Autore Stephen King
Titolo L'istituto
EdizioneSperling & Kupfer, Milano, 2019, Pandora , pag. 566, cop.rig.sov., dim. 14,5x22,3x4 cm , Isbn 978-88-200-6828-8
OriginaleThe Institute
TraduttoreLuca Briasco
LettoreAngela Razzini, 2020
Classe thriller , fantascienza












 

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MEZZ'ORA dopo l'orario previsto per il decollo del volo Delta che avrebbe dovuto portare Tim Jamieson da Tampa alle luci brillanti e ai grattacieli di New York, il velivolo era ancora parcheggiato al gate. Non appena un agente della Delta e una donna bionda con un badge della sicurezza appeso al collo entrarono in cabina, i passeggeri stipati in economy si lasciarono andare a un mormorio carico di fastidio e di premonizioni.

«Mi concedereste un istante di attenzione, per cortesia?» esordì il tizio della Delta.

«Di quanto sarà il ritardo?» chiese qualcuno. «Non ci indori la pillola.»

«Manca poco alla partenza, e il capitano ci tiene ad assicurarvi che il volo atterrerà quasi in orario. Abbiamo un agente federale che deve salire a bordo, però, perciò ci serve qualcuno che sia disponibile a cedergli il posto.»

Dai posti a sedere si levò un gemito collettivo, e Tim vide diversi passeggeri impugnare il cellulare, in caso di problemi. Ne erano già capitati, in situazioni analoghe.

«La Delta Air Lines è autorizzata a offrire un biglietto sul prossimo volo per New York, previsto per domattina alle 6.45...»

Un altro gemito. Qualcuno disse: «Piuttosto mi sparo».

Il funzionario proseguì, imperterrito. «Riceverete il voucher per un albergo dove passare la notte e quattrocento dollari di rimborso. È un buon affare, signori. Chi accetta?»

Non ottenne risposta. La bionda con il badge della sicurezza non disse niente, e si limitò a percorrere la cabina con uno sguardo attento ma stranamente inespressivo.

«Ottocento dollari», disse il tipo della Delta. «Più il voucher per l'albergo e il biglietto.»

«Sembra il presentatore di un quiz televisivo», sbuffò un uomo seduto nella fila davanti a quella di Tim.

Anche stavolta, nessuno si offrì.

«Millequattrocento?»

Ancora nessuno. Tim trovava la cosa interessante, ma non del tutto sorprendente. E non solo perché prendere un volo alle sei e tre quarti significava svegliarsi quando Dio ancora dormiva. La maggior parte dei passeggeri in economy erano gruppi di famigliari diretti a casa dopo aver visitato diverse attrazioni della Florida, coppie che esibivano le classiche scottature da spiaggia e uomini nerboruti, con la faccia rossa e l'aria incazzata, che probabilmente avevano affari da sbrigare nella Grande Mela che avrebbero assicurato loro cifre molto superiori ai millequattrocento dollari.

Qualcuno dalle ultime file gridò: «Aggiungete anche una Mustang decappottabile e un viaggio ad Aruba per due, e vi cediamo entrambi i nostri posti!» L'uscita provocò una salva di risate, tutt'altro che amichevoli.

L'addetto di scalo guardò la bionda con il badge, ma se sperava di trovare aiuto non ne ottenne neppure l'ombra. La donna continuava la sua ispezione, muovendo solamente gli occhi. Tim sospirò e disse: «Milleseicento».

Tutto d'un tratto, aveva deciso di voler scendere da quell'aereo del cazzo, per andarsene verso nord in autostop. Benché l'idea non gli avesse neppure sfiorato la mente fino a quel preciso istante, scoprì di non fare la minima fatica a immaginarsi mentre lo faceva. Si vedeva chiaramente sulla statale 301, nel cuore della contea di Hernando, con il pollice in fuori. Faceva caldo, i moschini ronzavano, c'era un cartellone che pubblicizzava uno studio legale specializzato in infortuni, Take It on the Run dei REO Speedwagon risuonava a tutto volume da uno stereo appoggiato ai gradini in mattoni di una roulotte, accanto alla quale un uomo a torso nudo era impegnato a lavare la sua auto, e di lì a poco sarebbe passato uno dei tanti agricoltori del posto su un furgoncino con le sponde di legno, un carico di meloni e una calamita di Gesù sul cruscotto. La parte migliore non sarebbero stati neppure i soldi in tasca, ma il fatto di starsene lì per conto proprio, a migliaia di chilometri da quella scatola di sardine invasa dagli odori contrastanti di profumo, sudore e lacca per capelli.

