dzagdy; le città Kilkok, Tungir e Bukacaca. Già i nomi da soli basterebbero a comporre armoniose, esotiche poesie.

Il treno della Transiberiana, partito il giorno prima da Pekino e che effettua il viaggio di nove giorni per Mosca, sta arrivando da Kharbin a Zabajkalsk, stazione di confine con l'Urss. L'avvicinarsi di una frontiera aumenta sempre l'eccitazione, intensifica l'emozione. La gente non è fatta per vivere in situazioni di frontiera, cerca di sfuggire o di liberarsene prima possibile. E tuttavia non fa che imbattercisi, trovarle e sentirle ovunque. Prendiamo l'atlante universale: frontiere su frontiere. Confini determinati da oceani e continenti. Da deserti e foreste. Da precipitazioni, monsoni, tifoni, terre coltivate e incolte, terre permanentemente ghiacciate e terre acide, scisti e conglomerati. Mettiamoci anche le zone dei depositi quaternari e delle eruzioni vulcaniche, il basalto, il calcare, la trachite. Possiamo vedere anche confini tra scudo patagonico e scudo canadese, tra zone artiche e zone tropicali, tra le forme erosive del bacino dell'Adige e quelle del lago Ciad. Tra gli habitat di certi mammiferi. Di certi insetti. Di certi rettili e serpenti, tra cui il pericolosissimo cobra nero e il terribile, benché grazie al cielo pigro, anaconda.

E che dire delle frontiere stabilite da monarchie e repubbliche? Da antichi regni e civiltà scomparse? Da patti, accordi, alleanze? Da razza nera e razza gialla? Dalle migrazioni dei popoli? Qui la frontiera dove arrivarono i mongoli. Qui i khazari. Qui gli unni.

Quante vittime, quanto sangue, quanto dolore legati alla questione delle frontiere! Sconfinati sono i cimiteri dei caduti in difesa delle frontiere. Altrettanto sconfinati i cimiteri degli audaci che tentarono di allargare le loro. Praticamente metà degli abitanti del nostro pianeta, morti sul campo di battaglia, hanno reso l'anima in guerre suscitate da una questione di frontiere.

Questa sensibilità all'elemento frontiere, questa continua smania di delimitarle, espanderle o difenderle è una caratteristica non solo dell'uomo, ma di tutto il mondo vivente, di tutto ciò che si muove sull'orbe terracqueo e nell'aria. Molti mammiferi si fanno dilaniare a pezzi in difesa dei confini dei loro pascoli. Molti predatori alla conquista di nuovi territori di caccia azzannano a morte i loro rivali. Ma senza andare tanto lontano, anche il nostro mite e silenzioso micio domestico si sforza, si spreme e fatica per schizzare qualche goccia qua e là onde delimitare i confini del suo territorio.

E i nostri cervelli? Non contengono forse codificata un'infinità di frontiere? Tra l'emisfero sinistro e quelo destro, tra lobo frontale e lobo temporale, tra ipofisi e ipotalamo. E le divisioni tra ventricoli, meningi e circonvoluzioni? Tra midollo allungato e spinale? Osserviamo il nostro modo di pensare. Spesso ci diciamo: fin qui si, oltre no. Oppure: attento a non spingerti troppo, potresti oltrepassare i limiti! E per giunta tutti questi confini del nostro modo di pensare e di sentire, di ordini e di proibizioni, si spostano di continuo, si incrociano, si fondono e si sovrappongono. Nei nostri cervelli si svolge un frenetico via vai di frontiera, di pre-frontiera e di oltre-frontiera. Da cui mal di testa, emicranie e confusione di idee, ma anche qualche perla: visioni, allucinazioni, lampi mentali e, ahimè più di rado, di genio.

La frontiera è stress, è paura (molto più raramente liberazione). Il concetto di frontiera può contenere un che di definitivo, di porta che ci si chiude alle spalle per sempre: tale è il confine tra la vita e la morte. Gli dei conoscono queste inquietudini e per questo cercano di conquistare fedeli promettendo loro in premio il regno di dio, che difatti è s-confinato. Il paradiso del dio cristiano, il paradiso di Jahvè e di Allah non hanno frontiere. I buddisti sanno che lo stato di nirvana è uno stato di beatitudine senza confini. Insomma la cosa che tutti vorrebbero, si aspetterebbero e auspicherebbero è precisamente questa incondizionata, totaie, assoiuta sconfinatezza.

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Pagina 40

Sud, '67



Nove anni dopo il viaggio in Transiberiana, tornai nuovamente nell'Impero. Il percorso della mia spedizione toccava le sette repubbliche meridionali dell'Urss: Georgia, Armenia, Azerbajdzan, Turkmenistan, Tadzikistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Un viaggio a ritmo d'inferno: a ogni repubblica toccavano meno di dieci giorni. Mi rendevo perfettamente conto di quanto superficiale e casuale fosse quel tipo di incontri, tuttavia nel caso di un paese cosi difficilmente accessibile, cosi chiuso, cosi avvolto nel segreto, bisogna sfruttare ogni minima occasione, ogni possibilità, per impensata che sia, pur di sollevare un lembo della pesante e impenetrabile cortina.

Quale fu l'aspetto più sorprendente di questo terzo incontro con l'impero? Alla nostra immaginazione l'Urss appariva una creazione uniforme, monolitica, dove tutto era ugualmente grigio e cupo e, per giunta, monotono, fatto in serie. Li nulla poteva esulare dalla norma stabilita, nulla poteva distinguersi o assumere caratteristiche individuali.

Quindi mi recai nelle repubbliche non russe dell'Impero. Che cosa mi colpi? Ebbene, malgrado la rigida corazzatura militaresca dell'autorità sovietica, a queste piccole ma antichissime nazioni è riuscito di conservare qualcosa delle loro tradizioni, della loro storia, del loro orgoglio nascosto per necessità, della loro dignità personale. Vi scoprii un tappeto orientale steso al sole, che in molti punti conservava ancora gli antichi colori e attirava l'attenzione con la varietà dei disegni originali.

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Pagina 44

Armenia

Vanik Santrian mi conduce nelle stradine più appartate di Erevan, esaudendo la mia richiesta di uscire dai sentieri battuti. È cosi che capitiamo nel cortiletto di Benik Petrusjan. Benik ha ventotto anni, ha finito l'Accademia di Erevan e fa lo scultore. Timido, minuto, abita nel piccolo atelier che si affaccia appunto sul suo cortile-esposizione. Nel laboratorio stanno appese magnifiche croci armene in pietra, i cosiddetti xcackhar, che anticamente gli armeni scolpivano sulle rocce. In Armenia ci si imbatte continuamente in questi xcackhar, simbolo dell'esistenza armena e che talvolta fungono da delimitazione di confine, talaltra da indicatori stradali. Antichi xcackhar si trovano nei luoghi più inaccessibili, magari in cima a rocce scoscese, senza che oggi sia più possibile appurare come facessero gli scultori, di solito monaci, ad arrampicarvisi.

Benik ci offre del vino. Sediamo su una branda tra le pietre che va scolpendo da anni. Inserisce nel registratore una cassetta per farci ascoltare i patarag, sorta di antichi salmi armeni, belli e intensi. Possiede una recente incisione francese, registrata dal coro armeno a Parigi. Qui in Armenia gli autentici patarag si possono sentire presso Erevan, a Ecmiadzin, il Vaticano della Chiesa Armena.

