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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione. La vita di una parola potente 5 1. Motori di stasi e di cambiamento La regolazione della stabilità genetica 13 Spiegare la stabilità genetica 16 La domanda di Schrödinger 19 Dettagli da sistemare 22 I limiti della stabilità genetica 27 Evoluzione dell'evolutività. La sfida della biologia molecolare al neodarwinismo 31 Che cos'è la vita? 35 2. Il significato della funzione genica Che cosa fa un gene? 37 Una breve rassegna 37 Geni regolatori 44 Splicing e revisione del messaggio 47 Regolazione della funzione proteica 52 Un concetto malconcio 53 3. Il concetto di programma genetico Ricetta per un organismo 59 Da «azione genica» ad «attivazione genica»60 Il programma genetico 64 La logica sottostante al «programma genetico» 66 Imparare a «riprogrammare» i genomi degli organismi più complessi 69 La visione odierna della genetica molecolare 75 4. Limiti dell'analisi genetica Che cosa mantiene in carreggiata lo sviluppo? 81 Che cos'è un organismo? 83 Geni e ridondanza 87 Imparare dagli ingegneri 90 Nuove congiunzioni tra know-how ingegneristico e saggezza biologica 93 Dove calcolatori e organismi divergono 101 Conclusione. A che cosa servono i geni? 105 Note 117 Bibliografia 129 Ringraziamenti 139 Indice dei nomi 141 |
| << | < | > | >> |Pagina 13[...] Se la rivoluzione mendeliana rappresenta il punto di svolta della biologia del XX secolo, la rivoluzione darwiniana rappresenta quello del XIX. Il regno degli organismi viventi non poteva più limitarsi a una grande «catena dell'essere»; esigeva una propria raffigurazione, che fosse più simile a un albero che a una catena. Il mondo del vivente rientrò in una temporalità i cui abitanti e la cui struttura relazionale vennero riconfigurati come prodotti della storia evolutiva. Dopo la pubblicazione nel 1859 dell' Origine delle specie, poche persone con una formazione scientifica credevano ancora nella fissità delle specie. Inoltre la teoria darwiniana dell'evoluzione offriva ai lettori un meccanismo per l'origine e per la trasformazione delle specie: la selezione naturale che agiva sulla variazione individuale. Tuttavia, nonostante la sua potenza, la teoria non chiariva un mistero fondamentale. Se il cambiamento è l'essenza della vita, come spiegare la notevole stabilità con la quale, in ogni generazione, gli organismi si sviluppano a somiglianza della propria specie, e questo per tutta la vita della specie? Nella prospettiva del tempo geologico, le specie si trasformano ed evolvono. Ma in quella del tempo storico, mostrano un'innegabile costanza di forma e di funzione. E proprio sulla «stabilità del tipo» - per dirla con Francis Galton - attraverso le generazioni, la teoria di Darwin serbava il silenzio. Nonostante l'eloquenza con cui la selezione naturale rendeva conto dei cambiamenti di forma e funzione biologica avvenuti in milioni di anni e osservabili nei reperti geologici, non tentava neppure di far luce sulla riproducibilità di forma e funzione nell'arco più breve del tempo genealogico, né sulla persistenza di particolari caratteristiche individuali da una generazione all'altra, sull'impronta di famiglia che i genitori trasmettono ai figli. Ovviamente Darwin non poteva conoscere la genetica: condivideva con i contemporanei una credenza nella «mescolanza dell'ereditarietà» - vale a dire che le caratteristiche della prole fossero in qualche modo un misto di quelle dei genitori -, ma questa non risolveva il problema che tormentava Schrödinger a proposito del plurisecolare labbro asburgico, «così durevole e dimostrando una stabilità che ha del miracoloso». Il fatto è che le preoccupazioni di Darwin erano altre. Per tutta la vita si era concentrato sui meccanismi di trasformazione. Quelli di conservazione gli sfuggivano e addirittura non lo interessavano, e se riconosceva «la nostra