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| << | < | > | >> |Pagina 17Da tempo, i genetisti credono (e negli ultimi anni la credenza si sta diffondendo sempre più anche nell'opinione pubblica) che i geni siano gli agenti primi della vita: che siano le unità fondamentali dell'analisi biologica; che causino lo sviluppo di tratti biologici; e che il fine ultimo della scienza biologia sia di capire come essi agiscano. Tale fiducia nel potere e nell'opera dei geni - codificata in ciò che chiamo «il discorso sull'azione del gene» - ha avuto un'importanza immensa per la storia della genetica e, più di recente, per varare il Progetto Genoma Umano. Ma cosa significa attribuire (oppure negare) potere causale ai geni? Fino a che punto questo modo di dire riflette un insieme di «fatti di natura» e fino a che punto invece riflette i fatti di cultura di una particolare disciplina? Ed è soltanto un modo di dire? O non è anche un modo di pensare, di vedere e di fare scienza? Sono alcune delle domande che voglio prendere in considerazione nel contesto storico di due dei principali ambiti della scienza della vita: la genetica e l'embriologia. | << | < | > | >> |Pagina 22Come si sa, a metà degli anni Venti la Drosophila e il mais, una volta dominati e diventati gli organismi modello per rintracciare la trasmissione dei tratti ereditari, hanno dato alla genetica un rigore e una produttività alle quali le altre discipline difficilmente potevano aspirare. Ma la prima generazione dei genetisti - Morgan e la sua scuola - non hanno soltanto sviluppato le tecniche e la pratica della genetica facendone la rivale dell'embriologia: hanno anche inventato un modo di parlare dei geni, del loro ruolo e del loro significato nella riproduzione, nella crescita e nello sviluppo. Quando Muller identificava nel gene la base della vita, rivendicava per esso una priorità al contempo ontologica e temporale. Prima viene il gene, poi il resto del protoplasma (il citoplasma), che appare come un sottoprodotto, la cui unica funzione è di fornire un'ambiente favorevole, di sostentare il gene. Prima viene il gene, poi la vita. O meglio, con il gene arriva la vita. Il concetto di gene qui invocato è bifronte come Giano: in parte atomo del fisico e in parte anima platonica, al contempo mattone fondamentale e forza animatrice. Soltanto l' azione dei geni può innescare la complessa molteplicità di processi che compongono l'organismo vivente. | << | < | > | >> |Pagina 30(...) Beadle e Tatum davano una risposta particolare alla domanda: secondo loro il gene catalizzava una reazione chimica specifica. In termini più colloquiali, fabbricava un enzima. Il misterioso concetto di azione del gene sembrava avere finalmente un contenuto reale. Con l'ipotesi «un gene, un enzima», la genetica dello sviluppo poteva ormai venir intesa come la biochimica dell'azione del gene. La doppia scelta della Neurospora e della biochimica dell'azione del gene ha avuto un'importanza decisiva per l'avvenire della genetica. Quel cambiamento ha favorito in maniera cruciale lo sviluppo della genetica dei batteri e, successivamente, della biologia molecolare. Il resto della storia è noto. Nel 1953, con l'identificazione definitiva del DNA quale materiale genetico, J.D. Watson e Francis Crick hanno scoperto l'Eldorado. Il segreto della riproduzione dei geni era racchiuso in un semplice legame d'idrogeno, e le sequenze di acido nucleico hanno rivelato come essi producessero gli enzimi. Con lodevole discrezione, Watson e Crick hanno scritto che «in una molecola lunga, sono possibili molte permutazioni diverse e sembra quindi probabile che la sequenza precisa delle basi sia il codice che trasporta l'informazione genetica» (1953, p. 967). Bastava conoscere il codice, che non si sarebbe fatto aspettare a lungo.I genetisti e i biologi molecolari erano euforici: eccola, la risposta! Il DNA trasporta l'«informazione genetica» (o il programma) e i geni «producono i propri effetti» fornendo le «istruzioni» per la sintesi delle proteine. Il DNA