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| << | < | > | >> |Indice7 Premessa 9 Gli autori Stalinismo e nazismo 13 Ian Kershaw e Moshe Lewin, Introduzione. Regimi e dittatori: prospettive di comparazione 45 Ronald Grigor Suny, Stalin e stalinismo: potere e autorità in Unione Sovietica, 1930-1953 79 Moshe Lewin, Burocrazia e stato stalinista 107 Hans Mommsen, Radicalizzazione cumulativa e progressiva autodistruzione come determinanti strutturali della dittatura nazista 123 Ian Kershaw, «Lavorare in funzione del Führer»: riflessioni sulla natura della dittatura di Hitler 147 Moshe Lewin, Stalin allo specchio 183 Michael Mann, Le contraddizioni della rivoluzione permanente 213 Omer Bartov, Dal Blitzkrieg alla guerra totale: i controversi legami tra immagine e realtà 247 Bernd Bonwetsch, Stalin, l'Armata rossa e la «grande guerra patriottica» 277 Jacques Sapir, L'economia di guerra in Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale 315 Mark von Hagen, Dalla «grande guerra patriottica» alla seconda guerra mondiale: nuove prospettive e scenari futuri 333 George Steinmetz, Eccezionalismo tedesco e origini del nazismo: fortune di un concetto 375 Mark von Hagen, Stalinismo e politica nella storia postsovietica 409 Mary Nolan, Lavoro, ruolo sessuale e vita quotidiana: riflessioni su continuità, normalità e rappresentanza nella Germania del XX secolo 451 Ian Kershaw e Moshe Lewin, Riflessioni successive 471 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 7PremessaQuesto libro nasce da un convegno (del quale Moshe Lewin è stato il principale organizzatore) che ha avuto luogo a Filadelfia nel settembre 1991, al quale hanno preso parte cinquanta studiosi di cinque paesi: Francia, Germania, Russia, Inghilterra e Stati Uniti. Intento del convegno era quello di indagare le similarità e le differenze dello sviluppo della Russia e della Germania nel corso del XX secolo. La guerra fredda non ha incoraggiato comparazioni al di fuori del concetto di totalitarismo e del postulato secondo il quale la comparazione presuppone, una similarità. Il convegno tuttavia, rifiutando tale imperativo, estese la sua analisi lungo tutto il secolo affrontando una serie di temi - alcuni formulati a grandi linee, altri messi a fuoco piú da vicino - che spaziavano nel tempo, dai sistemi monarchici precedenti alla prima guerra mondiale fìno al crollo del sistema sovietico. L'ampia gamma tematica e cronologica della comparazione, la struttura concettuale della ricerca e il fatto che essa abbia potuto concretizzarsi al di fuori delle rituali posizioni ideologiche del periodo della guerra fredda testimoniano che il convegno stava percorrendo nuove strade. I partecipanti hanno condiviso l'idea che la comparazione offre agli storici quanto di piú vicino a ciò che il laboratorio sperimentale rappresenta per le scienze naturali, ma anche che non esiste un unico e specifico metodo per intraprendere uno studio comparativo della storia. I metodi e gli approcci della storia comparativa devono rimanere eterogenei e pragmatici, cosi come avviene in qualsiasi altro tipo di indagine storica. | << | < | > | >> |Pagina 13Ian Kershaw e Moshe Lewin
Introduzione. Regimi e dittatori: prospettive di comparazione
I. La necessità di comparare Il punto di partenza della comparazione storica risiede invariabilmente in una impressione, una comprensione o una certezza che due (o piú) società abbiano sufficienti elementi in comune da sollecitare - o addirittura richiedere - di essere analizzate come parti di un unico insieme di questioni. A promuovere il ricorso al metodo comparativo, di solito, è un problema comune a entrambe le società o l'interazione storica tra di esse. Accanto alle ripetute esortazioni a mettere mano all'analisi comparativa, vi sono i molteplici avvertimenti relativi alle sue insidie. Una delle classiche obiezioni teoriche alla comparazione è rappresentata dall'assunto che la conoscenza storica deriva da eventi unici e non ripetibili - in contrasto con quei campi del sapere che si occupano di fenomeni capaci di ripetersi, nei confronti dei quali si possono proporre generalizzazioni e costruire schemi concettuali. Si tratta, comunque, di una falsa dicotomia. Queste categorie non si escludono reciprocamente. Ogni individuo, per esempio, ha una personalità unica. Ciononostante non presumiamo che tale unicità impedisca di comparare gli individui, facendo