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| << | < | > | >> |Pagina 31.La sigaretta alle nove del mattino è un chiaro segno di disperazione. Non le accade spesso, tranne in mattine come questa. Novembre, pioggia, un McDonald's sovraffollato del South Bronx, appena scesa dal treno 6. Sembra una festa di quartiere, con tutti questi bambini di otto anni assonnati che dovrebbero essere a scuola, e le madri single stufe di urlare, e uomini annoiati a ogni tavolo che non sono ancora al lavoro. Qui di mattina è pieno. Sono tutti insieme, un'esperienza comunitaria questa giornata, questa vita. Non è la sua vita, però. Di questo non ha esperienza, e non la vuole avere. Guarda, invece, in alto a una gigantesca insegna con il menu del giorno che percorre tutta la vetrina. Non ci sono molti misteri, il cibo abbonda. Novantanove centesimi per frittelline di patate, muffin all'uovo cotti a microonde e una bottiglietta in miniatura di succo Tropicana. Troppo bello per essere vero, tanta abbondanza per neanche un dollaro. Questo è un quartiere generoso. Ha ventinove anni ed è novembre. È troppo vestita, come al solito. Il cappotto nero di cashmere, che costa due volte il suo affitto, e i pantaloni gessati sono abbastanza lussuosi per una qualsiasi starlette di Hollywood. Sulla spalla ha una sporta blu marino che si abbina alla lucentezza metallica degli stivali di pelle. Sul viso nessuna traccia di trucco. Ha un'aria ombrosa in nero e blu. Sono colori possenti. È novembre, e lei se ne sta davanti all'ingresso del McDonald's di Burnside Avenue. Nella mano sinistra ha un ombrello nero di vinile e nella destra una mezza sigaretta, che quasi non ha fumato. Le nove e cinque. È troppo presto. La metropolitana è stata veloce. Succede solo quando lei è in anticipo sull'orario: il locale all'improvviso si trasforma in espresso e la lascia alla fermata del Bronx nel giro di qualche minuto. Ancora cinquantacinque minuti a gironzolare fuori del McDonald's in questa zona della città, un altro universo rispetto al suo appartamento al centro di Manhattan. Cinquantaquattro minuti e qualcosa; imprigionata in questa desolazione, dà ancora un'occhiata all'orologio. Però la salvezza è a portata di mano, una tazza di caffè appena fatto, un velo di burro su un muffin tostato. Non deve fare altro che varcare quella porta e agitare un dollaro. Un lungo tiro alla sigaretta, più lungo del necessario. Esita. Non è mai entrata in quel posto. La pioggia continua a cadere senza entusiasmo, quasi incapace di bagnare. Lei è Cenerentola a mezzanotte e il suo completo chic una zucca da sogno pronta a scoppiare. Non ci sono scarpette di cristallo in questa zona della città, nessun principe azzurro in cerca di una principessa. La soglia è decisiva. Oltre quella porta c'è la strada sbagliata, il cui mattino inizia con un dollaro e un appetito stanco. Guardare dentro è facile, si resta fuori nella pioggia facendo attenzione da lontano a quel che succede. Invece lei ora è dentro. Ci sono diverse file, si allungano tutte verso parecchie facce che prendono gli ordini. La fila in cui si trova scorre abbastanza veloce, comunque ha tempo, tempo a sufficienza per restare in attesa. Ah, ma di tempo ce n'è tantissimo qui. La gente è seduta in ogni angolo. Nessuno deve correre in sede centrale a discutere di una fusione. Nessuno grida un espresso doppio con latte scremato. Nessuno trasporta goffamente il vassoio tenendo in equilibrio un Motorola all'orecchio destro. Non succede niente di tutto ciò. Questo è un luogo di ozio. Lei non ha alcuna fretta. Cosa vuoi, dopotutto, vuoi che te lo dica? Damian le si era scagliato addosso nel suo ultimo messaggio, come per entrare dentro di lei un'altra volta. "Desidera, signorina?" La prima volta non l'ha sentito. Questi contrattempi le succedono in continuazione, ultimamente. Continua a perdere l'attimo. Mette la sveglia alle otto e salta fuori dal letto alle sette, o preme il "3" in ascensore e si ritrova al secondo piano, oppure corre a rispondere al telefono solo per accorgersi che non squilla. Ora è senza parole davanti a un uomo in uniforme marrone che scuote la testa ripetendo per la terza volta "Desidera, signorina?" "Caffè, una tazza media di caffè, grazie." Pensava di averlo già detto. Pensava che lui sapesse già cosa desiderava. L'adolescente dalla gran chioma alle sue spalle fa