Copertina
Autore John Maynard Keynes
Titolo Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta
Sottotitoloe altri scritti
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006, Classici dell'economia , pag. 722, cop.fle., dim. 120x190x38 mm , Isbn 978-88-02-07355-2
OriginaleThe General Theory of Employment, Interest and Money
EdizioneMacmillan, London, 1936
PrefazioneGiuseppe Berta, Terenzio Cozzi
TraduttoreAlberto Campolongo, Terenzio Cozzi
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe economia politica , macroeconomia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

  7 Introduzione
 47 Nota biografica
 55 Nota bibliografica

107 LA FINE DEL LAISSEZ-FAIRE


135 SUL REGIME MONETARIO INTERNAZIONALE

137 Un sistema internazionale di valore?
144 Problemi della gestione monetaria sovranazionale


163 TEORIA GENERALE DELL'OCCUPAZIONE, DELL'INTERESSE E DELLA MONETA

165 Introduzione editoriale
171 Prefazione
174 Prefazione all'edizione tedesca
177 Prefazione all'edizione giapponese
179 Prefazione all'edizione francese

185 Libro primo. Introduzione

    Capitolo 1. La teoria generale, 187
    Capitolo 2. I postulati dell'economia classica, 188
    Capitolo 3. Il principio della domanda effettiva, 207

219 Libro secondo. Definizioni e idee

    Capitolo 4. La scelta delle unità, 221
    Capitolo 5. L'aspettativa come determinante della produzione e
                dell'occupazione, 230
    Capitolo 6. La definizione di reddito, risparmio e investimento, 237
    Appendice sul costo delle utilizzazioni, 251
    Capitolo 7. Ulteriori considerazioni sul significato di risparmio
                e di investimento, 261

273 Libro terzo. La propensione al consumo

    Capitolo 8. La propensione al consumo: I. I fattori oggettivi, 275
    Capitolo 9. La propensione al consumo: II. I fattori soggettivi, 293
    Capitolo 10. La propensione marginale al consumo e il moltiplicatore, 299

319 Libro quarto. L'incentivo ad investire

    Capitolo 11. L'efficienza marginale del capitale. 321
    Capitolo 12. Lo stato dell'aspettativa a lungo termine, 333
    Capitolo 13. La teoria generale del tasso di interesse, 351
    Capitolo 14. La teoria classica del tasso di interesse, 362
    Appendice sul tasso di interesse nei «Principi di economia» di Marshall,
    nei «Principi di economia politica» di Ricardo e altrove, 374
    Capitolo 15. Gli incentivi psicologici e commerciali alla liquidità, 384
    Capitolo 16. Osservazioni diverse sulla natura del capitale, 400
    Capitolo 17. Le proprietà essenziali dell'interesse e della moneta, 412
    Capitolo 18. Riesposizione della teoria generale dell'occupazione, 435

445 Libro quinto. Salari monetari e prezzi

    Capitolo 19. Variazioni dei salari monetari, 447
    Appendice sulla «Teoria della disoccupazione» del prof. Pigou, 462
    Capitolo 20. La funzione dell'occupazione, 471
    Capitolo 21. La teoria dei prezzi, 484

503 Libro sesto. Brevi note suggerite dalla teoria generale

    Capitolo 22. Note sul ciclo economico, 505
    Capitolo 23. Note sul mercantilismo, le leggi sull'usura, la moneta
                 stampigliata e le teorie del sottoconsumo, 526
    Capitolo 24. Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale
                 la teoria generale potrebbe condurre, 566

Appendice I.   Errori di stampa nella prima edizione inglese,
               corretti nell'edizione presente, 578
Appendice II.  Fluttuazioni dell'investimento netto negli Stati Uniti, 579
Appendice III. Movimenti relativi dei salari reali e della produzione, 588

609 COME PAGARE IL COSTO DELLA GUERRA

611 Prefazione
       I. Natura del problema, 615
      II. Natura della soluzione, 620
     III. La nostra capacità produttiva e il reddito nazionale, 624
      IV. Si può far pagare la guerra ai ricchi?, 630
       V. Progetto di paghe differite, assegni familiari e razione
          a buon mercato, 636
      VI. Particolari, 642
     VII. Liquidazione della paga differita e imposta sul capitale, 650
    VIII. Razionamento, controllo dei prezzi e controllo dei salari, 655
      IX. Il risparmio volontario e il meccanismo dell'inflazione, 660
       X. Il sistema adottato in Francia, 674
Appendice I.   Il reddito nazionale, 679
Appendice II.  L'ammontare delle nostre risorse estere, 683
Appendice III. Il costo degli assegni familiari, 687
Appendice IV.  La formula per il complesso della paga differita e
               delle imposte dirette, 688


689 Ringraziamenti
693 Glossario
703 Indice analitico e dei nomi

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

PREFAZIONE



John Maynard Keynes credeva nella forza delle idee con un'intensità rara. Colpisce che la sua opera maggiore, questa pietra miliare del pensiero economico che è la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (apparsa giusto settant'anni fa, nel gennaio 1936), si apra e si chiuda sulla capacità che hanno le idee di plasmare il mondo. Scriveva Keynes nella prefazione: «La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell'evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente». Straordinario gli appariva il potere di dominio che le opinioni consolidate esercitavano sulla testa degli uomini, e in particolare proprio degli uomini pratici, quelli che si consideravano più al riparo da qualsiasi influenza intellettuale, mentre all'atto pratico finivano col rivelarsi «schiavi di qualche economista defunto». A Keynes, le classi dirigenti del suo tempo apparivano per la gran parte come dei «pazzi al potere», che inconsapevolmente uniformavano le loro azioni ai princìpi di «qualche scribacchino accademico» di cui ripetevano stancamente le sentenze. A impedire una nuova politica economica coraggiosa e innovativa non erano tanto gli «interessi costituiti», sopravvalutati nel loro potere di veto e d'interdizione, quanto la resistenza vischiosa prodotta da abiti mentali desueti quando radicati. Ecco perché Keynes dava tanta importanza alle idee, al punto di sigillare la conclusione della Teoria generale con un'orgogliosa affermazione di fiducia: «presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male».

Erano le parole e le convinzioni di un intellettuale, uno dei massimi del Novecento, di orientamento radicale, ma fermamente avverso al marxismo. Mentre Marx aveva sempre identificato le idee dominanti con quelle delle classi economicamente privilegiate, Keynes riponeva la fiducia nella capacità di persuasione e di argomentazione. Gli intellettuali, e gli economisti in particolare, erano tutt'altro per lui che dei profeti disarmati: disponevano infatti dell'arma alla lunga più efficace, l'argomentazione razionale, che si trasferiva nelle dottrine, nell'insegnamento e nel condizionamento dell'opinione pubblica. Le idee nuove potevano anche essere «estremamente semplici», «ovvie» al limite, ma la loro gestazione era resa complicata dallo sforzo di evadere «da modi abituali di pensiero e di espressione». Ciò rendeva conto, secondo Keynes, del carattere laborioso che aveva assunto l'esposizione della Teoria generale, tesa a dimostrare che i presupposti della tradizione economica non corrispondevano alla realtà della «società economica» in cui si viveva. Per questa ragione i suoi insegnamenti risultavano «ingannevoli e disastrosi», non appena si cercava di «applicarli ai fatti dell'esperienza». Il pensiero economico doveva riacquistare quella presa sul mondo che le era inibita dai vecchi dogmi.


Il primo dei dogmi della tradizione economica che Keynes intendeva rigettare era la cosiddetta «legge di Say», cioè il principio secondo cui «l'offerta crea la propria domanda». Ci sarebbe un asse dominante nella storia del pensiero economico che postula che «la massa dei costi di produzione deve necessariamente spendersi in complesso, direttamente o indirettamente, nell'acquisto del prodotto». Dunque, una lunga linea ininterrotta legherebbe l'economia politica classica dei tempi di Say e di Ricardo all'ortodossia vittoriana codificata da John Stuart Mill fino al Novecento, un arco teorico dai fondamenti del tutto incerti, che si reggono su un'ipotesi di equilibrio destituita di prove. Il laissez faire, l'ultraliberismo, la bestia nera contro cui Keynes aveva combattuto una battaglia quasi solitaria negli anni venti, stava in nuce nella «legge di Say». Scardinata quella, l'edificio economico eretto dalla scuola ortodossa in oltre un secolo rivelava per intero la propria precarietà fino a franare. Nello schema teorico dei classici il problema della domanda insomma non sussiste. Dopo Ricardo, l'ipotesi dell'insufficienza della domanda viene scartata fino a scomparire dalla letteratura economica; questo, che per Keynes rappresentava «il grande problema», in un certo senso il problema dei problemi, s'era dissolto al punto da non doversi nemmeno più trovare menzionato nelle opere di Alfred Marshall (il maestro di Cambridge cui Keynes era stato devotissimo, dedicandogli alla morte forse il più bello dei suoi profili biografici di economisti), di Edgeworth e di Pigou. Di qui l'antistorico ottimismo che aveva contraddistinto la scienza economica ufficiale, rendendola cieca di fronte ai movimenti dell'economia reale. Persuaso per definizione, si potrebbe dire, della «legge di Say» l'economista ortodosso si era convertito in una sorta di Candide, pronto a sostenere «che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili purché si lascino le cose andare da sole». Stando ai postulati dei classici, «vi sarebbe una tendenza naturale verso l'ottima occupazione dei mezzi in una società che funzionasse» in perfetta corrispondenza con lo schema dottrinario. Commenta causticamente Keynes che «può ben darsi che la teoria classica rappresenti il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse»; peccato però che i desideri non coincidano con la realtà e sia vano pensare che l'economia si comporti davvero così perché ciò significa trascurare le difficoltà quando insorgono. Se il sistema economico operasse secondo i criteri cari agli economisti classici, non vi sarebbero crisi determinate dallo squilibrio fra domanda e offerta e perciò non vi sarebbe quello che per Keynes è il problema cruciale, la disoccupazione. Ecco perché occorre porre al centro del ragionamento economico la questione della «domanda effettiva» e soprattutto studiare per una «collettività ricca» «possibilità di investimento» che siano «molto più ricche affinché la propensione al risparmio dei suoi membri più ricchi sia compatibile con l'occupazione dei suoi membri più poveri».