fabbrica l'RNA, l'RNA fabbrica le proteine e le proteine fabbricano noi. Era senza dubbio una delle massime pietre miliari nella storia della scienza. Ma, si sarebbe potuto chiedere (anche se all'epoca lo fecero in pochi), che razza di risposta è? Che cosa significano nei fatti informazione, programma, istruzioni, e - già che ci siamo - il verbo fabbricare? Watson e Crick hanno ricevuto molti plausi, e meritati, per il loro lavoro ma temo che sia stato trascurato un loro contributo: l'introduzione della metafora dell'informazione nel repertorio del discorso biologico è stata un vero colpo di genio. La storia di questa metafora, i suoi usi e le sue implicazioni, è favolosamente ricca ed è stata esplorata a fondo da altri (vedi in particolare Doyle 1993 e Kay 1995), ciononostante alcuni brevi cenni potrebbero servire. Pochi anni prima, il matematico Claude Shannon aveva proposto una misura quantitativa precisa della complessità dei codici lineari. Aveva chiamato questa misura informazione - il termine era volutamente indipendente dal significato o dalla funzione - e all'inizio deglòi anni Cinquanta, nel mondo dei sistemi di comunicazione, la «teoria dell'informazione» era diventata un tema incandescente. Pareva racchiudere enortni promesse per analizzare ogni genere di sistemi complessi, perfino i sistemi biologici. Siccome il DNA funzionava, all'apparenza, come un codice lineare, sembrava naturale usare il concetto di informazione in genetica. Ma sin dal 1952 i genetisti avevano ammesso che la definizione tecnica di informazione non poteva affatto applicarsi all'informazione biologica (avrebbe infatti assegnato al DNA di un organismo funzionante e alla forma mutante, per quanto invalidante potesse essere quest'ultima, la stessa quantità di informazione). Perciò il concetto di informazione genetica invocato da Watson e Crick non era da prendersi alla lettera: era un concetto metaforico. Era comunque potentissimo. Sebbene non permettesse alcuna misura quantitativa, autorizzava l'aspettativa - anticipata nel concetto di azione del gene - che l'informazione biologica non aumentasse nel corso dello sviluppo: era già interamente contenuta nel genoma. Questa mossa e più ancora l'amalgama tra informazione, programma e istruzione hanno ampiamente rafforzato il concetto di azione del gene. Così come aveva anticipato Erwin Schrödinger nel libro Che cos'è la vita?, «le strutture cromosomiche sono, contemporaneamente, ... codice di leggi e potere esecutivo o, per usare un'altra metafora, sono il progetto dell'architetto e insieme abili costruttori» (1944, p. 23 - 45). | << | < | > | >> |Pagina 34(...) Il discorso sull'azione del gene ha funzionato proprio così. E sarebbe da stupidi fingere che non abbia funzionato bene. La storia della biologia del XX secolo è quella di uno straordinario successo: la genetica, prima classica e quindi molecolare, ha prodotto alcuni dei più grandi trionfi della scienza contemporanea. Questo modo di parlare si è dimostrato addirittura tanto potente che ora, dopo tanti anni, sembra finalmente sul punto di mantenere la promessa fatta da Morgan e dalla sua scuola nei primi decenni del secolo, e non soltanto nella retorica scientifica ma anche nella pratica concreta. Negli ultimi anni, la biologia molecolare ha fatto progressi straordinari nel chiarire proprio il modo in cui (come dicono) i geni controllano lo sviluppo. Ma è successa una cosa strana, sulla via del Santo Graal. Quello straordinario progresso è diventato sempre meno descrivibile dal discorso che lo ha favorito. La localizzazione dogmatica sull'azione del gene ha prodotto uno strepitoso armamentario di nuove tecniche per analizzare il comportamento di segmenti distinti di gene, e l'informazione prodotta da queste tecniche sta ora sovvertendo radicalmente la dottrina del gene quale agente unico (o anche primario). E' diventato evidente, addirittura imbarazzante, che ci sono stati da sempre seri problemi nel discorso dell'azione del gene, oltre al fatto che esso rendeva ciechi alle questioni