profonda ignoranza delle leggi della variazione» e dedicava una grande attenzione ai modi in cui poteva prodursi quella necessaria alla selezione naturale, non lo preoccupò mai l'ignoranza speculare delle leggi di costanza. Cercare queste leggi, e dare conto della stabilità attraverso le generazioni, fu quindi il compito degli eredi di Darwin. Il secolo del gene inizia proprio da lì, o più esattamente dal tentativo di capire la persistenza di caratteristiche individuali da generazione a generazione. Come qualunque impresa collettiva, la scienza della genetica è nata da bisogni e interessi molteplici, ben documentati dagli storici. Qui vorrei soffermarmi sulla particolare attrazione che la ricerca della costanza ha esercitato sulle origini del concetto di gene, una ricerca entrata prepotentemente nella storia della genetica prima ancora che la parola gene venisse coniata, insieme all'assunto secondo il quale sotto ogni caratteristica individuale si trova un'unità ereditaria talmente stabile da spiegare la regolarità della trasmissione di certe caratteristiche attraverso le generazioni. Vorrei ora ripercorrere l'influenza di questo assunto sui genetisti della prima parte dei Novecento, la sua apparente verifica a metà dei secolo e il suo dissolvimento graduale nei decenni scorsi. Certamente la stabilità genetica rimane tuttora una proprietà notevole in tutti gli organismi conosciuti, ma la difficoltà sta nel capire come si mantenga, ed è ben più complicata di quanto si immaginasse. Inoltre, è indistricabilmente legata alla generazione della variabilità. Perciò vorrei anche ritornare sull'interesse di Darwin per la trasformazione e sulle sorprendenti sfide che la nuova ricerca sui meccanismi di conservazione pongono al quadro neodarwiniano e fin troppo semplice di un'evoluzione per opera cumulativa della selezione naturale su piccole mutazioni generate dal caso. Infine una parola sulla relazione tra stabilità del «tipo», ovvero la stabilità con la quale gli organismi in ogni generazione si sviluppano e crescono a somiglianza della propria specie, e la stabilità delle caratteristiche individuali. A lungo si è ritenuto che i geni fossero capaci di spiegare tanto lo sviluppo delle caratteristiche individuali quanto quello di interi organismi, e quindi che la stabilità genetica bastasse a spiegare la stabilità dello sviluppo. Uso questo termine per riferirmi alla regolarità con la quale un organismo di una particolare specie passa dalla fecondazione alla maturità, una generazione dopo l'altra, producendo un fenotipo che è ben riconoscibile come caratteristico di un dato «tipo». | << | < | > | >> |Pagina 34Che cos'è la vita?Inutile dire che le implicazioni di tutte queste scoperte devono essere ancora approfondite, ma se ne possono dedurre due lezioni plausibili, l'una sulla stabilità e l'altra sulla dinamica della trasformazione genetica e quindi del cambiamento evolutivo. Prese separatamente, ciascuna ribalta una delle grandi aspettative con le quali era iniziato il Novecento. Prese insieme, richiedono un cambiamento radicale della visione che collega genetica, sviluppo ed evoluzione. Partirò dalla questione della stabilità. Ormai abbiamo abbandonato la speranza di trovare nella struttura molecolare del gene-particella una spiegazione adeguata della stabilità dell'organizzazione biologica nel corso delle generazioni. Abbiamo imparato che la stabilità genetica è essa stessa una conseguenza dell'organizzazione biologica e, sebbene possa essere una condizione della selezione naturale, i meccanismi che la garantiscono sono essi stessi un prodotto dell'evoluzione. Inoltre, sono meccanismi dinamici e non statici, e la spiegazione del modo in cui svolgono il loro compito va cercata nei sistemi complessi delle dinamiche cellulari, le quali sono al contempo un prodotto e una difesa dell'informazione genetica. | << | < | > | >> |Pagina 25Le divergenze