Anche spremere un po' di quattrini supplementari al governo, comunque, non sarebbe stato affatto male.

Si erse in tutta la sua statura (quasi un metro e ottanta), si calcò gli occhiali sul naso e alzò una mano. «Se arriva a duemila e mi rimborsa il biglietto in contanti, il posto è suo.»




2



Il voucher era per un hotel di merda, situato accanto alla pista più utilizzata dell'aeroporto internazionale di Tampa. Tim si addormentò tra il rombo degli aerei, si risvegliò nella stessa condizione e scese per consumare un uovo sodo e due pancake gommosi al buffet. Benché non si trattasse certo di piatti gourmet, mangiò di gusto, poi tornò in camera ad aspettare le nove e l'apertura delle banche.

Incassò i soldi inattesi senza alcun problema, perché la banca sapeva del suo arrivo e l'assegno era stato autorizzato in anticipo; non aveva alcuna intenzione di aspettare in quella topaia di albergo che qualcuno desse il via libera. Si fece consegnare la cifra in banconote da cinquanta e da venti, le piegò infilandole nella tasca sinistra, recuperò la sacca da viaggio che aveva affidato all'addetto alla sicurezza e chiamò un Uber che lo portasse fino a Ellenton. Dopo aver pagato l'autista, raggiunse a piedi il primo segnale per la 301 Nord e sporse il pollice. Un quarto d'ora dopo fu preso a bordo da un vecchio che portava un berretto con la visiera. Non c'erano meloni sul pianale del suo furgoncino, e neanche le sponde di legno, ma per il resto tutto corrispondeva alla sua visione della sera precedente.

«Dove sei diretto, amico?» chiese il tizio.

«Be'», rispose Tim, «la destinazione finale è New York.»

Il vecchio sputò un grumo di tabacco fuori dal finestrino. «Perché mai un uomo sano di mente dovrebbe volerci andare?» domandò, strascicando le parole.

«Non lo so», rispose Tim, anche se in realtà lo sapeva benissimo: un ex collega gli aveva detto che la Grande Mela offriva un bel po' di opportunità nel settore della sicurezza privata, inclusi impieghi presso ditte che avrebbero dato molto più peso alla sua esperienza che non all'assurda catena di eventi con la quale si era conclusa la sua carriera nella polizia della Florida. «Per stasera mi basterebbe arrivare in Georgia. E chissà che lì non mi trovi meglio.»

«Questo sì che è parlare», disse il vecchio. «La Georgia non è malaccio, soprattutto se ti piacciono le pesche. A me fanno venire la cacarella. Ti dispiace se metto un po' di musica?»

«Niente affatto.»

«Ti avverto, però: la sento molto alta. Sono un po' sordo, sai com'è.»

«Mi hai già fatto un grande favore a prendermi su.»

Invece dei REO Speedwagon partì un pezzo di Waylon Jennings, ma a Tim andava bene comunque. Poi fu il turno di Shooter Jennings e Marty Stuart. I due uomini a bordo del Dodge Ram striato di fango ascoltavano la musica e guardavano la strada che scorreva accanto ai finestrini. Dopo poco più di cento chilometri, il vecchio accostò, si toccò la visiera del berretto e augurò a Tim buona giornata.

