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| << | < | > | >> |IndicePrefazione all'edizione italiana 5 di Annamaria Rivera Premessa 15 Introduzione 17 Capitolo primo Guerra e sacrificio. Dal martirio allo «zero morti» 21 «Zero-morti», morti illimitati 21 Sacrificio di sé, sacrificio dell'altro 24 Sacrificio o pura distruzione? 28 Martirio o nichilismo? 32 Capitolo secondo Guerra e catastrofe. Il paradosso del «rischio zero» 37 Avversione per il rischio e panico di fronte alla catastrofe 37 La guerra, ovvero la certezza della catastrofe 41 Capitolo terzo Guerra e reciprocità negativa. L'opposizione amico/nemico 47 Logica dell'immediatezza e reciprocità negativa 47 Le guerre contemporanee e l'opposizione amico/nemico 51 Guerra totale e politica d'eccezione 54 Capitolo quarto La guerra e i cerchi dello scambio. Lo spazio tripartito dell'ostilità 57 La guerra e la logica dello scambio 57 La guerra come aspirazione alla politica 62 La guerra e la reversibilità della relazione 66 La fase estrema dell'ostilità: la guerra totale 71 Capitolo quinto Guerra reale e guerra assoluta. Un approccio alla guerra totale 75 Guerre limitate e guerre illimitate 75 Guerra reale e guerra assoluta 78 L'origine della guerra totale 82 Le guerre totali contemporanee 86 Capitolo sesto Guerra totale e impero. L'escalation verso l'estremo 89 L'impero come ordine militare 89 «Scontro di civiltà» o frattura nell'impero? 95 Mimetismo e rivalità in seno all'impero 101 Capitolo settimo Guerra e sacrificio. La violenza costruita 105 La ragione sacrificale moderna 105 La violenza sacrificale al centro della guerra 111 Il sacrificio come violenza estrema 116 Capitolo ottavo Guerra e sacrificio. L'indifferenza condivisa 121 L'indifferenza di fronte alla guerra 121 L'indifferenza verso il principio del sacrificio 124 La natura sacrificale della guerra 128 La figura animalesca del nemico 133 Capitolo nono Guerra e politica. L'assenza al mondo 137 Quando la guerra sfugge alla politica 137 Il rovesciamento dell'aforisma di von Clausewitz 138 Postfazione. La guerra come sacrificio 141 Perché guerra e sacrificio? 141 La guerra è sacrificio, il sacrificio è violenza 142 Sciogliere il nodo gordiano del sacrificio 147 Bibliografia 151 Indice analitico 159 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Prefazione all'edizione italiana
di Annamaria Rivera
Mais nous sortirons un jour de l'βge du bronze et de la préhistoire quand la pitié l'emportera sur le goϋt du sang et le respect des droits de l'animal sur la cruauté des ses bourreaux. Théodore Monod La citazione in esergo, tratta da un'intervista a Théodore Monod, scienziato, esploratore, etnografo, militante pacifista e animalista, è un utile spunto per esporre brevemente uno dei nuclei di riflessione il più centrale, forse di questo prezioso libro di Mondher Kilani. Mi riferisco alla sua rilettura critica del sacrificio, che è in realtà la chiave dell'analisi della violenza estrema e della guerra, che egli qui propone. Come è ben noto, il sacrificio è stato considerato, soprattutto dall'antropologia, un'istituzione fondamentale alla base della «civilizzazione» umana, un dispositivo indispensabile a sublimare, canalizzare, addomesticare la violenza, per ristabilire l'equilibrio sociale. Distanziandosi da molte interpretazioni convenzionali, Kilani ne mostra, invece, gli aspetti più problematici e inquietanti, comprese l'indifferenza o la crudeltà, sia pure sublimate ed espiate mediante il rito, verso la sorte delle creature sacrificate. Così