sono forse più palesi nei dibattiti sull'origine della vita. Sono venuti prima i geni o le cellule? La replicazione o l'automantenimento? Nel 1985 Freeman Dyson, un altro fisico, pubblicò un libretto intitolato Origini della vita. Gli sembrava che la domanda di Schrödinger esprimesse un interesse spropositato per i geni e che la vita richiedesse non soltanto acido nucleico ma anche un sistema metabolico di automantenimento. Ne deduceva che erano altamente probabili due origini invece di una sola. L'emergenza dei sistemi viventi che vediamo oggi potrebbe essere il risultato di una fusione simbiotica tra due sottosistemi evoluti in precedenza in maniera autonoma: un insieme autoreplicante, ma fortemente incline agli errori, fatto di molecole di acido nucleico e capace di rapidi cambiamenti, e un sistema metabolico autocatalitico più conservatore, specializzato nell'automantenimento.Dai tempi dell'uscita del libro, la doppia origine della vita è diventata più accettabile. Stando a questa ipotesi, dalle interazioni consentite dalla congiunzione dei due sottosistemi sarebbe emerso un meccanismo di ereditarietà capace di assicurare la presenza di un dato genotipo, su un arco di tempo sufficiente perché la selezione naturale potesse operare, e abbastanza flessibile da generare la variabilità su cui questa opera. Allora e soltanto allora sarebbe stato possibile evolvere i meccanismi così squisitamente creativi necessari per il codice genetico, per l'individualità, per la multicellularità o per la sessualità. Il resto, come si usa dire, è storia, una storia molto dinamica. | << | < | > | >> |Pagina 43Con il codice la nuova genetica molecolare toccò il culmine della «semplicità precoce», scrisse Hans-Jorg Rheinberger. Finalmente c'era una risposta alla domanda «che cosa fa un gene?»: fa (codifica) un enzima. Un difetto del gene porta a un difetto dell'enzima (o alla sua assenza) e il difetto può essere spesso correlato all'anomalia (o all'assenza) di un determinato carattere. La risposta possedeva una semplicità esemplare e l'eleganza di un'equazione matematica. Meglio ancora, soddisfaceva l'aspettativa decennale di leggere la funzione del gene nella sua struttura, una volta decifrata la struttura. Quindi non restava che leggere la sequenza dei nucleotidi nel DNA.Tanta meravigliosa semplicità non poteva mancare di catturare l'immaginazione, e infatti la catturò. Il DNA era la molecola che racchiudeva i segreti della vita e ne eseguiva le istruzioni criptiche, era la ,cor «Master Molecule». Nella versione alla buona del «Dogma centrale» formulato da Francis Crick nel 1957, «il DNA fa l'RNA, l'RNA fa le proteine e le proteine fanno noi». Da allora l'immagine regnò suprema tra scienziati, studenti e lettori comuni, e ha figliato pletore di immagini collegate. Pensiamo al DNA della cellula come al programma genetico, alla lingua primigenia o, meglio ancora, al libro della vita, metafora questa prevalsa nei media sin dall'inizio del Progetto genoma umano. Eppure nell'attimo stesso dell'apoteosi quell'immagine così soddisfacente mostrava già alcuni difetti. A lungo sembrarono minuscole rughe, quasi impercettibili in mezzo a tanto splendore. Negli ultimi vent'anni e in particolare dall'inizio della genomica, alcune di quelle rughe si sono trasformate in voragini; oggi ogni biologo molecolare sa che i segreti della vita sono ben più complicati e confusi di come sembravano negli anni Sessanta e Settanta. Vediamo ora alcune delle complicazioni che tormentavano la biologia molecolare prima ancora della genomica e del passaggio agli organismi superiori, prima ancora che si cominciasse a decifrare il codice. E vediamo come non abbiano smesso di proliferare. | << | < | > | >> |Pagina 55La svolta è stata favorita dalle informazioni ora disponibili sulle sequenze. Una volta compiuto il Progetto genoma umano, coloro che sperano che la conoscenza delle