Autore Daniel Kehlmann
Titolo La misura del mondo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2014 [2006], UE 8467 , pag. 256, cop.fle., dim. 13x20x1,5 cm , Isbn 978-88-07-88467-2
OriginaleDie vermessung der welt
EdizioneRowohlt, Reinbeck, 2005
TraduttorePaola Olivieri
LettoreCristina Lupo, 2015
Classe narrativa tedesca , storia della scienza , biografie












 

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Indice


       7   Il viaggio

      17   Il mare

      45   Il maestro

      59   La grotta

      69   I numeri

      85   Il fiume

     119   Le stelle

     135   La montagna

     151   Il giardino

     163   La capitale

     181   Il figlio

     191   Il padre

     199   L'etere

     213   Gli spiriti

     223   La steppa

     249   L'albero
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Pagina 7

IL VIAGGIO



Nel settembre 1828 il professor Gauss , il più illustre matematico del paese, lasciò per la prima volta dopo anni la città natale per partecipare al Congresso degli scienziati tedeschi a Berlino. Ovviamente non aveva nessuna voglia di andarci. Per mesi aveva rifiutato, ma Alexander von Humboldt si era intestardito e Gauss aveva accettato in un momento di debolezza e nella speranza che quel giorno non arrivasse mai.

Perciò adesso il professore si nascondeva nel letto. Quando la moglie Minna lo esortò ad alzarsi, ché la carrozza aspettava già e il viaggio era lungo, si avvinghiò al cuscino e chiuse gli occhi per farla sparire. Quando li riaprì e vide Minna ancora lì, le disse che era un'ebete insolente, la disgrazia della sua vecchiaia. Ma siccome continuava a starsene lì impalata, si tolse le coperte e poggiò i piedi a terra.

Senza quasi neanche lavarsi, scese da basso furibondo. Nel salotto lo aspettava il figlio Eugen con la borsa da viaggio pronta. Nel vederlo si arrabbiò ancora di più, frantumò la brocca che stava sul davanzale, sbatté i piedi e menò colpi per aria. Non si calmò nemmeno quando Eugen da un lato e Minna dall'altro lo rassicurarono con qualche pacca sulla spalla che a Berlino si sarebbero presi cura di lui, che presto sarebbe tornato a casa e tutto sarebbe finito in fretta come un brutto sogno. Tornò in sé solo quando l'anzianissima madre, disturbata dal baccano, scese dalla sua stanza e gli diede un pizzicotto sulla guancia chiedendo dove fosse il coraggio del suo figliolo. Gauss si accomiatò da Minna senza calore e accarezzò distrattamente la testa degli altri suoi due figli. Poi si fece aiutare a salire in carrozza.

Il viaggio fu un tormento. Diede a Eugen del fallito, gli tolse di mano il bastone nodoso e con tutte le sue forze gli pestò il piede. Per un po' guardò fuori dal finestrino con la fronte aggrottata, poi chiese quando finalmente la figlia si sarebbe maritata. Perché non la voleva nessuno? Qual era il problema?

Eugen si tirò all'indietro i lunghi capelli, si calcò in testa con entrambe le mani il berretto rosso e decise di non rispondere.

Fuori il rospo, lo esortò Gauss.

A essere sinceri, ribatté Eugen, non è quel che si dice una bellezza.

Gauss annuì, la risposta gli parve plausibile. Chiese un libro.

Eugen gli diede quello che aveva appena aperto, L'arte ginnica tedesca di Friedrich Jahn. Era uno dei suoi libri preferiti.

Gauss cercò di leggere, ma già dopo pochi secondi alzò lo sguardo e cominciò a lamentarsi dell'ultima moda delle carrozze con le sospensioni in cuoio che davano più nausea. Presto, spiegò, delle macchine avrebbero trasportato le persone da una città all'altra alla velocità di un proiettile. Si sarebbe arrivati da Gottinga a Berlino in mezz'ora.

Eugen scosse la testa perplesso.

È bizzarro e ingiusto, disse Gauss, il fatto che si nasce in una determinata epoca e, volenti o nolenti, vi si resta imprigionati: un esempio calzante della penosa accidentalità dell'esistenza. Così uno ha un vantaggio spropositato rispetto al passato e diventa lo zimbello del futuro.

Eugen annuì assonnato.

Perfino un intelletto come il suo, disse Gauss, non sarebbe stato in grado di concepire nulla in epoche passate o sulle rive dell'Orinoco mentre un imbecille qualsiasi di lì a duecento anni avrebbe potuto farsi beffe di lui e inventare assurde stupidaggini sul suo conto. Ci rifletté, diede ancora una volta a Eugen del fallito e si concentrò sul libro. Mentre il padre leggeva L'arte ginnica tedesca, Eugen guardava assorto fuori dal finestrino, per nascondere il viso contratto dall'offesa e dall'ira.

Il libro trattava di attrezzi da palestra. L'autore descriveva dettagliatamente gli apparecchi che aveva ideato. Uno lo aveva chiamato cavallo, un altro asse, un altro ancora cavallina.

Questo tizio ha qualche rotella fuori posto, disse Gauss, aprì il finestrino e gettò via il libro.

Eugen gridò che il libro era suo.

Mi era parso proprio così, disse Gauss e si addormentò per svegliarsi solo al cambio serale di cavalli presso la stazione di confine.

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Pagina 12

Gauss si mise a parlare del caso, il nemico di ogni scienza, quello che lui aveva sempre voluto sconfiggere. Se si osserva da vicino, ogni evento cela l'infinita raffinatezza della trama della causalità. Se ci si tiene abbastanza lontani, si può scorgere tutto il disegno. Libertà e caso sono una questione della media distanza, un effetto dello spazio interposto. Riusciva a seguirlo?

Più o meno, disse Eugen stanco, guardando l'orologio da tasca. Non era molto preciso, dovevano essere fra le tre e mezzo e le cinque del mattino.

Ma le leggi della probabilità non sono vincolanti, proseguì Gauss, premendosi le mani sulla schiena dolorante. Non sono leggi di natura, sono possibili delle eccezioni. Per esempio: un intelletto così speciale come il suo, oppure le vincite ai giochi d'azzardo che, innegabilmente, finiscono sempre nelle tasche di qualche imbecille. A volte supponeva perfino che anche le leggi della fisica non fossero altro che semplici fatti statistici. In quanto tali, ammettono delle eccezioni: i fantasmi, per esempio, o la trasmissione del pensiero.

Eugen domandò se stesse scherzando.

