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| << | < | > | >> |Pagina 7Abu DhabiCome lo stuzzicavano, quel gorilla, i bambini allo zoo (uno zoo nuovo di zecca, fuori città, in mezzo al deserto). Sulle prime il gorilla si infuriava, correva in qua e in là sul palcoscenico di cemento, minacciando i piccoli aggressori. Poi, stanco, si è seduto in mezzo alla gabbia e si è messo a piangere. È accaduto in quel preciso momento (strano concorso di circostanze davvero) che si è scatenata la tempesta di sabbia. Una bufera di polvere grigia, improvvisa e violenta ha oscurato il cielo e accecato la gente con turbini di sabbia ardente. C'è stato un fuggi fuggi generale di bambini urlanti, seguiti dagli adulti; il vento strattonava e faceva sventolare i chador addosso alle donne, che correvano spaventate in mezzo ai vortici infocati della tempesta desertica, come neri uccelli impauriti. Correndo, mi sono voltato indietro: attraverso i nembi di polvere, nella penombra calata all'intorno, ho intravisto il gorilla curvo al suo posto, come spezzato in due, seduto li che ci guardava e singhiozzava. | << | < | > | >> |Pagina 8Scrivere una storia intitolata Una giornata nel mondo, e così descrivere:come sorga il sole sul Tibet, sul Sahara, su Firenze e su Lima; come si sveglino i bambini, come si sveglino le donne; come si sveglino gli operai; come si spanda l'odore del caffè, del tè, delle uova strapazzate, del sangue di una gallina appena sgozzata, della kasava; come vadano al lavoro i contadini; come si mettano in movimento i muli; come si mettano in moto i treni; i carri armati; come le donne in riva al fiume comincino a fare il bucato; poi il meriggio, la vita che si ferma (ai tropici, nel Ciad, nel Mali, nel deserto di Atacama, del Gobi, del Karakum ecc.); come si scolpisca il legno, si modelli l'argilla, si scalpelli la pietra, si martelli il metallo, si sfaccetti il diamante; come si pesti la manioca, si sarchino le patate, si manovri la nave e si piloti l'aereo; come ovunque risuoni qualche macchinario; poi il cessare dell'opera, il ritorno dal lavoro; come tutto cali di giri; come si avvicini il crepuscolo; la sera; come si accendano i focolari, le luci alle finestre, i lampioni e i neon, l'addome delle lucciole, gli occhi del serpente boa; come arda la savana, come ardano villaggi e città dopo un incursione; come a Cernobyl si aprano le porte dell'inferno; come ci mettiamo a cena, come guardiamo la tivù; come un bimbetto (cocchino, passerotto, musino) voglia (o non voglia) dormire; ma come, prima o poi, ogni cosa finisca per scivolare nel sonno; prima, però, l'accostarsi dei corpi; come lo si senta; e poi i sussurri, le voci, i richiami, le grida (tutta una torre di Babele di linguaggi, di intonazioni, di suoni, di sonorità, di scongiuri, di bemolle e diesis); il lento ingresso nel buio della notte; l'entrare nel tormento dell'insonnia, nelle visioni e negli incubi, oppure in un sonoro russare, nell'oblio, nei sogni; come la terra sprofondi nel nulla e come, dopo poche ore, con l'alba, ne riemerga. | << | < | > | >> |Pagina 1923 dicembre 1991La fatica maggiore: non lasciarsi invischiare nella quotidianità, non lasciarsi frastornare da chiacchiere e ciarpame. Soffocare in noi l'inutile curiosità per le cose marginali, sterili, di nessun conto. La curiosità deve essere selettiva, in funzione esclusiva della scrittura. Scrivere fa parte del mondo della comunicazione. Il libro è un comunicato. Il processo di comunicazione si sposta secondo un moto lineare tra mittente e destinatario, che sono i due capi dello stesso filo. Se un libro di alto livello non trova un lettore di alto livello, resta sospeso per aria, manca l'obiettivo. Ricettività, attivismo, sforzo creativo devono risiedere in entrambi i