palloncini con un chewing-gum rosa, visibilmente irritata. L'uomo in uniforme marrone le strappa di mano il dollaro, scuotendo di nuovo la testa. Il caffè costa settantanove centesimi. Altri venti centesimi e potrebbe fare una colazione completa; a che cosa sta pensando? Avverte la disapprovazione di quell'uomo. Puttana, penserà. Una tazza di caffè a settantacinque centesimi quando puoi avere un vassoio intero a un dollaro, signorina Nientesconto, signorina Belcappotto, signorina Nonsentouncazzo! Sono puttane, queste nove del mattino. Stordita dalle Marlboro. Ha bisogno di sedersi, ma il locale è zeppo e nessuno se ne andrà molto presto. Ma ecco il miracolo. C'è uno che le fa cenno con la mano indicando la sedia vuota davanti a sé. Una volta che lei si lascia cadere sulla sedia e beve un sorso di caffè bollente, si accorge che quell'uomo è in realtà l'unico asiatico oltre a lei. Sta leggendo il giornale. Hangukilbo - il quotidiano della Corea - riconosce il carattere grassetto. Sotto le spesse lenti da lettura Walgreens, i suoi occhi appaiono gonfi e arrossati. Gli ci vorrebbe una bella nottata di sonno, pensa lei. Farebbe bene a tutti questi uomini immigrati. Lui muove il naso, troppo piccolo per il viso spazioso, prima di lanciarle un'occhiata che dura un secondo. Lei sorride, grata per il posto. Lui non ricambia il sorriso ma continua a fissarla per un po' prima di tornare al giornale. Sa, pensa lei. Lo sanno sempre. È una cosa inevitabile, il tacito riconoscimento tra membri della stessa razza. Lei riesce a riconoscere un coreano a miglia di distanza. Naturalmente, in passato, anche se solo una manciata di volte, le è capitato di sbagliarsi scambiando un giapponese per un coreano. Non sa bene il perché, forse deve esserci qualcosa nella storia, un possibile effetto collaterale della disgustosa affinità tra colonizzatori e colonizzati - il Giappone aveva regnato sulla Corea per trentasei anni, suo padre non si scordava mai di ricordarglielo. O forse è semplicemente la forma delle ossa del viso, quelle di coreani e giapponesi sono più ovali, mentre quelle dei cinesi sembrano più piatte. Tutto quello che sa è che riesce sempre a capirlo, e anche lui: entrambi sanno di appartenere alla stessa razza, seduti l'uno così vicino all'altro in una sala gremita dal resto del mondo. A lui non interessa conversare, e lei ne è felice. Non la incita con domande tipo "Sei nata negli Stati Uniti?", "Che lavoro fanno i tuoi genitori?" oppure "Come mai una bella ragazza coreana come te non si è ancora sposata?" - le domande indiscrete che spesso gli altri immigrati si sentono in diritto di fare. Sprofondato dietro il suo giornale, ora lei non lo vede neanche più. Un gesto quasi nobile da parte sua, pensa lei, offrirle un posto a sedere e lasciarla in pace. Non si fa niente per niente, guarda meglio, e troverai sempre l'etichetta del prezzo, le aveva sussurrato all'orecchio Damian, slacciandole l'ultimo bottone del vestito. Poi aveva fatto cinque passi indietro ed era rimasto a fissare la sua prima nudità, quasi fosse un artista davanti a una musa. In quel momento, gli occhi di lui le erano parsi spaventosamente azzurri, più azzurri di quanto dovessero essere, quasi ciano, il colore dell'oceano, così diversi dai suoi occhi neri che aveva guardato altrove in un'improvvisa ondata di imbarazzo, pensando tutto il tempo: "Persino questo ha un prezzo, anche le sue labbra sulla mia pelle, anche i suoi occhi azzurrissimi su di me". La pioggia stamattina è una complice. Perfino ai margini della città, attraverso una vetrina opaca sulla quale un'insegna promette colazioni a novantanove centesimi. Il caffè si sta raffreddando. L'attesa non è così brutta, dopotutto. Questa potrebbe essere la sua pausa. Nessuno la troverà più. Un nascondiglio perfetto. Poi l'uomo di fronte a lei chiude il giornale. Prende il vassoio senza guardarla negli occhi. Lei lo osserva mentre si allontana. E il passo contratto di un uomo che un giorno è stato giovane ma non lo è più, di uno che non parla la propria lingua da più tempo di quanto riesca a sopportare, di un uomo convinto che non rivedrà più la propria patria. Lei riesce a sentire il peso di ogni passo. Vuole distogliere lo sguardo. Eppure poi è sollevata quando lui si ferma fuori e si accende una sigaretta sotto la tenda arancione. Non se n'è andato. Non se n'è ancora