Non lo so neanch'io, disse Gauss, chiuse gli occhi e si abbandonò a un sonno profondo.

Arrivarono a Berlino nel tardo pomeriggio del giorno dopo. Migliaia di case basse senza un centro né un ordine, uno sconfinato insediamento nell'area più paludosa d'Europa. Stavano cominciando a costruire palazzi sontuosi: una cattedrale, dimore nobiliari, un museo per i ritrovamenti della grandiosa spedizione di Humboldt.

In un paio d'anni, disse Eugen, sarebbe diventata una metropoli come Roma, Parigi o San Pietroburgo.

Non lo sarà mai, disse Gauss. Che città ripugnante!

La carrozza si muoveva con fragore sul lastricato malconcio. Per due volte i cavalli puntarono gli zoccoli davanti a cani ringhianti, le ruote quasi si impantanarono nel terriccio bagnato delle stradine secondarie. Il loro ospite abitava allo scalo doganale numero quattro, nel centro cittadino, proprio dietro il cantiere del nuovo museo. Affinché non sbagliassero, aveva disegnato una piantina molto dettagliata con un pennino sottile.

Qualcuno doveva averli scorti da lontano e annunciato il loro arrivo. Pochi secondi dopo essere entrati nel cortile, infatti, si aprì il portone e quattro uomini andarono loro incontro.

Alexander von Humboldt era un anziano signore di bassa statura con i capelli bianchissimi.

Al suo seguito, un segretario con un registro aperto, un messo in livrea e un giovane con la barba, che portava un cavalletto e una scatola di legno. Come se avessero già provato la scena, si misero tutti in posa. Humboldt tese la mano verso lo sportello della carrozza.

Non accadde nulla.

Dall'interno della vettura si udiva una discussione animata. No, urlava qualcuno, no! Risuonò un colpo sordo, poi ancora, per la terza volta: No! E poi, per un po', nulla.

Finalmente si aprì lo sportello e Gauss scese cauto. Si ritrasse quando Humboldt lo prese per le spalle e gli dichiarò che era un grande onore, un momento storico per la Germania, per la scienza, per se stesso.

Il segretario prendeva appunti; l'uomo dietro alla scatola di legno sibilò: Adesso!

Humboldt si immobilizzò. È il signor Daguerre, sussurrò a labbra serrate. Un suo pupillo, che stava lavorando a un apparecchio in grado di fissare l'attimo su uno strato fotosensibile di ioduro d'argento sottraendolo alla caducità del tempo. Fermi per favore!

Gauss disse che voleva tornare a casa.

Solo un attimo, sussurrò Humboldt, all'incirca un quarto d'ora: stavano facendo enormi progressi. Fino a poco tempo prima la procedura era ancora più lenta, all'inizio aveva temuto che la sua schiena non reggesse. Gauss voleva divincolarsi ma il piccoletto lo trattenne con una forza insospettata e borbottò: Informate il re! Il messo si era già precipitato. Poi disse a voce alta quello che gli passava per la mente in quell'istante: Ricordarsi di valutare la possibilità di un allevamento di foche a Warnemünde, le condizioni sembrano favorevoli, lo esporrò domani! Il segretario lo annotò.

Eugen, che solo in quel momento scese dalla carrozza leggermente claudicante, si scusò per l'ora tarda in cui erano arrivati.

Presto o tardi qui non significano nulla, borbottò Humboldt. Qui esiste solo il lavoro da sbrigare. Per fortuna c'è ancora luce. Fermi!

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Pagina 24

Poco prima di partire Alexander conobbe il famoso Georg Forster, un uomo esile con la tosse incorporata e un pallore da malaticcio. Aveva girato il mondo con Cook, i suoi occhi avevano visto più di quelli di qualsiasi tedesco.

Lavorava come bibliotecario a Magonza ed era una leggenda vivente. Il suo libro, che aveva riscosso un successo universale, raccontava di draghi e morti viventi, di cannibali estremamente gentili, di giornate in cui il mare era così limpido che si aveva l'impressione di fluttuare su un abisso, di tempeste talmente violente che non si riusciva neanche a pregare. Forster era circondato da un alone di malinconia simile a una nebbia sottile. Disse di aver visto troppo. Di questo parla l'allegoria di Ulisse e le sirene. Non serve a niente farsi legare all'albero maestro. Anche chi torna indietro non si riprende mai dalla vicinanza dell'estraneo. Non riusciva più a dormire, i ricordi erano più forti del sonno. Da poco gli era arrivata la notizia che il suo capitano, il grande e scuro Cook, era stato bollito e mangiato alle Hawaii.

Si accarezzò la fronte e osservò le fibbie delle scarpe. Bollito e mangiato, ripeté.

Humboldt disse che anche lui voleva viaggiare.

Forster annuì. È un desiderio che provano in tanti, disse. E tutti se ne pentono.

Perché?

Perché non si ritorna mai.

Forster lo raccomandò all'Accademia di mineralogia di Freiberg. Lì Abraham Werner insegnava che il centro della terra è freddo e solido. Che le montagne hanno origine dalla sedimentazione marina in un oceano primordiale. Che il fuoco dei vulcani non proviene affatto dalle profondità ma è continuamente alimentato da carboni ardenti. Che il nucleo terrestre è composto di pietra dura. Questa teoria si chiamava nettunismo ed era sostenuta sia dalla chiesa cattolica sia da quella protestante e da Johann Wolfgang Goethe.

Nella cappella di Freiberg, Werner faceva officiare messe funebri per i detrattori delle sue teorie. Una volta aveva rotto il naso a uno studente dubbioso, e molti anni prima sembra che con un morso avesse staccato un orecchio a un altro alunno. Era uno degli ultimi alchimisti: membro di logge segrete, conosceva i segnali cui ubbidiscono i demoni. Era in grado di ricomporre gli oggetti in frantumi, di risolidificare gli elementi andati in fumo, aveva parlato a tu per tu con il diavolo e trasformato le cose in oro. Ma non sembrava particolarmente intelligente. Si tirò un po' indietro, strinse gli occhi e chiese a Humboldt se fosse nettunista e se mai credesse che il nucleo terrestre fosse freddo.

Humboldt lo rassicurò.

Allora doveva sposarsi.

Humboldt arrossì.

Werner gonfiò le guance, fece una smorfia cospiratoria e gli chiese se avesse una fidanzatina.

È solo un ostacolo, affermò Humboldt. Nella vita si sposa solo chi non ha grandi progetti.

Werner lo fissò.

È un'opinione, si corresse rapido Humboldt. Ovvio che non è vero!