A catturare la mente di Keynes è, nella Teoria generale, esattamente come negli scritti più di intervento nella politica economica degli anni venti, quello che chiama il «paradosso della povertà in mezzo all'abbondanza». Il nodo è sempre quello della domanda effettiva: in una società che pure si può considerare ricca «basta che vi sia un'insufficienza della domanda effettiva perché l'incremento della produzione possa essere arrestato – e spesso lo sia – prima che si sia raggiunto un livello di piena occupazione». In una collettività dove sia più elevata la capacità di generare ricchezza – paradossalmente, se seguiamo la logica di Keynes – il divario fra la produzione effettiva e quella potenziale tenderà ad aumentare, ciò che rende «tanto più palesi e stridenti [...] i difetti del sistema economico». Infatti, «una collettività povera sarà propensa a consumare la massima parte della sua produzione» e così «basterà un volume molto modesto di investimenti per assicurare un'occupazione piena». Le difficoltà si manifestano più acutamente, quindi, là dove lo sviluppo economico raggiunge le sue punte più alte e intense ed è là, ancora, che si mettono alla prova tanto le capacità di comprensione analitica della teoria quanto la loro possibilità di tradursi in una nuova politica economica.


È da queste premesse che trae origine una delle proposte rivoluzionarie che hanno reso celebre la Teoria generale, la formulazione che tende a considerare il risparmio e l'investimento come due grandezze uguali in valore, poiché – come recita una delle definizioni keynesiane che si incidono nella memoria per la loro essenzialità – esse rappresentano «per la collettività in complesso soltanto aspetti diversi della stessa cosa». Pensare il contrario, ancora nella scia degli insegnamenti ortodossi, è soltanto il frutto di un'«illusione ottica», giacché «nessuno può risparmiare senza acquistare un'attività, sia questa contante o un credito o beni capitali», così come «nessuno può acquisire un'attività che prima non possedeva se non si produce un'attività di ugual valore o se qualcun altro non cede un'attività di ugual valore precedentemente posseduta».

Nella prospettiva di Keynes, fissata l'identità delle due grandezze economiche, si tratta di accorciare la distanza fra produzione e consumo. E a questo punto che si celebra la «fine del laissez faire», col distacco definitivo dall'universo dei classici. Viene il momento della politica economica, dell'intervento attivo nel processo economico, per orientarlo e agire sul dimensionamento delle grandezze fondamentali. Ed è altresì il momento della «politica fiscale», concepito non soltanto come lo strumento in grado di variare e accrescere la propensione al consumo, ma come mezzo «per la più equa distribuzione dei redditi». Purtroppo, annota Keynes al termine del decimo capitolo, dedicato appunto alla propensione al consumo, le società moderne sono diventate troppo sensate e razionali ed esitano a lungo dinanzi alla possibilità di elevare il carico fiscale, quando invece l'antico Egitto erigeva la sua «favolosa ricchezza» sulla costruzione delle piramidi e sulla ricerca di metalli preziosi. L'amore del paradosso induce qui Keynes a rivalutare il fiscalismo delle società antiche rispetto all'eccessiva prudenza, dettata da una razionalità un po' da finanzieri, del mondo del Novecento, così restìo ad azionare la leva del prelievo sui redditi in modo da dotare lo stato della larghezza di mezzi necessaria per grandi opere pubbliche.

Ma in Keynes e nella Teoria generale ancora di più che negli altri suoi scritti, la storia non s'affaccia quasi mai. La polarità del suo ragionamento economico è giocata attorno alla coppia presente-futuro. Il passato non è che un fondale indistinto, opaco, contro il quale si staglia soltanto la sagoma dei primi tre decenni del Novecento. Non è un caso che il richiamo alla storia (una storia peraltro largamente immaginaria e riproposta per paradossi, come prova l'esempio dell'Egitto) si manifesti dove occorre segnare un forte tratto di discontinuità. Come quando Keynes rivendica il ruolo dello stato nell'economia: «Vorrei vedere che lo stato [...] si assumesse una sempre maggiore responsabilità nell'organizzare direttamente l'investimento». L'intervento pubblico serve a correggere le distorsioni dell'attività economica prodotte da «un'atmosfera politica e sociale» che tende a uniformarsi all'«uomo d'affari medio». Per esempio, «il timore di un governo laburista o di un new deal deprime l'intraprendenza» degli operatori, svelando come le prospettive d'investimento dipendano dai «nervi» e dall'«isterismo». Di qui, a maggior ragione, la necessità di correggere le ondate psicologiche che determinano il tono dell'economia attraverso una politica di regolazione anticiclica, attuata per mano dello stato.

[...]

Per concludere la Teoria generale Keynes concepirà un finale possente, addirittura l'abbozzo di una nuova «filosofia sociale», nella quale contemplare una prospettiva del futuro con la soluzione dei «difetti più evidenti della società economica», cioè il raggiungimento della piena occupazione e una distribuzione meno arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi. Il suo libro era servito a confutare il presupposto erroneo che fosse l'astinenza dei ricchi ad alimentare la produzione della ricchezza. Non era così; anzi, semmai l'astinenza risultava un ostacolo allo sviluppo economico. Ma con questo presupposto cadeva anche la ragione che veniva invocata più spesso a favore del mantenimento di una grande disuguaglianza sociale. Pure, il liberale Keynes non crede affatto che si debbano livellare i redditi, ma ridurre fortemente le disuguaglianze e le disparità, questo sì. Certo, il movente del guadagno e l'impulso all'acquisizione e alla proprietà rimangono determinanti di rilievo all'origine del comportamento economico. E del resto, se un uomo ambisce a primeggiare, dice Keynes, è pur sempre preferibile vederlo signoreggiare sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini. Nega invece che per mantenere questi stimoli sia importante assicurare al gioco economico poste tanto elevate.

Il saggio d'interesse, lo si è già ricordato, va tenuto basso, almeno a quel livello che è necessario perché si verifichi uno stato di piena occupazione. Ma se quest'ultimo resta il vero obiettivo che deve proporsi chi presiede al processo economico e al governo, ne consegue che nel lungo termine si deve tendere all'«eutanasia del rentier». Il detentore passivo del capitale, colui che ha nelle proprie mani il potere oppressivo di sfruttare la scarsità del capitale, incarna una figura economica e sociale di cui è giusto ipotizzare l'estinzione. Se l'individualismo deve sopravvivere, per assicurare la necessaria vivacità della vita economica, ciò non ha relazione alcuna con la funzione totalmente passiva e atona di chi si limita a staccare periodicamente le cedole che gli derivano dagli interessi sul proprio capitale. L'investitore privo di funzioni reali non deve essere premiato, al contrario; così come la creatività imprenditoriale va posta al servizio del progresso della società e ricompensata con una misura ragionevole.

E tuttavia il radicalismo di Keynes è lontano dallo sconfinare in un socialismo alla vecchia maniera. «Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo stato si assuma», afferma. Il sistema economico del capitalismo non soffre di un male d'origine; presenta distorsioni che vanno emendate, senza svellere la pianta dalle radici. Certo, occorrono «controlli centrali» in grado di vigilare sul pieno impiego e ciò comporta «una vasta estensione delle funzioni tradizionali di governo». Ma «il libero gioco delle forze economiche», per quanto «moderato e guidato», non deve essere privato «dell'iniziativa e della responsabilità individuale». Questi fattori garantiscono «il vantaggio dell'efficienza e del decentramento delle decisioni»; sono alla base dell'individualismo che rimane «la miglior salvaguardia della libertà personale». Bisogna difendere il valore di principio della «varietà della vita», «lo strumento più potente per migliorare il futuro».