capi di questo ponte. Di come un testo importante sia denso di significati, di sensi, di sfere, di livelli. Di come ognuno di noi lo legga in modo diverso a seconda della disposizione psichica, della conoscenza del tema, dell'età, della voglia di trovare quello che cerca. Nella lettura contano le intenzioni, la concentrazione, lo sforzo attivo. | << | < | > | >> |Pagina 31La nascita del terzo mondo ha creato le premesse per un progresso futuro. Sono sempre stato e sono tuttora affascinato dagli uomini del terzo mondo che, lottando, si sono creati i propri stati e le proprie nazioni. È il tema della mia vita. Probabilmente perché provengo da una zona povera dell'Europa. Avevo sette anni quando scoppiò la guerra. Ho sofferto la fame e la miseria. Vivevo in condizioni disperate, mancavo di tutto. A dieci anni, alle soglie dell'inverno, ero senza scarpe, perché i miei genitori non potevano comprarle. Correvo disperato di qua e di là, finché un vicino, che fabbricava sapone di contrabbando, mi fece un'offerta allettante: "Io ti faccio credito, in cambio mi piazzi questo sapone". Un pezzo di sapone costava uno zloty, un paio di scarpe quattrocento; e quando dico scarpe, non mi riferisco certo a roba in cuoio, ma agli zoccoli in legno, le uniche calzature esistenti. Dovevo vendere quattrocento pezzi di sapone, ma la gente era povera e pochi se lo potevano permettere. Avevo fame, piangevo, raccontavo a tutti la mia storia, lottavo; ma per mettere insieme quei quattrocento zloty ci volle un'eternità. Faccio parte di quei bambini che non hanno avuto un'educazione familiare curata. James Joyce, a dodici anni, scriveva già lettere pregevolissime; a quell'età io badavo alle mucche in un campo e non avevo mai letto un libro. Forse per questo me la cavo meglio con gente che non ha da mangiare, che sogna di avere qualcosa di suo ed è felice quando finalmente possiede un oggetto qualunque.| << | < | > | >> |Pagina 38La mia curiosità mi spinge di nuovo in giro per il mondo. Non esiste un luogo sulla terra dove mi sentirei di dire: "Voglio restarci per sempre". Una piccola tentazione, a dire il vero, ce l'avrei: andare in Africa, nel Sahara. Amo il deserto. Ha qualcosa di metafisico, di trascendente. Nel deserto tutto il cosmo si riduce a pochi elementi. Il deserto rappresenta l'universo ridotto all'essenziale: la sabbia, il sole, le stelle di notte, il silenzio, il calore del giorno. Si hanno con sé una camicia, dei sandali, cibo frugale, un po' d'acqua da bere, tutto nella massima semplicità. Niente si frappone fra te e Dio, fra te e l'universo. Ogni volta che mi sono trovato in Africa, e che ne ho avuto il tempo, ho cercato l'esperienza, unica nel suo genere, del deserto. Tre volte ho attraversato il Sahara con gli abitanti del deserto, una volta anche con un gruppo di nomadi incontrati per puro caso. Non riuscimmo a trovare una lingua per capirci, ma restammo insieme lo stesso. Non scambiavamo parole, ma dividevamo l'esperienza dell'amicizia, della fratellanza. A un certo punto fui folgorato dalla sensazione che avessimo fratelli e sorelle dappertutto ma che non riuscissimo a rendercene conto: un'impressione sublime.| << | < | > | >> |Pagina 52Oggi la politica sostituisce tutto: teatro, pittura, letteratura. Li sostituisce per introdurre il regno del ciarpame e del kitsch: governi di intrighi, di arroganza, di cafoneria. Un potere che persegue un solo intento: l'imposizione molesta, insistente, a qualunque costo, di sé agli altri.Oggi in politica tutto tende al centro, al filone medio, al pragmatismo. Gli estremismi esistono ancora, ma non godono di una larga base sociale. Si rifanno di questa mancanza con l'aggressività, la rumorosità, la brutalità del linguaggio. [...] Oggi non esistono destra e sinistra: esistono