Nessun uomo celibe, disse Werner, è mai stato un valido nettunista.

Humboldt terminò in tre mesi il piano di studi dell'Accademia. Al mattino trascorreva sei ore sotto terra, al pomeriggio frequentava le lezioni, alla sera e fino a notte fonda studiava per il giorno seguente. Non aveva amici, e quando il fratello lo invitò al suo matrimonio – Ho trovato una donna che mi si confà, una donna senza pari, gli aveva scritto – gli rispose cortesemente che non poteva andare perché non aveva tempo. Si infilava nei pozzi più profondi, fino a quando riuscì ad arrendersi alla sua claustrofobia come a un dolore lancinante cui lentamente ci si abitua. Effettuava misurazioni di temperatura: quanto più si scendeva nel profondo della terra, tanto più aumentava il calore. Questa constatazione confutava tutte le teorie di Abraham Werner. Notò anche che, perfino nei più remoti anfratti, c'era ancora vegetazione. La vita sembrava non terminare mai: dovunque c'erano almeno un po' di muschio, un'escrescenza o qualche pianta atrofizzata. Queste forme di vita lo inquietavano. Perciò ne strappava dei pezzi e li esaminava, classificandoli e descrivendoli in un trattato. Anni dopo, quando vide formazioni simili nella Grotta dei morti, era già preparato.

Terminò gli studi e gli fu assegnata un'uniforme. In qualsiasi posto si recasse doveva indossarla. Gli era stato conferito il titolo di assessore al dipartimento di Miniere metallurgiche. Al fratello scrisse che si vergognava di quanto ciò gli facesse piacere.

Alcuni mesi dopo era diventato già l'ispettore minerario più affidabile dell'intera Prussia. Si faceva accompagnare negli stabilimenti metallurgici, nelle miniere di torba e negli altiforni della Reale fabbrica di porcellana. Dappertutto i lavoratori erano sbalorditi dalla velocità con cui prendeva appunti. Era sempre in giro, mangiava e dormiva pochissimo, ma lui stesso non sapeva a che pro. Al fratello scrisse di avere il timore che in lui ci fosse qualcosa che lo avrebbe condotto alla pazzia.

Si imbatté per caso nel libro di Galvani sulla corrente elettrica e le rane. Galvani aveva collegato due zampe di rana spezzate con due diversi metalli, gli arti avevano avuto un sussulto come se fossero vivi. Dipendeva forse dal fatto che in loro c'era ancora l'energia degli animali? Oppure il movimento era stato provocato dall'esterno, dalla differenza dei metalli, e lo scatto delle zampe rendeva solamente visibile il fenomeno? Humboldt decise che doveva scoprirlo.

Si tolse la camicia, si stese nel letto e diede istruzioni all'inserviente di appiccicargli sulla schiena due cerotti da salasso. L'inserviente ubbidì. Sulla pelle di Humboldt si formarono due grosse bolle. E adesso che le tagliasse! L'inserviente non sapeva cosa fare, Humboldt urlò e l'inserviente prese il bisturi. Era così affilato che il taglio quasi non gli fece male. Scorsero gocce di sangue sul pavimento. Humboldt gli ordinò di poggiare un pezzo di zinco su una ferita.

L'inserviente chiese se poteva fare una breve pausa. Si stava sentendo male.

Humboldt gli ordinò di non fare lo stupido. Quando un pezzo d'argento toccò l'altra ferita, una scossa dolorosa gli risalì lungo la schiena fino alla testa. Con mano tremula annotò: muscolo trapezio, ossa occipitale, processi spinosi della colonna vertebrale. Non c'era dubbio, la scossa era causata dall'elettricità. Ancora argento! Contò quattro colpi, a intervalli regolari, poi gli oggetti persero colore.

Quando si riebbe, vide l'inserviente a terra con il viso pallidissimo e le mani sporche di sangue.

Humboldt gli ordinò di continuare e, con strano orrore, si rese conto che una parte di sé stava provando piacere. E adesso le rane!

Questo no, disse l'inserviente.

Humboldt gli chiese se preferiva cercarsi un nuovo lavoro.

L'inserviente poggiò quattro rane morte, accuratamente lavate, sulla schiena sanguinante di Humboldt. Adesso basta però, disse. Siamo pur sempre dei cristiani!

Humboldt se ne infischiò e gli ordinò: Di nuovo argento! Tornarono subito i colpi. Allo specchio notò che a ogni scossa i cadaveri delle rane sussultavano come se fossero vive. Humboldt morse il cuscino bagnato dalle sue lacrime. L'inserviente rideva isterico. Il padrone voleva prendere appunti, ma le mani erano troppo deboli. Fece un enorme sforzo per alzarsi. Dalle ferite scorreva un liquido tanto corrosivo da infiammargli la pelle. Humboldt cercò di raccoglierne delle gocce in una boccetta di vetro, ma gli si era gonfiata la spalla e non poteva girarsi. Guardò l'inserviente.

Ma quello scosse la testa.

Vabbe', disse Humboldt, adesso in nome di Dio che chiamasse un dottore! Si lavò la faccia e aspettò fino a quando fu di nuovo in grado di utilizzare le mani per annotare le considerazioni più importanti. C'era stato un flusso di corrente, l'aveva avvertito. Era certo che non era stato emanato dal suo corpo né da quello delle rane, ma dalla contrapposizione chimica dei due metalli.

Non fu facile spiegare al dottore quello che era successo. L'inserviente si licenziò la settimana dopo. A Humboldt restarono due cicatrici e il trattato sulle fibre muscolari come conduttori di elettricità segnò l'inizio della sua fama di scienziato.

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Pagina 31

Prima si recò a Weimar, dove il fratello gli presentò Wieland, Herder e Goethe. Quest'ultimo lo salutò come se fossero alleati. Per lui ogni allievo del grande Werner era un amico.

Sto per recarmi nel Nuovo Mondo, disse Humboldt. Finora non l'aveva confidato ad anima viva. Nessuno avrebbe potuto distoglierlo dal suo proposito, anche se non era certo di tornare vivo.

Goethe lo prese in disparte e lo condusse attraverso una serie di stanze dipinte in svariati colori verso un'alta finestra. Una grande impresa, disse. Era importante soprattutto che studiasse i vulcani, doveva dimostrare la teoria nettunista. Sotto la terra non brucia nessun fuoco. Il centro della terra non è lava bollente. Solo degli spiriti corrotti potevano farsi soggiogare da un'idea così ripugnante.