facendo, egli implicitamente rifiuta di considerare al pari di un dato della natura la millenaria propensione umana a fare degli animali gli esseri per eccellenza sacrificabili. Soprattutto egli osa mettere in discussione la consolidata tendenza a collocare concettualmente su due versanti diversi, o addirittura opposti, la grande violenza distruttiva, che si manifesta attraverso la guerra e il genocidio, e la piccola violenza sacralizzata, regolatrice della brutale violenza originaria, che si esprime attraverso il sacrificio. Mostra così, in modo convincente, come la ragione sacrificale non sia appannaggio esclusivo delle società tradizionali, ma permei i genocidi perpetrati in epoca contemporanea e perfino la guerra globale attuale; e come, d'altro canto, il sacrificio non sia sempre al contrario di ciò che pensa una buona parte degli antropologi quell'atto simbolico, restauratore dell'equilibrio sociale, che sempre metterebbe in scena una violenza minima e stilizzata al massimo. «Il movimento della ragione sacrificale afferma a giusta ragione Kilani può anche invertire il suo corso» e finire per sostenere e legittimare veri e propri massacri. Insomma, ben lontana dall'essere sempre contenuta, la violenza che si pratica attraverso il sacrificio può, in circostanze specifiche, tracimare e produrre carneficine su larga scala: gli esempi storici non mancano, andando dalle stragi di dimensioni abnormi dei sacrifici umani aztechi fino alla macellazione di montoni su scala industriale che oggi connota i sacrifici in occasione della festa musulmana di Aid el-Kbir. Θ evidente che, quando il capro espiatorio si moltiplica a dismisura e la quantità dei sacrificati prevale sulla qualità del simbolo dell'espiazione, la ragione sacrificale soccombe alla violenza concreta e brutale. Del resto, ritenere che alla base del sacrificio vi sia un'originaria pulsione verso la violenza, tanto primordiale e ineluttabile da esigere un istituto culturale basilare che la sublimi e la regoli, non è forse cedere a una forma di determinismo naturalistico? A mio parere, una delle ragioni per cui la convenzionale lettura del sacrificio ha potuto affermarsi, al punto da divenire uno dei luoghi comuni più indiscutibili della teoria antropologica, risiede nella scarsa considerazione riservata ai non-umani in quanto esseri morali senzienti, sensibili, affettivi, intelligenti. Essendo essi implicitamente e/o inconsapevolmente valutati quasi al pari di cose, per la maggior parte degli antropologi (con alcune eccezioni importanti, tra cui Claude Lévi-Strauss ed Edmund Leach) la loro messa a morte non ha mai costituito ragione di dilemma morale o epistemologico; mentre, paradossalmente, un certo disagio morale o concettuale è conosciuto da molte delle società tradizionali in cui era/è praticato il sacrificio (e la caccia). Non a caso esse si sono dotate sia di dispositivi rituali compensatori o espiatori, atti a riparare simbolicamente all' animalicidio, sia di una serie di metafore eufemistiche volte a dissimulare la sofferenza, l'uccisione, il sacrificio cruento degli animali.
Anche a tal riguardo si può ravvisare una certa analogia fra
guerra e sacrificio. Infatti, ad accomunarli vi è, fra le altre cose,
la tendenza a dissimulare la violenza e a giustificare i massacri
in nome di qualche ragione morale o religiosa superiore. Ma
ciò non deve trarci in inganno: prendere alla lettera ciò che gli
attori sociali dicono di se stessi non è una buona lezione di
antropologia o di sociologia.