Tim non arrivò in Georgia quella sera - trascorse la notte in un altro squallido motel vicino a un baracchino sul ciglio della strada che vendeva succo d'arancia -, ma giunse a destinazione il giorno dopo. Nella cittadina di Brunswick (famosa per aver dato i natali a uno stufato particolarmente saporito) accettò un impiego di due settimane in un impianto di riciclaggio, senza rifletterci più di quanto gli fosse stato necessario per decidere di lasciare il suo posto sul volo della Delta. Non gli servivano altri soldi, ma gli sembrava che prendersi un po' di tempo potesse essergli utile. Era in piena fase di transizione, un processo che non si poteva certo concludere nell'arco di una giornata. Senza considerare che c'era una pista da bowling con un Denny's subito accanto: una combinazione pressoché imbattibile.




3



Dopo aver aggiunto la paga della fabbrica ai soldi della compagnia aerea, Tim si ritrovò sulla rampa d'accesso della I-95, con la sensazione di essere decisamente in grana, per un vagabondo. Rimase per più di un'ora sotto il sole, e stava quasi per rinunciare e tornare da Denny's a bere un bicchiere di tè freddo quando una Volvo station wagon accostò sul ciglio della strada. Il sedile posteriore era zeppo di scatoloni. La donna anziana al volante abbassò il finestrino del passeggero e lo scrutò da dietro un paio di lenti spesse. «Non è grande e grosso, ma mi pare che non stia messo male, a muscoli», disse. «Non sarà uno stupratore o uno psicopatico, spero.»

«Nossignora», rispose Tim, pensando: Ma se anche lo fossi, credi sul serio che te lo direi?

«Me lo direbbe in caso contrario, giusto? Deve arrivare fino in South Carolina? A giudicare dalla sua sacca da viaggio, direi di sì.»

Un'auto sterzò per superare la Volvo e accelerò sulla rampa, suonando il clacson. La donna sembrò non accorgersene nemmeno, e continuò a fissare Tim con un'espressione serena.

«Sissignora. Sono diretto a New York.»

«Io posso portarla in South Carolina, anche se non intendo inoltrarmi più di tanto in quella terra di ignoranti. Lei però dovrebbe aiutarmi, in cambio. Una mano lava l'altra, insomma.»

«Già. Se tu dai una cosa a me, io poi do una cosa a te.»

«Non le darò un bel niente, ma può salire.»

Tim obbedì. La donna si chiamava Marjorie Kellerman, e dirigeva la biblioteca di Brunswick. Faceva anche parte di una sedicente Southeastern Library Association, che, spiegò, non aveva un centesimo perché «Trump e i suoi compari si sono ripresi tutto. Non comprendono la cultura più di quanto un asino capisca l'algebra».

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«Senti, quella cosa degli occhi... l'hanno fatta anche a te?»

«Certo. La fanno a tutti, proprio come tutti si beccano il termometro nel culo, l'elettroencefalogramma, l'elettrocardiogramma, una risonanza magnetica, un'ecografia, gli esami del sangue, le prove dei riflessi e tutte le altre meraviglie che ancora ti aspettano, Lukey.»

Luke pensò di chiedere se George avesse continuato a vedere i puntini colorati dopo che il proiettore era stato spento, ma decise di non farlo. «Hai avuto le convulsioni? Perché a me è successo.»

«Macché. Mi hanno fatto sedere davanti a un tavolo, e quello stronzo di un dottore con i baffetti mi ha propinato qualche giochino con le carte.»

«Cioè, ti ha chiesto cosa c'era su ogni carta.»

«Proprio così. Ho pensato che fossero carte Zener. Dovevano esserlo per forza. Mi hanno fatto un test con le stesse carte un paio di anni fa, prima che finissi in questo buco infernale. Quando i miei genitori hanno scoperto che ogni tanto mi riusciva di muovere gli oggetti guardandoli. Una volta deciso che non stavo fingendo per spaventarli e che non era uno dei miei soliti scherzi, volevano scoprire che cosa mi stesse succedendo, perciò mi hanno portato a Princeton, dove c'è un'unità che si occupa di studiare le anomalie.»

«Anomalie... dici sul serio?»