Ma non c'è contraddizione fra l'esigenza di salvare il carattere individualistico della società moderna e «l'allargamento delle funzioni di governo»: per Keynes quest'ultima è la condizione che permette, da un lato, di «evitare la distruzione completa delle forme economiche esistenti» e, dall'altro, «un funzionamento soddisfacente dell'iniziativa individuale». Non bisogna cedere ai «sistemi moderni di stato autoritario», che promettono di «risolvere il problema della disoccupazione a scapito dell'efficienza e della libertà». Certo, la disoccupazione è diventata un fenomeno intollerabile e delegittima il capitalismo di impronta individualistica, ma è possibile «guarire la malattia pur conservando l'efficienza e la libertà». E la Teoria generale si chiude così, affidando alla forza delle idee l'efficacia delle sue terapie economiche.


Come rileggere oggi la Teoria generale, quest'opera per tanti versi fondativa della macroeconomia contemporanea? L'invito giusto potrebbe essere quello di rileggerla per quello che in effetti è, un grande classico della storia del pensiero. Un classico non dissimile a ben vedere, per certi risvolti, alla Ricchezza delle nazioni di Smith, un libro che si sviluppa lungo vari registri, dove l'economia si sposa a una visione della società e si congiunge a una filosofia sociale. Keynes si poneva dinanzi al problema economico con lo stesso atteggiamento dei classici, cioè con l'intenzione di comprendere e di rendere conto per intero della sua configurazione complessiva, secondo una prospettiva unitaria. Una «teoria generale», appunto, in cui le grandezze economiche vengono ricondotte a una logica d'insieme mediante l'analisi dei nessi che le fanno interagire. Nello stesso tempo, il libro di Keynes è dominato dallo sforzo di offrire un'interpretazione teorica in grado non soltanto di cogliere la natura profonda della realtà economica del capitalismo del suo tempo, ma di indicare le terapie e gli strumenti tali da correggerne le distorsioni e le contraddizioni.

Un tema su tutti si impone all'attenzione del lettore di ieri e di oggi: la convinzione che il movimento economico debba essere consapevolmente indirizzato verso un fine, la piena occupazione. Il ragionamento di Keynes trova un senso solo all'interno di questa tensione finalistica: l'attività economica può essere difesa e giustificata a patto di essere rivolta in direzione di un fine riconosciuto come universalmente giusto. Altrimenti, essa torna a divenire un gioco cieco, in cui i meccanismi della speculazione finiscono per rivelarsi per quello che sono, una spinta che induce alla distruzione della risorsa. I motivi del capitalismo individualistico paiono a Keynes privi di giustificazione quando non siano riclassificati in una nuova sequenza logica ricostruita attorno al primato della piena occupazione. Di più, essi possono venire preservati a condizione di essere recuperati in uno schema economico finalizzato. In caso diverso, sono soltanto espressioni del passato, cui tocca il medesimo destino del rentier.

Perfettamente calata, nonostante la sua volontà eterodossa, nello spirito dei suoi tempi, la posizione di Keynes rischia di risultare del tutto inattuale ai nostri. Perché l'obiettivo della piena occupazione non è più in cima ai pensieri e alle preoccupazioni degli economisti, interessati piuttosto alla crescita; ma anche perché dagli ultimi decenni del Novecento è in atto un movimento di segno inverso rispetto a quello sostenuto negli anni trenta da Keynes. L'«allargamento delle funzioni di governo» è quanto di più lontano dall'agenda della politica economica; semmai il compito è di restituire al mercato e all'iniziativa privata i margini di azione che la politica riformatrice dopo la grande crisi aveva progettato di assegnare allo stato. Da questo punto di vista, a rileggere Keynes con gli occhi e la sensibilità di oggi, sarebbe facile persino metterne in discussione il credo liberale che pur professava. Non era stato lo stesso Keynes, d'altronde, un decennio prima della Teoria generale a chiedersi se fosse liberale (Am I a Liberal?, era stata la domanda non retorica che s'era posto da solo). Non lo era se si identificava il liberalismo con un'élite borghese più attenta a difendere status e privilegi piuttosto che un ambiente e uno stile culturale, che erano invece quanto premeva a Keynes di conservare. Ma certo non poteva essere rubricato fra i socialisti della sua epoca, quelli che ancora credevano che la soluzione del problema economico stesse nella nazionalizzazione pura e semplice dei mezzi di produzione e di scambio. Persino i laburisti, che pure non rientravano nell'orbita del marxismo, avevano il loro dogma basilare nella politica delle nazionalizzazioni. Per Keynes era invece evidente da sempre che non era quella la soluzione, mentre la sua formazione liberale lo metteva in guardia circa i rischi che avrebbe corso una società eretta sul principio burocratico, ove fossero state estinte le prerogative dell'interesse individuale.

Eppure, non pochi dei primi estimatori della Teoria generale, di coloro che riconobbero immediatamente la verità, oltre che la novità, delle idee di Keynes, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, furono simpatizzanti e iscritti del Labour Party. Perché in fondo, al di là delle sue stesse personali propensioni, era, almeno entro i confini del Regno Unito, il laburismo il destinatario naturale del messaggio della Teoria generale. Una volta incrinato il dogma della proprietà statale dei mezzi di produzione, il laburismo ritrovava nei princìpi keynesiani un asse politico lungo il quale ridefinire il proprio orientamento. Era già, quella keynesiana, una «terza via» fra il capitalismo individualista e il collettivismo di stato. Era un modello economico che prevedeva la possibilità di una ridistribuzione del reddito e di una sostanziale riduzione della disuguaglianza sociale all'interno della cornice delle istituzioni plasmate dalla tradizione liberale. La sua ambizione era di mostrare che le istanze dell'uguaglianza e della libertà potevano non soltanto essere conciliate, ma trovare reciproco consolidamento entro un nuovo disegno delle funzioni economiche. L'individualismo del passato era fallito e l'analisi di Keynes svelava che era un limite alla produzione della ricchezza, non una sua condizione irrinunciabile; ma questo non significava che per l'individualismo non ci dovesse essere un ruolo, una volta che le garanzie di eguaglianza, simboleggiate in primo luogo dalla piena occupazione, fossero state stabilite.

Vicino al funzionamento reale dell'organismo economico, Keynes era invece distante dalle concezioni degli imprenditori e degli operatori nel loro complesso. Nella Teoria generale, l'impresa non c'è; il suo autore non ha nemmeno in minima parte l'interesse che il suo maestro Marshall aveva nutrito per le forme concrete in cui si esercitava l'attività economica. Tanto nei Principles of Economics marshalliani vige un'attenzione accurata per le tipologie dell'impresa e dell'imprenditorialità quanto in Keynes manca ogni osservazione circa le organizzazioni economiche e il loro campo d'azione. La City londinese non è assente ed è evocata soprattutto come il tempio vivente dell'ortodossia; Keynes ostenta verso di essa un'opinione che non differisce nella sostanza da quella di Hobson, che le imputava un'azione distorcente nella regolazione dei flussi di ricchezza, con la conseguenza di deviare i capitali, mediante i prestiti internazionali, dalle possibilità di impiego nell'industria inglese. Ma qui trapela anche l'atteggiamento un po' sprezzante di Keynes verso gli uomini pratici, gli operatori intrappolati nelle angustie del loro business, incapaci dunque di vera riflessione sulle forze interne del processo economico. Il fatto è che a Keynes interessa l'economia come sistema, un ambito su cui considera, ancora al pari dei classici, che le scelte degli attori singoli, anche quanto siano di grandi dimensioni, abbiano incidenza scarsa, se non nulla.

La Teoria generale si presta a essere letta come una summa delle questioni su cui ci si divise nella prima parte del Novecento. Lo stato e l'individuo, il dominio del pubblico e la sfera del privato, la scissione del capitalismo fra sviluppo e crisi, un presente sul quale incombe di continuo la minaccia del futuro. Ed è anche il colossale sforzo di comprensione nel quale si produsse una fra le più smaglianti intelligenze del secolo, protesa nel tentativo di dare un assetto a ciò che pareva fuor di controllo. Per Keynes il suo grande libro del 1936 rappresentò il raggiungimento di una maturità, insieme teorica e pubblica, che altrimenti gli sarebbe sfuggita, se la sua fama fosse stata consegnata alla sua dote di autore di pamphlet o alla sua virtù di economista accademico. Con la Teoria generale egli si proiettò, per così dire, oltre se stesso, sia perché ricompresse nel disegno del suo libro strumenti e modelli economici che andavano oltre la sua elaborazione personale (a cominciare dal «moltiplicatore», che Keynes poté formulare grazie al contributo di Richard Kahn), sia perché la sua opera trascese – e di molto – il raggio entro il quale si era fino allora mosso. La Teoria generale è la prova di una splendida maturità intellettuale, pienamente conseguita, in cui uno studioso di eccezionale levatura si confronta fino in fondo coi problemi del suo tempo, esaminandoli con una libertà di pensiero totale, al di là di ogni condizionamento culturale e politico. In essa, le qualità analitiche dell'economista si fondono coll' expertise del grande civil servant che Keynes non cessò mai di essere lungo tutta la vita e con lo spirito caustico e acuto del libellista. Keynes era tutte queste cose assieme, e molto altro, combinando in sé una varietà di inclinazioni e suggestioni cui non avrebbe mai rinunciato, giudicandole costitutive della propria identità. Ma, nel contempo, era anche una dichiarazione di fede, una riaffermazione nel primato dell'etica del suo credo giovanile, che lo portava a guardare all'economia come a un processo cui bisognava assegnare uno scopo. E questo fine era la piena occupazione.