sequenze sarebbe bastata a capire l'organismo rimarranno delusi. Il Progetto è stato prezioso perché ha contribuito a rivelare l'ingenuità di questa speranza e a tracciare una via più realistica verso la comprensione dello sviluppo, del funzionamento e dell'evoluzione degli organismi. Ora sono state esposte lacune chiare e dimostrabili riguardo ai diversi attributi che, storicamente, erano stati ritenuti inerenti a una singola entità: il gene. È innegabile che molte ricerche hanno avuto un ruolo nel rivelare queste lacune, ma non è possibile sottovalutare l'importanza dei nuovi sequenziamenti.Ci danno una dura lezione: da quando è stato introdotto il termine gene, la fiducia nella sua realtà fisica è sempre stata accompagnata dal presupposto che struttura, composizione materiale e funzione erano le proprietà di un singolo oggetto, infilato come una perla su un filo o segmento di DNA. Oggi quell'unica identità è crollata: abbiamo imparato che la funzione non è bell'e mappata sulla struttura e non coincide con un locus prestabilito del cromosoma. Se mai volessimo ancora pensare al gene come a un'unità di funzione, possiamo anche chiamarlo gene funzionale. Ma non possiamo più ritenerlo identico all'unità di trasmissione responsabile della memoria intergenerazionale o associarlo a essa. Il gene funzionale potrebbe non avere alcuna fissità: spesso ha un'esistenza transitoria e contingente che dipende fortemente dalla dinamica funzionale dell'intero organismo. La morale di questo capitolo è quindi parallela a quella del Capitolo 1, in cui avevamo imparato che la fonte della stabilità genetica non si trovava nella struttura di un'entità fissa, ma era il risultato di un processo dinamico. Ora abbiamo imparato che anche la funzione genica va capita in termini dinamici. Siccome la funzione biologica è inerente all'attività delle proteine più che all'attività dei geni, il crollo dell'ipotesi un gene-una proteina toglie di mezzo la possibilità di attribuire una funzione al gene inteso, per tradizione, come un'unità strutturale. Nemmeno dopo che è stato riconfigurato come unità funzionale (per esempio per lo splicing e per la revisione e correzione della sequenza di mRNA) il gene può essere collocato sopra e fuori dai processi che specificano l'organizzazione cellulare e intracellulare. Quel gene è parte integrante dei processi definiti e messi in opera dall'azione di un sistema complesso e autoregolato, nel quale e per il quale il DNA ereditato fornisce la materia prima assolutamente indispensabile, ma nulla di più. In sintesi, i risultati accumulati nei decenni scorsi ci costringono a pensare il gene come almeno due entità ben diverse: una strutturale, il cui mantenimento è affidato al macchinario molecolare della cellula perché venga trasmesso fedelmente da una generazione all'altra; e una funzionale, che emerge soltanto dall'interazione dinamica tra numerosi giocatori, fra i quali il gene strutturale da cui sono derivate le sequenze originarie delle proteine. O per dirla in modo leggermente diverso, la funzione di un gene strutturale dipende non soltanto dalla sua sequenza, ma dal suo contesto genetico, dalla struttura cromosomica in cui è inserito (e soggetta essa stessa alla regolazione dello sviluppo), e dal contesto citoplasmico e nucleare specifico di un determinato sviluppo. | << | < | > | >> |Pagina 80Una delle più importanti scoperte degli anni Ottanta è stata che omologhi molto simili ai geni necessari per costruire la pianta corporea di base di un animale - i geni omeotici - si trovano in tutto il regno animale. Negli anni Novanta, si è saputo che gli scimpanzé condividono il 98,5% del DNA umano. «Possiamo ora dire con certezza che la maggior parte dei phyla animali possiede essenzialmente gli stessi geni» scrive Peter Holland. Eppure ci sono ovvie differenze tra mosche e topi e perfino tra scimpanzé ed esseri umani.Se i geni sono