Benik scolpisce la pietra e fa anche opere di cesello, sorta di bassorilievi su metallo. È estremamente dotato. Sculture e ceselli vertono tutti sul tema amoroso, più esattamente sull'amplesso. Ma nei gesti che Benik rappresenta non c'è gioia: sono gli abbracci di esseri in procinto di lasciarsi per sempre. Uno dei cicli di Benik è la separazione tra Adamo ed Eva.

Difficile che le sue opere vengano esposte. Di solito stanno sotto gli alberi del cortile, come adesso, oppure addossate al muro, o posate direttamente sul marciapiede. Benik scolpisce per gli inquilini dei quattro casamenti che circondano il suo cortile. Scolpisce per il guardiano e per il postino. Per i netturbini che vengono a portar via l'immondizia. Per i bambini che, giocando o nella speranza di avere una caramella, gli lavano le sculture. Per l'esattore della luce. E, se capita, anche per il poliziotto.

Nel quartiere di Benik c'è pure il laboratorio di Amajak Bdejan. Bdejan fabbrica anfore, vasi e brocche gigantesche che, espone sulle piazze di Erevan. Ceramiche monumentali, adatte appunto a essere esposte nelle piazze cittadine, sulle aiole erbose dei grandi viali di Erevan. Bdejan ama i colori chiari e allegri, ma la superficie delle sue forme plastiche appare ruvida, bitorzoluta. Bdejan ricopre la punta di queste sporgenze con un leggero smalto luminoso, per cui i suoi vasi e le sue anfore brillano da lontano. Le anfore di Bdejan decorano molti punti della città. È stato lui l'iniziatore del movimento che dovrebbe fare di Erevan un'opera plastica oltre che architettonica. Le autorità cittadine sostengono in pieno le sue ambizioni, infatti Bdejan ha realizzato l'interno del Teatro drammatico di Erevan, uno dei lavori più interessanti nel campo della plastica decorativa. Sono opera sua anche l'interno del caffè Araks e la magnifica sala del ristorante Ararat. L'Ararat si stende nel sottosuolo e offre un esempio di modernità realizzata con gusto e misura. Di posti come questi a Erevan cominciano a essercene molti. La capitale dell'Armenia è tutta un museo dell'arte più recente.

Quando siamo arrivati in visita da Bdejan diluviava e nel suo laboratorio, più basso della sede stradale, penetrava l'acqua. Come un antico vasaio, Bdejan stava impastando un recipiente d'argilla alto e stretto. Ci ha mostrato le foto delle sue esposizioni in Canada, Svizzera, Italia, Siria. Ha quarantadue anni, appare massiccio, taciturno, immerso nel lavoro. Purtroppo le opere più interessanti di Bdejan si possono ammirare solo a Erevan, poiché la creazione principale di Bdejan è la città stessa.

Andiamo a trovare anche un giovane compositore, Emin Aristakesjan. Vanik mi ci porta per farmi sentire il canto del grande Komitas. Komitas è per gli armeni quel che Chopin è per i polacchi, il loro genio musicale. Si chiamava Soomo Soomonjan ma, fattosi monaco, assunse il nome di Kamitas, con il quale viene qui solitamente chiamato. Nacque in Turchia nel 1869. A quel tempo in Turchia viveva una forte minoranza di armeni, secondo certuni due milioni, tre secondo altri. Studiò composizione a Berlino. Dedicò l'intera vita alla musica armena. Girava per le campagne raccogliendo canti popolari. Compose decine, qualcuno dice centinaia, di cori armeni. Era un gusan, un cantore ambulante, improvvisava epopee, cantava. Scrisse centinaia di composizioni, una più bella dell'altra, note alle filarmoniche del mondo intero. Scrisse anche una messa tuttora cantata nelle chiese armene.

Nel 1915 in Turchia cominciò il massacro degli armeni. Fu nella storia il maggiore eccidio prima di Hitler, un milione e mezzo di armeni vi persero la vita. I soldati turchi trascinarono Komitas in cima a una roccia, dalla quale stavano per buttarlo giù. Lo salvò all'ultimo momento la figlia del sultano di Istanbul, sua allieva. Ma ormai Komitas aveva visto l'abisso e la sua mente era rimasta sconvolta.

Aveva quarantacinque anni. Qualcuno lo portò a Parigi. Non sapeva di trovarcisi. Visse ancora vent'anni. Non disse più una parola. Vent'anni in un asilo per alienati. Camminava poco, taceva, però guardava. È probabile che vedesse i suoi accompagnatori, dicono li guardasse in faccia.

Interrogato, non rispondeva.

Provarono con ogni mezzo. Lo portarono davanti a un organo. Si alzò e andò via. Gli fecero ascoltare dei dischi. Sembrava che neanche li sentisse. Qualcuno gli pose sulle ginocchia uno strumento popolare, il tar. Lo scostò delicatamente. Nessuno può dire con certezza se fosse malato oppure no. E se avesse scelto il silenzio?

Forse quella era la sua libertà.

Non era morto, ma neanche viveva.

Esisteva e non esisteva, sospeso tra la vita e la morte, nel purgatorio per malati di mente. Coloro che andavano a trovarlo dicono che appariva sempre più stanco. Si era ingobbito, smagrito, scurito. Ogni tanto raspava la superficie del tavolo con le dita, in silenzio, poiché il tavolo non faceva rumore. Era calmo, sempre serio.

Mori nel 1935: ci mise vent'anni a cadere nel baratro dal quale un giorno la figlia del sultano di Istanbul, sua allieva, l'aveva salvato.

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Pagina 50

Da quel momento gli eserciti stranieri - persiani, mongoli, arabi, turchi - scorrazzano per quelle terre come venti maligni. Il paese sembra maledetto. Tutto quel che si costruisce finisce demolito. I fiumi sono rossi di sangue, le cronache costellate di immagini cupe: "Ormai secche le rose e le violette armene," geme nel medioevo lo storico armeno Leonzio. "L'Armenia è divenuta la casa del dolore. Il profugo armeno erra in terra straniera, oppure vaga affamato nella patria cosparsa di cadaveri."

Sconfitta sul campo di battaglia, l'Armenia cerca scampo negli scriptoria. È una ritirata, ma denota dignità e volontà di sopravvivere. Cos'è uno scriptorium? Può essere una cella, talvolta una capanna d'argilla o addirittura una caverna nella roccia. Nello scriptorium sta un leggio. Davanti al leggio un copista che scrive. La coscienza armena ha sempre convissuto con la minaccia della distruzione e con il bisogno di salvezza a essa congiunto. Bisogno di salvare il proprio mondo: se non lo si può salvare con la spada, salviamone almeno la memoria. Affondi pure la nave, ma il diario del capitano deve restare.

Nasce cosi un fenomeno unico nella cultura mondiale: il libro armeno. Ora che hanno il proprio alfabeto, gli armeni si mettono subito a scrivere libri. È Mashtotz il primo a dare l'esempio. Ha appena reso noto il suo alfabeto che già lo troviamo intento a tradurre la Bibbia. Gli stanno accanto l'altro grande della cultura armena, il katholikos Saak Partef, e tutta una pleiade di traduttori rastrellati nelle varie diocesi. Mashtotz dà l'avvio al grande movimento dei copisti medievali, che tra gli armeni raggiungerà uno sviluppo altrove sconosciuto.