Con la Teoria generale, dieci anni prima della propria scomparsa, Keynes predisponeva la propria duplice eredità. Una parte di essa andava alla scienza economica, che avrebbe raccolto, insieme col suo lavoro, anche l'elaborazione che attorno a lui si era raccolta e sviluppata: Kahn, Joan Robinson, Harrod, Meade, che avevano seguito i suoi corsi e talora partecipato creativamente alla gestazione della Teoria generale, sarebbero stati i primi keynesiani, cui se ne sarebbero aggiunti molti altri che in breve tempo ne avrebbero infittito la schiera. Dal grande libro di Keynes le università angloamericane avrebbero tratto i fondamenti della macroeconomia, via via assimilati attraverso il ricongiungimento ad altri paradigmi teorici, nel solco di quella che sarebbe stata detta «sintesi neoclassica». Ma il non economista che intraprenda ora la lettura di Keynes sarà forse più impressionato dall'eredità politico-culturale della Teoria generale, culminata in quel particolare assetto che è stata l'«economia mista», peculiare fusione di interesse pubblico e gestione capitalistica che si è incisa nella storia della seconda metà del XX secolo. Non solo: è probabile che, a ripercorrere con un fresh eye, uno sguardo vergine, i capitoli della Teoria generale, ci si possa accorgere che quell'eredità di pensiero è tutt'altro che estinta o muta dinanzi alle trasformazioni contemporanee. A chi ne voglia ascoltare ancora il ragionamento, Keynes continua a parlare con un linguaggio che può risuonare sorprendentemente attuale anche davanti agli irrisolti dilemmi del nostro presente.

Giuseppe Berta

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

INTRODUZIONE



La figura e l'opera di John Maynard Keynes (1883-1946) sono state oggetto di aspre controversie che il passare del tempo non ha affatto attenuato. La letteratura economica abbonda di giudizi opposti, di grande ammirazione o di grande ostilità. Per alcuni, Keynes «rimane l'economista più influente» dei nostri tempi e le sue tesi rappresentano «l'evento più significativo della scienza economica del ventesimo secolo». Per altri, invece, la stella di Keynes è definitivamente tramontata, la sua teoria è «sbagliata [e] ci ha ridotto in posizione precaria» e, di conseguenza, l'essere definiti keynesiani è addirittura considerato un'offesa dagli «economisti di valore con meno di 40 anni».

L'estrema divaricazione dei giudizi deriva, in larga misura, da opinioni radicalmente diverse sul funzionamento effettivo del sistema economico lasciato a se stesso. Per Keynes e per coloro che continuano ad apprezzare il suo insegnamento, il sistema non funziona necessariamente bene; può infatti generare disoccupazione di massa e rimanere bloccato in tali condizioni indefinitamente o per periodi molto lunghi. Rinunciare a regolarlo è quindi del tutto insensato. È infatti possibile farlo funzionare in modo da ottenere livelli di occupazione più soddisfacenti utilizzando, previ i necessari adattamenti, politiche espansive (fiscali e monetarie) del tipo di quelle suggerite da Keynes negli anni '30 per affrontare la sfida della grande depressione.

Coloro che considerano l'insegnamento di Keynes privo di valore, anzi nocivo, ritengono invece che il sistema economico funzioni sostanzialmente bene, salvo forse per periodi brevi, se sui mercati si lasciano agire le forze della concorrenza senza intralci o interventi regolatori da parte pubblica. Le politiche keynesiane, se pure transitoriamente apportatrici di qualche effetto benefico sull'occupazione, sarebbero foriere di danni molto gravi nel lungo periodo. Avrebbero infatti l'effetto di scatenare l'inflazione, di deteriorare progressivamente le finanze pubbliche e, in conclusione, di provocare in periodo più lungo livelli di disoccupazione ben superiori a quelli iniziali. Per la verità, diversi critici distinguono abbastanza nettamente tra Keynes e i keynesiani, ritenendo il maestro molto meno irragionevole degli allievi e assai poco disposto a proporre aumenti eccessivi della spesa pubblica (specie di quella di parte corrente, ad es. per pensioni) che scardinano i bilanci e provocano l'inflazione.

A far pendere la bilancia a favore o contro Keynes ha contribuito molto anche l'evoluzione effettiva dei sistemi economici. Il quarto di secolo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale è stato infatti definito da Hicks come «l'era di Keynes». In quel periodo infatti gli si riconosceva, quasi universalmente, il merito di aver insegnato il modo di regolare l'economia così da esorcizzare lo spettro della disoccupazione di massa garantendo condizioni di crescita sostenuta e di relativa stabilità dei prezzi.

Negli anni '70, in concomitanza con la comparsa dell'inflazione e con il vistoso rallentamento delle economie occidentali, è montata invece una marea anti-keynesiana di intensità via via crescente. Keynes è stato posto sul banco degli imputati e accusato delle colpe più gravi: dal dissesto delle finanze pubbliche al dilagante assistenzialismo, dall'inflazione sfrenata all'inevitabile disoccupazione successiva. Sarebbe forse stato meglio imputare di queste colpe i governi e anche certi economisti keynesiani che non avevano ben considerato le ragioni delle numerose perplessità che Keynes aveva manifestato a proposito delle misure di espansione della spesa pubblica corrente che egli considerava come foriere di rischi tutt'altro che irrilevanti. Ma è stato più facile screditare Keynes al fine di riproporre l'ortodossia del laissez-faire e di bandire conseguentemente dall'agenda dei politici ogni intenzione interventista.

Ma da oltre un decennio il prestigio di Keynes è tornato a crescere, quanto meno in Europa. Le sue opere. non solo quelle principali, vengono ristudiate con occhio attento a trovarvi insegnamenti utili ad affrontare il problema della disoccupazione che affligge l'Europa oggi come ai tempi di Keynes. Tutti sanno che le situazioni non sono affatto identiche. Hanno però alcuni aspetti comuni. Appare quindi possibile discernere quella parte dell'insegnamento di Keynes che è ancora valida oggi da quella che invece ha fatto il suo tempo. Non è tornata di moda la conventional wisdom keynesiana degli anni '50-'60 ma, diversamente da quanto era avvenuto in seguito, sembra che oggi si sia ben lontani dal tacciare di conventional unwisdom l'impostazione teorica di Keynes e l'insieme delle politiche economiche che ne derivano.

[...]

La valutazione dell'opera di Keynes, come è stato detto all'inizio di questa introduzione, è ancora oggi oggetto di controversie aspre e spesso faziose. Gli accusatori si guardano bene dal ricordare che egli era contrario all'inflazione, alle nazionalizzazioni, alla finanza allegra e all'eccessiva limitazione delle libertà economiche. I difensori dimenticano invece l'infelice e infausta affermazione della Teoria generale sull'utilità di scavare buche (v. cap. 10, par. VI) e sembrano non riconoscere che, per moltissimo tempo, la quasi generalità degli economisti keynesiani non ha tenuto in molta considerazione le preoccupazioni anti-inflazionistiche di Keynes e quelle sui rischi di una dilatazione eccessiva della spesa per consumi e trasferimenti pubblici. Il fatto stesso che si continui a polemizzare, con tanta asprezza e dopo tanto tempo, rappresenta indubbiamente una prova che il suo insegnamento ha lasciato un segno piuttosto marcato.

Trascurando per un momento le polemiche, si può innanzitutto affermare che ci sono diversi aspetti dell'eredità di Keynes che sono divenuti patrimonio comune. Da questo punto di vista, appare possibile riferire agli economisti di oggi quello che Pigou diceva dei suoi contemporanei: «Può ben essere che dobbiamo proprio a lui non poco di quello che adesso crediamo di aver sempre saputo». Si può ad es. ricordare: l'importanza dell'analisi macroeconomica; la generale accettazione degli schemi di contabilità nazionale e l'uguaglianza contabile tra risparmio e investimento; la più attenta considerazione della moneta come riserva di valore alternativa ad altre attività finanziarie; il ruolo più pregnante attribuito all'incertezza, alle aspettative e alla fiducia degli operatori; ecc. Inoltre, anche l'affermazione di Keynes che la deflazione è un male peggiore di un'inflazione moderata è oggi quasi generalmente condivisa (anche dalla Banca Centrale Europea, almeno a stare alle dichiarazioni ufficiali).