Humboldt promise di esaminare i vulcani con attenzione.

Goethe gli posò una mano sulla spalla. E non avrebbe mai dovuto dimenticare da dove veniva.

Humboldt non capì.

Doveva tener conto di chi l'aveva mandato laggiù. Goethe fece un gesto che indicava le stanze variopinte, i calchi di gesso delle statue romane, gli uomini che in salotto discutevano con voci ovattate. Il fratello maggiore di Humboldt dissertava dei pregi del verso sciolto, Wieland annuiva attento, sul divano Schiller sbadigliava con sguardo furtivo. Si ricordi che noi l'abbiamo mandata laggiù, lei proviene da qui. Resterà il nostro messaggero anche oltreoceano.

Humboldt proseguì il viaggio alla volta di Salisburgo, dove acquistò l'arsenale di strumenti di misurazione più caro che uomo abbia mai posseduto. Due barometri per la pressione atmosferica, un ipsometro per la misurazione della temperatura di ebollizione dell'acqua, un teodolite per i rilievi geodetici, un sestante a specchio con un orizzonte artificiale, un sestante tascabile pieghevole, un ago declinatorio per determinare la forza del magnetismo terrestre, un igrometro a capello per l'umidità dell'aria, un eudiometro per la misurazione della quantità di ossigeno dell'aria, una bottiglia di Leida per l'accumulo di cariche elettriche e un cianometro per il rilevamento della percentuale di azzurro nel cielo. Infine, due di quegli orologi spaventosamente cari che da poco venivano fabbricati a Parigi. Non avevano più bisogno di un pendolo, ma inghiottivano impercettibilmente i secondi, avevano dentro delle molle che vibravano a intervalli regolari. Se li si usava con perizia, non si discostavano mai dall'ora di Parigi e, esaminando l'altezza del sole all'orizzonte e consultando specifiche tabelle, permettevano di determinare il grado di longitudine.

Si trattenne un anno in Austria per esercitarsi. Misurava ogni collina di Salisburgo, constatava giornalmente la pressione atmosferica, tracciava la mappa del campo magnetico, esaminava l'aria, l'acqua, la terra e il colore del cielo. Si esercitava a fare a pezzi e ricomporre ogni strumento, fino a conoscerlo in ogni sua parte senza aver bisogno di guardarlo, poteva usarlo su una gamba sola, sotto la pioggia o in mezzo a una mandria di mucche che gli sciamavano attorno come zanzare. La gente del posto pensava che fosse pazzo. Avrebbe dovuto abituarsi anche a questo, ne era cosciente. Una volta tenne il braccio legato dietro la schiena per una settimana: voleva abituare il corpo alle ingiurie e al dolore. Visto che in quella posizione la divisa gli era d'intralcio, se ne fece cucire su misura un'altra che indossava anche di notte a letto. Il trucco sta nel non farsi mai sfuggire nulla, disse alla signora Schobel, la sua affittacamere, e le chiese un altro bicchiere di quel siero verdastro che gli faceva tanto schifo.

Solo allora si recò a Parigi, dove il fratello aveva scelto di vivere come uomo privato per educare i suoi figli dall'intelligenza sconcertante, secondo un rigido sistema pedagogico sviluppato da lui stesso. La moglie del fratello non lo poteva soffrire. Per me è inquietante, diceva, le sue occupazioni mi sembrano una forma di pazzia, mi pare insomma la tua caricatura.

Il marito non le dava del tutto torto. Non gli era mai risultato facile assumersi la totale responsabilità di tutte le follie del fratello e doverlo proteggere allo stesso tempo.

All'Accademia Humboldt tenne delle conferenze sulla conducibilità elettrica del sistema nervoso dell'uomo. Era lì quando, sotto una pioggerellina che cadeva su un logoro prato alle porte della città, misurarono l'ultimo tratto del meridiano che collegava Parigi con il Polo. Quando terminarono, tutti si tolsero il cappello e si diedero la mano: un decimilionesimo del percorso, incastonato nel metallo, sarebbe diventato l'unità di tutte le successive misurazioni delle lunghezze. Lo volevano chiamare "metro". Humboldt era sempre colmo di gioia quando si misurava qualcosa; quella volta era davvero ebbro di entusiasmo. L'eccitazione lo tenne sveglio per parecchie notti.

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Pagina 36

Sulla strada per la Spagna Humboldt misurò l'altitudine di ogni collina. Si arrampicò su ogni monte. Da ogni roccia staccava un pezzo di minerale. Con la maschera a ossigeno ispezionava i meandri di tutti gli anfratti. La gente del posto, che lo vedeva fissare il sole attraverso la lente oculare del sestante, li considerava adoratori pagani del firmamento e lanciava loro addosso pietre, costringendoli a montare a cavallo e scappare al galoppo. Le prime due volte se la cavarono senza danni, la terza volta Bonpland riportò una brutta ferita superficiale.

Bonpland cominciò a essere stupito. È proprio necessario?, chiese. In fin dei conti erano solo di passaggio, volevano raggiungere Madrid e ci sarebbero arrivati molto prima se ci fossero andati difilato, per Dio!

Humboldt ci pensò su. No, disse poi, me ne rammarico. Una collina di cui non si conosce l'altitudine è un'offesa per la ragione e mi inquieta. Senza esaminare costantemente la propria posizione, nessun uomo può progredire. Non si lascia ai margini del proprio cammino un mistero, per quanto insignificante.

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Pagina 38

A La Coruña si imbarcarono sulla prima fregata che prendeva la via dei Tropici. Un vento da ponente soffiava tagliente e le onde erano altissime. Humboldt era seduto su una sedia pieghevole in coperta. Non si era mai sentito così libero. Per fortuna, annotò sul diario, non mi è mai venuto il mal di mare. Poi vomitò. Ma anche quella era una questione di volontà! Con estrema concentrazione e interrompendosi solo di tanto in tanto per chinarsi sul parapetto, scrisse tre pagine sulla sensazione che suscita la partenza, sulla notte che cala sul mare e le luci della costa che si spengono nel buio dell'orizzonte. Fino al mattino seguente rimase accanto al capitano, osservando come dirigeva la nave. Poi tirò fuori il suo sestante. Verso mezzogiorno cominciò a scuotere la testa. Il pomeriggio verso le quattro ripose l'apparecchio e chiese al capitano perché lavorasse in maniera così approssimativa.

Faccio questo lavoro da trent'anni, rispose l'ufficiale.

Con tutto il rispetto, ribadì Humboldt, ne sono sorpreso.