dello sviluppo e della differenziazione cellulare. Come ci ricorda Richard Lewontin, Il DNA è una molecola morta, chimicamente inerte, una delle molecole meno reattive del mondo vivente... Non ha alcun potere di riprodursi. Viene piuttosto fabbricato da materiali elementari mediante un complesso macchinario cellulare di proteine. Mentre si dice spesso che il DNA fabbrica le proteine, in realtà sono le proteine (gli enzimi) a fabbricare il DNA. Il DNA di nuova produzione è certamente una copia di quello vecchio... Anche il processo per fare la copia di una fotografia implica la produzione di un negativo complementare che viene poi stampato, ma con questo non diciamo che uno stabilimento della Eastman Kodak è un impianto di autoriproduzione. (1992, p. 33 - 8) | << | < | > | >> |Pagina 48Negli anni Trenta l'embriologo svizzero Oscar Schotte amava illustrare i rapporti tra embriologia e genetica con un disegno di due visioni della cellula: in quella dell'embriologo il nucleo è piccolo, mentre in quella del genetista esso riempie per così dire l'intera cellula (Sander 1986). Il disegno usa il nucleo e il citoplasma come tropi per le due discipline, ognuna attribuisce al proprio oggetto di studio una dimensione proporzionale al rango che gli si dà. Allo stesso modo entrambe le discipline hanno dotato ciascun oggetto, il nucleo e il citoplasma, dei propri attributi di operatività, autonomia e potere. Per dirla con L.C. Dunn, «la biologia ha dovuto sgomitare un po' per farsi riconoscere» (1959, p. 319). Tuttavia il nucleo e il citoplasma sono anche giunti a rappresentare dei tropi per l'importanza, l'operatività e la potenza nazionali. Il nucleo era il campo in cui la genetica americana giocava le proprie carte vincenti, era associato agli interessi (e alla bravura) degli americani mentre il citoplasma era associato agli interessi (e alla bravura) degli europei, dei tedeschi in particolare. I biologi tedeschi denunciavano esplicitamente quello che consideravano un tentativo, da parte dei genetisti americani, di appropriarsi dell'intero campo. | << | < | > | >> |Pagina 50Per finire, esiste un altro riferimento metaforico del nucleo e del citoplasma, sicuramente il più cospicuo di tutti, e si trova nella riproduzione sessuale. Per tradizione nonché per esperienza biologica, perlomeno fino alla seconda guerra mondiale, il nucleo e il citoplasma erano anche dei tropi per maschio e femmina.Fino all'emergere della genetica dei batteri, a metà degli anni Quaranta, tutta la ricerca biologica ed embriologica, sia in Europa sia negli Stati Uniti, era concentrata sugli organismi che passano attraverso stadi embrionali dello sviluppo; in essi è evidente un'asimmetria persistente tra i contributi maschile e femminile alla fecondazione. Il gamete femminile, l'uovo, è molto più grosso di quello maschile, lo spermatozoo. La differenza sta nel citoplasma, proveniente dalla genitrice (la terra di nessuno, infatti, ma non di nessuna); al contrario la cellula spermatozoica è quasi tutta nucleo. Perciò non è molto sorprendente scoprire che nel discorso convenzionale su nucleo e citoplasma, il citoplasma era usato correntemente come sinonimo di uovo. Inoltre, con uno strappo alla logica fin troppo familiare, il nucleo era spesso usato come equivalente di spermatozoo. Theodor Boveri sostenne che occorreva attribuire almeno qualche funzione al citoplasma, in ragione dell'«assurdità dell'idea secondo la quale sarebbe possibile ottenere uno sviluppo dello spermatozoo per mezzo di una coltura artificiale» (pubblicato postumo nel 1918 e citato in Baltzer 1967, pp. 83-84; vedi anche Wilson [1896, p.262]). Perciò molti dibattiti sulla rispettiva importanza del nucleo e del citoplasma nell'eredità riflettevano inevitabilmente dibattiti anteriori sull'importanza (o sull'attività) rispettiva del contributo paterno e materno alla riproduzione, in cui la tendenza storica decisamente prevalente è stata di attribuire attività e forza motrice al contributo maschile, relegando quello femminile al ruolo di