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| << | < | > | >> |IndicePossibilità economiche per i nostri nipoti di John Maynard Keynes 9 Possibilità economiche per i nostri nipoti? di Guido Rossi 31 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Negli ultimi tempi ci ritroviamo a soffrire di una forma particolarmente virulenta di pessimismo economico. È opinione comune, o quasi, che l'enorme progresso economico che ha segnato l'Ottocento sia finito per sempre; che il rapido miglioramento del tenore di vita abbia imboccato, almeno in Inghilterra, una parabola discendente; e che per il prossimo decennio ci si debba aspettare non un incremento, ma un declino della prosperità. A mio avviso si tratta di un fraintendimento molto vistoso di quanto ci accade intorno. Scambiamo per reumatismi quelli che in realtà sono disturbi della crescita, e in particolare di una crescita troppo veloce. La fase di assestamento fra un periodo economico e l'altro non è mai indolore. La tecnica ha progredito talmente in fretta da non consentire un adeguato riassorbimento della forza lavoro; il miglioramento del tenore di vita è stato persino troppo rapido; il sistema bancario e l'economia mondiale hanno abbassato i tassi di interesse molto meno di quanto avrebbero dovuto, volendo garantire un certo equilibrio. Ciò nonostante, il caos e le perdite che ne sono derivati hanno inciso per appena il 7,5 per cento del reddito nazionale; buttiamo via uno scellino e sei pence per ogni sterlina, e ci restano solo 18 scellini e sei pence: ma è anche vero che corrispondono al valore di una sterlina intera di cinque o sei anni fa. Tendiamo a dimenticare che nel 1929 la produzione industriale inglese è stata la più alta di sempre, e che lo scorso anno l'avanzo netto della nostra bilancia dei pagamenti, la cifra cioè disponibile, dopo il saldo delle importazioni, per nuovi investimenti all'estero, è stato il più alto al mondo, superando del cinquanta per cento quello degli stessi Stati Uniti. Ancora – per restare sul terreno dei raffronti –, se riducessimo i nostri stipendi a circa la metà, disconoscessimo i quattro quinti del debito nazionale, e investissimo le plusvalenze in lingotti d'oro, anziché prestarle a un tasso del 6 per cento, ci ritroveremmo al livello della tanto invidiata Francia. Ma sarebbe un passo avanti? La depressione che ha investito l'intero pianeta, l'abnorme anomalia della disoccupazione in un mondo bisognoso di tutto, i nostri stessi, disastrosi errori, tutto questo ci impedisce di vedere sotto la superficie, e di capire dove stiamo andando. La mia previsione è che le due forme di pessimismo più clamorose, e contrapposte – il pessimismo dei rivoluzionari, convinti che una situazione così compromessa renda inevitabile un cambiamento radicale, e quello dei reazionari, persuasi che la nostra vita economica e sociale si regga su un equilibro talmente instabile da sconsigliare qualsiasi forma di esperimento –, si riveleranno, a tempo debito, entrambe errate. Nelle pagine che seguono, tuttavia, non mi occuperò del presente, e nemmeno del futuro prossimo. Cercherò invece di proporre un antidoto alla miopia, e cioè una rapida incursione in un futuro ragionevolmente lontano. Che livello di sviluppo economico, proverò a chiedermi, possiamo immaginare di raggiungere da qui a cento anni? Quali possibilità economiche avranno i nostri nipoti? | << | < | > | >> |Pagina 20Trattandosi di un esercizio, possiamo immaginare che da qui a cento anni il nostro livello economico sia otto volte superiore a quello attuale. Come abbiamo detto, potrebbe succedere. È vero che talvolta i bisogni degli esseri umani appaiono insaziabili. Ma occorre tenere presente che si suddividono in due categorie — quelli assoluti, che emergono in qualunque situazione i nostri simili si trovino a vivere, e quelli relativi, che si manifestano solo se la loro soddisfazione ci pone, o ci fa sentire, al