sostanzialmente gli stessi, che cosa fa di un organismo una mosca, un topo, uno scimpanzé o un essere umano? Sembra che la risposta si trovi nella struttura delle reti geniche, nei modi in cui i geni sono collegati ad altri da meccanismi regolatori complessi che, nelle loro interazioni, determinano quando e dove un particolare gene sarà espresso. Diversamente dalla sequenza del genoma, quel circuito regolatore non è fisso: è dinamico, è una struttura che cambia sé stessa durante il ciclo dello sviluppo. Infatti, chiamo programma di sviluppo proprio questo sistema dinamico. La maniera in cui ne cambia il circuito è la chiave del carattere del prodotto finale e sviluppato. Ma sostengo, come sempre più gente sta facendo, che la comprensione della sua dinamica va cercata sia nelle interazioni tra le sue molte componenti sia nella struttura o nel comportamento delle componenti in sé. In sintesi, penso che la rivoluzione di cui parla Coen non sia finita. Se ne può misurare il percorso compiuto fin qui riprendendo la domanda posta da Bonner nel 1965. Se si provasse a chiedere «in che cosa consiste il programma e dove vive?» si sentirebbe un numero crescente di ricercatori dire che il programma consiste e vive nel complesso interattivo fatto di strutture genomiche e nell'ampia rete di macchinario celluiare in cui queste strutture sono integrate. Potrebbe addirittura trattarsi di un programma irriducibile, nel senso cioè che per farne il lavoro serve qualcosa di altrettanto complesso dell'intero organismo. | << | < | > | >> |Pagina 108Fatto sta che parlare o scrivere di processi genetici è diventato quasi impossibile senza ricadere nei vecchi stereotipi. Le parole gene e genetico sono esse stesse intrise di significati precedenti e, come dice William Gelbart, sono cariche di «zavorra storica». E malgrado le crescenti difficoltà incontrate dai biologi nel fornire una definizione stabile e largamente accettata di gene, suggerire che lo abbandonino del tutto verrebbe considerato infattibile e irrealistico. Come notavo nell'Introduzione la «parolina comoda» di Johannsen è ormai trincerata nel nostro lessico e finché non sarà disponibile un lessico migliore e non soltanto una nuova parola, i biologi non smetteranno né potranno smettere di parlare di geni.La zavorra trasportata dai geni - e qui l'analogia tra geni e dinosauri frana precipitosamente - ha una ricchezza e un fascino difficilmente ripetibili, ma il motivo forse più impellente per continuare a parlare di geni in biologia (almeno nel prossimo futuro) è che la parola continua a fare un lavoro utile dal quale dipendono ormai troppe cose. Ho sostenuto fin qui che le nuove conoscenze sulla complessa dinamica dello sviluppo hanno minato gravemente l'adeguatezza concettuale dei geni quali cause dello sviluppo; inoltre nuovi sviluppi in biologia molecolare ci forniscono una nuova misura del divario tra informazione genetica e significato biologico. Dalla prospettiva di un organismo che si sviluppa, quindi, diventa sempre più difficile rispondere alla domanda: «A che cosa servono i geni?» Eppure parlare di geni continua ad avere una sua utilità. Forse converrebbe riformulare la domanda in questo modo: «A che cosa serve parlare di geni?» Spostare l'attenzione su «a che cosa serve parlare di geni?» richiede una prospettiva molto allargata, e costringe a tenere conto non soltanto del contesto dell'organismo biologico, ma anche di quello ben più ampio di cultura biologica, nei suoi aspetti sociali e materiali. Prima di spiegare quello che intendo dire con questo, devo inserire tuttavia una nota di prudenza, resa necessaria dall'equivoco diffuso sul rapporto tra le parole e le cose. Da noi i bambini ripetono spesso la cantilena: «Bastoni e pietre possono rompermi le ossa, ma le parole non possono farmi del male». Sappiamo invece che le parole possono ferire, e non soltanto i sentimenti. Possono anche