ricorso a concetti quali «umanità», o di generalizzare intorno alla «società» e ai «sistemi» o alle «strutture» che ne costituiscono la base. Le società, infatti, non sono meri agglomerati di individui. Questi ultimi non esisterebbero, e non sarebbero potuti esistere in passato, senza la creazione e la ricreazione di schemi riconoscibili che permettano quel minimo di prevedibilità senza la quale l'attività umana risulterebbe impossibile. Poiché questo è ciò che avviene, la «personalità» umana, sebbene unica, deve essere interpretata anche come un prodotto sociale. Una volta accettato questo punto, possiamo intraprendere la teorizzazione, e quindi possiamo e dobbiamo comparare. È evidente infatti che solo la comparazione permette una comprensione dell'unicità. L'affermazione di Nietzsche secondo il quale «solo le cose senza una storia sono definibili» potrebbe essere ribaltata: nelle vicende umane solo le entità provviste di una storia sono soggette a teorizzazione e perciò defìnibili. | << | < | > | >> |Pagina 19I dibattiti nazionali sul destino e l'identità dei rispettivi paesi costituiscono un'invito a svolgere una comparazione proprio tra quei dibattiti. In questi contesti, infatti, «affrontare il passato» significa mettere in discussione identità che hanno radici estese ben al di là dell'epoca segnata dalle due dittature. Si tratta di interrogativi dalle profonde implicazioni politiche e ideologiche, come appare chiaro dalle analisi svolte in questa sezione del libro. Ciò può forse essere dimostrato in modo piú eloquente attraverso un ulteriore esempio che trae origine da un argomento che non è stato affrontato nelle comparazioni proposte dai contributi che seguono: la negazione dell'Olocausto.La mostruosità della negazione dell'esistenza dell'Olocausto ha basi psicologiche che rievocano la perversità mentale degli stessi nazisti che lo perpetrarono. Un'affermazione che implicitamente sostiene che furono proprio gli ebrei a inventare le orribili storie dei campi di sterminio. Ancora una volta un modo di infamare le vittime e scagionare i persecutori. Se qualcuno ha pur creduto a tale negazione e con benevolenza può essere giudicato quanto meno un ingenuo, i principali promotori di questa tesi non possono invece che essere ben consapevoli di quanto i nazisti fecero agli ebrei e perfino averlo approvato. Ai nazisti li accomuna la medesima furia antisemita, esemplificata dalla facilità che dimostrano nel fare di tutto per infamare gli ebrei, nel tentativo di trasformare la loro tragedia in una invenzione da essi stessi creata. Una versione attenuata o «indiretta» della negazione dell'Olocausto si è ripetuta in Unione Sovietica, con la soppressione da parte del regime stalinista - e per qualche tempo dei successori di Stalin - delle informazioni relative allo sterminio degli ebrei in Ucraina. Anche se il regime sovietico non aveva preso direttamente parte all'uccisione degli ebrei ucraini, la strage aveva visto l'attiva partecipazione di numerosi collaborazionisti locali dei nazisti. Una strage che probabilmente aveva incontrato la tacita acquiescenza di ampi settori della società, e ottenuto sostegno e connivenza nel clima profondamente sciovinista e antisemita che permeava influenti circoli di partito sotto e dopo Stalin. La cospirazione del silenzio da parte degli organi ufficiali fu rotta solo dal coraggioso poema di Evtusenko Babij Jar, che narra del famoso massacro di 33.371 ebrei avvenuto il 29 e 30 settembre 1941. Il poema fu in seguito trasposto in musica da Sostakovic e rappresentato in pubblico. | << | < | > | >> |Pagina 20Nel caso sovietico, agli inizi della perestrojka, molti difensori dello stalinismo o negarono che fossero state commesse atrocità oppure aderirono alla versione, in quel periodo sostenuta dal regime, secondo la quale quanti erano stati arrestati e giustiziati sotto Stalin erano autentici traditori e nemici della patria che avevano meritato la loro punizione. Molte di queste affermazioni - che tra l'altro accusavano gli avversari di ignorare le straordinarie realizzazioni del regime stalinista e soprattutto la sua vittoria sul nazismo che aveva salvato l'umanità dalla schiavitù - si possono ancora trovare sulla stampa post-sovietica. Differentemente dal tentativo tedesco di assolvere il passato cancellando la figura di Hitler come un caso aberrante generato da una comprensibile reazione