Eufemistica per antonomasia è la strategia retorica che si accompagna alla guerra globale contemporanea: dall'utopia dello «zero morti», ovvero di una guerra-non guerra chirurgica, asettica, infallibile, incruenta (ma solo per la propria parte) utopia che Kilani analizza diffusamente e con acutezza all'abituale ricorso a metafore volte ad attenuare, minimizzare o dissimulare la realtà dei bombardamenti, delle stragi, delle violenze, delle torture inflitte alle popolazioni oggetto dell'attenzione dei liberatori occidentali in armi. Non si può negare che sia proprio di tutte le guerre moderne il ricorso a lessici astratti, mondati del sangue, della sofferenza, della morte. Ma la guerra imperialista attuale che il nostro autore definisce, sulla scia di von Clausewitz, come totale e come tendente a un'inarrestabile escalation verso l'estremo presenta in più la specificità di proporsi come una ininterrotta operazione di mantenimento della pace, presentata ora come un'azione di polizia internazionale contro il terrorismo, ora come un intervento «democratico» per liberare gli altri dalla tirannia e dalla barbarie. Di conseguenza, le locuzioni eufemistiche «missione internazionale», «operazione di sicurezza», «intervento umanitario», «lotta al terrorismo», «missili intelligenti», «danni collaterali», ecc. le sono intrinseche, oltre tutto rafforzate dall'astrattezza dell'apparato tecnologico altamente sofisticato mediante il quale è condotta. Questo apparato consente alle truppe imperiali di sentirsi illusoriamente del tutto al riparo dal sangue, dalla violenza, dalla morte; permette agli spettatori occidentali di assistere alle operazioni belliche e ai loro effetti come se fossero di fronte a un videogame, o comunque a uno spettacolo virtuale fra i tanti; infine conviene aggiungere rende possibile la straordinaria perdita del senso di responsabilità, e del senso delle proporzioni, che si riscontra tra i vertici politici, anche di sinistra, dei paesi europei che partecipano alla guerra imperiale.
Pure a tal proposito ritorna utile la categoria di
ragione sacrificale,
che Kilani propone come chiave interpretativa non solo
della guerra, ma anche dell'esclusione sociale e/o dell'annientamento fisico di
ampie categorie di esseri umani, considerati
scarti.
Dalle retoriche utilizzate dalla politica istituzionale per
giustificare la partecipazione alla guerra abitualmente e ufficialmente
denominata «missione di pace» , traspare l'argomento secondo il quale la sorte
di un certo governo di coalizione di un paese europeo non troppo importante
varrebbe bene i «sacrifici umani» imposti agli
altri,
cioè la devastazione degli stati-canaglia, le stragi di civili, le violenze, le
ingiustizie, le tragedie che si consumano sulla scena internazionale. In tal
senso, le vittime che si afferma retoricamente di voler salvare
dal peggio diventano doppiamente capri espiatori: esse sono
immolate non solo a causa della volontà di potenza imperiale,
ma anche per scopi mediocri come quello di garantire la stabilità governativa di
qualche stato europeo alleato.
Andando ancora più al fondo della questione, come ci invita a fare il nostro autore, possiamo legittimamente domandarci se non si possa parlare di sacrificio «ogni volta che si esercita una violenza sull'altro al di fuori di qualunque quadro giuridico, di ogni tutela dei diritti della vittima»; se, insomma, non siamo in presenza di un meccanismo di tipo sacrificale ogni volta che la violenza è accompagnata da una messa in scena rituale che afferma «la rottura assoluta tra il sacrificante-carnefice, identificato come umano, e il sacrificato-vittima, privato della propria umanità». La negazione dell'altro, perfino come avversario o nemico reale, è un tratto peculiare anche della guerra globale e totale dei nostri giorni. Guerra asimmetrica, priva di reciprocità (ancora una categoria-chiave dell'antropologia cui Kilani ricorre ampiamente), essa si preclude qualsiasi possibilità di negoziato e quindi ogni prospettiva di uscita dallo stato di conflitto permanente e illimitato. A tal proposito si può richiamare l'attenzione, en passant, sull'analogia che lega la guerra globale all'ideologia e alle pratiche coloniali. L'una