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| << | < | > | >> |Pagina 1È UNA bella giornata d'aprile a Playalinda, in Florida, non lontano da Cape Canaveral. È l'anno del Signore 2026, e solo poche persone in mezzo alla folla sul lato orientale del Max Hoeck Back Creek portano la mascherina. Sono perlopiù anziani, che hanno preso l'abitudine e trovano difficile farne a meno. Il coronavirus circola ancora, come l'invitato a una festa che non vuole andarsene, e anche se molti temono che possa mutare per l'ennesima volta e rendere inutili i vaccini, per il momento i suoi effetti sono sotto controllo. Alcuni tra i presenti - pure in questo caso, si tratta soprattutto di anziani, che non hanno più la vista di un tempo - usano un binocolo, ma la maggioranza non ne ha bisogno. L'astronave sulla rampa di lancio di Playalinda è il razzo a conduzione umana più grande che abbia mai spiccato il volo dalla Madre Terra; con una massa a carico pieno pari a duemila tonnellate, ha tutto il diritto di essere chiamata Eagle-19 Heavy. Una nebbia di vapore oscura gli ultimi quindici metri sui più di centoventi di altezza, ma perfino chi ha problemi di vista è perfettamente in grado di leggere le tre lettere sul fianco dell'astronave: E chiunque non sia completamente sordo può sentire gli applausi quando cominciano. Un uomo - abbastanza in là con gli anni da ricordare la voce disturbata di Neil Armstrong che annunciava al mondo intero l'allunaggio della Eagle - si rivolge alla moglie con le lacrime agli occhi e la pelle d'oca sulle braccia abbronzate e scheletriche. Il vecchio in questione è Douglas «Dusty» Brigham. Sua moglie è Sheila Brigham. Si sono trasferiti nella cittadina di Destin dieci anni fa, ma sono originari di Castle Rock, nel Maine. Sheila, in effetti, un tempo lavorava come centralinista nell'ufficio dello sceriffo. Dal sito di lancio della Tet Corporation, a tre chilometri di distanza, continuano ad arrivare gli applausi. A Dusty e Sheila sembrano fiacchi, ma devono risultare ben più rumorosi sull'altra sponda del torrente, perché gli aironi si levano in volo dal loro punto di sosta mattutino, formando una nube di pizzo bianca. «Sono in partenza», dice Dusty alla donna che è sua moglie da cinquantadue anni. «Che Dio protegga la nostra bambina», dice Sheila, e si fa il segno della croce. «Che Dio protegga la nostra Gwendy.» | << | < | > | >> |Pagina 14IN cima alla torre di lancio c'è una grande stanza bianca dove i viaggiatori nello spazio rimangono in piedi con le braccia sollevate ed eseguono una serie di lente piroette, mentre uno spray disinfettante che ha un odore sospetto di varechina li avvolge in una nube. È la loro ultima pulizia. Non molto tempo fa qui c'era un altro locale, piccolo, con un cartello sulla porta sul quale c'era scritto: BENVENUTI NELL'ULTIMA TOILETTE SULLA TERRA, ma la Eagle Heavy è un transatlantico di lusso, dotato di una sua stanza da bagno. Che, come le tre cabine, è in realtà poco più di una capsula. Una delle cabine private è appannaggio di Gareth Winston. Gwendy ritiene che se la meriti; ha pagato a sufficienza, per averla. La seconda è di Gwendy. In altre circostanze forse avrebbe protestato per quel trattamento speciale, senatrice o meno, ma tenuto conto del motivo principale per íl quale ha deciso di partecipare alla spedizione, ha accettato. La direttrice della missione, Eileen Braddock, ha suggerito che i sei membri dell'equipaggio senza responsabilità di volo (esclusi, quindi, la comandante Kathy Lundgren e il suo vice, Sam Drinkwater) si giocassero a sorte la terza cabina, ma l'equipaggio ha deciso all'unanimità di assegnarla a Adesh Patel, l'entomologo. I suoi esemplari vivi sono già stati caricati a bordo. Adesh dormirà su una minuscola cuccetta, circondato da insetti e ragni. Inclusi (Oh, cavolo, pensa Gwendy) una tarantola di nome Olivia e uno scorpione di nome Boris. C'è un gabinetto in comune, e nessuno ne è più felice della loro comandante delle operazioni. «Niente