a un male ancora peggiore, il comunismo sovietico, gli apologeti della Russia cercarono di salvare il passato attraverso la riabilitazione di Stalin.Un ultimo esempio di distorsione del metodo comparativo per finalità politiche, nel continuo riesame del recente passato di entrambi i paesi, ci riporta all'Olocausto e a quello che si può definire il «bilancio delle atrocità» perpetrate da ciascun regime. A sottolineare la portata del terrore stalinista non sono solo nazionalisti e apologeti del nazismo tedeschi, ma anche nazionalisti russi fortemente anticomunisti, i primi per accreditare l'opinione secondo la quale Stalin fece piú vittime di Hitler (come se questo potesse giustificare parte degli orrori perpetrati dal nazismo), i secondi per connotare il genocidio stalinista di una caratteristica assimilabile, se non peggiore, a quella del nazismo, al fine di porre l'accento sul male incarnato dal comunismo. Non c'è alcun bisogno di minimizzare il terrore stalinista per sottolineare l'unicità dell'Olocausto - unico esempio nella storia, fino ad oggi, di una politica programmatica volta alla completa eliminazione fisica di tutti i componenti di un gruppo etnico. Nulla di equivalente è riscontrabile nello stalinismo. Malgrado le onde del terrore siano state veramente spaventose e il bilancio delle morti altissimo, non si giunse all'individuazione di un singolo gruppo etnico da condannare al totale annichilimento fisico. Una percentuale particolarmente alta delle vittime di Stalin proveniva, difatti, dall'apparato dello stato e del partito. Applicare il termine «Olocausto» al modello stalinista non è dunque appropriato. Il modo migliore per spiegare la patologia e la disumanità dello stalinismo è quello di prestare attenzione scientifica alle prove, evitando di abusare dei metodi della storia comparata attraverso il disinvolto - e spesso tutt'altro che innocente - trapianto fuorviante di termini pregni di profondo significato storico. | << | < | > | >> |Pagina 45Ronald Grigor Suny
Stalin e stalinismo: potere e autorità
in Unione Sovietica, 1930-1953
La domanda apparentemente semplice alla quale questo saggio è chiamato a rispondere è: come governò Stalin? In qual modo riuscí a conservare la propria autorità nel momento in cui andava instaurando un'autocrazia personale? La sua straordinaria e violenta impresa politica consistette nell'agire, in nome del partito comunista e del Comitato centrale, proprio contro quel partito e quel Comitato centrale e, contemporaneamente, nel restare il capo incontrastato del partito e dello stato oltre che un leader senza dubbio assai popolare. Al termine di questo processo, il controllo assoluto del potere gli consentí di cambiare le carte in tavola e invertire completamente la rotta della politica estera dell'Unione Sovietica e della linea del Comintern, alleandosi con la Germania nazista in un patto di non aggressione. Nessuna opposizione organizzata emerse dalla colossale e dispendiosa distruzione verso la quale condusse il proprio paese alla vigilia e nei primi giorni della seconda guerra mondiale, mentre l'apparato di controllo centralizzato che aveva creato non soltanto fu in grado di fronteggiare l'invasione nazista, ma anche di ottenere una vittoria che avrebbe preservato l'essenza del sistema da lui forgiato per altri cinquant'anni. La risposta piú semplice, e tuttavia insufficiente, alla domanda iniziale potrebbe essere che il potere di Stalin fu mantenuto attraverso l'esercizio del terrore e il controllo assoluto sui mezzi di comunicazione a tutti i livelli della società. Un'attenzione esclusiva al terrore e alla propaganda, sebbene siano elementi importanti, non basta però a spiegare in che modo Stalin riuscí a imporre la sua autorità all'interno del partito nel corso degli anni Venti e a mantenerla tra i suoi sostenitori ben prima dell'avvento del grande terrore. | << | < | > | >> |Pagina 55Stalin giunse al vertice senza aver ottenuto un largo consenso sulla legittimità e la necessità del suo potere personale. Usando gli strumenti del potere statale per mobilitare la popolazione in un programma di trasformazione sociale di vaste proporzioni, il regime dette per scontata l'avvenuta acquisizione di un mandato popolare sancito dalla storia e lavorò assiduamente per accrescerne la portata attraverso il sistema educativo e la propaganda, il culto della personalità, le campagne