e le altre sono connotate da un'asimmetria riguardante non solo l'oggettiva, quasi assoluta supremazia militare rispetto all'avversario e la negazione a esso dello statuto di nemico legittimo, o addirittura di essere umano, ma anche l'esercizio e la valutazione della violenza: pure se infrange ogni regola del diritto e delle convenzioni internazionali, se fa strage di popolazioni civili, se ricorre alle bombe a grappolo, perfino mimetizzate da aiuti alimentari, la propria violenza è rappresentata come legittima in ogni caso; la violenza degli altri, al contrario, per quanto difensiva e reattiva, è sempre cieca, illegittima, barbara, sleale. In più, il mancato riconoscimento dell'avversario e la degradazione a terrorismo di ogni espressione di opposizione e conflitto non fanno che favorire la risposta terroristica reale. E questa, per quanto aberrante, finisce per risultare pressoché l'unica possibile e funzionale a uno stato permanente di guerra asimmetrica e non-dichiarata. In realtà, guerra totale e risposta terroristica si alimentano reciprocamente e incessantemente. Entrambe muovono mi sembra da una sorta di teologia estrema, che annulla i soggetti storici sciogliendoli nelle immagini metafisiche dei rispettivi «imperi del Male»; entrambe cancellano ogni possibilità di discorso politico e di risoluzione negoziata, in favore di un discorso fondato su valori ultimi e assoluti, in definitiva fondamentalista. Per definire gli effetti dell'inveramento attuale della guerra totale descritta da von Clausewitz, Kilani riprende, mutuandolo da Giorgio Agamben, il concetto arendtiano di stato di eccezione permanente. Per quanto abusato, esso si presta bene a indicare come la sospensione del diritto nazionale e internazionale e delle garanzie democratiche, nonché l'indistinzione fra guerra e pace, spazio interno e spazio esterno, funzioni civili e funzioni militari, siano diventate la regola. Lo stato di eccezione permanente si nutre di xenofobia e razzismo, e al tempo stesso li alimenta e li riproduce. Ne è un'illustrazione esemplare la tendenza, fatta propria anche dall'Unione europea, ad associare la «lotta contro il terrorismo» con le politiche di controllo e di contenimento dei flussi migratori: cosa che incrementa l'ecatombe dei «clandestini» e alimenta nell'opinione pubblica il pregiudizio che sospetta i migranti, soprattutto se provenienti da paesi musulmani, di complicità o contiguità con lo spazio del terrorismo.
Opposti e speculari, tanto il discorso islamista che sorregge
il terrorismo quanto il teorema dello scontro di civiltà, che è
una parte rilevante dell'ideologia della guerra globale, spacciano
la leggenda di due blocchi monolitici l'Islam e l'Occidente
contrapposti e irriducibili, di due civiltà e sistemi di valori radicalmente
differenti e antagonisti. Kilani mostra bene, invece,
quanti scambi, intrecci, continuità, sovrapposizioni leghino i due
mondi e come essi siano coinvolti in una dialettica di mimetismo e rivalità
reciproci. A suo parere, siamo in presenza «di un
solo mondo, di un solo "blocco occidentale", percorso da fratture delle quali
una, attualmente la più palese, ma non la più
essenziale, risiede in un certo irredentismo islamista irredentismo più
spettacolare che realmente minaccioso per l'impero».
Θ vero: come ci insegna l'antropologia, la tendenza a deumanizzare gli altri, nemici potenziali o reali, non riguarda solo le guerre moderne, ma è un tratto che si ritrova assai frequentemente nelle relazioni e nei conflitti fra i gruppi umani più svariati e differenti, nello spazio e nel tempo. Nondimeno, la guerra totale contemporanea ci offre numerosi e specifici esempi di negazione dell'umanità dell'altro. Gli emblemi più efficaci per rappresentarla potrebbero essere le immagini dell'incappucciato di Abu Ghraib, della soldatessa Lynndie England che, sorridente, trascina al guinzaglio un prigioniero iracheno nudo, delle altre pratiche di estrema degradazione dell'umano che ci hanno rivelato le foto-ricordo dei soldati statunitensi. Dietro quelle immagini non c'è solo la banalità del male e il sadismo proprio di tutti i torturatori; c'è anche un gusto della rappresentazione, della costruzione di perversi