ambiente passivo e favorevole. In termini platonici l'uovo rappresentava il corpo e il nucleo l'anima attivatrice. | << | < | > | >> |Pagina 54Ma quello che è per me il punto principale dovrebbe esser chiaro: agendo in sincronia (come fanno sempre), la storia sociale, quella cognitiva e quella tecnica della biologia del XX secolo ci hanno di nuovo portato ad un frangente critico. E se il mio racconto ha una morale, è questa: nel caso ci venisse troppo presto da congratularci per questo nuovo illuminismo, dovremmo ricordare che le nostre predilezioni, per quanto fondate nelle nostre particolari realtà sociali e politiche, sono l'unica guida che abbiamo. Non ci sono pertanto garanzie che nuovi dottrinari non colgano l'occasione che oggi si presenta; anzi abbiamo ogni motivo per sospettare che lo faranno, o che addirittura lo abbiano già fatto. Se no, dopotutto, come potrebbe la scienza andare avanti?| << | < | > | >> |Pagina 55E se persino la mente esige un habitat materiale, allora ha in un atomo la sua dimora imperitura. A.E. Dolbear, Life from a Physical Standpoint E' molto sorprendente che gli scienziati di laboratorio continuino a mantenere il miraggio dell'individuo, del soggetto umano... che è veramente autonomo, e che ha da qualche parte in lui, nella ghiandola pineale o altrove, un manovratore, l'omino che è nell'uomo, che fa funzionare l'apparecchio... E' come Archimede, se gli si dà il suo piccolo punto fuori del mondo, lo può sollevare. Ma questo piccolo punto fuori del mondo non esiste. Jacques Lacan, Il seminario, Libro II, pp. 88-89 Fin dalla metà degli anni Venti, i geni venivano ritenuti degli attori autonomi dotati dell'autorità e della capacità di gestire lo sviluppo futuro dell'organismo, ma soltanto nei primi anni Quaranta l'idea di cromosomo inteso come «codice cifrato» avrebbe dato a questa concezione un'ulteriore svolta. Il merito di averla introdotta in biologia spetta a Erwin Schrödinger, il fisico che è stato spesso chiamato il padre della meccanica quantistica. Schrödinger però non era soltanto un fisico; nel profondo del suo cuore era anche un filosofo. E per tutta la vita era rimasto affascinato dalla natura dell'eredità, secondo lui una trasmissione dal passato al futuro che ignora la mortalità individuale, una memoria genealogica immune dalle offese del tempo. Per un fisico, le offese del tempo erano enunciate con chiarezza inconfondibde nella seconda legge della termodinamica, una legge che Sir Arthur Stanley Eddington riteneva la più alta fra tutte le leggi di natura. Nelle sue stesse parole, La legge per cui l'entropia aumenta sempre - la seconda legge della termodinamica - detiene, credo, la posizione suprema fra le leggi della Natura. Se qualcuno dice che la vostra teoria favorita dell'universo non rispetta le equazioni di [James Clerk] Maxwell, pazienza per le equazioni di Maxell. Se si scopre che è contraddetta dall'osservazione, be' ogni tanto gli scienziati sperimentali fanno pasticci. Ma se si scopre che la vostra teoria va contro la seconda legge della termodinamica, non posso lasciarvi alcuna speranza; non le resta che inabissarsi nell'umiliazione più profonda. Dati gli interessi di Schrödinqer, il problema era ovvio e, dato il prestigio della seconda legge, esso era anche serio: come dar conto della straordinaria stabilità della memoria genetica in un mondo in cui tutto il resto non è che acqua portata all'implacabile mulino della dissipazione? Come riconciliare questa legge suprema di natura con il fatto, altrettanto incontrovertibde, della vita? Nel 1943, dall'esilio di Dublino, Schrödinger affrontò il problema in una serie di conferenze dal titolo piuttosto magniloquente Che cos'è la vita?, proprio il genere di domanda metafisica alla quale gli scienziati, almeno quelli anglofoni, avevano sempre guardato con sospetto. Ma Schrödinger aveva una risposta. Traendo lo spunto da un modello atomico del gene proposto poco tempo prima da N.W. Timofeev-Resovskij, K.C. Zimmer e Max Delbrück (1935), e riprendendo un ragionamento abbozzato