Nel VI secolo hanno già tradotto in armeno tutto Aristotele; entro il X la maggior parte dei filosofi greci e romani: centinaia di titoli della letteratura antica. Gli armeni possiedono una mentalità aperta e ricettiva. Hanno sempre tradotto quanto gli capitava a tiro. Ricordano i giapponesi, che traducono in massa tutto quello che trovano. Molte opere di letteratura antica sono state tramandate alla cultura mondiale solo grazie al fatto di essersi conservate nelle traduzioni armene. Appena usciva una novità, i copisti la prendevano e la piazzavano sul leggio. Quando l'Armenia fu invasa dagli arabi, tradussero tutti gli arabi. Quando arrivarono i persiani, tradussero i persiani. Non andavano d'accordo con Bisanzio, ma appena laggiù usciva qualcosa di nuovo lo compravano e lo traducevano.

Cominciano a formarsi intere biblioteche. Doveva trattarsi di raccolte immense: nel 1170 i selgiuchidi distruggono a Sunik una biblioteca di diecimila volumi. Sono tutti manoscritti armeni. Fino a oggi se ne sono conservati venticinquemila, tra cui gli oltre diecimila di Matenaradan, a Erevan. Chi volesse vederli tutti dovrebbe fare il giro del mondo. Le principali raccolte si conservano nelle biblioteche di S. Giacomo a Gerusalemme, di S. Lazzaro a Venezia e della Congregazione Mechitarita di Vienna. Esistono splendide collezioni anche a Parigi e a Los Angeles. La Polonia possedeva una bella raccolta a Leopoli, dove d'altronde funzionava anche una grande tipografia armena.

Prima scrissero su pelli di animali, poi sulla carta. Uno dei loro libri pesava trentadue chili: accorsero settecento vitelli. Ma esisteva anche il microscopico, libretti piccoli come un maggiolino. Chiunque sapesse leggere e scrivere copiava, ma c'erano copisti di professione che davanti al leggio passavano tutta la vita. Nel XV secolo Ovanes Mankasharenc trascrisse centotrentadue libri. "Per settantadue anni," annota il suo allievo Zaccaria, "estate e inverno, giorno e notte, Ovanes copiava libri. Giunto in tarda età, la vista gli si era spenta, la mano gli tremava e scrivere gli procurava molta sofferenza. È morto nel Signore all'età di ottantasei anni, e ora io, Zaccaria, allievo di Ovanes, porto a termine il suo manoscritto incompiuto." Erano titani di un lavoro da formiche, martiri della loro passione. Un altro copista narra di aver digiunato per comprare, con gli ultimi soldi, la resina per la lanterna che illuminava le pagine da copiare. Molti di questi libri sono capolavori di arte grafica: centinaia e centinaia di pagine costellate dai battaglioni dorati delle lettere armene. I copisti erano anche eccellenti pittori. L'arte della miniatura raggiunge nei libri armeni vertici mondiali. Sono soprattutto due i nomi di miniaturisti che brillano di luce immortale, quelli di Toross Roslin e di Sarkiz Picak. Le miniature con le quali Roslin decorava i manoscritti del XIII secolo conservano intatta l'intensità dei colori e ancora risplendono sulle pagine dei libri di Matenadaran.

La sorte di questi libri coincide con la storia degli armeni. Perseguitati e sterminati, gli armeni reagivano alla situazione in due modi: una parte si ritirava sulle montagne e si nascondeva nelle caverne; un'altra emigrava in ogni zona del mondo. Gli uni e gli altri si portavano dietro i libri armeni. Poiché gli esuli partivano a piedi, certi manoscritti troppo pesanti venivano divisi in due metà, che spesso finivano una da una parte del globo, l'altra dalla parte opposta.

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Pagina 69

Uzbekistan

[...]

Nel suo libro The Legend of Timur (Londra 1937), H. Papworth intende mettere in dubbio che il miracolo di Samarcanda sia opera di Timur, detto anche Tamerlano. Non è concepibile, scrive l'autore, che una città di tale bellezza, dove la struttura indirizza la mente dell'uomo verso il misticismo e la contemplazione, sia stata eretta da un demonio crudele, un saccheggiatone e un despota come Timur.

Tuttavia non si può negare che quanto dà gloria a Samarcanda sia sorto tra il XIV e il XV secolo, ossia durante il regno di Timur. La figura di Timur conta fra i paradossi più sorprendenti della storia. Il suo nome terrorizzò la gente per decine di anni. Fu un grande sovrano che tenne l'Asia sotto il tallone, senza che tale grandezza gli impedisse di occuparsi anche delle minuzie. Timur dava molta importanza ai particolari. I suoi eserciti erano famosi per la loro crudeltà. Dove arrivava Timur, scrive lo storico arabo Zaid Vosifi, "il sangue zampillava dalla gente come da una fontana" e "il cielo aveva il colore di un campo di tulipani". Timur assumeva personalmente il comando delle proprie imprese, controllava tutto. I vinti li faceva decapitare. Con i teschi costruiva torri, mura e strade, sorvegliando personalmente i lavori. Faceva sbudellare le pance dei mercanti per cercarvi l'oro, controllando di persona la minuzia delle perquisizioni corporali. Faceva avvelenare avversari e oppositori, preparando lui stesso le misture. Portava la morte, missione che gli assorbiva mezza giornata. Durante l'altra metà era catturato dall'arte. Timur si dedicava alla diffusione dell'arte con la stessa passione che riservava alla diffusione della morte. Nella coscienza di Timur passava tra la morte e l'arte un confine esilissimo, e questo è appunto quel che Papworth non riesce a capire. Si, Timur decapitava. Ma è anche vero che non decapitava tutti. Ordinava di risparmiare chi possedeva qualità creative. Nell'impero di Timur non esisteva asilo più sicuro del talento. Timur attirava la gente di talento a Samarcanda, brigava per accaparrarsi un artista. Non lasciava andar via nessuno che portasse in sé la divina scintilla. Fiorivano i creatori e fioriva Samarcanda. La città era il suo orgoglio. Su una delle porte fece scrivere: "Se dubiti della nostra potenza, guarda i nostri edifici!", frase sopravvissuta a Timur per secoli e secoli. Ancor oggi Samarcanda sbalordisce con l'irripetibile bellezza, con la perfezione delle forme, con il genio plastico. Timur controllava personalmente ogni costruzione. Quelle venute male le eliminava, aveva un gusto perfetto. Discuteva le varianti decorative, curava la delicatezza del disegno e la purezza delle linee. Dopodiché si rituffava nel vortice di una nuova impresa, nella carneficina, nel sangue, nel fuoco, nelle urla.

Papworth non capisce che Timur giocava un gioco di cui pochi sono capaci. Timur mostrava i limiti delle possibilità umane. Rendeva evidente quel che in seguito fu descritto da Dostoevskij, cioè che l'uomo è capace di tutto. L'opera di Timur si può riassumere in una frase di Saint-Exupéry: "Quello che ho fatto, un animale non lo farebbe mai". Nel bene e nel male. La forbice di Timur aveva due lame: quella della creazione e quella della distruzione. Sono i due poli d'azione di tutti gli uomini, solo che di solito la forbice si allarga poco. In certi casi si apre di più. Quella di Timur era divaricata al massimo.

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Pagina 104

In autobus da Erevan a Tbilisi, in Georgia. All'uscita dalla città il segnale stradale indica:

Tbilisi 253 km.

Mosca 1971 km.