Sulla relazione macroeconomica tra domanda e offerta, oltre a radicali contrapposizioni, hanno oggi corso anche posizioni un po' più variegate. I keynesiani continuano a ritenere che la domanda svolga un ruolo determinante, ma appaiono (finalmente) sempre più disposti a non sottovalutare quello dell'offerta e, di conseguenza, ad appoggiare proposte volte ad aumentare la flessibilità dei mercati dei beni e del lavoro. Per contro, molti appartenenti al campo avverso, pur continuando a privilegiare ampiamente gli aspetti relativi all'offerta e a negare ogni validità alle tesi (ingenue e meccanicistiche) del keynesismo imperante fino agli anni '70, osservano con preoccupazione la persistenza della disoccupazione europea e non negano che le aspettative negative e la debolezza della domanda, che per lo più ritengono derivare da fiscalità eccessiva, ne siano almeno parzialmente responsabili. L'estremismo sembra quindi un po' meno accentuato da entrambe le parti. Questo fatto può favorire il raggiungimento del consenso su alcune proposte particolari di politica economica, ma non lascia intravedere la possibilità di una nuova sintesi teorica. Rimangono infatti ancora radicalmente opposte le rispettive visioni sul funzionamento del sistema economico lasciato a se stesso: se sia o meno caratterizzato da instabilità molto forte e se sia o meno capace di garantire livelli soddisfacenti di occupazione.

Tutte le teorie economiche sono figlie della propria epoca e subiscono inevitabilmente il logorio del tempo. Quelle di Keynes non fanno certo eccezione. Tuttavia, appare quanto meno singolare che, essendo state forgiate in un periodo di acuta instabilità e di forte disoccupazione, siano state ritenute adatte a interpretare e siano anche state utilizzate per regolare l'andamento economico dei diversi paesi negli anni '50-'60, proprio quelli caratterizzati da grande stabilità e da notevoli successi sul fronte occupazionale. Giocavano allora a favore, per la generalità dei paesi sviluppati, una serie di fenomeni che andavano dal rapido e continuo aumento dei redditi reali alla moderazione salariale e alla bassa inflazione, dalla crescita regolare della produttività all'energia a basso costo, dalle aspettative ottimistiche delle imprese alla sostenuta accumulazione di capitale, dal buon funzionamento del sistema di Bretton Woods alla stabilità dei cambi e dei mercati finanziari. In queste condizioni, la regolazione macroeconomica avrebbe dovuto svolgere una funzione abbastanza modesta. Così non avvenne, forse anche per l'eccessiva fiducia dei governi, e di molti keynesiani loro consiglieri, di star bene operando e di poter fare ancora meglio: quasi una sindrome da mosca cocchiera (non erano infatti loro i veri artefici dei successi economici) coniugata a una specie di delirio da onnipotenza. Il discredito, che avrebbe correttamente dovuto colpire gli apprendisti stregoni, si riverberò invece su tutto l'insegnamento di Keynes.

Gli eventi successivi stanno però a testimoniare che instabilità e crisi non rappresentano eccezioni di breve durata lungo un percorso di svolgimento ordinato delle vicende economiche; sono invece fenomeni ricorrenti. Siccome alla base delle teorie di Keynes sta proprio l'ipotesi che simili eventi possano tipicamente verificarsi, dovrebbe apparire evidente l'opportunità di rivisitarle con grande attenzione, invece di accettare come «pensiero unico» le conclusioni di teorie che si fondano su ipotesi opposte. La rivisitazione potrebbe infatti suggerire considerazioni e punti di vista finora negletti, la cui rilevanza sarebbe necessario verificare e ovviamente aggiornare. Uno dei più importanti lasciti di Keynes consiste appunto nella sua insistenza che le teorie economiche dovessero servire a capire la realtà e dovessero perciò adattarsi ad essa, senza alcun riguardo per ogni tipo di ortodossia. Dovremmo tutti imparare da lui che non si sentiva affatto obbligato a difendere a oltranza le proprie posizioni precedenti e affermava di svegliarsi «ogni mattina come un bimbo appena nato».

Terenzio Cozzi

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 107

LA FINE DEL LAISSEZ-FAIRE
[1926]



Quel modo di intendere gli affari pubblici che si può chiamare individualismo e laissez-faire trasse il proprio sostegno da molte diverse correnti di pensiero e fonti di sentimento. I nostri filosofi ci dominarono per più di cento anni perché, miracolosamente, essi erano quasi tutti d'accordo, o sembravano esserlo, su quest'unica questione. Né ancor oggi le cose sono diverse; ma un cambiamento è nell'aria. Si odono solo confusamente quelle che furono un tempo le voci più chiare e distinte che abbiano mai educato politicamente gli uomini. L'orchestra di strumenti diversi, il coro di suoni distinti, recede infine in lontananza.

Alla fine del secolo XVII il diritto divino dei monarchi cedeva il posto alla libertà naturale e al contratto, e al diritto divino della chiesa subentrava il principio della tolleranza e il concetto che una chiesa «è una società volontaria di uomini» i quali si riuniscono «in modo assolutamente libero e spontaneo». Cinquant'anni dopo, l'origine divina e la voce assoluta del dovere cedevano il posto ai calcoli dell'utilità. Nelle mani di Locke e Hume queste dottrine originavano l'individualismo. Il contratto presupponeva diritti nell'individuo; la nuova etica, in sostanza nulla di più di uno studio scientifico delle conseguenze di un egoismo razionale, poneva al centro l'individuo. «Il solo disturbo che domanda la virtù», disse Hume, «è il calcolo esatto e la costante preferenza della maggiore felicità». Queste idee concordavano con le nozioni pratiche di conservatori e di giuristi. Esse offrivano un soddisfacente fondamento intellettuale ai diritti di proprietà e alla libertà dell'individuo abbiente di fare ciò che gli piacesse di sé e dei suoi beni. Questo fu uno dei contributi del secolo XVIII all'ordine di idee nel quale ancora viviamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 163

TEORIA GENERALE
DELL'OCCUPAZIONE, DELL'INTERESSE
E DELLA MONETA
[1936]



PREFAZIONE


Questo libro è diretto soprattutto ai miei colleghi economisti; spero che riuscirà intelligibile ad altri. Ma il suo scopo principale è di trattare difficili questioni di teoria, e soltanto in secondo luogo le applicazioni di questa teoria alla pratica. Se infatti l'economia ortodossa è in difetto, l'errore va trovato non nella sovrastruttura, che è stata eretta con gran cura di coerenza logica, ma nella scarsa chiarezza e generalità delle premesse. Non posso quindi raggiungere il mio scopo di persuadere gli economisti a riesaminare criticamente certi loro presupposti fondamentali, se non mediante un ragionamento altamente astratto ed anche mediante molta polemica. Avrei desiderato che di questa polemica ve ne fosse potuta esser di meno; ma l'ho ritenuta importante, non soltanto per spiegare il mio punto di vista, ma anche per mostrare sotto quali aspetti esso si scosta dalla teoria prevalente. Prevedo che coloro i quali sono tenacemente legati a quella che chiamerò «la teoria classica» oscilleranno fra l'opinione che io sia affatto in errore e l'opinione che io non dica nulla di nuovo. Spetta ad altri determinare se è giusta una di queste alternative, o se ne esiste una terza. I miei brani a carattere polemico hanno lo scopo di offrire materiale per una risposta; e devo chiedere scusa se, dove cerco di porre distinzioni nette, la mia polemica è troppo aspra. Io stesso ho sostenuto con convinzione e per molti anni le teorie che ora attacco, e ritengo di non essere ignorante dei loro punti forti.

Gli argomenti in discussione sono di un'importanza che non può essere esagerata. Ma se le mie spiegazioni sono corrette, sono i miei colleghi economisti e non il pubblico generale che devo convincere per primi. A questo stadio della discussione il pubblico generale, sebbene sia benvenuto nel dibattimento, è soltanto un uditore esterno del tentativo di un economista di risolvere divergenze profonde di opinione fra colleghi economisti, le quali hanno attualmente quasi distrutto l'influenza pratica della teoria economica; influenza che non potrà risollevarsi fin tanto che quelle divergenze non saranno composte.

La relazione fra questo libro e il mio Trattato sulla moneta, pubblicato cinque anni or sono, è probabilmente più chiara a me stesso di quanto sarà ad altri; e quella che nella mia mente è un'evoluzione naturale secondo una linea di pensiero che ho perseguita per parecchi anni, può talvolta colpire il lettore come un mutamento di opinione tale da generare confusione. Questa difficoltà non è alleviata da certe variazioni di terminologia che ho ritenuto di dover compiere. Ho indicato queste variazioni di linguaggio nel corso delle pagine seguenti; ma la relazione generale fra le due opere può essere espressa brevemente come segue. Quando cominciai a scrivere il Trattato sulla moneta, seguivo ancora le linee tradizionali, considerando l'influenza della moneta come qualcosa, per così dire, di separato dalla teoria generale della domanda e dell'offerta. Quando finii di scriverlo, avevo compiuto qualche progresso nel far risalire la teoria monetaria per farla divenire una teoria della produzione nel suo complesso. Ma la mia scarsa emancipazione da idee preconcette si rivelò in quello che ora mi sembra il difetto preminente delle parti teoriche di quell'opera (ossia i libri III e IV): il non essere riuscito a trattare a fondo degli effetti di variazioni del livello di produzione. Le mie «equazioni fondamentali» erano un quadro istantaneo preso col presupposto di una produzione data. Esse cercavano, di mostrare come, assumendo un dato volume di produzione, potessero svilupparsi forze tali da implicare uno squilibrio dei profitti, e quindi da richiedere una variazione del livello della produzione. Ma lo sviluppo dinamico, distinto dal quadro istantaneo, rimase incompleto e molto confuso. Questo libro, invece, è finito per diventare in sostanza uno studio delle forze che determinano variazioni del volume della produzione e dell'occupazione a livello globale; e, mentre vi si trova che la moneta entra nello schema economico in un modo essenziale e peculiare, i particolari tecnici monetari recedono in secondo piano. Troveremo che un'economia monetaria è essenzialmente un'economia nella quale le mutevoli aspettative sul futuro influenzano non soltanto la direzione, ma anche il volume dell'occupazione. Ma il nostro metodo, di analizzare i comportamenti economici del presente sotto l'influenza delle mutevoli opinioni sul futuro, è un metodo che dipende dalle reazioni reciproche della domanda e dell'offerta, ed in tal modo è collegato con la nostra teoria fondamentale del valore. Giungiamo così ad una teoria più generale, che comprende come caso particolare la teoria classica che ci è familiare.