andato da lei. È in piedi e dà la schiena alla vetrina di fronte a lei. Dietro la testa i capelli si stanno diradando. Forse è più vecchio dell'età che dimostra. Nota le cuciture raggrinzite dei pantaloni di gabardine e il cuoio luccicante delle sue scarpe eleganti, da tempo fuori moda. È impacciato in quei vestiti, pensa lei. Quelle non sono le scarpe che porta tutti i giorni. Quando è stata l'ultima volta che ha messo quelle scarpe, com'era lui allora, e com'è stato il resto della sua vita? Pessima abitudine, però, farsi domande sul passato, scavare nella storia di qualunque cosa, di chiunque, persino di uno sconosciuto di passaggio incontrato in un fast food in un quartiere che non è il suo. Una mancanza di riservatezza, o di limiti. Però lei non riesce ancora a distogliere lo sguardo. Conosce gli uomini come lui. Immagina come avrà frugato in fondo all'armadio per tirare fuori quelle scarpe di cuoio nere, che probabilmente saranno rimaste sepolte nella polvere del suo passato per un decennio, o forse anche più, dipende da quando è venuto a stare in questo Paese, poi le avrà lucidate tutta la mattina, con un pezzo di carta e un po' di cera, pensando tra sé: "Ah, sono sempre eleganti, mi stanno ancora bene, dopotutto non sono così vecchio, questo taciturno fattorino del Queens che nessuno guarda più, neppure mia moglie che non ha avuto più un giorno sereno da quando ha fatto il grave errore di seguirmi fin qui, in questa terra di McDonald's nel mezzo del nulla, in questa nazione, cattiva nel cibo e nei modi, dove non sono altro che un uomo vecchio e debole, che fuma l'ultimo mozzicone di Marlboro nella pioggia di novembre, come se la mia vita dipendesse da questo, come se l'avessi potuta conoscere io, la vita, l'ultima volta che ho messo queste scarpe". Conosce gli uomini come lui. Lei sa come sono le sue giornate, la casa in cui probabilmente torna ogni sera, le figlie alle quali non parla più. Poi guarda di nuovo l'orologio. Un quarto alle dieci, è quasi ora. Il tempo è passato veloce dopotutto. La staranno aspettando. La causa non si fa senza di lei. Alza lo sguardo e si accorge che là fuori l'uomo se ne è andato. | << | < | > | >> |Pagina 39Nel primo anno da quando era di nuovo a New York, Suzy guardava la tv tutto il giorno. Era una novità per lei. I suoi genitori non avevano mai tempo per starsene senza fare niente, lavoravano sempre, e quando la guardavano, un'ora o due, raramente, nei fine settimana, mettevano il Canale 47, l'unico canale coreano della costa orientale, le cui battute non la facevano ridere minimamente. Nemmeno Grace lo sopportava. La annoiava a morte, diceva tornando al libro che aveva in mano; l'unica cosa che faceva con un certo entusiasmo era leggere. E quando Suzy viveva con Damian, naturalmente la tv non c'era. Era squallida, brontolava lui. La cultura americana è una fogna, peggio della droga, molto peggio delle sigarette! Damian si sarebbe voltato disgustato se avesse visto Suzy iniziare la giornata con Good Morning America e continuare con Regis and Kathy Lee fino a mezzogiorno, quando si succedevano le saghe perversamente contorte delle soap quotidiane. Avevano titoli incredibili come La valle dei pini e I giorni della nostra vita. Ce n'era una intitolata Beautiful, che lei pensava fosse un nome più appropriato per uno shampoo o per un'acqua di colonia. Restava in attesa, desiderosa, di tutto quel rituale, di sdraiarsi sul suo futon con una scodella di popcorn cotti a microonde e perdersi nelle vite intricatissime di Yasmina, Desiree o Katharina, tutti personaggi che sembravano usciti dalla scatola di Miss Clairol, e quelle rare donne di colore o asiatiche che sembravano ancora più Clairolizzate con i loro perfetti capelli a caschetto, il che, benché non fossero certo bionde, dava loro quell'aspetto da "appena uscite da un salone di bellezza" mentre si muovevano avanti e indietro con il sorriso zuccherino da migliore amica della ragazza di successo. Il suo preferito era Una vita da vivere. Cercava di non perderselo soltanto perché una mattina scoprì, guardando Regis and Kathy Lee, che era la soap opera meno popolare. Pensava che non fosse giusto, perché in fondo erano tutte intercambiabili. In realtà, anche gli attori sembravano saltare da una all'altra. Era sicura di aver visto un attore nella soap delle due nella parte del medico bello