Non lo faccio certo per amore della matematica, disse il capitano, voglio solo arrivare dall'altra parte dell'oceano. Più o meno, basta seguire il parallelo e prima o poi si arriva.

Ma come si può vivere, domandò Humboldt, reso particolarmente suscettibile dalla nausea, se a uno non importa nulla della precisione?

In modo eccellente, rispose il capitano. E comunque quella era una nave libera. Se a qualcuno non stava bene qualcosa, poteva sempre scendere.

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Pagina 74

L'esame di laurea si svolse sotto la supervisione del professor Pfaff. Grazie a un semplice scarabocchio, a Gauss fu risparmiato l'esame orale; sarebbe stato troppo ridicolo. Quando andò a ritirare il diploma, dovette aspettare in corridoio. Mangiò un pezzo di biscotto secco e lesse nella "Göttinger Gelehrten Anzeige" il racconto di un diplomatico prussiano sul soggiorno del fratello in Nuova Andalusia. Una casa bianca alla periferia della città, la sera ci si rinfrescava nel fiume, le donne andavano spesso in visita per farsi contare i pidocchi. Gauss sfogliava le pagine con una vaga eccitazione. Indigeni nudi nella missione dei cappuccini, uccelli che vivevano nelle grotte e riuscivano a vedere grazie alla voce come gli altri esseri vedono grazie alla luce del giorno. La grande eclissi, poi la partenza per l'Orinoco. La lettera dell'uomo aveva impiegato un anno e mezzo ad arrivare, solo Dio sapeva se era ancora vivo. Gauss posò il giornale, Zimmermann e Pfaff erano in piedi davanti a lui. Non avevano osato disturbarlo.

Quest'uomo, disse, è impressionante! Ma anche un folle: come se la verità si potesse trovare lontano e non qui. O come se si potesse scappare da se stessi.

Pfaff gli porse esitante il diploma: Promosso, con lode. Ovviamente. Zimmermann affermò di aver sentito che in cantiere c'era una grande opera. Gli faceva piacere che Gauss avesse finalmente trovato qualcosa che catturava il suo interesse e scacciava la malinconia.

Vero, rispose Gauss. E una volta finito, me ne andrò via.

I professori si scambiarono uno sguardo d'intesa. Dall'elettorato di Hannover? Speriamo proprio di no.

No, disse Gauss. Non c'era da preoccuparsi. Molto lontano, ma non fuori dall'elettorato di Hannover.

Il lavoro procedeva spedito. Aveva dimostrato la legge di reciprocità quadratica, era vicino alla soluzione della frequenza dei numeri primi. Aveva terminato le prime tre sezioni, era già nel cuore dell'opera, ma continuava a posare il pennino, a prendersi la testa fra le mani e domandarsi se quello che stava facendo fosse lecito. Non stava andando troppo a fondo? Alla base della fisica c'erano le regole, alla base delle regole le leggi, alla base delle leggi i numeri; analizzandoli attentamente, si scopriva che fra di loro ci sono delle affinità: ripugnanze o attrazioni. Nella struttura dei numeri sembrava esserci un che di incompleto, di abbozzato in modo stranamente sfuggente, e più di una volta credette di imbattersi in errori grossolani; come se Dio si fosse permesso delle negligenze, confidando nel fatto che nessuno se ne sarebbe accorto.

Poi, venne il giorno in cui finirono i soldi. Si era laureato, perciò non aveva più un sussidio. Poiché al duca non era mai andata troppo a genio la sua partenza per Gottinga, era impossibile pensare a un rinnovo.

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Pagina 79

Quando arrivò a Kònigsberg, era quasi stordito da stanchezza, mal di schiena e noia. Non avendo i soldi per una locanda, si recò direttamente all'università e si fece spiegare la strada da un bidello con lo sguardo ottuso. Come tutta la gente del luogo, quell'uomo parlava un dialetto strano, le strade gli sembravano di un paese straniero, i negozi avevano insegne incomprensibili e il cibo nelle osterie non odorava di cibo. Non era mai stato così lontano da casa.

Finalmente trovò l'indirizzo. Bussò alla porta, dopo una lunga attesa gli aprì un uomo anziano e impolverato che disse, prima di dar modo a Gauss di presentarsi, che il nobile signore non riceveva nessuno.

Gauss cercò di spiegare chi era e da dove veniva.

Il nobile signore, ripeté il servitore, non riceve nessuno. Lui lavorava lì da più tempo di quanto si potesse ritenere possibile, e non aveva mai disatteso a un ordine.

Gauss tirò fuori le lettere di presentazione di Kästner, Lichtenberg e Pfaff. Insisteva che quegli scritti venissero mostrati al nobile signore!

Il servitore non rispose. Teneva i fogli alla rovescia, senza degnarli di uno sguardo.

Insisto, ripeté Gauss. Si rendeva conto perfettamente che lì arrivavano molti visitatori e bisognava difendersi. Ma, e questo andava detto a chiare lettere, lui non era uno qualsiasi.

Il servitore ci pensò su. Le sue labbra si muovevano mute, si vedeva che non sapeva cosa fare. Bene, borbottò, entrò e lasciò la porta aperta.

Gauss lo seguì esitante in una piccola stanza attraverso un corridoio breve e scuro. Ce ne volle prima che gli occhi si abituassero alla semioscurità e riuscissero a riconoscere in quello spazio una finestra sbilenca, un tavolo e una poltrona dove, immobile, sedeva un nano avvolto in una coperta di lana: labbra tumide, fronte sporgente, naso affilato e sottile. Gli occhi semiaperti non erano rivolti verso di lui. L'aria era così opprimente da non riuscire quasi a respirare. Con la voce roca, chiese se era il professore.

Chi altri sennò, rispose il servitore.

Si avvicinò alla poltrona e con mani tremanti prese dalla borsa una copia delle Disquisitiones: sulla prima pagina aveva scritto qualcosa a proposito di venerazione e ringraziamenti. Porse il libro all'omino, che non mosse neanche un dito. Sussurrando, il servitore lo pregò di posare il libro sul tavolo.