elettorali, i vasti dibattiti nazionali (per esempio, quello sulla Costituzione), le celebrazioni (come il centenario di Puskin nel 1937), i processi pubblici e le cerimonie politiche. Cosa ancora piú importante il partito/stato fece concrete concessioni alla popolazione ed esaudí le ambizioni e le aspirazioni di molti (certamente non di tutti) alla mobilità sociale e a migliori condizioni di vita. I contadini che divennero operai e gli operai che divennero dirigenti e capi del partito salirono nella scala sociale, mentre molti di coloro un tempo invidiati, i «migliori», sperimentarono una forzata mobilità verso il basso.Nella formulazione stalinista, la «rivoluzione dall'alto» degli anni Trenta, sebbene avviata dallo stato, fu sostenuta dal basso da milioni di contadini e operai che lottavano per creare una nuova società fondata sulle aziende agricole collettive e sull'industria socialista. L'industrializzazione intrapresa dallo stato negli anni Trenta mobilitò milioni di uomini e donne nel piú grandioso progetto di sviluppo dei tempi moderni, e l'epopea delle dighe e delle centrali elettriche, di nuove città sorte nel mezzo della steppa e in Siberia entusiasmò nuove schiere di lavoratori e dirigenti. Le enormi difficoltà che il progresso verso il «socialismo» comportava - la resistenza dei proprietari terrieri, la carestia, le strozzature e i fallimenti dell'economia - furono attribuite all'azione di nemici e sabotatori piuttosto che alle politiche del partito, o agli effetti dell'ostinata opposizione popolare e della massiccia coercizione. Anche se la distanza tra queste immagini di presunta armonia e determinazione e le privazioni e lo spaesamento provocati dalla realtà del lavoro aveva creato disagio tra molti di coloro che cercavano di governare quegli spazi immensi, l'ampiezza della trasformazione e il suo innalzamento a epopea umana generò quel vasto consenso sociale che il regime aveva cercato per due decenni. | << | < | > | >> |Pagina 107Hans Mommsen
Radicalizzazione cumulativa e progressiva
autodistruzione come determinanti strutturali
della dittatura nazista
Il regime nazionalsocialista è per molti aspetti un fenomeno peculiare che non trova rispondenza nelle teorie comparative dei sistemi di governo. Sono stati numerosi i tentativi di giungere a una descrizione coerente dello stato nazista, tra questi il modello dello stato di «Behemoth» di Franz Neumann, che rimanda a Thomas Hobbes, e la teoria del «doppio stato» di Ernst Fraenkel che opera una distinzione tra il settore normativo e quello arbitrario del potere statale. Entranibe le teorie descrivono soltanto i primi stadi della dittatura nazista, mentre le diverse spiegazioni fondate sul concetto di totalitarismo, compreso l'assunto che il nazismo fu essenzialmente «hitlerismo», come ha affermato Hans Buchheim, hanno dato rilievo agli aspetti personali del ruolo di Hitler. Tutti questi modelli interpretativi tendono a omettere il fatto che la dittatura nazista fu caratterizzata da un'innata inclinazione verso l'autodistruzione. Essa non ampliò le prerogative del governo attraverso gli strumenti della burocrazia quanto piuttosto indebolí progressivamente le istituzioni pubbliche, fino ad allora efficienti, attraverso un uso arbitrario del potere. | << | < | > | >> |Pagina 114La generalizzata mancanza di comunicazioni tra i capi del regime nazista fu originata dalla tendenza di Hitler a fornire ai suoi sottoposti soltanto informazioni sommarie, appena sufficienti all'adempimento delle loro specifiche funzioni. La frantumazione degli organismi di governo non fece che amplificare questa tendenza. Anche coloro che si trovavano in posizioni di responsabilità incontrarono perciò crescenti difficoltà nel definire un quadro realistico della situazione politica e militare del Reich, senza tener conto del fatto che sulle operazioni segrete, quali per esempio le politiche di genocidio, essi non ricevevano che notizie ufficiose.L'ipotesi che la frammentazione della politica fosse il risultato di una deliberata strategia del divide et impera da parte di Hitler, tuttavia, è fuorviante. Si trattò piuttosto dell'effetto di una visione orientata a un darwinismo sociale secondo la quale il migliore, alla fine, avrebbe prevalso. La tecnica di operare attraverso emissari speciali produsse, nel breve periodo, una certa efficienza, alla lunga tuttavia comportò che una grande