ma malvagio, e poi, una settimana dopo, se l'era ritrovato alle tre su un altro canale nella parte del milionario che si è fatto da sé. Allora, naturalmente, scopriva che in una soap era rimasto ucciso in un incidente aereo prima di spuntare subito in un'altra, nelle vesti di un personaggio nuovo e più simpatico. Invidiava quella loro capacità di tornare in vita. Non morivano mai, non del tutto. Sembrava esserci sempre una via d'uscita, una seconda chance, e talvolta persino una terza. La gente non scompariva senza una spiegazione adeguata. Le tragedie avvenivano in seguito a delle cause, o erano punizioni a cui potevi dare un nome. Il loro destino era un puzzle, ma di quelli facili e, guardando e giocando con i pezzi mancanti, passavano i giorni, i mesi.Smise di guardare la tv quando ebbe il primo lavoro. O forse trovò lavoro per smettere di guardarla. Non era importante guardarla spesso e con attenzione, non si sapeva mai cosa sarebbe successo poi, uno sarebbe morto per poi tornare con l'amnesia, questo avrebbe tradito quello con il marito o con la moglie di un'altra o un altro, un altro ancora sarebbe stato rapito il giorno del suo matrimonio dal prete, che alla fine si sarebbe rivelato una spia. Suzy pensava che tutti questi drammi richiedessero menti particolarmente adatte a considerare tutti questi dettagli. Ma quel che alla fine la spinse a spegnere la tv non aveva niente a che fare con l'incantesimo di quell'apparecchio in grado di intorpidire la mente, ma furono i colpi di pistola. Ogni giorno in tv almeno uno o due personaggi venivano ammazzati. Quasi sempre nelle soap del giorno le vittime tornavano vive, e non facevano vedere la scena della sparatoria. Però c'erano quelle più spinte che mostravano l'intera agghiacciante sequenza in dettaglio: l'indice sul grilletto, la vittima terrorizzata tremante, gli occhi vendicativi, semichiusi, dell'assassino, la lenta caduta al fuoriuscire dell'ultimo fiotto di sangue. La prima volta che vide una scena di quel genere, Suzy non riuscì più a togliersela dalla mente. Non riusciva a smettere di pensarci e volle registrarla per guardarla e riguardarla. Ma la seconda scena che vide, si sentì nauseata e rimase in silenzio sul futon, senza muoversi, per ore. E la terza volta, spense il televisore e lo spinse nell'angolo più lontano dell'appartamento. Non si sarebbe avvicinata mai più a quell'aggeggio. "Che cosa aspetti, il fischietto? Ti ci vorrebbero meno di cinque minuti a prendere la roba e andartene", disse Jen passando a casa sua qualche mese prima, cosa che faceva raramente. "Fine", disse lei. "Passa in ufficio, andiamo a pranzo al Royalton a spese dell'azienda." Suzy, però, sapeva che Jen non voleva incontrarla a casa sua. Quando una di loro era nell'appartamento dell'altra, ricadevano naturalmente nelle maniere familiari degli ex coinquilini. Una si alzava per versare il caffè prima che l'altra ne chiedesse un altro po', o portava il portacenere prima ancora che l'altra prendesse la sigaretta. Eppure, in qualche modo, sedute sul futon con il caffè che saliva, non poterono fare a meno di ricordare il giorno in cui Suzy se n'era andata, lasciando un vuoto irreparabile nei loro giorni al college. Jen aveva ragione, però. L'appartamento assomiglia a un rifugio temporaneo. Non c'è dolcezza qui, niente lenzuola a fiori, niente piumone in tinta, niente foto d'infanzia incorniciate. In realtà Suzy non sa dire se ci sia qualcosa a cui è affezionata ormai. L'anello di giada che apparteneva a sua madre? L'album pieno di foto della sua infanzia? La videocassetta del suo settimo compleanno? Non c'è nessuno di questi ricordi nel suo appartamento. Certo, Grace potrebbe aver ricuperato qualcosa nella casa nel Queens dove i suoi genitori hanno vissuto gli ultimi anni - la loro famiglia si era trasferita spesso quando erano piccole - ma quant'erano importanti queste cose se le erano mancate così di rado in tutti quegli anni? Al college, Suzy invidiava Jen, che ogni tanto tornava a casa, nella residenza dei suoi genitori, nel Connecticut, dove c'era ancora intatta la camera della sua infanzia con la sua Barbie e il suo poster stracciato dei Cure, con un riquadro pieno di foto del viaggio a San Pietroburgo, alle superiori. Il reliquiario di un passato americano così attraente, per Suzy, rappresentava un simbolo, un accenno di quel che Jen sarebbe