Con voce ovattata gli spiegò il motivo della sua visita. Gli frullavano in testa idee che non riusciva a comunicare a nessuno. Aveva infatti l'impressione che lo spazio euclideo non fosse, come il professore affermava nella Critica della ragion pura, il presupposto della forma della nostra stessa intuizione e dunque il presupposto di qualsiasi possibile esperienza, ma piuttosto una finzione, un bel sogno. La verità era perturbante: l'affermazione per cui due rette parallele non si incontrano mai non era mai stata dimostrata, né da Euclide né da nessun altro. Ma non era affatto ovvio, come si era sempre ritenuto! Lui, Gauss, riteneva sbagliato quel postulato. Forse, addirittura, non esistevano nemmeno le rette parallele. Forse, lo spazio consentiva che, dati una linea e un punto accanto a essa, si potessero tracciare infinite parallele che passavano per quel punto. Solo una cosa era certa: lo spazio era ruvido, curvo e molto molto strano.

A Gauss faceva bene pronunciare per la prima volta ad alta voce le sue idee. Le parole cominciavano ad arrivare più veloci, le frasi si formavano da sole. Non era un giochino intellettuale! Stava forse dicendo che... Andò verso la finestra, ma un orribile squittio dell'omino lo bloccò. Stava forse dicendo che, tracciato un triangolo di qualsivoglia dimensioni fra tre stelle là fuori, a una precisa misurazione la somma degli angoli sarebbe risultata diversa dai soliti centottanta gradi, rivelando così che quel triangolo era in realtà un corpo sferico? Quando, gesticolando, alzò gli occhi, notò la ragnatela sul soffitto: diversi strati intrecciati e infeltriti. Un giorno sarebbe stato possibile eseguire quelle misurazioni! Ma ci voleva ancora molto tempo, per il momento aveva bisogno dell'opinione della sola persona che forse poteva non ritenerlo pazzo, il solo che doveva capirlo. L'opinione di colui che aveva insegnato al mondo sullo spazio e sul tempo più di ogni altro essere umano. Si inginocchiò, affinché il suo viso fosse alla stessa altezza di quello dell'omino. Restò in attesa. Gli occhietti si rivolsero verso di lui.

Salsicce.

Come?

Lampe deve comprare le salsicce, disse Kant. Salsicce e stelle. Deve comprare anche le stelle.

Gauss si alzò in piedi.

Non ho del tutto perso le mie buone maniere, disse Kant. Signori miei! Una goccia di bava gli scorse sul mento.

Il nobile signore è stanco, disse il servitore.

Gauss annuì. Il servitore accarezzò con il dorso della mano la guancia di Kant. L'omino sorrise mestamente. Uscirono dalla stanza, il servitore si accomiatò con un inchino senza proferir parola. Gauss gli avrebbe dato volentieri qualche soldo, ma non ne aveva più. Da lontano udì il canto di lugubri voci maschili. Il coro dei prigionieri, disse il servitore. Aveva sempre dato molto fastidio al nobile signore.

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Al matrimonio c'erano pochi invitati: suo padre, ormai anziano e molto curvo, sua madre, che singhiozzava come una bambina, Martin Bartels e il professor Zimmermann, oltre alla famiglia di Johanna, la sua amica brutta, Minna, e un segretario di corte, che sembrava non sapere perché si trovasse lì. Durante il parco banchetto nuziale il padre di Gauss disse che non ci si poteva far piegare da niente e nessuno, poi si alzò Zimmermann che aprì la bocca, sorrise benevolo a tutti gli astanti e si mise di nuovo a sedere. Bartels brindò con Gauss.

Gauss si alzò, sorseggiò dal suo bicchiere e disse che non si sarebbe mai aspettato di trovare qualcosa di simile alla felicità e, a essere sinceri, non è che ci credesse davvero. Aveva piuttosto l'impressione che si trattasse di un errore di calcolo, uno sbaglio di cui sperava che nessuno si sarebbe mai accorto. Prese di nuovo posto e si meravigliò degli sguardi increduli con cui gli altri lo fissavano. A bassa voce, chiese a Johanna se avesse detto qualcosa di sbagliato.

Nooo, ma cosa dici, rispose lei. Era proprio il discorso che sognavo per il mio matrimonio.

Un'ora dopo anche gli ultimi invitati erano andati via, e lui e Johanna si diressero verso casa. Parlavano poco. Di colpo si sentirono due estranei.

Nella stanza da letto Gauss chiuse le tende, si avvicinò alla moglie, avvertì il suo desiderio di ritrarsi, la strinse dolcemente e cominciò a scioglierle i lacci del vestito. Senza luce non era molto facile; Nina indossava sempre abiti che rendevano le cose più semplici. Ci impiegò parecchio, la stoffa era così riottosa e i lacci talmente numerosi che cominciò a ritenere impossibile poterli sciogliere tutti. Ma poi ci riuscì, il vestito cascò giù e la nudità della schiena di Johanna si stagliò bianca nell'oscurità. Le appoggiò un braccio sulle spalle, d'istinto lei si coprì i seni con le braccia, e lui avvertì la sua riluttanza mentre la conduceva a letto. Rifletté su come procedere con la sottogonna, aveva già avuto abbastanza difficoltà con il vestito. Perché le donne non indossano cose che si aprono? Niente paura, sussurrò, e fu sorpreso quando lei gli disse di non averla e, con un gesto alla cui determinazione non era pronto, gli aprì la cintura. L'hai già fatto in passato?, chiese Gauss. Ma cosa pensi di me?, ribatté Johanna ridendo e ripiegando la sottogonna. Visto che lei esitava, lui la strinse a sé e subito furono l'uno accanto all'altra, respiravano affannati, e ognuno aspettava che il battito cardiaco dell'altro diminuisse. Quando Gauss fece scivolare la mano dal seno verso la pancia e poi – si decise a osare benché avesse l'impressione che dovesse chiederne scusa – ancora più giù, fra le tende apparve pallido e stordito il disco lunare. Si vergognò di comprendere proprio in quel frangente come si potevano correggere approssimativamente gli errori di misurazione delle orbite dei pianeti. Se lo sarebbe appuntato volentieri, ma adesso la mano di lei risaliva lungo la sua schiena. Non me l'ero immaginato così, disse Johanna con un misto di orrore e curiosità, così vivo, come se fra noi ci fosse una terza persona. Gauss rotolò su di lei e poiché si rese conto che la donna si stava spaventando aspettò un attimo prima che lei gli avvolgesse le gambe intorno al corpo, chiese scusa, balzò in piedi, inciampò mentre si dirigeva verso il tavolo, infilò il pennino nell'inchiostro e scrisse senza accendere alcuna luce: Somma d. Quadr d. differenze fra osserv. e calcol. –> Min., era troppo importante, non riusciva a non pensarci. Le sentì dire che non poteva crederci e in realtà non ci credeva, anche se lo stava vivendo sulla sua pelle. Ma lui aveva già finito. Mentre tornava da lei, sbatté il piede contro il letto, poi sentì di nuovo la presenza di lei, e solo quando Johanna lo tirò verso di sé lui si rese conto di quanto in realtà fosse nervoso, e per un attimo fu molto meravigliato del fatto che entrambi, benché si conoscessero appena, si trovassero in quella situazione. Poi avvenne qualcosa di completamente nuovo e la mattina seguente si conoscevano già bene, come se si fossero esercitati da sempre e sempre insieme.