più pannoloni», ha detto Kathy Lundgren a Wendy durante la quarantena. «Questo sì, mia cara senatrice, che è un salto in avanti colossale per l'umanità. Per non parlare del genere femminile.» «Ingresso», annunciano gli altoparlanti dal comando di missione. «Due ore e quindici minuti al decollo. Luce verde.» Kathy Lundgren e il suo vice, Sam Drinkwater, si piazzano davanti agli altri membri dell'equipaggio. Kathy, i capelli biondo rame nei quali brillano ancora le goccioline di disinfettante, si rivolge a tutti e otto, ma Gwendy ha la netta sensazione che le sue attenzioni siano concentrate soprattutto su di lei e sul miliardario. «Prima di cominciare l'ultima fase dei preparativi, vi riassumo la tempistica della missione. La conoscete già tutti, ma la TetCorp mi ha imposto di ripeterla ancora una volta prima del vostro ingresso. Raggiungeremo l'orbita terrestre in otto minuti e venti secondi. Orbiteremo intorno alla Terra per due giorni, eseguendo trentadue o trentatré circumnavigazioni complete e variando leggermente l'orbita fino a tracciare nello spazio una specie di fiocco natalizio. Io e Sam individueremo i detriti spaziali da eliminare in una missione successiva. La senatrice Peterson - Gwendy - potrà avviare le sue attività di monitoraggio meteo. Adesh sarà sicuramente occupato a giocare con i suoi insetti.» La battuta è accompagnata da una risata generale. David Graves, l'esperto di statistica e informatica, aggiunge: «E nel caso dovesse liberarsene qualcuno, finirà fuori dall'oblò. Insieme a te». Seguono altre risate. A Gwendy sembrano decisamente disinvolte, e spera di dare anche lei la stessa impressione. «Il terzo giorno ci agganceremo alla Many Flags, che in questo momento è deserta, a eccezione di una squadra di cinesi...» «Inquietante», dice Winston, con un'espressione di orrore quasi eccessiva. Kathy gli lancia un'occhiata inespressiva e prosegue. «I cinesi occupano il Raggio 9. Noi staremo nei Raggi 1, 2 e 3. I Raggi da 4 a 8 attualmente non sono occupati. Se incontrerete i cinesi, sarà mentre corrono lungo l'anello esterno. Lo fanno molto spesso. Avrete a disposizione spazio in abbondanza. Resteremo alla stazione per diciannove giorni, e avere tutto quello spazio per voi sarà un lusso incredibile. Specie dopo aver trascorso quarantotto ore sulla Eagle Heavy. «Adesso viene la parte più importante, perciò ascoltatemi con attenzione. Bern Stapleton è un veterano che ha già partecipato a due spedizioni. Dove Graves ne ha fatta una. Sam, il mio vice, cinque, e io sette. Gli altri tra voi sono novellini, perciò vi dirò quello che dico a tutti i novellini: questa è la vostra ultima possibilità di tornare indietro. Se avete anche solo il minimo dubbio sulla vostra capacità di reggere dall'ingresso nell'astronave all'uscita finale, dovete dirlo adesso.» Nessuno apre bocca. Kathy annuisce. «Fantastico. Che lo spettacolo abbia inizio.» Uno dopo l'altro attraversano l'area di accesso e vengono aiutati a salire sull'astronave da una squadra di uomini vestiti di bianco (e disinfettati), Lundgren, Drinkwater e Graves - che sovrintenderà al volo da una console piena di schermi - salgono per primi. Sotto di loro, al secondo livello, si siedono in fila il dottor Dale Glen, il fisico Reggie Black e il biologo Bern Stapleton. AI terzo livello, il più spazioso, dove in futuro siederà un numero maggiore di passeggeri paganti (o così spera la TetCorp), si accomodano Jafari Bankole, l'astronomo che avrà ben poco da fare fino a quando non arriveranno alla stazione MF, l'entomologo Adesh Patel, il passeggero Gareth Winston e, ultima ma non in ordine d'importanza, la senatrice del Maine, Gwendy Peterson. | << | < | > | >> |Pagina 22«La tua scatola speciale è al sicuro?» le chiede Winston.Gwendy l'ha sistemata dietro un ginocchio per assicurarsi che non voli via, ammesso che non sia lei la prima a farlo. E si è bloccata con una cintura di sicurezza a cinque punti, come se fosse il pilota di un jet. «Certo.» E