«Sì, immagino che il termine suoni più scientifico rispetto alla parola 'psiche'. In realtà l'unità fa parte del dipartimento di Ingegneria di Princeton, per quanto ti possa sembrare incredibile. È come se cercassero di nascondere quello che fanno, e forse è proprio così. Un paio di studenti appena laureati hanno provato con le carte Zener, ma praticamente non ne ho azzeccata una. Quel giorno non mi è riuscito neppure di far muovere gli oggetti, tranne qualcosina. A volte mi capita.» Si strinse nelle spalle. «Probabilmente avranno pensato che fossi un imbroglione, e per me andava bene così. Insomma, quando sono in vena posso far crollare una pila di mattoni solo con la forza del pensiero, ma questo non fa di me Superman, e non mi aiuterà a conquistare le ragazze. Sei d'accordo con me?»

Essendo pure lui capace tutt'al più di far cadere una teglia di pizza dal tavolo di un ristorante senza toccarla, Luke non poteva che concordare. «Ti hanno preso a schiaffi?»

«Ne ho beccato uno solo, ma bello forte», rispose George. «È successo perché ho cercato di fare una battuta. Me l'ha dato quella stronza che si chiama Priscilla.»

«L'ho conosciuta. Una vera stronza, in effetti.»

Una parola che sua madre odiava più ancora di «cazzo»: pronunciarla gli provocò un'ondata di nostalgia.

«E non sapevi cosa ci fosse su quelle carte.»

George gli lanciò una strana occhiata. «Sono un TK, non un TP. Proprio come te. Quindi, come avrei potuto saperlo?»

«In nessun modo, direi.»

«Siccome quelle carte me le avevano già mostrate a Princeton, ho tirato a indovinare. Prima una croce, poi una stella, o due linee ondulate. Priscilla mi ha ordinato di smetterla di mentire, e così quando Evans mi ha mostrato la carta successiva, gli ho detto che era una foto delle tette di Priscilla. Ed è stato allora che mi ha mollato un ceffone. Poi mi hanno riaccompagnato in camera mia. A dire la verità, non mi sono sembrati molto interessati. Era come se seguissero un protocollo, senza crederci più di tanto.»

«Forse non si aspettavano niente di particolare», disse Luke, «e servivi solo come soggetto di controllo.»

George scoppiò a ridere. «Qui dentro io non controllo proprio un cazzo. Di che cosa stai parlando, amico?»

«Non importa. Sono tornate? Le luci, voglio dire. Quei puntini colorati.»

«No.» Ora George sembrava decisamente incuriosito. «Tu li hai rivisti?»

«No.» Tutto d'un tratto, Luke fu felice che Avery non fosse con loro, e poté solo sperare che il cervello del ragazzino funzionasse come una radio a onde corte. «Ho solo... avuto le convulsioni... o così mi è parso... e avevo paura che potessero tornarmi.»

«Non capisco che senso abbia questo posto», disse George, in tono ancora più cupo. «Sembra quasi un'installazione governativa, ma... mia madre ha comprato un libro, okay? Non molto tempo prima che mi portassero a Princeton. La Psiche: storie vere e fasulle, così si intitolava. L'ho letto subito dopo di lei. C'era un capitolo dedicato agli esperimenti del governo sulle cose che noi siamo in grado di fare. La CIA ne ha svolti parecchi, negli anni Cinquanta. Telepatia, telecinesi, precognizioni, perfino levitazione e teletrasporto. C'era di mezzo l'LSD. Hanno anche ottenuto dei risultati, ma niente di eccezionale.» Si allungò, piantando gli occhi azzurri in quelli verdi di Luke. «Ed è questo che siamo anche noi, amico: niente di eccezionale. Dovremmo aiutare gli Stati Uniti a dominare il mondo facendo muovere delle confezioni di cracker, e solo se sono vuote, o girando le pagine di un libro con la forza della mente?»

«Potrebbero spedire Avery in Russia», disse Luke. «Saprebbe dirgli cos'ha mangiato Putin a colazione, e se portava gli slip o i boxer.»

La battuta strappò un sorriso a George.