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IL FIGLIO



Di cattivo umore, Gauss ripose il tovagliolo. Il cibo non gli era per niente piaciuto. Ma visto che non poteva lamentarsene, cominciò a imprecare contro la città. Chiese come si facesse a vivere lì.

Ha anche i suoi vantaggi, disse Humboldt vago.

Quali?

Humboldt fissò per un paio di secondi la tavola. Poi disse che stava pensando di rivestire la terra con una rete di osservatori magnetici. Voleva scoprire se al suo interno c'erano una, due o innumerevoli calamite. Aveva già convinto la Royal Society, ma avrebbe avuto bisogno anche dell'aiuto del Principe dei matematici!

Gauss disse che per una cosa del genere non bisognava essere un grande matematico. Lui si occupava di magnetismo già da quando aveva quindici anni. Giochi da bambini. Poteva avere un tè?

Costernato, Humboldt schioccò le dita. Era il primo pomeriggio e il professore aveva dormito sedici ore. Humboldt invece si era svegliato come ogni mattina alle cinque, non aveva fatto colazione, ma eseguito un paio di esperimenti sulla fluttuazione del campo magnetico terrestre, dettato un memorandum su costi e benefici di un eventuale allevamento di foche a Warnemünde, redatto quattro lettere a due accademie, discusso con Daguerre sull'evidentemente irresolubile problema del fissaggio chimico dell'immagine sulle lastre di rame, bevuto due tazze di caffè, riposato dieci minuti e aggiunto le note a piè di pagina sulla flora della Cordigliera a tre capitoli del suo resoconto di viaggio. Aveva parlato con il segretario della Società di studiosi della natura sul programma del ricevimento previsto per la serata, scritto un promemoria per il nuovo primo ministro messicano sul pompaggio dell'acqua accumulata nella miniera e risposto alle lettere di due biografi. Poi, assonnato e di pessimo umore, Gauss era spuntato dalla stanza degli ospiti e aveva preteso la colazione.

[...]

In America Latina invece erano sorte decine di nuovi stati, senza scopo né senso. L'opera di tutta la vita del suo amico Bolívar era andata in fumo. I signori sapevano come l'aveva definito il grande libertador?

Gauss tacque. Solo dopo un po' comprese che Humboldt stava aspettando una risposta. No, come?, domandò.

Il vero scopritore dell'America del Sud! Humboldt sorrise nella sua tazza. Era scritto in El Barón Humboldt di Gomez. Un libro sottovalutato. A proposito, aveva sentito dire che il professore si stava occupando del calcolo della probabilità.

Statistiche di mortalità, disse Gauss. Bevve un sorso di tè, fece una smorfia di disgusto e allontanò quanto più possibile la tazza. Tutti pensano di essere artefici della propria vita. Uno crea e scopre, accumula beni, trova delle persone che ama più della propria vita, fa figli, forse intelligenti, ma forse anche cretini, vede morire le persone che ama, invecchia e rimbecillisce, si ammala e viene sepolto. Uno pensa di aver deciso tutto da solo. Solo la matematica dimostra che uno sceglie sempre le strade già battute. Tirannia, basta solo sentire la parola! Anche i prìncipi sono semplicemente poveri diavoli che vivono, soffrono e muoiono come tutti gli altri. La vera tirannia è quella delle leggi di natura.

Ma è la ragione a formare le leggi!, disse Humboldt.

La vecchia scemenza kantiana. Gauss scosse il capo. La ragione non forma un bel niente e capisce ben poco. Lo spazio è curvo e il tempo si dilata. Chi traccia una retta e la segue fino alla fine troverà una buona volta il suo termine. Indicò il sole basso sulla finestra. Nemmeno i raggi di quella stella che si sta spegnendo sono linee diritte. Volendo, il mondo può essere misurato, ma questo non significa affatto che ci si capisca qualcosa.

Humboldt incrociò le braccia. In primo luogo, il sole non si spegneva, il suo flogisto si rinnovava continuamente e sarebbe brillato per sempre. In secondo luogo, cos'era quella storia dello spazio? Sull'Orinoco i rematori che lo accompagnavano facevano battute analoghe. Non aveva mai capito bene le loro ciance. E spesso assumevano sostanze che offuscano la mente.

[...]

Non si può cavare sangue da una rapa, ribatté Gauss. E per quanto riguarda il magnetismo, la questione è posta male. Non si tratta di capire quante calamite ci siano nell'interno della terra. Si ottengono sempre e comunque due poli e un campo descrivibile in base all'intensità della forza magnetica e all'inclinazione dell'ago.

Ho sempre viaggiato con un ago magnetico, disse Humboldt. Così ho potuto raccogliere più di diecimila misurazioni.

Accidenti, disse Gauss. Ma non basta portare gli attrezzi a spasso, bisogna anche pensare. La componente orizzontale del campo magnetico può essere rappresentata come funzione della latitudine e della longitudine geografiche. La componente verticale si esplicita nel modo migliore come uno sviluppo in una serie di potenze basata sul diametro reciproco della terra. Una semplice funzione sferica. Rise sommessamente.

Funzione sferica. Humboldt sorrise. Non aveva capito neanche una parola.

Ho perso l'esercizio, disse Gauss. A vent'anni non avevo tempo per questi giochetti, adesso mi serve almeno una settimana. Non funziona più come una volta, disse battendosi la fronte. Sarebbe stato meglio che a suo tempo avessi bevuto il curaro. Ogni giorno che passa il cervello umano muore un po'.

Si può bere tutto il curaro che si vuole, disse Humboldt. Bisogna iniettarlo nel sangue, perché sia letale.

Gauss lo fissò. Ne era sicuro?

Certo, disse Humboldt indignato. Praticamente, l'aveva scoperto lui.