La carrozzabile costeggia il lago Sevan. Nel punto dove rasenta l'acqua quasi fino a toccarla, un gruppo di ragazzi ferma l'autobus. Vendono pesce. I passeggeri si precipitano verso l'uscita e, come sempre accade nell'Impero ogni qual volta appaia un qualsiasi tipo di merce, subito si forma un affannoso e urlante groviglio umano e comincia la lotta. Anche adesso si strappano i pesci l'un l'altro, ma il duello è difficile e la vittoria incerta dato che il pesce, già per sua natura scivoloso, in questo caso è ancora vivo, agile, vigoroso e si divincola; qualcuno prova a ficcarselo in seno o nelle tasche, ma le bestie o schizzano fuori oppure sono afferrate al volo da qualche altro passeggero più svelto.

La guerra ittico-umana finisce in una impasse. Metà clienti rimangono a mani bagnate e collose ma vuote; il rimanente ficca dove capita le sue prede, ancora guizzanti ma già sul punto di morire. L'autobus puzza come un mercatino del pesce, ma l'essenziale è che si riparte.

Per il viaggio mi sono portato da leggere il Libro di storia dello storico armeno Arakel di Tabriz. Nel capitolo LIII l'autore ci introduce al misterioso e colorato mondo delle pietre preziose:

"Kajc, ovvero corindone (rubino); le sue proprietà sono le seguenti: se lo si mette in bocca, passa la sete; se si fonde dell'oro e vi si getta dentro il corindone, esso non brucia e mantiene intatto sia il colore che lo splendore. Sta anche scritto: chi porta addosso il corindone è amato dalla gente; inoltre il corindone è buono per le apoplessieÈ.

Stiamo costeggiando un precipizio, in basso un torrente, in alto cumuli di neve, finché a un certo punto arriva una curva e ci troviamo al controllo di frontiera. Militari. Russi. Salgono sull'autobus, guardano in qua e in là, cercano qualcosa. Armi, ovviamente. In quel mentre un armeno comincia a inveire contro di loro accusandoli di aver fermato l'autobus, di farci perdere tempo e cosi via. Grida come un matto. Ora lo ammazzano sul posto, penso tra me e me. Per carità! Non son più quei tempi. Il soldato dell'Armata Rossa si giustifica, chiede scusa, "Sono gli ordini," dice. In un lampo la pattuglia sparisce e riprendiamo a inerpicarci sui monti.

"Agata, o ajn-ul-hurr. Possiede tutte le proprietà del corindone. Chi la porta non si ammala di lebbra, di scabbia né di altre malattie del genere. Il suo patrimonio e i suoi averi non decadono, la sua persona e le sue parole sono care alla gente. Portare l'agata accresce il raziocinio. Per quanto vino beva, chi porta l'agata non perde mai il ben dell'intelletto. Cosi si dice, ma io non ci credo, poiché il vino è latte di leone e chi lo beve avidamente perde gloria, ragione e averi."


Siamo in Georgia. Per rendersene conto non ci sarebbe neanche bisogno delle scritte in alfabeto georgiano, basta guardarsi intorno. Paragonata all'Armenia, la Georgia è il bengodi: case migliori e più ricche, vigneti più grandi, belle greggi di pecore e mucche, vaste piantagioni di tabacco, prati d' erba verde e succosa.

La strada continua a serpeggiare in salita, aggrappata al pendio scosceso. Boschi già autunnali, multicolori, pittoreschi. Un odore di pesce che pare d'essere al mercato.

"Diamante. Se vuoi conoscere le sue virtù, eccole: se hai macchie sul viso, il diamante le fa sparire. Chi porta il diamante è caro ai re, le sue parole suscitano rispetto, non teme il male, non soffre di dolori intestinali né di scabbia, la memoria non lo tradisce e vive in eterno. Frantumando un diamante sull'incudine e facendolo ingerire a un essere umano, lo si fa morire come per veleno."

Ancora su fino in cima alla montagna, poi di colpo sotto di noi si apre la vista sulla città.

Tbilisi.

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La paura della donna russa di via Pouchina 117 è eccessiva: qui i russi non li tocca nessuno. Può succedere che un uzbeko faccia a botte con un tadziko, un buriato con un ceceno, ma i russi li lasciano stare. Già Mickiewicz si era chiesto a suo tempo i motivi di un fenomeno a prima vista inconcepibile: un funzionario zarista che da solo porta ai lavori forzati un'intera colonna di tuva (tribù siberiana) senza che uno solo di quei disgraziati sudditi si ribelli. Potrebbero farlo fuori senza la minima difficoltà e disperdersi nei boschi. E invece avanzano docilmente, eseguono buoni buoni i suoi ordini, sopportano in silenzio le sue ingiurie. Agli occhi dei tuva prigionieri, spiega Mickiewicz, quel funzionario è la personificazione di un grande stato che incute timore, suscita paura, terrore, spavento. Alzare la mano sul funzionario significa alzare la mano sull'Impero, e a questo non ci arriva nessuno. Nel suo libro Portrait du Colonisé, lo scrittore tunisino Albert Memmi descrive perfettamente il miscuglio di odio, e di paura, caratteristico del rapporto tra colonizzato e il padrone colonizzatore. La paura, osserva Memmi, finirà sempre per avere il sopravvento sull'odio, soffocandolo e paralizzandolo.

Basta vedere una delle città recentemente attraversate dall'ondata delle guerre etniche, per esempio Fergane oppure Os. Tra le case bruciate e devastate di uzbeki, karakalpaki e tadziki, spiccano intatte le case dei russi. E difatti, chi sta dietro al povero karacaj attaccato da un turkmeno con la bava alla bocca? Bene che vada, un altro karacaj. Dietro al russo stanno invece il kalasnikov, il carro armato, la bomba atomica.


Ciononostante la mia russa di Baku, al primo disordine di strada, alle prime voci di commandos che, questo lo sanno tutti, vanno a spaccare la testa agli armeni e solo agli armeni, in quattro e quattr'otto ha fatto il bagaglio ed è filata all'aeroporto, ben felice di scampare all'inferno. Ma dove sta questo inferno? Dove si trova?

Dentro di lei, nella sua coscienza.


Mi tornano in mente l'Africa degli anni sessanta, le scene negli aeroporti di Algeri, Leopoldville e Usumburu, quindi negli anni settanta le medesime scene agli aeroporti di Luanda e Lourenèo Marques. Folle di fuggiaschi bianchi accampati sui fagotti, mezzi morti di stanchezza e paura. I colonizzatori di ieri, i padroni di queste terre. Ora non bramano che di partire, partire immediatamente abbandonando tutto: case sommerse dai fiori, giardini, piscine, barche a vela. Perché tanta fretta, tanta determinazione? Cos'è che d'un tratto li spinge verso l'Europa? Quale forza titanica li scaccia con tanta violenza e cosi poco riguardo da questi confortevoli paradisi terrestri scaldati dal sole dei tropici? Gli indigeni hanno forse dato il via a carneficine in massa dei padroni bianchi? I loro lussuosi quartieri sono forse in preda alle fiamme? No, niente di tutto questo.