solo persone dalla mentalità aperta, liberale, ricettiva, volta al futuro, e persone dalla mentalità chiusa, settaria, ristretta, volta al passato. Siamo radicati nella tribalità. Le strutture tribali, malgrado il cosmopolitismo, il pluralismo, il globalismo, l'universalismo del mondo, si sono dimostrate vive, anzi sempre più vive. E poiché il più intenso e spettacolare incremento della popolazione avviene nei paesi del terzo mondo, dove le strutture tribali sono particolarmente diffuse e vitali, ciò significa che la popolazione del mondo, accrescendosi, diffonde e potenzia il carattere tribale, cioè il clan, delle società. L'etnia è diventata una chiave alla moda e troppo abusata per decifrare i conflitti contemporanei. L'intervento più spesso applicato nei confronti del passato e della storia è un intervento di tipo riduttivo. Il quadro generale viene sfrondato di mezze tinte e sfumature; di tutta la possibile ricchezza cromatica non restano che il bianco e il nero: un contrasto drastico, senza mezze misure. Si instaura un clima di guerra, non esistono che eroi o traditori, ovunque risuonano fragore di armi, scalpiccio di piedi, ansimare affannoso di combattenti. [...] Uno storico, interrogato sull'oggetto dei suoi studi e delle sue ricerche, risponderà per lo più: i fatti. Cerca fatti, li studia, li raccoglie e li paragona. Date, nomi, toponimi, parentele, sistemi, pesi e misure, documenti, sequenze di eventi. Mi interessano i fatti, nient'altro che i fatti, dice lo storico. Ma l'uomo che ha vissuto e sperimentato la storia sulla propria pelle dubiterà che l'oggetto degli studi del nostro storico possa ridursi ai cosiddetti fatti nudi e crudi. Quest'uomo sa che, isolato dal vasto contesto dell'imponderabile, astratto dal teatro nel quale è accaduto, sfrondato del clima e dell'atmosfera che l'hanno accompagnato, il fatto in sé e per sé dice poco, significa ancora meno e spesso assume un senso sbagliato e un'eloquenza fallace. Infatti, quest'uomo malmenato dalla storia, sottoposto alle sue prove spietate e costretto alle scelte più crudeli e radicali, sa come sia importante, anzi più importante di tutto, il contesto in cui un fatto nasce e si compie, e come proprio quel contesto sia il dato più difficile da tramandare agli altri; oltre che, per gli altri, il più difficile da capire. | << | < | > | >> |Pagina 56Ha ragione Zinov'ev quando dice che la differenza fondamentale passa tra lo stare dentro e lo stare fuori. Differenza, cioè, tra quanti ci sono passati e quanti non ci sono passati. Impossibile, per i secondi, giudicare i primi.Nel "New York Review of Books" (13 maggio 1993) un saggio dello storico Gordon A. Craig sul volume che raccoglie la corrispondenza tra Hannah Arendt e Karl Jaspers, uscito appunto a New York. Craig ricorda alcuni particolari biografici di Hannah Arendt: prima, amante di Heidegger (fautore del nazismo), poi moglie di Heinrich Blücher (comunista) e, per quasi mezzo secolo, compagna intellettuale di Jaspers (antinazista e anticomunista). In una sola vita, che miscugli, che accostamenti, che sovrapposizioni! Craig ricorda che Arendt e Jaspers guardavano al mondo con grande pessimismo. Fu Jaspers a scoprire il fenomeno della "banalità del male" (secondo lui, la caratteristica principale del totalitarismo stava nella sua "totale banalità", "prosaica trivialità"). Una visione in seguito sviluppata da Arendt nel suo libro sul processo a Eichmann. Erano entrambi contrari a mitizzare i movimenti di resistenza all'interno degli stati totalitari. Nel suo saggio Il problema della colpa (1946), Jaspers afferma che tutti (anche se in misura diversa) sono responsabili dell'instaurarsi e del perdurare di un sistema oppressivo. Craig fa inoltre notare che fu Arendt, nel suo Le