Lo scrittore di un libro come questo, avventurandosi su sentieri malcerti, deve contar molto sulla critica e la conversazione, se vuoi evitare una troppo grande proporzione di errori. È incredibile a quante sciocchezze si possa temporaneamente credere se si pensa per troppo tempo da soli, specialmente in economia (oltreché nelle altre scienze sociali), dove è spesso impossibile sottoporre le proprie idee ad una prova conclusiva, sia formale che sperimentale. In questo libro, forse più ancora che scrivendo il Trattato sulla moneta, mi sono avvalso del consiglio costante e della critica costruttiva di R. F. Kahn; e molte cose non avrebbero assunto la forma attuale se non per suo suggerimento. Ho ricevuto grande aiuto anche dalla signora Joan Robinson, da R. G. Hawtrey e da R. F. Harrod, i quali hanno letto tutte le bozze di stampa. L'indice è stato compilato da D. M. Bensusan-Butt del King's College di Cambridge.

La composizione di questo libro è stata per l'autore una lunga lotta di evasione, e tale dev'esserne la lettura per la maggioranza dei lettori affinché l'assalto dell'autore su di loro abbia successo: una lotta di evasione da modi abituali di pensiero e di espressione. Le idee che qui sono espresse tanto laboriosamente sono estremamente semplici e dovrebbero essere ovvie. La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell'evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente.

13 dicembre 1935.

J. M. KEYNES

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 185

LIBRO I
INTRODUZIONE



CAPITOLO I.
LA TEORIA GENERALE



Ho intitolato questo libro Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, insistendo sull'aggettivo generale. Lo scopo di tale titolo è di contrapporre il carattere dei miei ragionamenti e delle mie conclusioni a quelli formulati nella stessa materia dalla teoria classica, la quale ha costituito la base della mia formazione scientifica e domina il pensiero economico, sia pratico che teorico, delle sfere dirigenti e degli ambienti accademici della generazione presente e delle precedenti, da cento anni a questa parte. Dimostrerò che i postulati della teoria classica si possono applicare soltanto ad un caso particolare e non a quello generale, poiché la situazione che essa presuppone è un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre che le caratteristiche del caso particolare presupposto dalla teoria classica non sono quelle della società economica nella quale realmente viviamo; cosicché i suoi insegnamenti sono ingannevoli e disastrosi se si cerca di applicarli ai fatti dell'esperienza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 188

CAPITOLO 2.
I POSTULATI DELL'ECONOMIA CLASSICA



La maggior parte dei trattati sulla teoria del valore e della produzione si occupano principalmente della distribuzione, fra diversi impieghi, di un volume dato di risorse occupate; e delle condizioni che, supposta l'occupazione di questa quantità di risorse, determinano le loro remunerazioni relative e i valori relativi dei loro prodotti.

Si è spesso trattata in forma descrittiva anche la questione del volume delle risorse disponibili, nel senso delle dimensioni della popolazione atta all'occupazione, dell'ammontare delle ricchezze naturali e del capitale accumulato. Ma raramente si è esaminata nei suoi minuti particolari la teoria pura di ciò che determina la effettiva occupazione delle risorse disponibili. Sarebbe assurdo, naturalmente, dire che non è stata esaminata affatto; poiché di essa si sono occupate tutte le discussioni – e ve ne sono state molte – che riguardano le fluttuazioni dell'occupazione. Voglio dire non che l'argomento sia stato trascurato, ma che la teoria fondamentale che ne forma la base è stata ritenuta così semplice ed ovvia da meritare tutt'al più una semplice menzione.


I

La teoria classica dell'occupazione – che si suppone semplice e ovvia – si è basata, secondo me, su due postulati fondamentali, i quali però non sono stati praticamente discussi:

I. Il salario è uguale al prodotto marginale del lavoro.

Ossia il salario di un individuo occupato è uguale al valore che andrebbe perduto se l'occupazione si riducesse di una unità (dopo aver detratto ogni altro costo che sarebbe evitato in séguito a tale ridotta produzione); con la limitazione che tale eguaglianza può essere disturbata, secondo certi princìpi, se la concorrenza e i mercati sono imperfetti.

II. L'utilità del salario, per un dato ammontare di lavoro occupato, è uguale alla disutilità marginale di quell'ammontare di occupazione.

Ossia, il salario reale di un individuo occupato è quello esattamente sufficiente, a giudizio degli stessi lavoratori occupati, a suscitare l'offerta della quantità di lavoro effettivamente occupata; con la qualificazione che, per ciascuna unità di lavoro, l'eguaglianza può essere disturbata da coalizioni fra le unità occupabili, analoghe alle imperfezioni della concorrenza che qualificano il primo postulato. La disutilità di cui sopra comprende tutti i motivi per i quali un uomo o un gruppo di uomini possono rifiutarsi di offrire il loro lavoro, piuttosto di accettare un salario la cui utilità sia, per loro, inferiore ad un certo minimo.

Questo postulato è compatibile con la disoccupazione cosiddetta «frizionale». Infatti, se lo si interpreta con realismo, esso consente di tener conto di varie imperfezioni di aggiustamento che ostacolano un'occupazione piena e continua: ad esempio, la disoccupazione dovuta a squilibri temporanei fra le quantità relative di risorse specializzate, in séguito ad errori di calcolo o a discontinuità della domanda; oppure a sfasamenti di tempo derivanti da mutamenti imprevisti; oppure al fatto che il passaggio da un'occupazione all'altra non può compiersi senza un certo ritardo, onde esisterà sempre, in una società che non sia statica, una parte di risorse che, fra l'una e l'altra occupazione, rimangono disoccupate. Ed oltre che con la disoccupazione «frizionale», il postulato è compatibile anche con la disoccupazione «volontaria» dovuta al rifiuto o all'incapacità di un singolo lavoratore – in séguito a disposizioni legislative o consuetudini sociali, o a coalizioni per la contrattazione collettiva, o a lentezza nell'adattarsi a mutamenti, o a semplice ostinazione umana — di accettare una remunerazione corrispondente al valore del prodotto attribuibile alla sua produttività marginale. Ma non vi sono altri casi all'infuori di queste due categorie, di disoccupazione «frizionale» e di disoccupazione «volontaria»: i postulati dell'economia classica non ammettono la possibilità di esistenza di una terza categoria, quella della disoccupazione «involontaria», come la definirò in seguito.

Tenuto conto delle qualificazioni suddette, secondo la teoria classica, il volume della risorse occupate è pienamente determinato dai due postulati. Il primo ci dà la scheda di domanda per l'occupazione, il secondo la scheda di offerta; e il volume dell'occupazione è determinato dal punto in cui l'utilità del prodotto marginale diventa uguale alla disutilità dell'occupazione marginale.

Da quanto esposto sopra risulterebbero possibili soltanto quattro modi di accrescere l'occupazione:

a) un miglioramento dell'organizzazione o della preveggenza che diminuisca la disoccupazione «frizionale»;

b) una diminuzione della disutilità marginale del lavoro, espressa dal salario reale al quale si può ottenere una maggiore offerta di lavoro, in modo da diminuire la disoccupazione «volontaria»;

c) un aumento della produttività fisica marginale del lavoro nelle industrie che producono merci-salario (ossia, secondo la comoda espressione del prof. Pigou, quelle merci dai cui prezzi dipende l'utilità dei salari monetari); oppure

d) un aumento dei prezzi delle altre merci rispetto ai prezzi delle merci-salario, insieme con uno spostamento delle spese di coloro che percepiscono redditi non salariali, dalle merci-salario ad altre merci.

Se ben comprendo, questa è la sostanza della Teoria della disoccupazione del prof. Pigou, che è l'unica esposizione particolareggiata esistente della teoria classica dell'occupazione.