diventata, dell'unica cosa che Jen avrebbe potuto diventare: una redattrice di successo, l'appartamento con una sola camera da letto in Central Park West, una multiproprietà estiva negli Hamptons, un fidanzato della sua stessa età all'ultimo anno di tirocinio alla facoltà di Medicina alla Johns Hopkins University. Tutte le cose buone e giuste della vita che una ragazza giovane, intelligente e ambiziosa come Jen, dopo aver terminato gli studi in una delle migliori università della nazione, avrebbe trovato in un luogo pieno di possibilità e luminoso come New York. Ma non erano quelle cose a distinguere Jen da Suzy. Due ragazze della stessa età, con gli stessi studi, con la stessa calorosa inclinazione verso Villette di Charlotte Bronté, eppure il loro bagaglio culturale era diverso fin dall'inizio. Non perché Suzy aveva passato i primi anni spostandosi in continuazione da Flushing, nel Bronx, ai quartieri più interni del Queens, come facevano i nuovi immigrati, né perché i suoi studi in una scuola pubblica, al centro, sfigurassero in confronto al curriculum di scuole private di periferia di Jen, uno svantaggio che Suzy fu abbastanza intelligente da colmare. C'era qualcos'altro, qualcosa di marcatamente diverso, qualcosa di più fondamentale, di più radicato, quasi innato. Durante la loro vita in comune, al college, Jen sembrava svolazzare, come immersa nel sole scintillante, mentre Suzy, per quanto si sforzasse di nasconderlo, rimaneva imprigionata in un luogo freddo e cupo. E Damian fu il primo ad accorgersene, e non ebbe paura di parlargliene. | << | < | > | >> |Pagina 100I tribunali penali non sono posti divertenti. Già il solo fatto di dover superare il controllo di sicurezza è una bella scocciatura. Possono arrivare a spogliarti. È persino peggio dei club del centro il venerdì notte, dove quei buttafuori dai bicipiti pesanti si mettono davanti alla porta e fanno aspettare tutti in fila. Svuotano tasche. Perquisiscono borse. Tastano corpi in alto e in basso. È inutile spiegare che lei è ingaggiata dal tribunale, o che il procuratore distrettuale la sta aspettando dentro. È inutile farsi largo tra la folla. È facile che sia l'unica asiatica, là dentro. Tutti attorno a lei sembrano essere neri, incluse le guardie di sicurezza, i ragazzi in manette accompagnati dai poliziotti, e il resto della gente che sta in fila, Dio solo sa per quale motivo sono qui. I procuratori, però, spesso non sono neri. I giudici quasi mai. Nessuno di loro è là. Devono usare un ingresso separato, nascosto sul retro. La struttura del potere è chiarissima. Tra i rinchiusi e quelli che chiudono la differenza è il colore. Non c'è niente da fare.E già stata al tribunale penale del Bronx, una volta negli ultimi otto mesi di interpretariato. Quell'ultima estate era stata chiamata per le indagini riguardanti una rosticceria coreana a Hunts Point a cui avevano dato fuoco una notte. Per qualche motivo non era assicurata, e il povero proprietario rimase in mezzo alla strada. Aveva presentato una denuncia al padrone di casa albanese che, ora che il quartiere era cresciuto in ricchezza e si potevano chiedere affitti più alti, tentava di cacciarlo fuori da anni. Il caso aveva tutti gli ingredienti del conflitto razziale. Il proprietario del negozio sosteneva che il padrone di casa si era rivolto alle gang albanesi del quartiere perché lo minacciassero fisicamente e dessero fuoco alla rosticceria. Suzy non scoprì mai che ne fu della causa, ma sembrava un caso serio, uno di quegli incidenti a sfondo razziale che, con un po' di brutalità da parte del Dipartimento di Polizia di New York, sarebbe potuto finire sulla prima pagina del New York Post. Per qualche settimana, in seguito, guardò il Post ogni volta che passava davanti a un'edicola, ma non trovò nulla. Una volta superata la sicurezza, a Suzy viene detto di attendere nella zona reception, priva di finestre, al terzo piano. C'è gente che va a destra e a sinistra. C'è qualcosa di urgente nell'aria. Lei se ne sta seduta in un angolo fino a che, alla fine, un ometto dal passo stanco fa capolino dalla porta dietro il banco della reception e le fa cenno di entrare. "Salve. Io sono Marcos", dice. "Lei è l'interprete? È così giovane. Non abbiamo mai avuto ragazze così giovani, dal coreano." A quanto pare nessuno si cura di lui, quindi non può certo essere il viceprocuratore