tableaux vivants, che ci fa pensare, certo, all'influenza dell'immaginario e dell'estetica pornografici, ma anche a un intento di messa in scena rituale di tipo sacrificale: per divenire sacrificabile, l'altro-umano deve essere prima de-umanizzato, se non bestializzato, così come l'altro-animale deve essere prima de-familiarizzato e ridotto a cosa, oppure a un essere feroce o ributtante. Come giustamente ci suggerisce Kilani, tutto ciò non riguarda solo l'attuale guerra globale «contro il terrorismo». Si potrebbe affermare che, più in generale, le istituzioni che hanno prodotto la «banalità del male» dei genocidi e dei massacri contemporanei non poche volte abbiano riprodotto le scansioni proprie della scena sacrificale: la designazione di un capro espiatorio, la sua segregazione o esclusione, la sua umiliazione, il suo annientamento morale, la pratica del concentramento o della deportazione, infine la sua eliminazione fisica. Egli ha dunque perfettamente ragione nel sostenere la continuità fra sacrificio e guerra, fra potere sacrificale e potere imperiale, ipotizzando che «l'annientamento praticato con i genocidi e con le guerre totali contemporanee» non sia altro «che la trasformazione del potere sacrificale in potere assoluto e indiscusso». Vi è la possibilità di immaginare un dispositivo di regolazione e di riduzione della violenza che non riproponga la mortifera ragione sacrificale? si chiede conclusivamente Kilani. Più ottimista di noi, egli risponde positivamente: conviene scommettere sulla ragione politica. Basata com'è «sui princìpi della negoziazione permanente del contratto sociale e della partecipazione dei cittadini», la politica non scongiura la violenza e la guerra, ma almeno le inserisce nella dimensione razionale degli interessi e dei conflitti propri dell'esistenza sociale. Ma la logica dell'opposizione amico/nemico potremmo obiettare non è ormai penetrata nelle pieghe della politica così profondamente da pervertirla? L'ideologia della «sicurezza globale» non le è divenuta così intrinseca da produrre incessantemente nemici interni e capri espiatori, sacrificabili con misure eccezionali che divengono permanenti? Sono dubbi che la realtà sotto i nostri occhi ci sollecita quotidianamente. Forse, per poter riabilitare la politica, dovremmo immaginare un diverso ordine del discorso che la riabiliti: un'antropologia tanto simmetrica da includere ogni altro umano e non umano integrando pienamente i loro punti di vista e favorendo così una reciprocità generalizzata. Forse, per poter immaginare una politica che possa fare a meno della guerra dovremmo decostruire, analizzare, mettere a distanza come una variante «etnica» fra le tante quella cultura del dominio sulla natura, sugli animali, sul femminile, su certe categorie umane che sorregge la ragione strumentale e sacrificale della guerra. | << | < | > | >> |Pagina 17IntroduzioneE se la guerra, ogni volta, fosse una «sorpresa», come rifletteremmo su di essa? Θ certo che le nostre griglie di lettura si modificherebbero e che l'oggetto-guerra ne uscirebbe diverso, non intrappolato in un principio immobile e fisso d'inevitabilità.
Farge,
Des lieux pour l'histoire
Recentemente in Occidente si è affermato il concetto di «zero morti» come postulato della guerra. Seguendo il modello della logica economica di «zero errori», si pensa di poter ormai fare la guerra senza perdite umane, almeno dalla propria parte. Quest'opera intende partire da questo nuovo imperativo per interrogare più a fondo la categoria contemporanea di guerra, specialmente dal punto di vista delle basi simboliche che la fondano. A questo scopo, utilizzeremo la categoria di scambio per sottolineare indirettamente l'aspetto aleatorio e antropologicamente insostenibile di una guerra senza reciprocità e senza presa in considerazione dell'altro. Rileveremo anche che una tale guerra, anestetizzando qualunque coscienza del peggio, ci pone davanti alla prospettiva della catastrofe (si veda Dupuy 2002c) che né l'orizzonte del «rischio zero», né il principio di precauzione potrebbero scongiurare. Tutto ciò ci condurrà a constatare che nell'attuale configurazione poststatuale, caratterizzata dalla crescita della potenza