II

Ci si può chiedere se sia vero che non esistano altri casi all'infuori delle due categorie suddette, dato che la popolazione, in generale, non compie tutto il lavoro che sarebbe disposta a compiere sulla base dei salari correnti; bisogna infatti riconoscere che di regola sarebbe offerto maggior lavoro, al salario monetario esistente, se venisse domandato. La scuola classica concilia questo fenomeno col suo secondo postulato, sostenendo che, mentre la domanda di lavoro al salario monetario esistente può essere soddisfatta prima che siano occupati tutti coloro che sono disposti a lavorare a quel salario, questa situazione è dovuta ad un accordo palese o tacito fra i lavoratori a non lavorare per meno; e che se i lavoratori nel loro insieme fossero disposti ad accettare una riduzione dei salari monetari, sarebbe possibile un'occupazione più larga. Se ciò si verifica, la disoccupazione, benché apparentemente involontaria, non è tale a rigore, e dovrebbe essere compresa nella categoria precedente di disoccupazione «volontaria» dovuta agli effetti della contrattazione collettiva, ecc.

Ciò suscita due osservazioni; la prima delle quali riguarda l'atteggiamento effettivo dei lavoratori nei confronti dei salari reali e nei confronti dei salari monetari e non è teoricamente fondamentale, mentre la seconda è fondamentale.

Supponiamo per un momento che i lavoratori non siano disposti a lavorare per un salario monetario inferiore, e che una riduzione del livello esistente dei salari monetari provochi, attraverso scioperi o in altro modo, il ritiro dal mercato del lavoro di una parte dei lavoratori attualmente occupati. Devesi da ciò dedurre che il livello esistente dei salari reali misuri esattamente la disutilità marginale del lavoro? Non necessariamente. Poiché, sebbene una riduzione del salario monetario esistente provocherebbe il ritiro di parte dei lavoratori, non è detto che abbia lo stesso effetto una discesa del valore del salario monetario esistente in termini di merci-salario, se tale discesa fosse dovuta ad un aumento del prezzo di queste merci. In altre parole, può darsi il caso che entro certi limiti ciò che i lavoratori chiedono sia un salario monetario minimo e non un salario reale minimo. La scuola classica ha ammesso tacitamente che questo non porti alcun mutamento significativo alla sua teoria. Ma le cose non stanno così: giacché se l'offerta di lavoro non è funzione dei salari reali come unica variabile, il suo ragionamento crolla interamente e lascia del tutto indeterminata la questione di quale sarà l'occupazione effettiva. Sembra che la scuola classica non si sia resa conto del fatto che, se l'offerta di lavoro non è funzione esclusiva dei salari reali, la sua curva di offerta di lavoro si sposterà fortemente ad ogni movimento dei prezzi. Così il suo metodo è legato alle sue ipotesi particolari, e non può adattarsi a trattare il caso più generale.

Ora, la comune esperienza ci dice, senza alcun dubbio, che una situazione nella quale i lavoratori stipulano (entro certi limiti) un salario monetario anziché un salario reale, lungi dall'essere una mera possibilità, è il caso normale. Mentre di norma i lavoratori opporranno resistenza ad una riduzione dei salari monetari, non è d'uso che essi ritirino l'offerta del proprio lavoro ogni qual volta vi sia un aumento dei prezzi delle merci-salario. Si dice talvolta che sarebbe illogico per i lavoratori opporre resistenza ad una riduzione dei salari monetari, ma non ad una riduzione dei salari reali. Per le ragioni che si daranno fra breve (alla sez. III), ciò potrebbe non essere tanto illogico quanto appare a prima vista; e come vedremo è una fortuna che sia così. Comunque, logico o illogico che sia, l'esperienza mostra che è questo il modo nel quale di fatto i lavoratori si comportano.

Inoltre, non è chiaramente sostenuta dai fatti l'opinione che la disoccupazione che caratterizza uno stato di depressione sia dovuta al rifiuto da parte dei lavoratori di accettare una riduzione dei salari monetari. Non è molto plausibile asserire che la disoccupazione negli Stati Uniti nel 1932 fosse dovuta al rifiuto ostinato da parte dei lavoratori di accettare una riduzione dei salari monetari, oppure alla domanda ostinata di un salario reale superiore a quello che la produttività del sistema economico era in grado di fornire. Si verificano ampie variazioni del volume dell'occupazione senza alcun cambiamento visibile delle richieste reali minime dei lavoratori o della produttività del lavoro. I lavoratori non sono affatto più esigenti nella depressione che nella prosperità, al contrario; né la produttività fisica del lavoro è inferiore. Questi fatti dell'esperienza costituiscono un primo motivo per mettere in dubbio l'adeguatezza dell'analisi classica.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 435

CAPITOLO 18.
RIESPOSIZIONE DELLA TEORIA GENERALE
DELL'OCCUPAZIONE



I
Siamo ora in grado di raccogliere le fila del nostro ragionamento. Può essere utile indicare innanzitutto quali sono gli elementi del sistema economico che si possono generalmente assumere come dati, quali sono le variabili indipendenti e quali sono le variabili dipendenti del nostro sistema.

Assumiamo come date le capacità lavorative e il volume esistente delle forze di lavoro disponibili, la qualità e la quantità esistenti dei beni capitali disponibili, la tecnica esistente, l'intensità della concorrenza, i gusti e le abitudini del consumatore, la disutilità di diverse intensità di lavoro e delle attività di direzione e di organizzazione, oltre alla struttura sociale comprendente le forze – escluse le variabili di cui appresso – le quali determinano la distribuzione del reddito nazionale. Ciò non significa che si assumano questi fattori come costanti; significa semplicemente che in questo luogo non esaminiamo né prendiamo in considerazione gli effetti e le conseguenze di variazioni di tali fattori.

Le nostre variabili indipendenti sono in primo luogo la propensione al consumo, la scheda dell'efficienza marginale del capitale e il tasso di interesse; sebbene, come abbiamo visto, queste siano suscettibili di analisi ulteriore.

Le nostre variabili dipendenti sono il volume di occupazione e il reddito o dividendo nazionale, misurato in unità di salario.

I fattori che abbiamo assunti come dati influiscono sulle nostre variabili indipendenti, ma non le determinano completamente. Per esempio, la scheda dell'efficienza marginale del capitale dipende in parte dalla quantità esistente di impianti e scorte, che è uno dei fattori dati, ma in parte dallo stato dell'aspettativa a lungo termine, il quale non può venir dedotto dai fattori dati. Ma vi sono certi altri elementi che i fattori dati determinano in modo così completo che possiamo considerare questi valori derivati come se fossero essi stessi valori dati. Per esempio, i fattori dati ci permettono di dedurre quale livello di reddito nazionale misurato in termini di unità di salario corrisponderà ad ogni dato livello di occupazione; cosicché, entro la struttura economica che assumiamo come data, il reddito nazionale dipende dal volume dell'occupazione, ossia dalla misura dell'attività correntemente applicata alla produzione, nel senso che vi è una correlazione univoca fra le due quantità. Inoltre i fattori dati ci permettono di dedurre la forma delle funzioni di offerta complessiva, le quali esprimono le condizioni fisiche dell'offerta per diversi tipi di prodotti; ossia il volume di occupazione che sarà destinato alla produzione corrispondente ad un livello dato di domanda effettiva, misurata in termini di unità di salario. Infine essi ci forniscono la funzione di offerta del lavoro (o dell'applicazione di energie umane); indicano, fra l'altro, a qual punto la funzione dell'occupazione per il lavoro in complesso diventerà inelastica.

La scheda dell'efficienza marginale del capitale dipende, però, in parte dai fattori dati e in parte dal rendimento prospettico di beni capitali di specie diverse; mentre il tasso di interesse dipende in parte dallo stato della preferenza per la liquidità (ossia dalla funzione di liquidità) e in parte dalla quantità di moneta misurata in termini di unità di salario. Possiamo dunque considerare talvolta come variabili indipendenti elementari: a) i tre fattori psicologici fondamentali, ossia la propensione psicologica al consumo, l'atteggiamento psicologico nei confronti della liquidità e l'aspettativa psicologica del reddito futuro di attività capitali; b) l'unità di salario, quale è determinata dalle negoziazioni concluse fra datori di lavoro e lavoratori; e c) la quantità di moneta, quale è determinata dall'azione della banca centrale. Cosicché, se assumiamo come dati i fattori sopra specificati, queste variabili determinano il reddito o dividendo nazionale e il volume dell'occupazione. Ma queste variabili sarebbero suscettibili a loro volta di analisi ulteriore, e non sono i nostri elementi indipendenti finali, o per così dire atomici.