distrettuale. "Mi segua; siamo un po' in ritardo." Marcos indica il lungo corridoio oltre la porta. Da entrambi i lati ci sono file di porte identiche segnate soltanto da numeri a due cifre. Dentro devono essere in corso varie indagini. Furto con scasso, omicidio, rapimento, sparatorie, tutto raccolto dietro ogni porta. Sarebbe impossibile trovare la strada per tornare, pensa lei, improvvisamente felice che sia Marcos a condurla all'interno di quel labirinto. Dopo qualche svolta, l'uomo si ferma davanti a una porta che non ha numero. "Aspetti dentro; il viceprocuratore distrettuale sta arrivando con il testimone." Una veloce pacca sulla spalla. Poi Marcos scompare velocemente nell'abisso. L'austerità della stanza fa pensare a una tipica agenzia municipale. L'assenza di finestre è voluta. Deve essere così una prigione, pensa lei. Le pareti sono segnate da vernice bianco sporco. Il tavolo e le sedie sono così anonime che sembrano essere state portate lì direttamente da una vetrina di Kmart. Curioso, le ricorda il suo appartamento, la desolazione, il silenzio gelido, l'attesa indefinita. Potrebbero essere ancora le quattro del mattino, e Suzy, rimasta sola, avrebbe voglia di dormire. "La signorina Suzy Park? James Richard, viceprocuratore distrettuale." L'uomo è alto, con un completo scuro in tinta con il mobilio. Le passa la sua tessera e indica l'uomo vicino a lui. "Tradurrà per il signor Lee." Accanto al viceprocuratore distrettuale, il cui metro e novanta appare inquietante sotto il soffitto basso, il signor Lee sembra timido, benché non sia neanche lui di bassa statura per essere coreano. Con l'abito nero rigido e la camicia bianca inamidata, avrebbe potuto passare per un avvocato, o per un impresario delle pompe funebri. I coreani tendono a vestirsi in modo troppo elegante alle deposizioni. Avvocati e giudici, in realtà, tutti quelli che hanno a che fare con la legge, vengono presi esageratamente sul serio, e i testimoni si mettono gli abiti più puliti ed eleganti, come se andassero alla messa domenicale. È il loro modo di mostrare cortesia di fronte alla legge, anche se i loro sforzi potrebbero portare fuori strada il consiglio che si ritrovano davanti, convincendolo che la pretesa, da parte del testimone, di difficoltà economiche, deve essere un'invenzione. Ma una deposizione è un evento per questi lavoratori immigrati. Non capita tutti i giorni di scontrarsi con la legge americana, figurarsi le convocazioni da parte dell'ufficio del Procuratore Generale. Gente che sgobba sette giorni su sette nelle drogherie, nei saloni per la manicure, nei lavasecco, quando, se non ora, avrebbe la possibilità di indossare i loro falsi Gucci, Armani, Rolex? Il viso dell'uomo sembra troppo abbronzato per lavorare in un lavasecco. Una rosticceria o una drogheria, forse. Ma le sue mani hanno visto troppa polvere e troppo sole, il che può significare soltanto frutta e verdura. L'arcano non dura a lungo, perché il viceprocuratore distrettuale posa la cartella che ha in mano: "Caso 404: Ufficio del Procuratore Generale, divisione Lavoro; Indagini sulla Lee Market Inc. di Grand Concourse, New York". Il signor Lee annuisce appena, alla maniera in cui i coreani si salutano negli ambienti formali. Suzy risponde al gesto, un po' più marcatamente, dal momento che lui è evidentemente più vecchio ed esige maggiore rispetto. "Signorina Park, questo è semplicemente un interrogatorio preliminare, quindi non ci sarà la stenografa. Può chiedere al signore se è consapevole di avere diritto di essere rappresentato da un legale?" James Richards ha una voce gentile, e Suzy è felice per il signor Lee, che sembra nervoso, quasi rigido, dal modo in cui unisce le sopracciglia come per tentare di capire il flusso del discorso che gli sfugge. Va tutto bene, gli dice lei. Non si preoccupi troppo, dice prima di tradurre le parole pronunciate dal viceprocuratore distrettuale. Lui risponde: "Sì, lo so, non posso permettermi un legale, non ho tempo per trovare un legale, lavoro dodici ore al giorno, lavoro sette giorni la settimana, ho appena il tempo per dormire, non ho fatto niente di male". Suzy traduce la risposta, e il viceprocuratore annuisce con convinzione, come rendendosi conto della preoccupazione dell'uomo. "Signor Lee, nessuno la sta accusando di aver fatto qualcosa di male. È stato convocato qui per qualche domanda in risposta alla denuncia che abbiamo ricevuto, la cui fonte non posso rivelare per vie delle norme di riservatezza. L'indagine è appena iniziata. Questo potrebbe portare a deposizioni e udienze, ma per ora quel che dobbiamo fare qui è porle alcune domande, e aspettarci che lei ci dica la verità." | << | < | > | >> |Pagina 187Jen ora sorride. Il primò vero sorriso da quando è arrivata. "Fa schifo il deca, vero?""