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L'ETERE



Con gli occhi socchiusi, Humboldt parlava di stelle e correnti a bassa voce, ma tutti nella sala riuscivano ad ascoltarlo. Era in piedi davanti all'enorme sfondo di un cielo notturno, sul quale le stelle si disponevano in cerchi concentrici; era la scenografia di Schinkel per Il flauto magico, riesumata per l'occasione. Fra le stelle avevano scritto i nomi degli scienziati tedeschi: Buch, Savigny, Hufeland, Bessel, Klaproth, Humboldt e Gauss. La sala era gremita fino all'ultima poltrona: monocoli e occhiali, moltissime uniformi, ventagli che si muovevano sinuosi, così come, nella loggia centrale, le figure statuarie del principe e sua moglie. Gauss sedeva in prima fila.

Ma no, gli sussurrò nell'orecchio un Daguerre di ottimo umore. Ci sarebbero voluti anni prima che riuscisse a produrre un'immagine. O meglio, con l'illuminazione c'erano quasi, ma lui e il suo socio Niepce non avevano la più pallida idea di come fissarla sullo ioduro d'argento.

Gauss sibilò, Daguerre fece spallucce e ammutolì.

Chi guarda il cielo notturno, disse Humboldt, non riesce a farsi un'idea precisa dell'estensione della volta celeste. La nebbíolina di luce che circonda le nubi di Magellano sull'emisfero del Sud non è una sostanza amorfa, né foschia né gas, ma è composta di soli, di cui unicamente la pura distanza dalla terra dà l'illusione ottica che confluiscano tutti in un'unica luce. Un tratto della Via Lattea di due gradi di longitudine e quindici di latitudine, tanti quanti sono visibili nella lente di un cannocchiale, contiene oltre cinquantamila stelle riconoscibili e almeno centomila indistinguibili, perché la loro luce è fioca. Da ciò si deduce che la Via Lattea è composta da venti milioni di soli; un occhio umano posto a una distanza pari al loro stesso diametro riesce a percepirla solo come un tenue luccichio, come una delle oltre tremila nebulose già individuate dagli astronomi. Ci si domanda dunque perché, con così tante stelle, il cielo non sia sempre pieno di luce, come mai là fuori ci sia così tanta oscurità, e non si può far altro che accettare il principio opposto al chiarore, qualcosa negli interspazi che frena le radiazioni, un etere che estingue la luce. Una volta di più si mostra così l'ordine razionale della natura, poiché in fin dei conti ogni cultura umana ha inizio con l'osservazione delle orbite dei corpi del cielo.

Humboldt aprì per la prima volta gli occhi. Uno di questi corpi immersi nel nero etere è la terra. Un nocciolo di fuoco circondato da tre involucri, uno rigido, uno liquido e l'altro elastico, ciascuno dei quali ospita la vita. Perfino nelle profondità sotterranee ho trovato piante che crescevano senza luce. I vulcani fungono da valvole naturali per il nocciolo di fuoco della terra, la sua crosta dura è coperta da due mari, uno d'acqua e l'altro d'aria. Tra i due fluiscono continue correnti: tra le altre, la famosa corrente del Golfo, che spinge le acque dell'Atlantico dallo Yucatan e dal Nicaragua attraverso il canale delle Bahamas verso nord-est contro i banchi di Terranova e da lì a sud-est verso le Azzorre, a questa corrente si possono far risalire le meravigliose apparizioni di frutti di palme, pesci volanti e qualche volta perfino eschimesi in carne e ossa nelle loro canoe, in cui ci si imbatte sempre sulle coste irlandesi. Io stesso ho scoperto nel mare calmo una corrente non meno importante che, lungo Cile e Perú, porta la fredda acqua del Polo ai Tropici. Tutte le mie petizioni, sorrise fra il vanesio e l'imbarazzato, non hanno distolto i marinai dall'idea di chiamarla "corrente di Humboldt". Le correnti dell'oceano d'aria si comportano in modo analogo: sono spinte dalle fluttuazioni del calore del sole e deviate dai fianchi dei grandi massicci montuosi, ciò vuol dire che la differenziazione delle formazioni vegetali segue non la latitudine, ma onde che si diffondono secondo curve isotermiche. Questo sistema di correnti connette le parti della terra in un'unica unità funzionale. Humboldt tacque per un attimo, come se il pensiero che stava per esprimere lo commuovesse. Come nelle cavità della terra, così anche nel mare e nell'aria: dappertutto crescono piante. La vegetazione è il manifesto modo di giocare della vita, che si sviluppa in una muta immobilità. Le piante non hanno un'interiorità, non hanno segreti, tutto in loro è pura esteriorità. Esposte e poco protette, indissolubilmente legate alla terra e alle sue condizioni, esse vivono e sopravvivono. Gli insetti invece, come gli animali e gli uomini, sono protetti e blindati. La loro temperatura corporea è costante consentendo così di sopportare i cambiamenti delle condizioni esterne. Chi guarda un animale non sa ancora nulla di lui, mentre la vegetazione manifesta la sua essenza a ogni sguardo che si posa su di essa.

Adesso sta scadendo nel sentimentale, sussurrò Daguerre.

Così la vita cresce nascondendo gradualmente la propria organizzazione, fino a quando compie quel salto che si può tranquillamente definire il più alto possibile: il salto verso la folgore della ragione. Per arrivarci non ci sono stadi evolutivi. La seconda più grande offesa per l'uomo è la schiavitù. La prima, in ogni caso, la supposizione che discenda dalla scimmia.

Uomo e scimmia! Daguerre rise.

Humboldt affondò la testa nel collo, sembrava intento ad ascoltare le sue stesse parole. La comprensione del cosmo aveva fatto grandi progressi. Con il cannocchiale si poteva studiare l'universo, conoscere la formazione della terra, il suo peso e la sua orbita, si poteva determinare la velocità della luce, individuare le correnti del mare e le condizioni della vita, e presto sarebbe stato risolto l'ultimo mistero: la forza dei magneti. La fine del cammino era in vista, la misura del mondo quasi trovata. Il cosmo sarebbe stato compreso, tutte le difficoltà che l'uomo aveva incontrato all'inizio, così come la paura, la guerra e lo sfruttamento, sarebbero sprofondate nel passato, e a questo scopo, non ultimi, avrebbero contribuito in modo determinante i ricercatori presenti a quel congresso. La scienza avrebbe dato inizio a un'era di benessere, e chissà se un giorno non sarebbe stata in grado perfino di risolvere il problema della morte. Per alcuni secondi Humboldt restò immobile. Poi fece un inchino.

Da quando è tornato da Parigi, sussurrò Daguerre fra gli applausi scroscianti, il barone non è più lo stesso. Fatica a concentrarsi e tende a ripetersi.

Gauss domandò se era tornato davvero per mancanza di soldi.

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