«Per quanto riguarda i nostri genitori...» cominciò Luke, ma proprio in quell'istante Kalisha uscì di corsa, chiedendo chi volesse giocare a palla avvelenata.

Sembrò che tutti i ragazzi non aspettassero altro.

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TRASCORSERO tre settimane.

Luke mangiava. Dormiva, si svegliava, mangiava ancora. Ben presto imparò a memoria il menu, e si univa agli altri ragazzi in un applauso sarcastico a ogni cambio di pietanza. Alcuni giorni erano dedicati ai test. Altri alle iniezioni. Altri ancora a entrambe le cose, mentre in alcune occasioni gli veniva concesso di riposare. C'erano iniezioni che lo facevano stare male, ma la maggior parte non avevano effetto. La gola non gli si era più chiusa, però, e di questo era grato. Passava il tempo nell'area giochi o a guardare la tv, facendo amicizia con Oprah, Eileen, il dottor Phil, la giudice Judy. Guardava su YouTube video di gatti che si fissavano allo specchio o di cani che acchiappavano al volo i frisbee, ora da solo, ora in compagnia di altri ragazzi. Quando Harry veniva in camera sua, con lui c'erano sempre le gemelle, che chiedevano di vedere i cartoni animati. Quando era Luke ad andare in camera di Harry, le gemelle erano già lì. A Harry non interessavano i cartoni: aveva una netta preferenza per il wrestling, gli incontri di arti marziali miste in gabbia e le gare di auto NASCAR. Di solito salutava Luke dicendogli: «Guarda questa!» Le gemelle adoravano colorare, e i sorveglianti fornivano loro una quantità quasi illimitata di album. Di solito riuscivano a seguire i contorni, ma in un paio di occasioni avevano sbaffato ed erano scoppiate in una risata che sembrava non finire più, inducendo Luke a pensare che fossero ubriache o su di giri. Quando aveva chiesto lumi a Harry, si era sentito rispondere che lo avevano implorato di poter provare a bere. Harry aveva avuto la buona creanza di vergognarsi, almeno, e quando avevano vomitato (all'unisono, come tutte le altre cose che facevano), aveva avuto la buona creanza di vergognarsi anche di più. E aveva pulito di persona. Un giorno Helen si era prodotta in una tripla capriola sul trampolino, aveva riso, fatto l'inchino ed era scoppiata in un pianto inconsolabile. Quando Luke aveva tentato di calmarla, lo aveva colpito a ripetizione con i piccoli pugni. Per un po' Luke aveva battuto a scacchi tutti i nuovi arrivati, e quando la cosa si era fatta noiosa aveva trovato dei modi per perdere, rendendosi conto di quanto fosse faticoso, per lui.

Aveva la sensazione di dormire anche quando era sveglio. Percepiva il calo del proprio quoziente intellettivo con assoluta chiarezza, come quando l'acqua continua a colare da un distributore perché qualcuno ha lasciato il rubinetto aperto. Seguiva il trascorrere dei giorni di quella strana estate attraverso i cambiamenti di data sul suo portatile. Oltre che per guardare i video su YouTube, usava il computer - con una sola eccezione significativa - per scambiarsi messaggi con George o Helen. Non era mai lui a dare il via alle conversazioni, e cercava per quanto possibile di tagliare corto.

Si può sapere che cazzo hai? gli scrisse Helen un giorno.

Niente, rispose.

Secondo te perché siamo ancora nella Prima Casa? scrisse George. Non che mi lamenti, eh.

Non lo so, scrisse Luke, prima di uscire dalla chat.

Scoprì che non era difficile nascondere il proprio dolore ai sorveglianti, ai tecnici e ai dottori; erano abituati ad avere a che fare con ragazzini depressi. Eppure, anche nei momenti di infelicità assoluta, a volte pensava a quell'immagine luminosa che Avery gli aveva proiettato davanti agli occhi: un canarino che volava via dalla sua gabbia.