imperiale, da una parte, e del terrorismo internazionale, dall'altra, ci troviamo di fronte alla denegazione del principio dello scambio nell'azione bellica, alla volontà di disconoscere all'altro lo statuto di combattente, considerandolo piuttosto un ostacolo da abbattere. I nemici irriducibili si barricano dentro la logica del risentimento, che è agli antipodi della reciprocità positiva, la cui finalità, come hanno dimostrato anche gli antropologi, non è tanto negare la guerra o la sua legittimità quanto piuttosto evitare lo stato asociale di guerra di tutti contro tutti. Il modello antropologico dello scambio sarà chiamato in causa per tratteggiare una fenomenologia dei conflitti, che dia conto della variabilità culturale e storica della guerra. Questo ci permetterà di vedere che l'opposizione amico/nemico si struttura su due livelli: il livello che definisce delle entità politiche equivalenti e il livello che definisce una relazione asimmetrica fra due o più gruppi. Questi due livelli inducono modi differenti di fare la guerra: nel primo caso, una guerra limitata, nel secondo, illimitata. Θ quest'ultima forma, che assume l'aspetto di guerra totale, che ci interessa in modo particolare. Partiremo, perciò, dalla distinzione proposta da Carl von Clausewitz (1997) fra guerra «reale» e guerra «assoluta»: quest'ultima, che è caratterizzata dall' escalation verso l'estremo, già dai tempi del generale prussiano è divenuta per caso, non per necessità una realtà massiva delle società moderne. La guerra totale sarà analizzata in rapporto con la volontà politica che iscrive la sovranità nell'ordine dell'eccezionale e la fonda sull'opposizione amico/nemico, secondo la prospettiva del pensatore tedesco Carl Schmitt (2003). Cercheremo di mostrare come lo «statuto poststatuale della politica», che quest'autore associa anzitutto al partigiano e al terrorista, possa essere applicato all'egemonismo imperiale, praticato oggi soprattutto dagli Stati Uniti d'America, ma anche dalla Russia. Insisteremo sul legame fra il movimento d'inclusione nell'impero, di cui tenteremo una caratterizzazione (l'impero è l'ordine stesso delle cose), e la guerra totale scatenata contro coloro che gli resistono. L'immagine che ne emerge non corrisponde affatto alla famosa tesi dello scontro di civiltà di Samuel Huntington (2000); è invece l'immagine di una guerra civile all'interno di un medesimo spazio imperiale, che include in particolare la «periferia musulmana». La potenza imperiale non si limita alla «osservazione armata» (von Clausewitz) nella propria area d'influenza, ma riproduce l'opposizione amico/nemico all'interno di una stessa entità politica. Così facendo, non solo esclude il nemico «islamista» dal quadro contrattuale della guerra, ma maschera la divisione in seno allo spazio imperiale. Una divisione che i terroristi intendono, al contrario, far apparire nello spazio dell'impero, che li obbliga a essere «amici», quando invece essi lo percepiscono come «nemico». In questa configurazione, si è nell'ordine dello scontro e non del riconoscimento. Parallelamente, mostreremo che la guerra totale, anche se partecipa della desacralizzazione del nemico, non per questo può fare a meno della figura sacrificale del capro espiatorio. Questo non scompare dal suo orizzonte, ma non è più nominato in quanto tale, sottomesso com'è ormai alla logica di un equilibrio geo-strategico globale e a un'egemonia politica incoercibile. Faremo ricorso alla categoria d'indifferenza per meglio comprendere il carattere sacrificatorio che, malgrado tutto, la guerra attuale continua ad avere. Dimostreremo, più precisamente, che l'indifferenza di fronte alle vittime, che la macchina di distruzione della guerra totale manifesta in tutta la sua estensione, è dello stesso tipo di quella verso altre categorie di esclusi dal sistema globale: per esempio, i «sacrificati» dal sistema socio-economico, che subiscono la deregulation, le politiche d'austerità e le varie forme di insicurezza sociale; le migliaia di morti di Aids nel mondo, vittime dell'impossibilità economica di accesso alle cure e della strategia medico-finanziaria del sistema sanitario multinazionale; o, ancora, le innumerevoli vittime