poi, anche se non è più sicura di cosa significhi - sempre che significhi qualcosa -, aggiunge: «È in una botte di ferro». Winston risponde con un grugnito, e si volta verso l'oblò. Alla sinistra di Gwendy, Adesh ha chiuso gli occhi. Le sue labbra si muovono appena, quasi sicuramente in una preghiera. Gwendy vorrebbe fare lo stesso, ma è passato troppo tempo da quando confidava davvero in Dio. Qualcosa però esiste. Di questo è sicura, perché non può credere che sia stato un potere terreno a creare lo strano aggeggio che tiene nascosto in un contenitore di acciaio, protetto da una combinazione a sette cifre. Perché quell'aggeggio sia tornato ancora una volta nelle sue mani è una domanda per la quale crede di conoscere la risposta, almeno in parte. Perché invece sia stata accollata a lei che si trova ai primi stadi di un Alzheimer precoce è meno comprensibile. Ed è anche terribilmente ingiusto, per non dire assurdo, d'altronde la giustizia ha mai avuto un ruolo autentico negli eventi umani? Quando Giobbe chiese l'aiuto di Dio, la risposta dell'Onnipotente fu gelida: «Quando ponevo le fondamenta della Terra, tu dov'eri?» Non importa, pensa Gwendy. La terza volta sarà quella buona. E sarà anche l'ultima. Farò quello che devo fare, e la mente mi assisterà per il tempo che sarà necessario. L'ho promesso a Farris, e io le promesse le mantengo. O, almeno, le ha sempre mantenute finora. | << | < | > | >> |Pagina 56«COSA...» iniziò Gwendy, intenzionata a completare la frase o con un «ci fa qui», o con un «ha che non va»; non sapeva ancora quale delle due opzioni scegliere, e Farris non gliene diede il tempo. Lui si portò un dito alle labbra e sussurrò: «Zitta». Quindi alzò gli occhi verso il soffitto. «Non svegliare tuo marito. Andiamo fuori.» L'uomo si mise faticosamente in piedi, barcollò e per un istante Gwendy fu sicura che sarebbe caduto. Poi ritrovò l'equilibrio, respirando a fatica. Dietro le labbra screpolate - e cos'erano quelle, bolle della febbre? - vide dei denti giallognoli. E dei buchi, dove i denti erano caduti. «Sotto il tavolo. Prendila. In fretta. Non abbiamo molto tempo.» Sotto il tavolo c'era una borsa di tela. Non la vedeva da quando aveva dodici anni, quarantacinque anni prima, ma la riconobbe immediatamente. Si piegò e la afferrò per il cordoncino. Farris si avviò a passi incerti verso la porta della cucina. C'era un bastone accanto allo stipite. Si sarebbe aspettata che un essere così favoloso - nel senso che sembrava appena uscito da una fiaba - avesse un bastone da passeggio altrettanto favoloso, magari con il pomello d'argento a forma di testa dí lupo, e invece si trattava di un bastone assolutamente ordinario, con l'impugnatura curva e una manopola da bicicletta di gomma sopra la base. Farris vi si appoggiò, cercò di afferrare la maniglia e rischiò nuovamente di cadere. Pastrano nero, jeans neri, camicia bianca: quegli abiti che un tempo gli stavano a meraviglia, e che indossava senza ombra di ostentazione, ora gli penzolavano addosso come gli stracci su uno spaventapasseri.
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Farris sorrise, come se sapesse esattamente cosa le passava per la testa (una prospettiva inquietante, il che però non la rendeva necessariamente errata). Poi il suo sorriso si spense. «La prima volta che hai avuto la scatola, l'hai tenuta per dieci anni. Un successo notevole. Da quel giorno all'aeroporto è passata per sette paia di mani.» «La seconda volta l'ho tenuta per poco più di un battito di ciglia», disse Gwendy. «Quanto è bastato per salvare la vita di mia madre - continuo a credere che il merito sia stato della scatola -, ma non molto di più.» «Quella era un'emergenza. E lo è anche questa.» Farris diede un colpetto con il piede alla borsa di tela, con un'espressione disgustata. «Questo arnese. Questo maledetto arnese. Lo odio. Lo disprezzo.» Gwendy non aveva idea di come reagire a quell'esplosione di rabbia, ma sapeva perfettamente come si sentiva: spaventata a