un decennio prima a Berlino, Schrödinger ipotizzò che la soluzione dell'apparente paradosso - lo strano potere dei sistemi viventi di sfuggire alla seconda legge, grazie al quale diventano e si mantengono «vivi» nel corso della propria vita individuale e, fatto ancor più importante, viene loro conferita l'immortalità attraverso i meccanismi della memoria genetica - risiedesse nella particolare struttura dei loro cromosomi: Sono questi cromosomi... a contenere in una specie di codice cifrato l'intero disegno del futuro sviluppo dell'individuo e del suo funzionamento nello stadio della maturità. Ogni serie completa di cromosomi contiene l'intero testo del codice... Paragonando la struttura delle fibre cromosomiche al testo di un codice, si vuol significare che la mente universale di cui parla Laplace... potrebbe dire dalla loro struttura se l'uovo si svilupperà, in opportune condizioni, in un gallo nero o in una gallina maculata... L'espressione «testo in codice» ha però, ovviamente, un significato troppo ristretto. Le strutture cromosomiche sono, contemporaneamente, degli strumenti per portar avanti lo sviluppo che esse simboleggiano. Esse sono codice di leggi e potere esecutivo, o, per usare un'altra metafora, sono il progetto dell'architetto e insieme abili costruttori. (1944, pp. 22-23 - 44-45) Nel presente saggio, sostengo che la nozione di codice cifrato inserita da Schrödinger nei cromosomi immette nella biologia del XX secolo «l'omino nell'uomo» di Jacques Lacan, e recupera al discorso contemporaneo il punto archimedeo di cui sembriamo incapaci di fare a meno. | << | < | > | >> |Pagina 62Ma la mera indivisibilità delle molecole, per quanto promettente possa essere per la sopravvivenza cosmica, offre scarso conforto per la vita individuale. In questo caso la forza dell'entropia va contrastata senza mezzi termini. In una lettera scritta a P.G. Tait nel 1867, Maxwell offriva un barlume di soluzione, inventando un essere puramente immaginario che poteva ribaltare la tendenza naturale alla dissipazione: «Provate a concepire un essere, finito che conosca i percorsi e le velocità di tutte le molecole da una semplice ispezione, ma che non possa agire se non aprendo e chiudendo un foro nel diaframma [fra i due recipienti] grazie a una lastra priva di massa». Se quell'essere finito, consentisse soltanto alle molecole veloci di passare dal recipiente più freddo a quello più caldo, bloccando le molecole più lente, ne risulterebbe che «il sistema caldo è diventato più caldo e quello freddo più freddo ancora eppure non c'è stato alcun lavoro, è stata usata soltanto l'intelligenza di un essere dotato di spirito di osservazione e dalle dita agili» (ripubblicato in Knott 1911, pp. 213-214). Con questa concezione fantasmatica entra in scena uno dei personaggi piu straordinari della fisica (e forse soprattutto del rapporto tra fisica e biologia), un essere «dotato di spirito di osservazione e dalle dita agili» che Thomson avrebbe presto ribattezzato il demone.Il demone di Maxwell aveva dei precursori, ben inteso; il più vistoso fra questi era la Mente Universale di Laplace ma non va trascurata la creatura, meno famosa, che lo stesso Darwin aveva così presentato nel «Saggio del 1844»: Proviamo ora a supporre una creatura dotata di tale perspicacia da avvertire differenze nell'organizzazione esterna ed in quella più interna del tutto impercettibili all'uomo, e di una preveggenza estesa ai secoli futuri, per cui possa osservare con precisione infallibile e selezionare per un qualche suo intento la discendenza di un organismo prodottasi nelle predette circostanze; non vedo alcun motivo perché non dovrebbe formare una nuova razza... adatta a nuovi fini. (citato in Schweber 1982, p.322) Tuttavia sia la creatura di Darwin che la Mente Universale di Pierre-Simon Laplace erano figure transfinite, palesi surrogati di Dio. E' vero però che la creatura di Darwin somiglia per un certo verso al demone di Maxwell: anch'essa è adibita alla selezione. Ma il punto cruciale è che la sua