di sopra dei nostri simili. I bisogni del secondo tipo, quelli generati dal desiderio di superiorità, crescono insieme al tenore di vita, e possono in effetti diventare insaziabili. Ma per i bisogni assoluti le cose vanno diversamente — e prima di quanto crediamo potremmo raggiungere uno stadio nel quale questi ultimi saranno soddisfatti, e saremo pronti a rivolgere le nostre energie verso obiettivi che con l'economia non hanno nulla a che vedere. Da qui traggo una conclusione che, non ne dubito, troverete sbalorditiva. E più ci penserete, più vi sbalordirà. La conclusione è che, in assenza di conflitti drammatici, o di drammatici incrementi della popolazione, fra cento anni il problema economico sarà risolto, o almeno sarà prossimo a una soluzione. In altre parole, se guardiamo al futuro l'economia non si presenta come un problema permanente della nostra specie. Ma perché addirittura sbalordirsi, vi chiederete. Be', perché se per un attimo ci rivolgiamo al passato, anziché al futuro, il problema dell'economia, della lotta per la sopravvivenza, è sempre stato il problema fondamentale, e il più pressante che la nostra specie — e non solo la nostra, ma tutte le specie viventi, fin dall'alba della storia — si sia trovata a dover affrontare. In un certo senso, ci siamo evoluti — e con noi le nostre pulsioni, e i nostri istinti più profondi — per risolvere il problema economico. E una volta che questo fosse risolto, l'umanità si ritroverebbe priva del suo obiettivo più tradizionale. | << | < | > | >> |Pagina 31Fino a poco tempo fa, e a quasi ottant'anni dalla sua prima edizione, questo breve testo di John Maynard Keynes era tutt'al più, per gli economisti, una nota a piè di pagina - qualcosa di cui si notificava l'esistenza, ma non necessariamente la conoscenza, o il gradimento. E questa è già una stranezza, se si considera che da decenni difficilmente uno studio economico di un qualche rilievo viene dato alle stampe senza una citazione, un tributo, o almeno un ammicco a Keynes, e che in tempi di crisi (cioè ogni pochi anni, con preoccupante regolarità), quando le altre ricette si rivelano inconsistenti, a Keynes disperatamente ritornano tutti, anche i suoi fieri avversari del giorno prima. Ma allora perché gli economisti snobbano all'unisono, fra le diverse migliaia di pagine scritte dal loro maestro, quasi tutte mandate a memoria, proprio queste venti o giù di lì, lette davanti ai loro colleghi e agli studenti di Winchester e Cambridge nel remoto 1928? Le spiegazioni possono essere molte, e diverse. La più ovvia è l'imbarazzo. Pur essendo un esercizio antiaccademico, il testo di Keynes, pubblicato un anno dopo il '29, immaginava che in un futuro molto vicino i problemi connessi al denaro si sarebbero dissolti – e le cose non sono andate, come sappiamo, precisamente così. Ma il silenzio degli economisti non si può considerare una difesa d'ufficio, in primo luogo perché i medesimi non brillano per altruismo o per riverenza, in secondo luogo perché Keynes si difendeva benissimo da solo – le sue proiezioni di allora erano dichiaratamente un gioco, qualcosa che andava più nella direzione della narrativa utopica o distopica che in quello della trattazione scientifica, e in ogni caso nascondevano fra le loro pieghe idee niente affatto fantasiose. E allora? Allora rimane sul tappeto una spiegazione più semplice e deprimente, e cioè che quel silenzio sia stato una lunga reazione stizzita ai numerosi passaggi del testo che, messi in fila, non davano della categoria un giudizio particolarmente lusinghiero.
A cominciare ovviamente dall'invito su
cui il testo si chiude, e cioè a ispirarsi, nell'impostazione del proprio
mestiere e nella prassi quotidiana, al comportamento di altri professionisti,
meno riveriti dall'opinione pubblica ma anche, decisamente, più efficaci: i
dentisti, nel celebre esempio di Keynes.
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