È che nella coscienza del colonizzatore si sta risvegliando l'inferno, il suo inferno interiore. Si è svegliata, venendo a galla, la sua cattiva coscienza finora nascosta e anestetizzata in mille modi, spesso neanche presa consapevolmente in considerazione. Una cattiva coscienza che non riguarda necessariamente ogni singolo individuo della massa colonizzatrice. Molte di queste persone si sentono, e sono, assolutamente innocenti. Però restano vittime di una situazione che essi stessi hanno contribuito a creare, cioè la situazione coloniale, basata sul principio della disparità e subordinazione del colonizzato al colonizzatore. Il paradosso risiede nel fatto che il singolo, per quanto possa essere contrario e dissidente, resta un colonizzatore pure lui per la semplice circostanza di appartenere a un popolo che ne colonizza altri. Un marchio e un odio che non ci si toglie di dosso altro che abiurando la propria patria e nazionalità, al limite solo cambiando colore di pelle (ipotesi del tutto accademica). Ma poiché si tratta di scelte impossibili, ecco che ogni tanto qua e là gli aeroporti si affollano di gente in tilt: qualche decina d'anni fa l'aeroporto di Luanda, ora nel 1990 l'aeroporto di Baku.

Ma da chi scappate?

Non da voi stessi, per caso?

Comunque ci corre una bella differenza tra il portoghese o il francese che abbandonano l'Africa, e il russo che dovrebbe lasciare la solatia Baku o la splendida Riga tutta in stile secessione, per finire in una Norylsk sinistra e orribilmente fredda, o in una Celabinsk piena di smog e sporca da morire. Non gli va di andarsene dall'Estonia o dall'Armenia? E ci credo! Per salvarsi creano nelle loro ex colonie leghe e partiti d'ogni genere il cui slogan suona: "Qui siamo e qui restiamo!" La russa di via Pouchina 117 è un po' un'eccezione, ma perché gode di una situazione privilegiata: ha parenti con un appartamento, e per giunta a Mosca!

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Pagina 165

Kolyma, nebbia e nebbia



[...]

[...] Esistono quindi mafie operanti su scala nazionale, su scala di singola repubblica, su scala di città, di quartiere, di strada e perfino di cortile. La geografia della mafia è molto complicata, ma i mafiosi riconoscono al volo le varie appartenenze, ne va della loro vita. Le mafie presentano tutte indistintamente le seguenti due caratteristiche: a) i loro appartenenti non lavorano ma vivono ugualmente nell'abbondanza; b) hanno sempre un regolamento di conti in atto. Rubare, contrabbandare e regolare i conti: ecco la giornata-tipo del mafioso.

Questa ossessione della mafia, questo vedere ovunque lo zampino della mafia, purtroppo non sono campati in aria come potrebbe sembrare, ma possiedono una loro radice tragica e profonda. Il grande cataclisma sul finire degli anni venti, poi la guerra mondiale, l'ottobre 1917, infine la guerra civile e la fame di massa, privarono di casa e di genitori milioni di bambini in Russia. Milioni di orfani, milioni di bezprizornye giravano per le strade del paese, per villaggi e città, alla ricerca di cibo e di tetto (corre una certa differenza tra l'essere affamato e senzatetto in Africa o in Russia: in Russia senza un cantuccio caldo si muore assiderati). Molti di questi bezprizornye vivevano di furti e rapine. Col tempo parte di loro fu assorbita dall'Nkvd, divenendo strumento delle repressioni staliniste, mentre una parte si trasformò in ladri professionisti: quelli che successivamente dovevano costituire il braccio destro dell'Nkvd nei lager, terrorizzando i prigionieri. La scala di questa patologia è importante: sia nell'un caso che nell'altro si trattò, per anni e anni, di milioni di persone. I nonni di molti odierni mafiosi in Russia sono proprio quei bezprizornye senza una casa e spesso senza un nome. Il distacco da un simile passato non è stato facile, talvolta addirittura impossibile. Chi si trovava in situazione di conflitto con il potere tramandava il suo status conflittuale a figli e nipoti. Proprio qui sta la caratteristica specifica della società postsovietica nell'ex-Urss: nella presenza non tanto di delinquenti isolati e singoli trasgressori, ma di un'intera categoria criminale con una genealogia e tradizioni completamente diverse da quelle del resto della società. Ogni nuova crisi, come la seconda guerra mondiale, le epurazioni postbelliche, la corruzione dell'era brezneviana, il crollo dell'Urss, non ha fatto che completare e accrescere l'estensione di questo strato sociale.

Molto ci sarebbe da dire sulle mafie dell'Impero. Un argomento appassionante per chi vi si interessi. La fissazione maniacale di vedere il mondo come una grande, anzi totale struttura mafiosa (Chi vuole distaccarsi dalla Georgia? La mafia abkhazica. Chi assale gli armeni? La mafia azerbajgiana, ecc. ecc.) viene alimentata anche da altre due fonti. Una: la teoria, propalata per anni dallo stalinismo, della storia come congiura universale (dietro a tutto quello che non va si nascondono congiure, organizzazioni, mafie). Due: la tradizione, la pratica e il clima di assoluta segretezza che ha sempre caratterizzato la vita politica del paese. (Chi stava al potere? La mafia di GorbacÙv. Chi governerà tra qualche anno al Cremlino? Qualche altra mafia!)


Una volta in città, nessuno mi importunò con domande. L'impiegata alla portineria dell'hotel 'Magadan' aveva la faccia dura e chissà perché mi guardava con riprovazione, però mi assegnò ugualmente la luminosa e ben riscaldata camera 256, dalla cui finestra si vedeva la strada nevosa con la fermata dell'autobus e, più in là, un muro con dietro una vecchia prigione.

A Magadan si può anche venire come i tre giapponesi della ditta tessile di Sapporo, che incontro all'albergo.

Non hanno la più pallida idea di dove si trovino. Fanno i loro affari, si inchinano tutti gentili, lindi, efficienti. Vogliono vendere i loro tessuti, sono qui per questo.

Però ci si può anche venire con un bagaglio completamente diverso dalle loro belle stoffe eleganti: un bagaglio di conoscenze sulla città dove, appunto, mi trovo a conversare con questi giapponesi. Il fatto è che qui, ovunque si posi il piede, si calpestano ossa umane. E, una volta appreso il fatto, non serve a nulla spostarsi di un passo o allontanarsi di un centinaio di metri: ovunque sono cimiteri su cimiteri.

Magadan è la capitale del circondario nord-orientale della Siberia, detto Kolyma dal fiume che vi scorre. Zona dei grandi geli, dei deserti bianchi, dell'oscurità perpetua: una terra vuota, sterile, quasi spopolata, anticamente visitata solo dalle piccole tribù nomadi dei cukci, degli evenki, degli jakuti. Kolyma suscitò l'interesse di Mosca solo nel nostro secolo, quando si diffuse la notizia che vi si trovava l'oro. Nell'autunno del 1929, sul Golfo di Nogaev (Mar di Ochotsk, parte del Pacifico) venne costruito il primo insediamento base. Fu l'inizio di Magadan. A quel tempo vi si arrivava solo per mare da Vladivostok o da Nakhodka, navigando otto o dieci giorni verso nord.

L'l1 novembre 1931 il Comitato Centrale del Partito bolscevico approva la mozione di creare nel Kolyma il Dalstroj, un trust per l'estrazione di oro, argento e altri metalli. Tre mesi più tardi, nel Golfo di Nogaev entra la nave Sachalin con a bordo il primo direttore del Dalstroj: il comunista lettone, generale della Gpu, Edvard Berzin. A quell'epoca Berzin ha trentotto anni. Ne vivrà altri cinque. L'arrivo di Berzin segna l'inizio della geenna che, col nome di Kolyma, passerà insieme ad Auschwitz, Treblinka, Hiroshima e Vorkuta alla storia dei massimi incubi del XX secolo. Nel russo corrente la parola Kolyma si è stranamente trasformata in una consolazione sui generis. Quando le cose vanno veramente male, ma male da morire, il russo consola l'altro russo dicendo: "Non te la prendere, nel Kolyma si stava peggio!"