morte. Le tornò in mente il vecchio detto di sua madre: Non c'è NB, in questa faccenda. «Ogni anno il suo potere cresce. Ogni anno la sua capacità di fare del bene diminuisce e la sua capacità di fare del male aumenta. Ti ricordi il bottone nero, Gwendy?» «Certo che me lo ricordo», rispose lei, le labbra improvvisamente gelate. «Lo chiamavo il Bottone del Cancro.» Farris annuì. «Un buon nome per definirlo. È il bottone che ha il potere di mettere fine a tutto. Non solo alla vita sulla Terra, ma alla Terra stessa. E ogni anno gli affidatari della scatola provano un impulso più forte a premerlo.»
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«Sette proprietari dall'anno 2000. Ognuno dei sette l'ha tenuta per un periodo più breve. Cinque si sono suicidati. Uno di loro ha portato con sé tutta la famiglia. Moglie e tre figli. Con un fucile. Continuava a ripetere al negoziatore della polizia: 'È stata la scatola a farmelo fare, è stata la scatola'. Ovviamente i poliziotti non avevano idea di cosa stesse dicendo, perché a quel punto la scatola non c'era già più. Me l'ero ripresa.» «Oh, santo Dio», sussurrò Gwendy. «Uno è in una clinica psichiatrica a Baltimora. Aveva gettato la scatola dei bottoni in un forno crematorio. Senza alcun risultato, ovviamente. Sono stato io stesso a farlo ricoverare. La settima e ultima, solo un mese fa... l'ho uccisa. Non volevo farlo, ero io il responsabile di ciò che era diventata, ma non ho avuto scelta.» Dopo un attimo di silenzio, riprese: «Te li ricordi i colori, Gwendy? Non il rosso e il nero, quelli non puoi averli dimenticati». Certo che se li ricordava. Il bottone rosso faceva qualunque cosa tu desiderassi, nel bene e nel male. Il nero significava distruzione di massa. Ma ricordava altrettanto bene gli altri sei. «Rappresentano i vari continenti», disse. «Il verde chiaro l'Asia. Il verde scuro l'Africa. L'arancione l'Europa. Il giallo l'Oceania. Il blu il Nordamerica e il viola il Sudamerica.» «Esatto. Brava. Sei sempre stata svelta ad apprendere, sin da quando eri piccola. Forse tra qualche anno non lo sarai più, ma se ti opponi con tutte le tue forze...»
[...]
C'erano due levette, una per lato della scatola. La prima distribuiva dollari d'argento Morgan, mai messi in circolazione e tutti coniati nel 1891. La seconda distribuiva animaletti di cioccolato, piccoli ma deliziosi. Erano pressoché irresistibili, e Gwendy si rese conto che era questo a renderli uno strumento perfetto per controllare quante volte il proprietario utilizzasse la scatola. O meglio, la maneggiasse, lasciandosi contagiare... da che cosa? Dai suoi pidocchi? Dai suoi germi? Dalla sua capacità di fare del male? Esatto, proprio da quella. «I proprietari che abbassano le leve troppo di frequente per procurarsi gli animaletti di cioccolato o i dollari fanno scattare un allarme. Sapevo che cosa stava succedendo con la Vachon, ed ero deluso, ma credevo di avere più tempo per trovare un altro affidatario. Mi sbagliavo. Quando l'ho raggiunta, aveva appena premuto uno degli altri bottoni. Forse solo per togliersi di dosso la pressione almeno per un po', povera donna.» Gwendy sentiva freddo dappertutto. Aveva la pelle d'oca. «Quale bottone?» «Il verde chiaro.» «Quando?» La prima cosa alla quale aveva pensato era il disastro di Fukushima, quando uno tsunami aveva provocato la fusione di un reattore nucleare giapponese. Ma Fukushima risaliva ad almeno sette anni prima, se non di più. «Verso la fine di ottobre. Non la biasimo. Ha resistito finché ha potuto. Perfino quando il suo pollice era sul bottone verde chiaro ha cercato di vincere un istinto troppo forte per potervi resistere, e continuava a pensare: Ti prego, niente esplosioni. Niente terremoti. Niente eruzioni o tsunami.» «Lei ha sentito queste parole nella mente, vero? Per via telepatica.» «Quando qualcuno tocca uno dei bottoni, o anche lo sfiora soltanto, io mi ritrovo online, per così dire. Ma ero lontano, con altre cose di cui occuparmi. Sono arrivato più