dei genocidi contemporanei, drammi troppo lontani e complicati, troppo poco redditizi dal punto di vista politico ed economico per preoccuparsene. La categoria di sacrificio sarà dunque rivisitata e il suo significato precisato alla luce della guerra e dei sistemi politici, economici e ideologici in cui s'iscrive. Messa a confronto con la guerra, questa categoria perde il privilegio di «oggetto nobile», il carattere d'evidenza antropologica, per apparire nello stesso specchio della guerra. La guerra è, qualunque cosa ne dicano gli strateghi, un sacrificio, e il sacrificio è, qualunque cosa ne pensino gli antropologi, distruzione dell'altro. Quest'asserzione ci permette di sostenere che l'annientamento praticato con i genocidi e le guerre totali contemporanee non è altro che la trasformazione del potere sacrificale in potere assoluto e indiscusso. Nel libro Davanti al dolore degli altri (2003: 109), Susan Sontag ci ricorda che «designare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell'inferno, come moderarne le fiamme». Θ vero. Ma per lo meno quest'opera si porrà il problema di considerare la guerra non più come l'effetto di una supposta natura umana, ma come un'attività sociale che si inserisce nel quadro di una politica realistica, nel senso in cui la concepiva già von Clausewitz, il primo teorico della guerra. Questo saggio vuole farla finita con quel certo compiacimento intellettuale che ci inganna sulla natura della guerra facendone una necessità primordiale, un oggetto fisso. La guerra è ogni volta una «sorpresa», cosa che ci autorizza a considerarla secondo un «rapporto di non-necessità» (Farge 1997: 66). Allo stesso modo, non v'è niente di primordiale nel sacrificio. Soprattutto, niente ci impedisce d'immaginare che vi siano un altro fondamento del legame sociale e altre forme di regolazione della violenza. | << | < | > | >> |Pagina 21Capitolo primo
Guerra e sacrificio. Dal martirio allo «zero morti»
Non eviteremo [...] di confrontarci con l'idea sgradevole che l'utopia tecnologica ci aveva fatto dimenticare per un momento: non solo la guerra è sempre ingiusta e trasforma i suoi attori in barbari, ma, e questo forse spiega quello, non c'è guerra senza guerrieri, senza corpo a corpo. Breton, L'utopie de la guerre technologique «Zero morti», morti illimitati Vista dal versante occidentale, sembra che la guerra sia praticabile solo al prezzo minimo di vite umane. Dal suo campo visuale scompare l'aspetto palpabile della morte e della distruzione, rese virtuali grazie a schermi e satelliti. Il conflitto armato prende sempre più le sembianze di un fuoricampo dietro il quale si dissolve lo spettacolo della violenza. Oggi si esige una guerra pulita in cui predomina l'imperativo di preservare la vita dei propri soldati, evitando il più possibile di impegnare truppe di terra. Nella nuova versione della guerra la vicinanza dell'avversario è dimenticata, l'angoscia del corpo a corpo allontanata. La guerra di polvere e d'acciaio che ha dominato il XX secolo sembra essere scomparsa. Ormai essa assume l'aspetto di una tecnologia avanzata, basata soprattutto sul controllo dell'informazione e della comunicazione. Grazie all'informatica, al laser e al satellite, tutto si gioca in modo pulito, sullo schermo e a distanza. Un tempo la guerra era tangibilmente in rapporto con la quantità di morti accumulati sui campi di battaglia. La vittoria si celebrava evocando i corpi sventrati dei nemici. Si misurava la gloria con il numero di caduti. Pensiamo ai grandi massacri delle due guerre mondiali e ai loro «orizzonti di gloria». Anche se nei tempi moderni ci si era allontanati molto dallo stile cavalleresco per cui l'eroe era «colui che riusciva con le sue doti di eccellente guerriero a rendere illustre un nome sconosciuto» (Caillois 1994: 171), la gloria continuava a essere presente, incarnata soprattutto nella figura anonima del Milite Ignoto, che folle e nazioni erano chiamate a celebrare. Oggi si esigono combattimenti senza cadaveri, senza violenza manifesta. La guerra dovrà rimanere una guerra a distanza. I colpi precisi e misurati saranno fulminanti e chirurgici: a questo scopo presto si arriverà a creare armi non letali, atte a