origini del totalitarismo (1950), a esporre e sviluppare la tesi che il totalitarismo del ventesimo secolo fu reso possibile dall'imperialismo del diciannovesimo secolo, con la sua filosofia dell'espansione, le sue giustificazioni razziste e biologiche. | << | < | > | >> |Pagina 63Più anni hai, meno la gente è disposta a perdonarti. Il più fortunato è il bambino: a lui si concede tutto. Anche la gioventù gode di vaste zone franche. La gioventù rappresenta un valore in sé, resta sinonimo di fascino, di freschezza, di energia. La maturità: il mondo sta ad aspettare, ti concede ancora qualche occasione. Ma se al sopraggiungere della vecchiaia non sei ancora diventato qualcuno, se non rappresenti un valore universalmente riconoscibile, gli altri cominciano a trattarti senza rispetto, a scansarti. Sei continuamente costretto a scusarti di esistere, di esserci ancora.| << | < | > | >> |Pagina 67Tra le varie caratteristiche più o meno riprovevole e ributtanti, che certo non fanno difetto al nazionalista tipo, due risultano particolarmente dure da sopportare.La prima, l'assenza di umiltà. Il nazionalista è un pallone gonfiato, tronfio d'orgoglio morboso. Totale mancanza di modestia, incapacità di riconoscere che qualcun altro (cioè qualcuno di altra nazionalità) possa essere migliore o valere di più. Dite a un nazionalista di cospargersi il capo di cenere: vi infamerà. Considererà tale atto di contrizione come un attacco alla "sua nazione": secondo il suo modo di vedere, mostrarsi umili equivale a cedere, mentre una delle caratteristiche del nazionalista è di non cedere mai, per principio. Il secondo difetto consiste nella mentalità provinciale, anacronistica, nella mancanza di curiosità per il resto del mondo, nella riluttanza a conoscerlo almeno in parte e a capirne qualcosa. Il mondo del nazionalista sta tutto nella sua provincia, tra le sue quattro pareti, nel suo orticello. Uno spazio ermeticamente chiuso, circondato da un muro oltre i cui limiti non esiste niente e nessuno (a parte i nemici). Ancora sul nazionalismo: nel mondo contemporaneo le tendenze verso la disintegrazione sono più forti delle tendenze verso l'integrazione; insieme alla disintegrazione emerge la tendenza a rinchiudersi nelle proprie etnosfere, a murarsi nelle proprie nicchie etniche; questo processo di balcanizzazione mondiale avviene in un'atmosfera di crescente sospetto, intolleranza, ostilità, voglia di prevalere gli uni sugli altri. | << | < | > | >> |Pagina 68È risaputo che esistono vari tipi di stupidi. Per esempio, gli stupidi passivi e gli stupidi aggressivi. Lo stupido del primo tipo si comporta passivamente: di solito tace, parla piano, con difficoltà, come se la sua stessa lingua gli fosse estranea, poco conosciuta. Questo tipo di stupido non deve infastidirci e neanche irritarci.La stupidità aggressiva è tutt'altro paio di maniche. Essere condannati alla compagnia di un cretino aggressivo è una maledizione. Soffre di logorrea, chiacchiera in continuazione. Apoditticamente, ex cathedra. Per lui è tutto chiaro, tutto evidente. La caratteristica della sua mentalità è l'impossibilità di penetrare il mondo, di vedere quel che sta sotto ai fenomeni. Per lo stupido tutto ha una sola dimensione, tutto presenta una supefficie liscia sulla quale il suo sguardo scivola senza ostacoli. A causa di questa unidimensionalità, il mondo dello stupido risulta monotono, schematico e infatti quasi sempre gli stupidi sono divorati dalla noia. Altra variante di stupido: lo stupido furbo che vede ovunque l'effetto di forze, di leve, di molle, di complotti segreti ("Deve esserci sotto qualcosa". "Qui gatta ci cova" ecc.). Al posto dell'intelligenza, la furbizia: ma tra l'una e l'altra corre una bella differenza. L'intelligente cerca di capire