in fretta che ho potuto, e ho fatto in tempo a fermarla prima che premesse quello che tu chiami il Bottone del Cancro, ma troppo tardi per impedirle di premere il bottone dell'Asia.» Si fece scorrere una mano tra i capelli sempre più radi, spostando di lato la bombetta, come se fosse il ballerino di un vecchio musical, pronto a lanciarsi in un numero di tip-tap. «Tutto questo è successo solo quattro settimane fa.» Gwendy tornò indietro con la mente, cercando di ricordare un disastro che fosse avvenuto in un Paese dell'Asia in quell'intervallo di tempo. Era sicura che ci fossero state tragedie e morti in abbondanza, ma non le riusciva di pensare a un disastro così grave da sostituire Donald Trump sui titoli di testa dei telegiornali. «Forse dovrei saperlo, ma lo ignoro», disse. «È esplosa una raffineria di petrolio? C'è stato un attentato con il gas nervino?» Ma sapeva che, in entrambi i casi, si sarebbe trattato di eventi troppo poco rilevanti. Per disastri di quella portata bastava il bottone rosso. Disastri come quello di Jonestown, solo per fare un esempio. «Sarebbe potuta andare molto peggio», disse Farris. «Si è trattenuta quanto poteva, e aveva contro delle forze oscure difficili da contrastare. Ma è comunque una bruttissima storia. Finora sono morte solo due persone, una delle quali era il proprietario di quello che nella provincia di Wuhan chiamano un wet market. Un posto dove...» «Dove vendono la carne macellata, lo so.» Gwendy si protese verso l'uomo. «Sta parlando di una malattia, signor Farris? Come la MERS o la SARS?» «Sto parlando di un' epidemia. Ci sono solo due morti al momento, ma i contagiati sono molti di più. Alcuni hanno contratto il virus e non lo sanno neppure. Il governo cinese non ne è ancora sicuro, ma ha forti sospetti. E quando ne avrà la certezza, cercherà di tenere nascosta la notizia. Con il risultato che il virus si diffonderà. Le conseguenze saranno gravi, anzi, molto gravi.» «Che cosa posso fare?» «È quello che mi appresto a spiegarti. E ti aiuterò, se posso.» «Ma lei sta...» Non voleva completare la frase, però fu Farris a farlo al posto suo. «Morendo? Oh, sì, immagino proprio di sì. Ma sai che cosa significa, questo?» Gwendy scosse il capo, pensando per un istante a sua madre e a una notte trascorsa insieme a lei a guardare le stelle. Farrís sorrise. «Neanch'io, cara ragazza. Neanch'io.» | << | < | > | >> |Pagina 159SECONDA giornata sulla Many Flags. I membri dell'equipaggio hanno cominciato a dedicarsi ai rispettivi compiti: tutti tranne Gareth Winston, che non ha nessun incarico assegnato. Ci sono meraviglie di ogni sorta da esplorare, nella stazione spaziale, ma da quanto ha potuto constatare Gwendy, il miliardario ha trascorso quasi tutta la giornata nella sua suite. Come Achille, rinchiuso nella sua tenda, pensa Gwendy. Può comprendere quell'atteggiamento, perché anche lei ha trascorso un po' di tempo rinchiusa in se stessa da quando il dottor Glen le ha rivolto quella domanda. O, meglio, gliel'ha fatta esplodere in faccia come una bomba. A differenza di Gareth, Gwendy è stata molto occupata. Ha fatto una breve spedizione alla postazione meteo, controllando la strumentazione e guardando a bocca aperta la Terra sotto di lei e l'oscurità che calava dolcemente sul Nord- e il Sudamerica (rispettivamente, pulsante blu e pulsante viola nella scatola dei bottoni). Ha partecipato via Zoom a una seduta della commissione sanità. Ha parlato dell'importanza delle esplorazioni spaziali a una classe di quinta elementare di Boise, che aveva conquistato la possibilità di collegarsi con lei in videoconferenza al termine di una non meglio precisata competizione (o forse si trattava di una lotteria). Pensa che sia andato tutto bene, ma il vero problema è che non può più esserne sicura. Ha mandato giù due Tylenol per combattere un'emicrania da stress, ma sa che ci vorrà ben più del Tylenol per affrontare ciò che la attende. A quanto pare, tutti sapevano o sospettavano. Tutte le persone