paralizzare il nemico. Con l'imposizione dell'elettronica, si è modificato lo stile dei combattimenti, lo svolgimento delle operazioni, il senso stesso delle strategie. Ciò che si è profondamente trasformato nella nuova versione della guerra è la relazione delle società ricche con il conflitto, cioè con lo scontro sanguinoso e cruento. Non sono scomparse le armi, né gli eserciti e nemmeno i feriti e i morti, soprattutto fra gli altri, ma la presenza immediata dell'avversario, il suo statuto di combattente. Θ la sua morte che è messa a distanza, un po' come nel caso dei muri eretti intorno ai macelli, che dovrebbero isolare dallo sguardo l'abbattimento cruento degli animali, alimentando l'illusione che non vi siano né macellerie né macellai. Il concetto di guerra «a zero morti» discende dalla nuova condizione postmoderna della nostra società. Questa è caratterizzata dalla negazione della morte individuale, dall'importanza smisurata accordata, parallelamente, alla tecnologia e all'informazione nella gestione della violenza, infine dall'annientamento dell'avversario, giudicato diverso da noi, meno umano. Quest'ultima tendenza non era certo assente nel passato. Le guerre coloniali condotte dall'Europa fra il XIX e il XX secolo, per esempio, erano già caratterizzate dalla tendenza a uccidere da lontano, a colpire a distanza per non mettere in pericolo le «vite buone» (si veda Lindqvist 2000). Ma nella nuova concezione della guerra «a zero morti», si tratta di spezzare definitivamente la sequenza del combattimento singolare nel quale io riconoscevo un mio simile nell' altro che avrei ucciso, o che mi avrebbe ucciso. Se la vita è ormai considerata come un bene, questa nuova regola del gioco non è condivisa con l'avversario. Certo, c'è sempre stata la preoccupazione di gestire le proprie truppe al fine d'essere strategicamente efficaci e di economizzare i mezzi, soprattutto in termini di mercato della manodopera, e il problema contemporaneo dello «zero morti» non sfugge a questa esigenza economica. Lo slogan «zero morti» discende in parte da un'economia politica del risparmio. Di fronte alla crescita zero, ai costi vertiginosi dei materiali e alla riduzione dei bilanci, il problema dei mezzi diventa una preoccupazione non trascurabile (si veda Géré 1998). Ma a questo fattore è venuto ad aggiungersene un altro, ancora più potente: l'imperativo ideologico di risparmiare le vite individuali, secondo il principio della morale edonistica che accompagna la condizione postmoderna. Il concetto di guerra «a zero morti» si applica solo ai paesi ricchi, perché nei paesi poveri i conflitti continuano a somigliare ai classici conflitti cruenti. Soltanto in questi paesi si continuerà a praticare il corpo a corpo mortale, a battersi fra sangue e sudore, come mostrano i numerosi conflitti che li attraversano. Solo le popolazioni povere possono subire gli assalti di morti violente e su larga scala. In effetti, se coloro che sono dotati delle armi più sofisticate possono sfuggire alle conseguenze dei conflitti, per coloro che ricevono le bombe teleguidate si tratterà pur sempre di guerre.
La guerra «a zero morti» traccia il profilo di due tipi di umanità: quella
in cui gli uomini e le donne non devono essere uccisi/e
e quella in cui possono esserlo. Il rapporto con il sacrificio
supremo non sembra essere lo stesso nei due casi: la vita degli
occidentali, soprattutto degli americani, è troppo preziosa per
essere sacrificata, ciò implica che la vita degli
altri
è sacrificabile pur di salvare la
nostra.
I minuti di silenzio non pesano alla stessa maniera, non sono indipendenti dalla
provenienza delle vittime. Quando si trasmettono le immagini di fatti cruenti si
ripropone questa distinzione: le vittime occidentali, quando ve ne sono,
non vengono mostrate e sono conteggiate accuratamente.
L'opinione pubblica non è disposta a vedere i propri figli sanguinare sui campi
di battaglia o diventare prigionieri del nemico.
Ma un tale pudore non è adottato quando si tratta di massacri o
di morti dell'altro versante. L'effetto delle televisioni satellitari
non ha la stessa portata se ci si trova su un versante o sull'altro.
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