Il suo stato di doloroso sonnambulismo era squarciato da brevi schegge di ricordi, che giungevano sempre inattese: suo padre che lo annaffiava con la canna da giardino; suo padre che eseguiva un tiro di spalle al canestro e Luke che gli si buttava addosso quando faceva centro, dopodiché cadevano entrambi sull'erba, ridendo; sua madre che portava a tavola un cupcake gigante ricoperto di candeline accese, per il suo dodicesimo compleanno; sua madre che lo abbracciava e gli diceva: «Stai diventando così grande»; sua madre e suo padre che ballavano come matti in cucina mentre Rihanna cantava Pon de Replay. Quei ricordi erano bellissimi e pungevano come ortiche.

Quando non pensava alla «coppia uccisa a Falcon Heights» - o non la sognava - Luke si concentrava sulla gabbia nella quale era imprigionato, e sulla possibilità di spiccare il volo. Erano gli unici momenti nei quali la sua mente sembrava in grado di recuperare la concentrazione dei tempi migliori. Notava una serie di dettagli che sembravano rafforzare la sua convinzione che l'Istituto procedesse per inerzia, come un'astronave che spegne i motori non appena raggiunta la velocità di fuga. Le lampadine di vetro scuro appese al soffitto del corridoio a scopo di sorveglianza, per esempio. Erano quasi tutte impolverate, come se nessuno le pulisse da un pezzo. Questo valeva specialmente per l'ala ovest del pianoterra, quasi sempre deserta. Le videocamere all'interno delle lampade probabilmente funzionavano ancora, ma nella migliore delle ipotesi trasmettevano immagini sfocate. Ciò nonostante, non sembrava che Fred e gli altri custodi - Mort, Connie e Jawed - avessero ricevuto l'ordine di spolverarle, e questo significava che chiunque avesse l'incarico di monitorare i corridoi se ne sbatteva allegramente, se le immagini erano confuse.

Luke trascorreva le giornate a testa bassa, facendo ciò che gli veniva ordinato senza discutere, ma quando non restava inebetito nella sua stanza si trasformava in un'autentica spugna. La maggior parte di ciò che origliava era inutile, ma lo assorbiva ugualmente, immagazzinando le informazioni in un'area della sua mente. I pettegolezzi, per esempio. Il fatto che il dottor Evans continuasse a correre dietro alla dottoressa Richardson, cercando di fare conversazione, troppo allupato (così lo aveva definito Norma, una delle sorveglianti) per rendersi conto che Felicia Richardson non lo avrebbe toccato neppure con un palo lungo tre metri. O il fatto che Joe e altri due sorveglianti, Chad e Gary, a volte usassero i gettoni che non regalavano ai ragazzi per procurarsi bottigliette di vino o di alcolici dal distributore nella sala tv dell'ala est. Parlavano spesso delle loro famiglie o dell' Outlaw Country, il bar dove andavano a bere e a sentire i gruppi che suonavano. «Sempre che vogliate chiamarla musica», aveva sentito dire a Gladys la Fasulla da una sorvegliante che si chiamava Sherry. Il bar, che molti tecnici e sorveglianti avevano ribattezzato «Il covo delle gnocche», si trovava in una cittadina di nome Dennison River Bend. Luke non era riuscito a capire quanto fosse lontana, ma pensava che fosse a quaranta o massimo cinquanta chilometri da lì, perché sembrava che tutti i dipendenti dell'Istituto ci andassero durante le ore di riposo.

Luke memorizzava anche i nomi, quando gli capitava di sentirne. Il dottor Evans si chiamava James, il dottor Hendricks Dan; il cognome di Tony era Fizzale, e quelli di Gladys e di Zeke, rispettivamente, Hickson e Ionidis. Se mai fosse andato via di lì, se il canarino fosse volato dalla gabbia, sperava di avere un'ampia lista al momento di testimoniare in tribunale contro quegli stronzi. Si rendeva conto che probabilmente era tutta una sua fantasia, ma lo aiutava a tirare avanti.