a bordo. Sapevano che cosa? Sospettavano che cosa? Che la senatrice Gwendolyn Peterson ha un paio di ingranaggi inceppati, ecco che cosa. Che si sta trasformando in una confezione di patatine senza Happy Meal. In una birra avanzata da una confezione da sei. Che l'adorato formaggio ha cominciato a cadere dall'adorato cracker. E poiché si trovano a cinquecento chilometri dal pianeta Terra, con una senatrice degli Stati Uniti a capo di una missione segreta di importanza decisiva, Kathy e il dottor Glen hanno deciso di affrontarla. Non sanno che cosa ci sia nella valigetta d'acciaio, ma sanno che Gwendy si è prenotata per una passeggiata nello spazio, prevista per il settimo giorno, e che quando uscirà dalla stazione MF sarà in possesso di un razzo in miniatura, lungo un metro e mezzo e del diametro di un metro e venti. Niente più di un drone, in realtà, ma alimentato da un minuscolo motore nucleare in grado di tenerlo attivo forse per duecento anni. Senza considerare il moto inerziale, dopo lo spegnimento. Quella centrale nucleare, anche se non è più grande del modellino di un treno, è potente. Se l'operatrice - Gwendy - dovesse mandare a puttane la procedura di inizializzazione mentre si trova a fluttuare nello spazio, si potrebbe creare una voragine nella stazione MF, o comunque un effetto destabilizzante che la farebbe disperdere nello spazio profondo o addirittura precipitare nell'atmosfera terrestre, dove si incendierebbe all'istante. Ovviamente Gwendy non potrebbe mai venirlo a sapere, perché sarebbe ridotta in cenere nel giro di un paio di secondi. Kathy è stata il più delicata possibile. «Non me la sentirei di spedirti là fuori, anche con un compagno, se avessi l'impressione che soffri di una qualche forma di debilitazione mentale.» Il dottor Glen è stato più netto, e Gwendy sente di doverlo rispettare, per questo. «Senatrice, hai il sospetto di poter soffrire di una forma di Alzheimer precoce? Mi dispiace davvero doverti fare questa domanda, ma, date le circostanze, non posso evitarlo.» Gwendy conosceva il rischio che si arrivasse a questo punto, e aveva costruito la propria versione dei fatti insieme al dottor Ambrose, che aveva accettato di aiutarla con grandissima riluttanza. Entrambi si erano detti d'accordo che la storia migliore avrebbe dovuto essere il più aderente possibile alla realtà. Perciò ha rivelato a Kathy e al dottor Glen che le è stata affidata una missione della massima importanza per il mondo intero, che è stata sotto stress per due anni allucinanti, che non riusciva a dormire bene da un pezzo ed era per questo che ogni tanto le capitava di dimenticare delle cose. Kathy ha subito ammesso che nel novantacinque per cento delle circostanze Gwendy si è comportata in modo adeguato se non superiore a uno standard accettabile. «Ma siamo nello spazio. Le cose possono mettersi male. Non ne parliamo quando dobbiamo curare le pubbliche relazioni, ma lo sanno tutti. Perfino Gareth ne è consapevole, ed è per questo che è disposto a espletare determinati compiti in caso di emergenza. Il novantacinque per cento non è sufficiente. Devi essere efficiente al cento per cento.» «Sto bene», ha protestato Gwendy. «E sono pronta ad affrontare ogni evenienza.» «In tal caso non avrai problemi a sostenere un test, giusto?» ha detto il dottor Glen. «Solo per rassicurarci prima di spedirti nello spazio con un oggetto importante del quale non sappiamo niente e una centrale nucleare in miniatura della quale invece sappiamo tutto.» «Va bene, d'accordo», ha ribattuto Gwendy. E, del resto, che cos'altro avrebbe potuto dire? Sin da quando Richard Farris era apparso per la terza volta si era sentita come un topo in un corridoio sempre più stretto, e senza uscita. «È una missione suicida», aveva detto a Farris quella sera sulla veranda chiusa, «e lei lo sa bene.» Il test è stato fissato per le ore 17.00, e sono già le 16.40: è ora di prepararsi. Quindi, di tirare fuori la scatola dei bottoni dalla cassaforte. | << | < | |