È stata una tua idea." Suzy posa il bicchiere, che si è intiepidito troppo presto. "Così devi tornare in ufficio?" "Già. Il numero esce domani, e Harrison non ha ancora faxato le sue correzioni." "Quello maniaco del controllo?" "Sì, la rottura di palle. Se non avesse avuto una mente così fenomenale, avremmo già rotto ogni rapporto dopo il suo ultimo pezzo, che è arrivato con tre mesi di ritardo." "Di cosa parla?" "Di Nabokov. Degli anni prima di Lolita, quando insegnava alla Cornell. Harrison studiava con lui, allora, e fece scalpore dicendo quanto Nabokov odiasse l'America e, ancora peggio, quanto disprezzasse il dover scrivere in inglese. Harrison sostiene che Lolita fu in realtà una metafora del rapporto di Nabokov con la lingua inglese. Uno strano miscuglio di desiderio, sottomissione e rimorso. È una teoria interessante, anche se non so fino a che punto la farei mia. Nabokov scrisse quasi esclusivamente in inglese, sai. Una volta trasferitosi qui, negli anni Quaranta, abbandonò la sua madrelingua, il russo, una decisione strana. Però era cresciuto parlando tre lingue: inglese, francese e naturalmente russo. A quanto posso dire io, si trovava a suo agio con tutte e tre le lingue. Finì per ritirarsi in Svizzera, tra tutti i posti, a proposito di stati neutrali! Hanno dato l'ok a questo articolo solo perché è controverso, e naturalmente perché è di Harrison. Sostiene tra l'altro che la decisione di Nabokov di prendere la cittadinanza americana fu poco più di un pretesto, che gli avrebbe fornito una copertura per il suo anti-americanismo. Fu nel 1945, non proprio un anno innocente. Harrison offre una lettura del tutto nuova di Lolita. Non mi convince, però." Jen si voltò verso di lei, aggrottando le sopracciglia. "È così importante? Che cosa significa prendere una nuova cittadinanza?" La cittadinanza americana. Naturalmente Suzy, essendo venuta in America a cinque anni, doveva diventare cittadina naturalizzata a un certo punto. Ci pensava raramente. Non aveva mai nemmeno richiesto il passaporto. L'idea di volare le faceva venire le vertigini, ma in realtà non ce n'era mai stata occasione. Damian aveva proposto di fare un viaggio insieme, dato che le sue ricerche spesso lo portavano in Asia. Ma presto capì chiaramente che lui non la voleva nei suoi viaggi. Senza passaporto, nulla dimostra la sua cittadinanza. Ha sempre spuntato il riquadro "cittadina americana" sui moduli di richiesta dei sussidi finanziari, perché una volta l'ha chiesto alla mamma e lei le ha detto che era cittadina americana. Se era cittadina americana, lo erano anche i suoi genitori e Grace? Quando avevano ottenuto la cittadinanza? Come avevano fatto? Le avevano detto di essersene andati dalla Corea nel 1975. Avevano seguito un familiare che viveva negli Stati Uniti, una cugina da parte di sua madre, che doveva aver fatto domanda per procurargli il visto. Quando Suzy aveva chiesto dove si trovasse questa cugina, la mamma aveva detto che era morta subito dopo il loro arrivo. Suzy ricorda di esserci rimasta male. Dato che non avevano parenti in America, e non si erano mantenuti in contatto con nessuno in Corea, una zia vicina sarebbe stata una bella cosa. Ma alla fine la famiglia non aveva nessun altro contatto. Quando gli altri ragazzini si vantavano di essere andati a trovare una nonna, una cugina o una zia, Suzy si limitava ad alzare le spalle. Non ne aveva mai avuti, così non ne sentì troppo la mancanza. Contrariamente alla loro insistenza su tutto ciò che era coreano, i suoi genitori discutevano raramente della loro vita, in patria. Papà era orfano. Orfano di guerra, un residuato del 38° parallelo, diceva lui. Era stato solo dalla nascita, eppure era riuscito ad arrivare nella più ricca nazione del mondo, o no? Grugniva papà a Suzy e Grace le sere in cui si scolava una bottiglia intera di soju. Quelle sere, papà sembrava dimenticare che c'erano anche loro. Non c'erano più neanche gli