il mondo, il furbo vuole manipolarlo. La sfera politica è piena di furbi, gli intelligenti invece sono rari. Dice Molière ne Le donne saccenti: "Uno stupido colto è più stupido di uno stupido ignorante". Su ogni questione lo stupido ha opinioni preconcette, che non cambia mai. Dà quasi l'impressione di esserci nato insieme, di averle succhiate con il latte materno. Questa osservazione testimonierebbe a favore di una delle tante ipotesi sulla stupidità, e cioè che essa non derivi da una mancanza di istruzione o da un effetto dell'ambiente, ma da un codice genetico presente nell'uomo dalla nascita. Il cervello dello stupido sarebbe fatto in modo diverso, possiederebbe una sua particolare forma e composizione chimica, caratterizzata da informazioni scarse, balbettanti, monche. In tal caso si potrebbe considerare la stupidità come un'infermità, o come una malattia congenita e per lo più incurabile. Colpisce il fatto che le opinioni dello stupido siano fortemente impregnate di emotività e vengano sempre enunciate non solo apoditticamente ma anche con grande passione, dando l'impressione di una persona disposta a rischiare la vita per dimostrarle. Osservando C.D.: a quello che non capisce reagisce con ironia velenosa o con rabbia. Alla vista di una stanza piena di libri esclama con sarcasmo: "A che ti serve leggere tutta questa roba?" "E se leggessi qualcosa anche tu?" "Io? Non sono mica matta!" | << | < | > | >> |Pagina 90Russia ed Europa. La caratteristica dello spazio europeo sta nella vicinanza, nella presenza degli altri, nel contatto diretto che permette di scambiare opinioni e idee, di creare e modificare insieme la natura. La Russia invece subisce l'imperativo delle grandi estensioni, delle distanze, della solitudine, del sentirsi schiacciati da un cielo infinito e imprigionati fra distese di terra sconfinate.Francesco Petrarca: "Roma non cadrà mai per mano di un neinico; nessun essere umano acquisterà tanto merito, nessun popolo potrà vantarsi di tanto. Roma sarà vinta dal tempo, invecchierà nel deserto delle sue rovine e cadrà gradualmente, pezzo per pezzo". Mi rammarico molto di non aver conosciuto prima queste parole, scritte dall'autore del Canzoniere a Laura nel lontano 1341, per citarle nel mio libro Imperium: che perfetta descrizione di quanto, seicentocinquant'anni più tardi, sarebbe accaduto alla "terza Roma", vale a dire all'impero moscovita! In Russia sembrano esistere due mondi: uno mistico, filosofico, spirituale ed elevato; un altro fatto di cafoneria, bassezza, sporcizia. Dove sta il punto di contatto fra queste due realtà? Dove la congiunzione, il nesso, la saldatura? Eppure è solo l'unione di queste due realtà a fare la Russia, che resta una e indivisibile. | << | < | > | >> |Pagina 103Il tema della mia vita sono i poveri. È questo che intendo per terzo mondo. Il terzo mondo non è un termine geografico (Asia, Africa, America Latina) e neanche razziale (i cosiddetti continenti di colore), ma un concetto esistenziale. Indica appunto la vita povera, caratterizzata dalla stagnazione, dall'immobilismo strutturale, dalla tendenza alla regressione, dalla continua minaccia della rovina totale, da una diffusa mancanza di vie d'uscita. Sono tanti gli aspetti, le maschere, le forme, i buchi, i brandelli, le ruggini, i monconi, gli stracci e le toppe assunti dalla miseria.
Il fatto, il triste fatto, che l'ottanta per cento della
popolazione terrestre viva nell'indigenza e spesso nella
fame la dice lunga sulla pochezza umana. Esso dimostra
infatti che l'uomo è per natura un essere inetto, incapace,
passivo, smarrito; una creatura sempre costretta a cercare
Dio, a invocare il suo aiuto, a supplicarlo di prenderla
sotto la sua protezione.
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