percezione richiede una perspicacia esterna: seleziona dall'alto; la creatura, per dirla in breve, è una personificazione della natura scritta a caratteri cubitali, o addirittura infiniti. In contrasto, ciò che contraddistingue l'essere di Maxwell (e ne fa un demone) è appunto il fatto di stare all'interno del gas, allo stesso livello delle molecole che deve selezionare, è la sua «finitudine mondana», la sua stessa minutezza. | << | < | > | >> |Pagina 75Ma Schrödinger non se n'era dimenticato. Con le sue credenziali ineccepibili - nessuno avrebbe mai preso il padre della meccanica quantistica per un vitalista - affrontò di petto la questione della Vita e della seconda legge. Non accennò nemmeno al demone di Maxwell ma si limitò a chiedere: «Come possono la fisica e la chimica rendere ragione degli eventi spazio-temporali che si verificano entro i limiti spaziali di un organismo vivente?» (1944, p. 3 - 18). Ovvero che cos'è la vita nel linguaggio della fisica e della chimica? «Qual è l'aspetto caratteristico della vita? Quando è che noi diciamo che un pezzo di materia è vivente?» La sua risposta è semplice e punta direttamente al problema della seconda legge: Quando esso va «facendo qualcosa», si muove, scambia materiali con l'ambiente e così via, e [andando avanti] per un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. Quando un sistema che non è vivente è isolato o posto in un ambiente uniforme, tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente, in conseguenza delle varie specie di attrito... Con ciò, l'intero sistema si trasforma in un morto, inerte blocco di materia... Il fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o lo stato di «entropia massima». (p. 74 - 121) Per Schrödinger quindi, la domanda chiave è «Come fa un organismo vivente a evitare questo decadimento? E la risposta ovvia è: mangiando, bevendo, respirando e (nel caso delle piante) assimilando» (p. 75 - 122). Ma a mantenere in vita l'organismo non basta ovviamente la pura assunzione di materiali né di calorie; «Che lo scambio di materiale debba essere la cosa essenziale è assurdo». (p. 76 - 122) Si tratta piuttosto di un «prezioso elemento contenuto nel nostro cibo che ci preserva dalla morte» (p. 76 - 123). Un organismo vivente «può tenersi lontano da tale stato [lo stato pericoloso di massima entropia], cioè in vita, solo traendo dal suo ambiente continuamente entropia negativa... Ciò di cui si nutre un organismo è l'entropia negativa» (p. 76 - 123). E Schrödinger si domanda quindi «Come possiamo esprimere in termini di teoria statistica la meravigliosa facoltà di un organismo vivente, mediante la quale esso ritarda il raggiungimento dell'equilibrio termodinamico (morte)?» (p. 78 - 126). Il padre della meccanica quantistica ha trovato la risposta: «Il meccanismo per cui un organismo si mantiene... consiste realmente nell'assorbire continuamente ordine dall'ambiente» (p. 79 - 127). | << | < | > | >> |Pagina 87| << | < | > | >> |Pagina 88La biologia molecolare ha iniziato con una strategia semplice, mutuata da una lunga tradizione di successi in fisica: ha cercato di ridurre il proprio mondo, di trovare l'essenza della vita in organismi talmente rudimentali e semplici da essere immuni dal caos mistificatorio e recalcitrante degli organismi superiori complessi. La strategia, come sappiamo, ha portato i biologi molecolari a studiare la vita nelle provette e nelle scatole di Petri, popolate da colture batteriche di E. coli e dei loro parassiti virali detti batteriofagi, forme di vita che sembravano abbastanza semplici da conservare una linearità dei codici e dei messaggi di tipo telegrafico. Intanto, fuori dai loro laboratori, la vita - nei suoi scambi politici, economici e militari - si faceva ogni giorno vieppiù caotica e complessa. Infatti già si andava sviluppando il calcolatore, e più in generale l'analisi dei sistemi, per tentare di dipanare tanta complessità. Il computer - nel senso che diamo ora al termine - ha visto la luce durante gli anni della guerra perché le persone (soprattutto donne) tradizionalmente incaricate dell'elaborazione e del computo dei dati (da quel computo ha origine la parola computer) non ce la facevano più a trattare le gigantesche quantità di dati necessari per coordinare le operazioni militari. Analogamente, mentre i loro cavi telefonici irretivano il globo, i Bell Laboratorics avevano bisogno di mezzi che ottimizzassero l'efficienza e l'affidabilità delle trasmissioni, e ne sono derivate la quantificazione dell'informazione e la nascita della teoria dell'informazione, in cui l' informazione viene definita come l'inverso matematico dell'entropia. Jacques Lacan lo ha detto bene:Per la Bell Telephone Company si trattava di far economia, cioè di far passare il maggior numero possibile di comunicazioni attraverso un solo filo. In un paese vasto come gli Stati Uniti, è molto importante economizzare qualche filo e far passare le stupidaggini che generalmente si veicolano attraverso questa specie di trasmissione con il minor numero di fili possibili. E' a partire da qui che si è cominciato a quantificare la comunicazione... Non si trattava affatto sapere se ciò che la gente si racconta ha un senso... Si tratta di sapere quali sono le condizioni più economiche che permettano di trasmettere termini che la gente riconosca. Del senso, nessuno si occupa... Si è cominciato allora a codificare la quantità di informazione. Questo non significa che capitino cose fondamentali fra gli esseri umani. Si tratta di ciò che corre nel filo, e di ciò che si può misurare... E' la prima volta che compare a titolo di concetto fondamentale la confusione come tale, quella tendenza della comunicazione a cessare di essere comunicazione, cioè a non comunicare proprio più niente. Ecco aggiunto un simbolo nuovo. (1988, pp. 82-83 - 107-108) | << | < | > | >> |Pagina 112Ma per pensare, Schrödinger aveva a disposizione soltanto orologi e telegrafi, oltre alla meccanica quantistica del Signore. Negli anni Settanta, i fisici, i biologi, gli ingegneri (e tutti noi) avevamo una nuova macchina, basata non sulla trasmissione unidirezionale dei messaggi dal mittente al destinatario, ma sulle reti e sul sistemi o, per dirla con Wiener, avevamo un trasduttore di entrate multiple in uscite multiple. C'è da stupirsi, quindi, se nel processo a circuito chiuso che modella l'organismo e la macchina l'uno sull'altra e viceversa, non soltanto organismi e macchine si somigliano sempre di più ma nel frattempo il significato dei due termini subisce radicali cambiamenti?Mentre la vita andava avanti - con il suo flusso inevitabilmente circolare di informazione e ben presto anche di persone - la polarità (o il contrappunto) tra cyberscienza e biologia molecolare, cosi acuta nei primi anni, diventava sempre più impalpabile. Era rimasta una tensione vitale ma ormai era interna alle stesse discipline e non soltanto tra l'una e l'altra. Se Jacob oscillava fra una visione del DNA quale fonte di ogni informazione e direzione e una dell'organismo quale rete di circuiti regolatori, Wiener non era da meno. La sua ambivalenza (o oscillazione era già evidente in God, Golem, Inc. Ripudiava esplicitamente la concezione della macchina come Primo Motore, però il punto di partenza del suo ragionamento era comunque l'intramontabile lezione della genetica molecolare, e cioè che «la molecola di un gene... può causare che il mezzo si disponga a formare altre molecole» (p. 28). Partito dal gene come causa, passava ben presto alle macchine come organismi, agli automi autoriproducenti e finalmente alla macchina come messaggio. L'organismo stesso si può «vedere come un messaggio», scriveva Jacob citando Wiener (Jacob 1974, p. 252). | << | < | > | >> |Pagina 118Il raggio del teletrasporto appartiene alla fantascienza (ed è entrato a far parte della cultura popolare con la prima generazione dei telefilm «Star Trek»). Ma, come sappiamo, la maggior parte della fantascienza trae origine dalla letteratura scientifica e infatti l'idea era stata avanzata da Norbert Wiener già dal 1964. Nel sostenere