quantità di energie fossero sprecate in contese private e assorbite dalle crescenti rivalità interministeriali, e tra gli organismi statali e il partito. Questi meccanismi, comunque, furono della massima importanza per lo sviluppo interno del regime. La lotta improntata ai principi del darwinismo sociale portò a una intensificazione degli atteggiamenti di spietatezza nel raggiungimento degli obiettivi ultimi del movimento, e, di conseguenza, a un processo di radicalizzazione cumulativa. A causa dell'assenza di garanzie istituzionali, ciascun capo si sentiva obbligato a combattere contro i suoi antagonisti con tutti i mezzi di cui disponeva e ciascun responsabile di sezione cercava di guadagnarsi le simpatie personali del Führer presentandosi come un fanatico combattente per la realizzazione dei traguardi visionari ed estremi della Weltanschauung. Questa tendenza, come ha osservato Martin Broszat, era strettamente collegata con una «predilezione per gli elementi negativi» della Weltanschauung nazista, dal momento che gli obiettivi «positivi» generalmente incontravano la resistenza di chi deteneva interessi acquisiti. Una volta eliminata la minaccia politica costituita da comunisti e socialisti, furono ebrei, zingari e altri gruppi ben definiti a divenire i nemici dichiarati. Da questo momento l'impeto distruttivo dell'ideologia nazista non interruppe la sua ascesa e i traguardi piú moderati furono lasciati cadere o posticipati. Fu soprattutto la politica antisemita, che culminò con la sistematica eliminazione degli ebrei europei, a spingere completamente sullo sfondo i conflitti di interessi. Una evidente e analoga radicalizzazione si manifestò nel trattamento riservato ai paesi occupati, sbarrando la strada alla ricerca di un modus vivendi con le popolazioni assoggettate. | << | < | > | >> |Pagina 118Molte sono le analogie e i parallelismi tra la dittatura di Stalin e quella di Hitler - non ultima, la crescente perdita del senso della realtà. Entrambi ignorarono verità spiacevoli e vissero in una condizione sempre piú irreale. Entrambi sconvolsero le regole e preferirono consiglieri privati agli esperti provenienti dalle amministrazioni governative. La profonda sfiducia dei due dittatori nei riguardi dei loro subordinati li portò piú volte ad allontanare i loro vertici militari.Vi furono, tuttavia, anche differenze evidenti che scaturivano da contrastanti retroterra politici e strutturali. Nonostante la progressiva «partitizzazione», le lacerazioni interne al regime nazista e la quasi totale eliminazione di qualsiasi integrazione amministrativa, il sistema si orientò verso una sempre maggiore anomia politica, sfociata nel completo collasso che accompagnò la disfatta militare. L'incapacità di porre fine a una guerra già persa e l'espandersi di un terrore di massa, ora diretto verso la stessa popolazione tedesca, furono ulteriori segni di questo processo di dissoluzione. Il sistema sovietico mantenne invece la capacità di adattarsi a compiti mutevoli e situazioni in cambiamento, rivelando un maggiore grado di stabilità nonostante anch'esso poggiasse su una intensificazione del terrore. Lo Nsdap differiva strutturalmente dai partiti comunisti per la predominanza del principio della leadership e per l'esclusione di qualsiasi dibattito politico all'interno del suo apparato. Sopra ogni cosa, i nazionalsocialisti non furono capaci di creare un sistema di potere nuovo e duraturo in grado di trascendere il costante indottrinamento, il terrore, la continua improvvisazione e il dinamismo che irreggimentarono la popolazione impedendole di comprendere il significato dei miti proposti dalla propaganda nazista. Sotto questo aspetto, il movimento nazista differí dal partito comunista sovietico per il fatto che, invece di rivoluzionare lo stato e la società tedesca ricevuti in eredità, si limitò a una pura simulazione del cambiamento sociale. Al fine di creare una base di massa esso utilizzò, di fatto, il potenziale di protesta di settori della società che, per usare le parole di Ernst Bloch, avevano interessi - in parte moderni, in parte premoderni - «non sincronizzati» (nicht gleichzeitigen) tra loro. La politica nazista scatenò sfrenate dinamiche politiche, economiche e militari cariche di un'energia distruttiva senza precedenti, rivelandosi al tempo stesso incapace di creare strutture politiche stabili. Significativo del carattere