aiutarci in molti più modi di quelli che riusciamo immaginare. Le parole ci danno un potere, e mentre è quasi inutile dire che non sono entità dello stesso tipo degli oggetti e che non dobbiamo confonderle, dobbiamo ancora ricordarci l'errore altrettanto grave che consiste nel pensare che gli oggetti siano indipendenti dalle parole. Le parole hanno il potere di incidere nel mondo. Un potere indubbiamente reale, ma da dove deriva? Non dalla loro materialità fisica, ovviamente, nemmeno da quel legame mistico che una volta si credeva le unisse agli oggetti. Né da una corrispondenza diretta o letterale tra parola e oggetto. Il potere delle parole deriva piuttosto da un rapporto con gli oggetti che è sempre e necessariamente mediato da attori-locutori. | << | < | > | >> |Pagina 112[...] Come ha scritto il biologo molecolare Robert Weinberg, la ragione per cui lui e i suoi colleghi sono persuasi che i geni siano gli agenti causali dello sviluppo e che «gli agenti invisibili da loro studiati possono spiegare [...] la complessità della vita» è che manipolando tali agenti è ora «possibile cambiare a volontà elementi critici del piano biologico».C'è un problema nell'inferenza di Weinberg? Ancora una volta, si e no. Non c'è nessun problema se causa viene inteso nel senso immediato e concreto del termine, senza implicare altro che un modo per ottenere un effetto. Ma causa in questo senso vistosamente pragmatico non può dirci nulla sulle conseguenze generali o a lungo termine. Un'inferenza come quella di Weinberg si limita alla specificità di determinati interventi sperimentali e, dato il grande numero di variabili coinvolte, potrebbe perfino essere compatibile con contro-esempi. Molto tempo fa, il filosofo R.C. Collingwood descriveva questo punto di vista come la caratteristica che definiva le cosiddette «scienze pratiche». Secondo Collingwood, un ricercatore in «scienze pratiche» non cerca di arrivare all'enumerazione completa delle cause: «Perché dovrebbe? Se scopro di poter ottenere un risultato con certi mezzi, so per certo che non potrei ottenerlo se non fossero soddisfatte numerosissime condizioni, ma finché lo ottengo le condizioni non m'interessano. E se un cambiamento in una delle condizioni m'impedisce di ottenerlo, non m'interessa conoscerle tutte: voglio soltanto conoscere quella che è cambiata». | << | < | > | >> |Pagina 116Da quale parte mi schiero dovrebbe essere ormai chiaro; i geni hanno avuto nel secolo scorso un'avanzata trionfale e hanno ispirato progressi impareggiabili e strabilianti nella conoscenza dei sistemi viventi. Ci hanno portati sull'orlo di una nuova era della biologia, che promette progressi ancora più strabilianti. Ma questi progressi stessi avranno bisogno dell'introduzione di altri concetti, altri termini e altri modi di pensare l'organizzazione biologica, e inevitabilmente allenteranno la presa pluridecennale dei geni sull'immaginario dei biologi. Spero che tali nuovi concetti e modi di pensare operino presto per allentare la presa ancora più potente che i geni hanno avuto di recente sull'immaginario collettivo. Se, come sembra suggerire Gelbart, il termine gene è davvero diventato d'intralcio per la conoscenza della biologia, lo è diventato forse ancora di più per la comprensione del lettore comune, fuorviandolo più spesso di quanto lo informi. Di conseguenza, le speranze e le ansie popolari sono spesso rivolte al bersaglio sbagliato, e diventano controproducenti per una discussione efficace sui provvedimenti pubblici anche quando sono in ballo questioni reali e urgenti. Nei momenti di massimo ottimismo posso perfino immaginare la possibilità che nuovi concetti aprano un campo produttivo in cui scienziati e non addetti ai lavori possano pensare e agire di concerto per sviluppare misure che siano al contempo politicamente e scientificamente realistiche. |
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