l'interscambiabilità tra gli organismi e quel tipo particolare di macchine dette trasduttori diventate multiple in uscite multiple, Wiener non ha soltanto cancellato la distinzione tra i corpi e le macchine; ha anche puntato alla fusione tra le macchine e i messaggi che era stata endemica, nel discorso sui computer, sin dall'origine. La fine degli anni Ottanta ha aggiunto almeno quattro nuove dimensioni alla visione di spedire degli esseri umani sui fili del telegrafo, tutte comparse all'incirca nello stesso momento. Le più familiari sono la realtà virtuale e la vita artificiale (vedi Doyle 1993), e ci aggiungerei due nuove tecniche provenienti dalla biologia molecolare: il sequenziamento dei nucleotidi e la reazione a catena della polimerasi (PCR).Come sempre, «Star Trek» non è molto distante, né nel passato né nel futuro: in una puntata recente, piuttosto riuscita, un prototipo del Professor Moriarty di sherlockiana memoria viene ricreato sull'oloponte dell'astronave «Enterprise» e acquisisce coscienza. E con l'acquisizione della coscienza, esige un'esistenza in proprio, o meglio: la asserisce. Incurante delle obiezioni dei suoi creatori circa la differenza tra esistenza simulata e esistenza reale, balza fuori dal cyberspazio al grido di «Cogito ergo sum!» (naturalmente). Ma il sé dietro il cogito di Moriarty non è affatto il suo, non più di quanto si possa ormai dire che il sé dietro il cogito di Cartesio sia stato il suo. Anche quello è un simulacro, un messaggio giunto da qualche luogo; da dove o da chi non è più questo il punto. Forse non ce n'importa nemmeno più. In ultima analisi, possiamo davvero capire se Moriarty abbia preso vita in uno spazio virtuale oppure in uno spazio tridimensionale (cioè reale, come ancora lo chiamiamo)? E la differenza importa ancora? O non dovremmo invece chiederci per chi, e per che cosa, ha smesso di importare? Di sicuro, importa sempre meno nelle scienze della vita. Grazie in gran parte al riemergere della biologia dello sviluppo, si può anche dire che la biologia molecolare ha «scoperto l'organismo», ma il soggetto della nuova biologia, per quanto globale e incarnato, non è che un lontano parente dell'organismo che aveva occupato una precedente generazione di embriologi. Come conseguenza delle trasformazioni tecnologiche e concettuali di cui siamo stati testimoni negli ultimi tre decenni, il corpo stesso si è irrevocabilmente trasfonnato e, forse, soprattutto nel discorso biologico. L'organismo biologico di oggi somiglia poco al tradizionale garante materno dell'integrità vitale, fonte di nutrimento e di sostentamento; non sono più neppure i substrati materiali passivi della genetica classica. E corpo della biologia moderna, come la molecola del DNA - e anche come l'azienda o il corpo politico moderno - è diventato una semplice aggiunta alla rete d'informazione, ora macchina, ora messaggio, sempre pronti a scambiarsi l'uno con l'altra. Come aveva osservato giustamente Lacan: «E' molto buffo che si dica,... l'uomo ha un corpo» (1988, p. 72-94). Ma aveva anche osservato che quella locuzione era in giro da parecchio tempo, probabilmente sin dal saggio di Cartesio Sull'uomo, del 1664. «Sfogliatelo», suggerisce Lacan, «e controllate che cosa Cartesio cerca nell'uomo: l'orologio» (p. 74-96).
Quanta ne abbiamo fatta di strada dall'epoca del
meccanismo a orologeria, e anche dall'Ottocento e dai
grandiosi sviluppi del motore elettrico o del motore a
vapore, e del telegrafo. L'elettricità ha lasciato il posto
all'elettronica e la materia e l'energia all'informazione.
Alla fine del Novecento è il computer a dominare la nostra
immaginazione e ci ha liberati da quella strana locuzione
«l'uomo ha un corpo». Al suo posto abbiamo un gruppo di
locuzioni ancora più strane. Oggi potrebbe essere corretto
dire che il corpo - nel senso che la parola ha ora acquisito
- ha un uomo. E quel corpo potrebbe racchiudere l'uomo in
una morsa ben più stretta di quanto abbia mai fatto un corpo
materno.
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