impeti di rabbia a cui spesso assistevano. Sembrava lottare contro l'impulso di ricordare, ma non riusciva a fare a meno di richiamare alla mente i demoni del suo passato coreano, che non avevano nulla a che fare con le sue figlie, con sua moglie, né con questa lontanissima terra, lontana quant'è grande l'oceano, lontana quanto è lungo un decennio, due decenni o tutto il tempo che serviva per chiamarla casa questo posto che chiamavano Queens, o quest'altro che chiamavano Bronx, questo luogo che chiamavano America, anche se nessuno di questi nomi poteva lenire tutto ciò che pesava sul suo cuore inerte. Quel che Suzy aveva percepito era una specie di dolore, talmente crudo da sembrare contagioso. Lei non era mai riuscita a capire se il seme di tutte le sue ire fossero proprio i ricordi di quei tempi, perché lui non l'avrebbe mai detto, perché suo padre era un uomo che non avrebbe mai dovuto avere una famiglia. La mamma, però, non era così sola. Aveva ancora una famiglia, in Corea. Due sorelle. Un paio di nipoti. Tutti vengono da qualche luogo. Solo che doveva essere successo qualcosa di brutto, e lei aveva smesso di parlare con loro anni prima. Quando Suzy aveva chiesto alla mamma il perché, le era stato detto di restare fuori dagli affari degli adulti. Una faida familiare, pensò poi Suzy. Forse per soldi: per che cosa, altrimenti? Non potevano essere molti soldi, però. La mamma non era ricca. Suzy arrivò a dedurre solo questo. La sottocultura degli immigrati non aveva niente a che vedere con il resto d'America. Quando le ragazze si ammalavano, la mamma comprava un intruglio alla locale farmacia coreana dove non chiedevano mai la ricetta. Quando papà perse l'appetito, andò da un erborista ad Astoria per prendere una dose di bile di orso. Quando i suoi genitori avevano dei soldi da parte, il che non accadeva quasi mai, non si rivolgevano a una banca ma a un gae, che era un fondo della comunità coreana dove si estraeva una lotteria mensile e si dava al vincitore un mucchio di soldi. Il motivo per cui i suoi genitori, come la maggior parte degli adulti coreani, preferissero il caffè istantaneo della Maxwell House al caffè fresco era al di là della comprensione di Suzy, come anche il perché non toccassero pompelmi e mango, pur conservando scatole di cachi disidratati a casa. Se avesse potuto restare per il tempo sufficiente in un quartiere, se fosse stata in grado di entrare in intimità con un amico, con un vicino, con un parente, allora forse questa eterna Corea, sospesa da qualche parte in Estremo Oriente, forse avrebbe avuto più importanza. Lei continuò comunque a coltivare la lingua. Seguiva le consuetudini coreane. Ma conoscere una cultura era diverso dal toccarla. Si inchinava davanti agli anziani senza il tradizionale rispetto che quegli inchini richiedevano. Metteva i denti nell'aroma piccante del kimchi senza sentire il sapore della sua triste e aspra tradizione. Muoveva su e giù la testa ai colpi di tamburo delle canzoni popolari coreane senza dolersi della loro malinconia. Come poteva farlo? Non ricordava nulla del suo Paese.
Però anche la cultura americana, e Suzy rimase scioccata quando lo scoprì,
una volta andata via da casa, le era
estranea. Le cene del Ringraziamento. Gli
eggnog.
Il
Mary Moore Show.
Il Monopoli. Il dottor Seuss. Jfk. Quei
simboli carichi di americanità non significavano nulla per
lei. Non riportavano alla mente alcun ricordo caro, alcun
impulso di nostalgia. Damian la chiamava l'ultima vergine. Lui rise quando, a
una cena di Ringraziamento, vide
il viso di Suzy illuminarsi mentre assaggiava, per la prima
volta, il tacchino in salsa di mirtilli. Una benedizione,
disse lui, crescere in un simile vuoto culturale. Ma quella
benedizione aveva il suo prezzo. Essere bilingue, essere
multiculturale avrebbe portato due mondi in un solo
cuore, eppure per Suzy ciò significava vuoto persistente.
Come se avesse bisogno di amare una cultura per poter
amare l'altra. Accatastare realtà culturali non produceva
nessuna identificazione. Quella che Damian aveva definito una "benedizione" la
spingeva fuori dal contesto, sempre. Era imprigionata in un vuoto dove nessuna
delle due culture era in grado di commuoverla, né di conquistarla. In fondo in
fondo, non sentiva alcun legame, cosa che Damian sembrava aver capito.
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