Nel deserto gelato del Kolyma occorrono uomini da mettere al lavoro. Per questo, in concomitanza con il Dalstroj, Mosca vi crea il centro dei Campi di lavoro correttivo nord-orientali (UsvitLag). L'UsvitLag compirà nei confronti del Dalstroj la stessa funzione del campo di concentramento di Auschwitz-Brzezinka nei confronti dell'Ig Farben: fornire schiavi.

L'inizio di Magadan è anche l'inizio del grande terrore nell'era stalinista. Milioni di persone finiscono in carcere. In Ucraina muoiono di fame dieci milioni di contadini. Ma non sono tutti sterminati: resterebbero ancora masse incalcolabili di kulaki e di altri 'nemici del popolo' da spedire in Kolyma, non fosse per la strozzatura dei trasporti. Un'unica linea ferroviaria porta a Vladivostok e solo una decina di navi fa la spola tra li e Magadan. Su queste due vie, per venticinque anni, si svolge ininterrottamente il trasporto di scheletri umani viventi da tutto l'Impero a Magadan.

Viventi, ma talvolta anche già morti. Varlam Salamov narra della nave Kim con tremila prigionieri chiusi nella stiva. Quando quelli si ribellarono, le guardie di scorta li inondarono d'acqua. Il termometro segnava quaranta sotto zero. A Magadan arrivarono solo dei pezzi di ghiaccio. Un'altra nave che trasportava migliaia di deportati si incagliò nella banchisa artica. Arrivò in porto dopo un anno con tutti i prigionieri morti.

Ecco attraccare a Magadan la nave Dzurma con un carico di donne condannate. Molte di loro stanno già morendo di fame e sfinimento. Esseri in stato di lenta agonia che, nel gergo dei lager, vengono chiamati dochodjagu.

"Le dochodjai vennero portate fuori in barella una alla volta e posate in fila lungo la riva, certo per facilitare i controlli ed evitare confusioni nella compilazione dei certificati di morte. Giacevamo sui sassi, guardando il nostro gruppo trascinarsi alla volta della città, verso la tortura del bagno comune e della disinfezione." (Evgenja Ginzburg, Krutoi margrut)

I prigionieri arrivavano al trasporto già sfiniti da mesi di prigionia, di interrogatori, di fame e di botte. Seguivano le atroci settimane in carri bestiame affollati, in mezzo alla sporcizia, con l'assillo della sete, poiché ai condannati non veniva dato da bere. Nessuno sapeva dove stesse andando né cosa l'aspettasse in fondo al viaggio. Chi sopravviveva all'inferno, una volta a Magadan veniva posteggiato nel grande lager di transito. Qui si svolgeva il mercato degli schiavi. I comandanti dei lager contigui alle miniere venivano a scegliersi i prigionieri ancora fisicamente in grado di lavorare. I comandanti più alti nella scala gerarchica si prendevano i condannati più robusti.

I lager o, come anche venivano chiamati, i campi artici della morte (Conquest) di Magadan e del Kolyma ammontavano a centosessanta. Nel corso degli anni i prigionieri si rinnovavano, ma la media fissa dei campi si aggirava attorno al mezzo milione di persone. Di questi, un terzo moriva sul posto; i rimanenti, espiata la condanna, ripartivano fisicamente menomati oppure con lesioni psichiche irreversibili. Chi sopravviveva a Magadan e al Kolyma non tornava mai più quello di prima.

Il lager era una struttura ideata con sadismo e al tempo stesso esattezza matematica per distruggere e annientare l'essere umano sottoponendolo, prima della morte, alle peggiori umiliazioni, sofferenze e torture. Una rete spinata di sterminio dalla quale, una volta che ci si cadeva dentro, era impossibile districarsi. Eccone i principali elementi.

Il freddo. Coperto di cenci miseri e leggeri, il condannato aveva sempre freddo, era sempre gelato.

La fame. Il freddo veniva avvertito tanto più acutamente in quanto il prigioniero era perennemente, bestialmente, ossessivamente affamato, disponendo come unico cibo di un tozzo di pane e di un po' d'acqua.

Il lavoro forzato. Intirizzito e affamato, il condannato veniva sottoposto a un lavoro bestiale e superiore alle sue forze: scavare, trasportare la terra con la carriola, spaccare pietre, tagliare boschi.

La mancanza di sonno. Quest'essere assiderato, affamato, sfibrato dal lavoro e perlopiù malato, veniva privato anche del sonno. Poteva dormire solo poche ore su un letto d'assi, dentro baracche gelide, con addosso gli stessi stracci con cui lavorava.

Lo sporco. Lavarsi era proibito, del resto non ce ne sarebbe stato né il tempo né il luogo. Coperti da una crosta appiccicosa di sporcizia e sudore, i prigionieri emanavano un fetore insopportabile.

Gli insetti. Notte e giorno si era divorati dai parassiti. Gli stracci indossati erano nidi di pidocchi, le brande delle baracche pullulavano di cimici. Durante l'estate si era assaliti da sciami di zanzare e dai terribili moscerini siberiani, che a nugoli interi si avventavano addosso ai malcapitati.

Il sadismo dell'Nkvd. Guardie di scorta e carcerieri, ossia il sistema di sorveglianza dell'Nkvd, infierivano senza sosta sul prigioniero urlando, prendendolo a pugni in faccia, a calci, aizzandogli contro i cani e fucilandolo per un nonnulla.

Il terrore dei criminali comuni. I prigionieri politici venivano sistematicamente terrorizzati, derubati, seviziati dai delinquenti comuni, che detenevano il gradino inferiore del potere.

La consapevolezza del torto subito. Anche il sopportare la sensazione di profonda ingiustizia diveniva di per sé una tortura psichica. I prigionieri politici erano assolutamente innocenti, non avevano fatto nulla di male.

La nostalgia e la paura. Soffrivano tutti per la nostalgia di casa e dei loro cari (le sentenze comminavano anche venticinque anni), per la sensazione di restare tagliati fuori dal mondo, per il timore di un domani sconosciuto e sempre più terribile, per l'incubo che ogni nuovo giorno fosse anche l'ultimo.

"Vedere un lager è spaventoso," scriveva Varlam Salamov che nei lager trascorse vent'anni, la maggior parte dei quali nel Kolyma. "Nessun essere umano dovrebbe conoscerlo. Nel lager non esiste nulla che non sia negativo. L'uomo può solo diventarvi peggiore, e non può essere altrimenti. Il lager è un concentrato di tutto ciò che l'uomo dovrebbe ignorare. Ma il più terribile non è questo vedere a nudo il fondo della vita. La cosa più terribile è che l'uomo se ne appropri, che la misura della sua moralità si modelli sull'esperienza del lager, che la morale dei criminali trovi applicazione nella vita. Il terribile è che la mente umana non solo cerchi di giustificare quei sentimenti da lager, ma anche di servirli."

E ancora:

"Il lager rappresentava per l'uomo una grande prova di carattere e di comune morale umana. Il novantanove per cento della gente non la superava. Insieme a coloro che non ce la facevano, morivano anche coloro che erano riusciti a resistere, tentando di essere migliori degli altri, più duri con se stessi..." (Varlam Salamov, Opowiadania kolymskie).