essenzialmente distruttivo del regime nazista è il fatto che l'obiettivo semirivoluzionario di ridisegnare la mappa etnica di gran parte dell'Europa secondo il «Progetto generale per l'Est» (Generalplan-Ost), seppure portato a termine solo in parte, fu in realtà realizzato con una politica antisemita che culminò con la morte di circa cinque milioni di persone. Tutti gli altri obiettivi a questo colllegati, in particolare i giganteschi progetti di insediamento nell'Europa orientale, dei quali il genocidio degli ebrei fu soltanto una parte, rimasero incompiuti. L'assunto secondo il quale il Reich Millenario sarebbe stato qualcosa di piú di una semplice apparenza di modernità e avrebbe realizzato una vera modernizzazione della Germania implica l'accettazione della distruzione come valore positivo e trascura la sterilità politica di fondo del regime. La vera essenza del regime nazista risiede nel suo carattere parassitario, nella sua natura puramente distruttiva che impedí qualsiasi possibilità di creare un futuro concreto per la popolazione tedesca, per non parlare della repressione e dello sfruttamento di milioni di cittadini dei paesi occupati o neutrali. Ritengo che questo tratto sostanziale del nazismo non possa essere paragonato al sistema stalinista, quali che siano stati gli aspetti totalitaristici e terroristici di quest'ultimo. | << | < | > | >> |Pagina 123Jan Kershaw
«Lavorare in funzione del Führer»: riflessioni sulla
natura della dittatura di Hitler
Il rinnovato interesse per i destini incrociati dell'Unione Sovietica e della Germania, soprattutto nel periodo di Stalin e di Hitler, emerso già a metà degli anni Ottanta, è andato ancor piú intensificandosi sulla scia degli sconvolgimenti avvenuti in Europa orientale. La maggiore attenzione rivolta alle atrocità dello stalinismo ha dato vita a tentativi di relativizzare la barbarie nazista - estrema, ma nell'insieme meno estrema di quella stalinista (e quindi del comunismo in generale). Il brutale esperimento di modernizzazione stalinista è stato usato per rimuovere dal concetto di modernizzazione qualsiasi collegamento normativo con uno sviluppo volto a umanizzare, civilizzare, emancipare e democratizzare e per affermare perciò che anche il regime di Hitler era - e lo era intenzionalmente - una «dittatura modernizzatrice». Implicito in tutto questo è un ribaltamento, a dispetto dei numerosi perfezionamenti e delle critiche al concetto avanzate fin dagli anni Sessanta, delle tradizionali opinioni sul «totalitarismo» e sulle figure di Stalin e di Hitler come «dittatori tirannici». | << | < | > | >> |Pagina 126Il crescente distacco di Hitler dalla burocrazia statale e dai maggiori organismi di governo segnala, mi pare, qualcosa di piú di una differenza di stile con il modus operandi di Stalin. A mio avviso esso rivela una differenza nell'essenza dei due regimi che si rispecchia nella posizione dei rispettivi leader, un punto sul quale ritornerò.Stalin fu un dittatore fortemente interventista che inviava fiumi di lettere e direttive al fine di determinare e modificare il programma politico. Presiedeva tutti i comitati piú importanti. Il suo obiettivo sembrava quello di monopolizzare l'intero processo decisionale e di concentrarlo all'interno del Politburo, una centralizzazione del potere dello stato e dell'unitarietà delle decisioni che avrebbe eliminato il dualismo partito-stato. Hitler, al contrario, fu nel complesso un dittatore non interventista, almeno per quanto riguardava l'amministrazione del governo. Le sue sporadiche direttive, quando c'erano, tendevano ad assumere toni sibillini e venivano promulgate verbalmente, di solito attraverso Lammers o, negli anni della guerra (fin quando continuarono a porsi questioni civili), sempre di piú attraverso Bormann. Dopo i primi anni del regime, quando il gabinetto (che egli odiava presiedere) si atrofizzò in una sorta di non esistenza, Hitler non smise di assistere alle riunioni formali. Egli vanificò sul nascere tutti i tentativi del ministro dell'Interno del Reich, Frick, di unificare e nazionalizzare l'amministrazione, e fece il possibile per sostenere e intensificare l'irriducibile dualismo tra partito e stato esistente a tutti i livelli. Laddove Stalin sembrava orientato a destabilizzare volutamente il governo (che poteva rappresentare una possibile opposizione da parte della burocrazia), non parrebbe che Hitler abbia