La divisione delle determinanti del sistema economico nei due gruppi dei fattori dati e delle variabili indipendenti è naturalmente affatto arbitraria da un punto di vista assoluto. La divisione dev'esser fatta interamente sulla base dell'esperienza, in modo da corrispondere da una parte ai fattori le cui variazioni sembrano esser così lente o di così scarso rilievo da esercitare un'influenza soltanto debole, passeggera e relativamente trascurabile sul risultato che cerchiamo; dall'altra, a quei fattori le cui variazioni mostrano in pratica di esercitare un'influenza dominante su tale risultato. Il nostro scopo presente è di scoprire ciò che determina in un periodo qualsiasi, in un dato sistema economico, il reddito nazionale e (ciò che è press'a poco lo stesso) il volume dell'occupazione; la qual cosa — in uno studio complesso come quello dell'economia, nella quale non si può sperare di pervenire a generalizzazioni assolutamente esatte — significa scoprire i fattori le cui variazioni contribuiscono principalmente a determinare il risultato che cerchiamo. Il nostro còmpito finale potrebbe essere di scegliere quelle variabili che possono venire deliberatamente controllate o manovrate dall'autorità centrale, in un sistema come quello nel quale effettivamente viviamo.


II

Cerchiamo ora di riassumere il ragionamento dei capitoli precedenti, esaminando i singoli fattori nell'ordine inverso a quello nel quale li abbiamo introdotti.

Vi sarà un incentivo a spingere l'ammontare dell'investimento nuovo fino al punto in cui l'aumento del prezzo di offerta di ciascun tipo di attività capitale, considerato unitamente al rendimento prospettico di quel capitale, fa scendere l'efficienza marginale del capitale in generale ad un livello approssimativamente eguale al tasso di interesse. In altre parole, le condizioni fisiche dell'offerta nelle industrie producenti beni capitali, lo stato della fiducia riguardo al rendimento prospettico, l'atteggiamento psicologico nei confronti della liquidità e la quantità di moneta (calcolata preferibilmente in termini di unità di salario) determinano congiuntamente l'ammontare dell'investimento nuovo.

Ma un aumento (o una diminuzione) dell'investimento nuovo dovrà provocare un aumento (o una diminuzione) dell'ammontare del consumo; poiché il comportamento del pubblico è in generale di natura tale che esso è disposto ad allargare (o a restringere) il divario fra reddito e consumo soltanto se il suo reddito va aumentando (o diminuendo). Ossia le variazioni dell'ammontare del consumo sono in generale nella stessa direzione (benché di minore ampiezza) delle variazioni dell'ammontare del reddito. La relazione fra l'incremento del consumo e l'incremento del reddito che si deve accompagnare ad un incremento dato del risparmio è espressa dalla propensione marginale al consumo. Il rapporto così determinato fra un incremento dell'investimento e l'incremento corrispondente del reddito complessivo, entrambi misurati in unità di salario, è espresso dal moltiplicatore dell'investimento.

Se supponiamo infine (come prima approssimazione) che il moltiplicatore dell'occupazione sia uguale al moltiplicatore dell'investimento, possiamo, applicando il moltiplicatore all'incremento (o al decremento) dell'investimento provocato dai fattori già indicati, dedurne la variazione dell'occupazione.

Un incremento (o un decremento) dell'occupazione deve però innalzare (o abbassare) la scheda della preferenza per la liquidità; e vi sono tre modi nei quali esso tenderà ad aumentare la domanda di moneta: il valore della produzione aumenterà quando l'occupazione aumenta, anche se l'unità di salario e i prezzi (in termini di unità di salario) rimangono invariati; inoltre la stessa unità di salario tenderà ad aumentare col migliorare dell'occupazione; e in terzo luogo, all'aumento della produzione si accompagnerà un aumento dei prezzi (in termini di unità di salario) a causa dell'aumento dei costi nel breve periodo.

La posizione di equilibrio sarà dunque influenzata da queste ripercussioni, e da altre ancora. Inoltre, tutti indistintamente i fattori sopra elencati sono passibili di variazioni senza grande preavviso, talvolta anche notevoli. Donde la complessità estrema del corso effettivo degli eventi. Ciò non di meno, questi sembrano essere i fattori che è utile e conveniente isolare. Se esaminiamo qualunque problema concreto secondo le linee dello schema sopra esposto, lo troveremo più maneggevole: e alla nostra intuizione pratica (che può tener conto di un complesso di fatti più particolareggiato di un'analisi compiuta secondo princìpi generali) verrà offerto un materiale meno intrattabile sul quale lavorare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 566

CAPITOLO 24.
NOTE CONCLUSIVE SULLA FILOSOFIA SOCIALE
ALLA QUALE LA TEORIA GENERALE
POTREBBE CONDURRE



I
I difetti più evidenti della Società economica nella quale viviamo sono l'incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Quanto alla prima, la portata della teoria sopra esposta è ovvia. Ma vi sono anche due aspetti importanti sotto i quali essa ha rilievo anche nei riguardi della seconda.

Dalla fine del diciannovesimo secolo si è compiuto un progresso significativo verso la rimozione di disparità molto forti delle ricchezze e dei redditi mediante lo strumento dell'imposizione diretta – l'imposta e la sovraimposta sul reddito e l'imposta sulle successioni – specialmente in Gran Bretagna. Molti vorrebbero che questo processo venisse spinto molto oltre, ma sono trattenuti da due considerazioni: in parte dal timore di rendere troppo convenienti le evasioni ben congegnate oltre che di attenuare eccessivamente l'incentivo all'assunzione del rischio; ma principalmente, penso, dal convincimento che la crescita del capitale dipende da una forte motivazione al risparmio individuale, e che per larga parte tale crescita dipende dal risparmio dei ricchi sul loro superfluo. Le nostre argomentazioni non toccano la prima di queste considerazioni; ma possono notevolmente modificare il nostro atteggiamento nei riguardi della seconda. Abbiamo visto infatti che, fino al punto nel quale si afferma la piena occupazione, la crescita del capitale non dipende affatto da una bassa propensione al consumo, ma ne è invece ostacolata; e che soltanto in condizioni di occupazione piena, una bassa propensione al consumo favorisce la crescita del capitale. Inoltre l'esperienza indica che nelle condizioni esistenti il risparmio da parte di enti e mediante fondi di ammortamento è maggiore di quello necessario, e che le misure per la redistribuzione dei redditi in modo da tendere ad elevare la propensione al consumo possono dimostrarsi chiaramente favorevoli alla crescita del capitale.

La confusione in materia nella mente del pubblico è bene illustrata dall'opinione molto diffusa che le imposte di successione riducano la ricchezza capitale del paese. Se si suppone che lo stato destini il provento di queste imposte alle sue spese ordinarie, in modo da ridurre o evitare corrispondentemente le imposte sui redditi e sul consumo, è vero, naturalmente, che una politica fiscale di alte imposte di successione ha l'effetto di accrescere la propensione al consumo della collettività. Ma nella misura in cui un aumento della propensione abituale al consumo operi in generale (ossia salvo che in condizioni di occupazione piena) ad elevare nello stesso tempo l'incentivo ad investire, la conclusione che si trae comunemente è esattamente l'opposto della verità.

Il nostro ragionamento porta dunque alla conclusione che nelle condizioni contemporanee la crescita della ricchezza, lungi dal dipendere dall'astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, ne è probabilmente ostacolata. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali delle forti disuguaglianze di ricchezza. Non dico che non vi siano altre ragioni, non toccate nella nostra teoria, atte a giustificare un certo grado di disuguaglianza in certe circostanze. Ma quella conclusione elimina la principale fra le ragioni per le quali finora abbiamo ritenuto prudente muoverci con cautela. Ciò influisce particolarmente sul nostro atteggiamento nei confronti delle imposte di successione: vi sono infatti certe giustificazioni alla disuguaglianza dei redditi che non si applicano anche alla disuguaglianza delle eredità.

Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche di disuguaglianze rilevanti dei redditi e delle ricchezze, ma non di disparità tanto forti quanto quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane le quali, per potersi esplicare completamente, richiedono il movente del guadagno e la proprietà privata della ricchezza. Inoltre, l'esistenza di possibilità di guadagni monetari e di arricchimento privato può instradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell'autorità personale e in altre forme di auto-potenziamento. È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini; e mentre talvolta si denuncia il primo quale un mezzo per raggiungere il secondo, talaltra almeno ne è un'alternativa. Ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso: poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Non si deve confondere il compito di cambiare la natura umana col compito di regolarla. Nella repubblica ideale, agli uomini sarebbe insegnato, ispirato o consigliato di non interessarsi affatto alle poste del gioco; può essere purtuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della collettività, sia di fatto dédita tenacemente alla passione del guadagno monetario.


II

Ma vi è una seconda e ben più importante conseguenza dal nostro ragionamento che ha un riflesso sul futuro delle disuguaglianze di ricchezza: la nostra teoria del tasso di interesse. Si è finora citata, come giustificazione di un tasso di interesse moderatamente alto, la necessità di offrire un incentivo sufficiente al risparmio. Ma abbiamo mostrato che il livello del risparmio effettivo è determinato necessariamente dalla scala dell'investimento, e che questo è favorito da un tasso di interesse basso, purché non si cerchi di stimolare in tal modo l'investimento al di là del punto corrispondente alla piena occupazione. Corrisponde quindi al nostro vantaggio massimo ridurre il tasso di interesse fino a quel punto, relativamente alla scheda dell'efficienza marginale del capitale, al quale vi è piena occupazione.

| << |  <  |