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Ho con me due libri: i Racconti del Kolyma di Varlam Salamov e La grande purga di Aleksander Weissberg-Cybulski. Due visioni del mondo, due opposte figure appassionanti da confrontare. Paragonarle ci aiuta almeno in parte a decifrare il modo di pensare russo, il suo enigma e la sua specificità. I due libri offrono una testimonianza-documento sulla medesima esperienza di vittime della repressione bolscevica: ma quale differenza tra la mentalità dei due autori!

Appartengono entrambi alla stessa generazione (Weissberg nato nel 1901, Salamov nel 1907). Entrambi arrestati nel 1937 (Salamov, già per la seconda volta, a Mosca; Weissberg a Karchov dove lavorava sotto contratto come ingegnere). Entrambi maltrattati, torturati, oppressi, umiliati dall'Nkvd. Due persone innocenti, pulite, oneste al cento per cento.

Ma qui cominciano le differenze.

Ecco la domanda: quale elemento domina in modo decisivo il nostro rapporto con la vita e la realtà? La civiltà e la tradizione nella quale ci siamo formati, o la fede e l'ideologia che possediamo e professiamo?

L'austriaco Weissberg è un uomo dell'Occidente, educato nello spirito del razionalismo cartesiano, del pensiero critico penetrante e indagatore.

Salamov è un russo purosangue, non ha mai messo piede fuori dal suo paese e ha avuto rapporti solo sporadici con il pensiero occidentale: non c'è in lui una sola briciola che non sia totalmente russa.

Ciò detto, l'uomo dell'Occidente, ossia Weissberg, è un comunista fanatico e convinto, mentre l'uomo della Russia, per il quale Mosca è "la città più congeniale dei mondo", ossia Salamov, è visceralmente anticomunista.

Quale sarà la reazione dei due alla comune situazione di vittime di una repressione barbara, alla "crudeltà gratuita", a tutto il circostante infernale mondo delle purghe staliniste, delle prigioni, dei lager, delle esecuzioni?

Weissberg si convince di essere finito in un manicomio, che gli ufficiali inquisitori dell'Nkvd siano una manica di pazzi, che tra i Soviet dell'era stalinista regnino la follia, la paranoia, l'assurdo. "Quello che accade qui," scrive, "è completamente privo di senso, sono le convulsioni di un apparato che ha perso la bussola, al di là di qualsiasi interpretazione razionale." Oppure: "Mi presi la testa tra le mani. Ma dov'ero finito, in manicomio?" O ancora: "Tutto questo è completa follia. Non riesco neanche a trovare le parole per descriverlo". Anno 1937: "Siamo in piena gara di follia", ecc. ecc. Ciononostante, non rinnega nemmeno per un attimo le proprie convinzioni: "Sono un comunista tedesco," getta in faccia all'ufficiale inquisitore, venuto in questo paese per partecipare alla costruzione del socialismo. Sono un patriota dell'Unione Sovietica".

Convinto di trovarsi in un asilo di mentecatti, in una sinistra terra di follia e di paranoia surreale, Weissberg non crolla: pur negli spaventosi frangenti delle prigioni stipate, sporche e grondanti sangue, la sua mente di razionalista occidentale continua a lavorare intensamente, cercando una spiegazione logica e razionale per tutto quanto gli accade intorno. In ogni cella dove volta per volta lo sbattono, Weissberg tenta di discutere, di chiedere, di scambiare opinioni.

Ma ora tocca proprio ai compagni di sventura russi di guardare Weissberg come se fosse matto. "Ma che ti dibatti a fare?" gli dicono. "Che credi di ottenere? Sopporta e zitto!"

Tra i due atteggiamenti, nessun punto di contatto, nessun linguaggio comune. Non so se Weissberg e Salamòv avrebbero potuto intendersi.

Per Salamov, tutto quello che lo circonda fa parte del mondo della natura. I lager appartengono all'ordine naturale, non a quello umano. Può forse l'uomo ribellarsi al grande gelo o a una catastrofica alluvione? Se all'arrivo di un'alluvione reagiamo minacciandola a pugni tesi, la gente ci prende per matti scappati dal manicomio. All'arrivo di un'alluvione, l'unica è arrampicarsi sull'albero più alto e aspettare pazientemente che l'acqua cali. Ecco ia vera razionalità, ecco l'unico comportamento logico. Se si finisce in un lager, tutto quel che si ottiene a ribellarsi è di farsi fucilare: l'unica saggezza è cercare di sopravvivere. Chissà che un giorno l'acqua non cali, chissà che un giorno non ti rilascino. Non c'è assolutamente altro da fare, anzi l'essenziale è non fare niente.

Nei Racconti del Kolyma, oltre i fili spinati del lager non esiste altro mondo. La notizia della fine della seconda guerra mondiale vi arriva in ritardo senza suscitare il minimo effetto. Il vero mondo, l'unico, è il lager. Il lager è una struttura concentrazionaria logica. Perché Weissberg si ostinava a considerarlo assurdo? Se il lager fosse stato assurdo, non avrebbe retto due giorni. Solo che la logica del lager era la logica dello sterminio, improntata a una razionalità diversa da quella cercata dall'ingegnere comunista austriaco.

La mentalità di Salamov è logica e razionale, mentre quella di Weissberg appare sviata, errante nei meandri dell'astrazione.

"Ogni ingerenza nelle decisioni del destino o nel volere degli dei era un atteggiamento sbagliato e contrario al codice comportamentale del lager," ricorda Salamov. E, tra le righe: chi pensa di poter agire diversamente, non ha mai toccato il fondo, non ha mai agonizzato in un "mondo senza eroi".

Le differenze tra le posizioni di Salamov e Weissberg nei confronti dell'universo repressivo, di quel "mondo a parte" (Herling-Grudzinski) dove entrambi sono finiti, vengono chiarite da quello che è forse il massimo filosofo russo, Vladimir SolovÙv: "La contrapposizione delle due culture, l'orientale e l'occidentale, si è nettamente delineata fin dagli albori della storia umana. Mentre l'Oriente basava i fondamenti della sua cultura sull'assoluta sottomissione dell'uomo al sovrannaturale, l'Occidente invece era lasciato al proprio arbitrio, che gli consentiva un'ampia autonomia creativa".

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Pagina 208

A Baku la Starovojtova aveva i suoi nemici, dato che gli azerbajiani, come gli armeni, dividono il genere umano in due campi opposti: buoni e cattivi. I buoni sono quelli che considerano il Nagorno Karabach come un problema. Gli altri, tutti cattivi.

Per l'azerbajgiano i buoni sono quanti pensano che il Nagorno Karabach non sia un problema. Gli altri, tutti cattivi.

Si resta colpiti dall'estremismo e dalla radicalità delle due posizioni. Non è neanche pensabile che, in presenza di armeni, uno possa dire: "Secondo me gli azerbajgiani hanno ragione," o che, trovandosi tra azerbajgiani, osservi: "Gli armeni non hanno tutti i torti". Qui ci si odia e si si uccide, punto e basta. Lasciarsi sfuggire un: "È un problema!" oppure un "Non è un problema!" nel posto sbagliato o tra genre sbagliata, equivale a esporsi allo strangolamento, all'impiccagione, alla lapidazione, al rogo.