intrapreso alcuna premeditata politica di destabilizzazione, ma piuttosto che, come conseguenza della sua leadership di tipo non burocratizzato e dell'innato bisogno di proteggere la sua immagine divinizzata evitando di associarsi con battaglie e decisioni politiche potenzialmente impopolari, abbia presieduto a una inesorabile erosione delle forme «razionali» di governo. E mentre la metafora di una «anarchia feudale» potrebbe applicarsi a entrambi i sistemi, questa parrebbe piú adatta a una descrizione del regime di Hitler, nel quale i legami personali di lealtà costituirono fin dall'inizio elementi determinanti del potere, sovrapponendosi completamente alle posizioni e alle gerarchie funzionali. | << | < | > | >> |Pagina 132Questo ci riporta agli interrogativi posti inizialmente. Se non ho male interpretato alcune recenti discussioni sullo stalinismo, e se gli elementi di contrasto tra quest'ultimo e il regime di Hitler che ho appena messo in evidenza hanno qualche validità, allora sarebbe giusto poter concludere che, nonostante alcune analogie superficiali, il carattere della dittatura, vale a dire delle posizioni di potere di Stalin e di Hitler all'interno dei rispettivi regimi, fu fondamentalmente diverso. Sarebbe, tuttavia, senza dubbio limitato individuare queste differenze semplicemente nelle diverse personalità dei dittatori. Direi piuttosto che esse dovrebbero essere viste come il riflesso delle contrastanti motivazioni dei loro seguaci, del carattere della spinta ideologica che li guidava e della corrispondente natura del movimento politico d'avanguardia che sosteneva ciascun regime. Il movimento nazista, insomma, fu un classico movimento ispirato a una leadership «carismatica»; il partito comunista sovietico no. E questo ha un peso nella capacità di riprodursi dei due «sistemi» di governo.Le caratteristiche principali dell'«autorità carismatica» delineate da Max Weber non hanno bisogno qui di nessuna aggiunta: percezione dell'«eroica missione» e della presunta grandezza del capo da parte dei suoi «seguaci»; tendenza alla sollevazione, come soluzione di «emergenza», in condizioni di crisi; innata instabilità causata dalla costante duplice minaccia di collasso del «carisma» per il fallimento delle aspettative promesse e di «routinizzazione» in un «sistema» in grado di riprodursi soltanto eliminando, subordinando o inglobando l'essenza «carismatica». Nella sua forma pura, la supremazia personale dell'«autorità carismatica» rappresenta la contraccezione e la negazione di quell'esercizio del potere impersonale e funzionale che sta alla radice dell'autorità burocratica giuridico-razionale del «tipo ideale» di sistema statale moderno. Tale supremazia non può, infatti, essere «resa sistema» senza perdere la sua peculiare incisività «carismatica». Certo Max Weber previde le possibilità di un «carisma» istituzionalizzato ma i compromessi con la forma pura diventano in questo caso evidenti. La rilevanza del modello di «autorità carismatica» nel caso di Hitler appare ovvia. Meno convincente è il caso di Stalin. Si potrebbe affermare che, per quest'ultimo, la «missione» fosse insita nel partito comunista considerato veicolo della dottrina marxista-leninista. È pur vero che per un breve periodo Stalin si appropriò della «missione» e minacciò di espropriarla attraverso il culto della propria personalità. Questo culto, tuttavia, fu un prodotto graduale e tardivo, un'escrescenza aggiunta artificiosamente a quella che era la reale funzione di Stalin. In questo senso vi fu uno stridente contrasto con il culto della personalità di Hitler, inseparabile invece dalla «missione» incarnata nel suo nome quasi fin dall'inizio, una «missione» che dalla metà degli anni Venti e fìno al termine non esistette come dottrina indipendente dal suo leader.
Il modello di «autorità carismatica» di Max Weber è
un'astrazione, un concetto descrittivo che di per sé non
dice nulla delle specifiche manifestazioni dell'«autorità
carismatica». Questa è determinata dalla relazione tra
l'affermazione della leadership e le particolari
circostanze e la «cultura politica» al cui interno essa
emerge e dalle quali prende forma. L'essenza
dell'«affermazione carismatica» hitleriana era la «missione»
destinata al raggiungimento della «rinascita nazionale»
attraverso la purezza della razza e il dominio razziale.
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