Altrettanto impensabile tenere a Baku o a Erevan un ragionamento del genere: "Abbiate pazienza: qualche decina d'anni fa (quanti di noi sono sopravvissuti per ricordarsene?) un pascià turco e il non meno brutale Stalin hanno gettato questo terribile uovo di cuculo nel nostro nido caucasico. Da allora non facciamo che scannarci e torturarci a vicenda, mentre quei due sghignazzano a crepapeiie nelle loro tombe ammuffite, che sembra quasi di sentirli. Perché, invece di restare nella miseria, nell'arretratezza e nella sporcizia, non ci mettiamo d'accordo e cerchiamo di costruire qualcosa?"

Il malcapitato moralista o negoziatore che si azzardasse a dire una cosa del genere non arriverebbe neanche a metà: appena subodorato dove va a parare il discorso, le parti avverse lo lincerebbero all'istante.

Tre sono i flagelli che minacciano il mondo.

Primo, la piaga del nazionalismo.

Secondo, la piaga del razzismo.

Terzo, la piaga del fondamentalismo religioso.

Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in una mente contagiata da uno di questi tre mali. Nella testa di un tipo cosi arde il rogo sacro che aspetta le sue vittime. Qualunque tentativo di fare un discorso pacato risulterà inutile. Quello non vuole un discorso, vuole una dichiarazione. Vuole che tu sia d'accordo, gli dia ragione, lo autorizzi. Altrimenti non sei nessuno, neanche esisti, visto che per lui conti solo in quanto mezzo, arma, strumento. Non esistono individui, esiste solo la causa.

Una mente colpita da questo tipo di contagio è chiusa, unidimensionale, monotematica, con una sola idea fissa: il nemico. L'idea del nemico ci nutre, ci permette di esistere. Ecco perché il nemico è sempre presente, sempre con noi. Quando, nei pressi di Erevan, la guida locale mi mostra una delle antiche basiliche armene, conclude le sue spiegazioni con un'osservazione sprezzante: quando mai gli azerbajgiani hanno costruito basiliche come questa? E quando in seguito, a Baku, la guida locale mi indica una fila di belle palazzine liberty, conclude a sua volta con l'osservazione non meno sprezzante: quando mai gli armeni sarebbero capaci di costruire palazzi come questi?

D'altro canto armeni e azerbajgiani sono anche da invidiare. L'idea della complessità del mondo, del destino umano cosi fragile e incerto neanche li sfiora. Ignorano l'angoscia che di solito accompagna domande quali: che cos'è la verità? Che cos'è il bene? Cos'è la giustizia? Non sanno lo sconforto che affligge chi è solito chiedersi: ma avrò veramente ragione?

Il loro è un mondo piccolo, un pugno di monti e di vallate. Un mondo semplice: di qua noi, i buoni; di là gli altri, i nemici. Un mondo governato dalla legge elementare dell'esclusione: o noi o loro.

E, ammesso anche che un altro mondo esistesse, quali domande potrebbero rivolgergli? Di lasciarli in pace. Hanno bisogno di pace, per potersi scannare a vicenda.

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Pagina 257

Continua



Nella storia contemporanea è la Russia, ad aprire il XX secolo con la rivoluzione del 1905, ed è sempre la Russia a chiuderlo nel 1991 con la rivoluzione sfociata nella caduta dell'Urss.

In questo paese la storia è un vulcano attivo sempre in fermento, sempre in movimento, né sembra accennare a placarsi, a mettersi un po' tranquilla.

Lo scrittore russo Jurij Borev paragona la storia dell'Urss a un treno in marcia:

"Il treno avanza nel luminoso futuro. Lo guida Lenin. A un tratto, stop: non ci sono più binari. Lenin ordina un lavoro straordinario di sabato, si posano nuovi binari, il treno riparte. Ora a guidarlo c'è Stalin. La strada ferrata si arresta di nuovo bruscamente. Stalin fa fucilare metà dei ferrovieri e dei passeggeri, costringendo i rimanenti a posare nuovi binari. Il treno riparte. Stalin viene sostituito da Chruscev; quando i binari finiscono, Chruscev fa smontare quelli dove il treno è appena passato e li fa rimontare davanti alla locomotiva. Ora al posto di Chruscev c'è Breznev. Quando il binario si interrompe, Breznev ordina di tirare le tende ai finestrini e di dondolare i vagoni in modo che i passeggeri credano che il treno sia in moto" (J. Borev, Staliniada).

Si arriva così all'Epoca dei Tre Funerali (Breznev, Andropov, Cernenko), quando i passeggeri del treno non hanno più neanche l'illusione di star andando da qualche parte. Ma ecco che nell'aprile 1985 il treno si rimette in moto. Ormai è l'ultimo viaggio. Durerà sei anni e mezzo. Stavolta il macchinista è Gorbacëv, e sulla locomotiva sta dipinto lo slogan: Glasnost-Perestrojka.


Della Russia è tanto più facile parlare quanto più la si nomina in senso astratto. "La Russia cerca una strada", "La Russia dice no", "La Russia va a destra" e così via. A questo livello di generalizzazione molti problemi perdono significato, non contano, spariscono. La macroscala ideologico-statale relega in secondo piano e annulla la microscala quotidiana, difficile e fastidiosa. La Russia diventerà o no una superpotenza? Di fronte a una domanda del genere, che valore può avere il problema che tormenta Anna Andreevna di Novgorod, vale a dire se le permetteranno di vivere normalmente almeno per un po'? La lingua dell'onnipresente politica espunge dai mezzi di comunicazione di massa e, purtroppo, anche dalla nostra memoria, le parole atte a esprimere i guai privati di Tizio, il dramma personale di Caio, il singolo dolore di Sempronio. Il tale è rimasto senza tetto? Non ci riguarda, sono affari dell'Esercito della salvezza o della Croce Rossa.

Eppure è impossibile evitare questa impostazione astratta dei problemi. Per rappresentare la macroscala degli eventi in corso bisogna per forza ricorrere a un linguaggio e a dei concetti generali, sintetici e, per l'appunto, astratti, pur rendendoci conto volta per volta di cadere nella trappola delle semplificazioni e delle affermazioni facilmente confutabili. ,int 3

Certi scrittori conferiscono al concetto 'Russia' un senso mistico, una dimensione sacra e misteriosa. Il poeta Fëdor Tjutcev scrive: "È impossibile capire la Russia con la mente... alla Russia si crede e basta". Secondo Dostoevskij, la Russia appare all'Europa come qualcosa di enigmatico, di incomprensibile: "Agli occhi dell'Europa, la Russia è come uno degli enigmi della Sfinge. Per l'Occidente è più facile scoprire il moto perpetuo o l'elisir di lunga vita, che sviscerare l'essenza della russità, lo spirito russo, il suo carattere e il suo atteggiamento".

Talvolta la fede nella Russia assume sfumature religiose. Ho assistito a Mosca a una manifestazione durante la quale una vasta folla recitava litanie alla Russia con la stessa devozione con cui i pellegrini di Jasna Gora recitano le litanie alla Madonna.


Altri scrittori sottolineano invece che la Russia non somiglia a nessun altro paese, che bisognerebbe trattarla come qualcosa di eccezionale, un fenomeno unico e tutto particolare. "Spesso si parla della Russia," scrive Pëtr Caadaev, "come se si trattasse di uno stato uguale agli altri; in realtà non è affatto così. La Russia è un mondo a parte." Dello stesso parere è Konstanty Aksakov: "La Russia," scrive, "è un paese tutto particolare, che non ha assolutamente nulla a che fare con gli stati e i paesi europei."

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