Ora che trascorreva le giornate facendo il bravo ragazzo, a volte lo lasciavano da solo al livello C, per brevi periodi di tempo e ordinandogli di non muoversi da dov'era. Lui annuiva, dava al tecnico il tempo di allontanarsi, e poi si metteva in moto. Ai piani sotterranei c'erano moltissime telecamere, tutte pulite e in ordine, ma non scattavano allarmi né arrivavano sorveglianti di corsa, agitando il loro taser. Lo avevano scoperto due volte mentre gironzolava e lo avevano rispedito indietro, rimproverandolo o mollandogli uno schiaffetto frettoloso sulla nuca.

Durante una di quelle spedizioni (cercava sempre di fingere un'aria annoiata e distratta, come se stesse passando il tempo in attesa del prossimo test o fosse stato autorizzato a tornare nella sua stanza), Luke scopri un vero tesoro. Nella stanza delle risonanze magnetiche, che quel giorno era vuota, intravide una delle tessere utilizzate per l'ascensore, seminascosta sotto lo schermo di un computer. Passò oltre il tavolo, la recuperò e se la infilò in tasca mentre guardava nel tubo della risonanza. Si sarebbe quasi aspettato che la tessera cominciasse a gridare: Al ladro, mentre usciva dalla stanza (come l'arpa magica che Giacomino rubava al gigante nella favola di Giacomino e il fagiolo magico), ma non accadde nulla del genere, né allora, né in seguito. Possibile che non controllassero il numero di tessere in circolazione? A quanto pareva, era proprio così. O forse la tessera era scaduta, inutile come la chiave magnetica di una camera d'albergo quando il cliente ha già fatto il check-out.

Il giorno dopo, però, Luke provò a usare la tessera, e fu stupito e felice nel constatare che funzionava. Quando la dottoressa Richardson, il giorno ancora successivo, lo sorprese a sbirciare nella stanza del livello D che ospitava la vasca d'immersione, si sarebbe aspettato di essere punito, magari con una scossa somministrata dal taser che la donna teneva nascosto sotto il solito camice bianco, o con una bella ripassata da parte di Tony o Zeke. Invece, la dottoressa gli diede un gettone, e Luke la ringraziò.

«Non mi ci hanno ancora immerso, là dentro», disse, indicando la vasca. «È brutto?»

«No, è divertente», rispose lei, e Luke le fece un gran sorriso, come se avesse creduto a quella cazzata. «Che ci fai, quaggiù?»

«Mi sono fatto dare un passaggio da uno dei sorveglianti. Non so come si chiama. Credo si fosse dimenticato la targhetta con il nome.»

«Meglio così», disse la dottoressa. «Se tu sapessi come si chiama, dovrei fargli rapporto, e finirebbe nei guai. E a me toccherebbe compilare non so quanti fogli.» Alzò gli occhi al cielo e Luke le rivolse uno sguardo pieno di comprensione. La donna lo riaccompagnò all'ascensore, gli chiese dove dovesse andare, e Luke le rispose che era atteso al livello B. La dottoressa salì insieme a lui, gli domandò come andavano i dolori e lui le disse che erano passati, e che stava bene.

La tessera gli permise di arrivare anche al livello E, dove c'erano un mucchio di macchinari, ma quando cercò di scendere ancora - perché c'erano altri piani: origliando le conversazioni aveva sentito parlare di un livello F e addirittura di un livello G - la voce registrata lo informò gentilmente che l'accesso era negato. Bene così. Sbagliando si impara.

Non c'erano test su carta nella Prima Casa, ma gli elettroencefalogrammi abbondavano. A volte il dottor Evans li faceva in gruppo, ma non sempre. In una circostanza, mentre Luke veniva esaminato da solo, il dottor Evans all'improvviso fece una smorfia, si portò una mano sullo stomaco e disse che sarebbe tornato subito. Ordinò a Luke di non toccare nulla e uscì di corsa dalla stanza. Per cagare, dedusse il ragazzo.

Luke esaminò gli schermi dei computer, fece scorrere le dita su un paio di tastiere, pensò di pasticciare un po' digitando qualche comando, decise che non sarebbe stata una buona idea e si avvicinò alla porta. Guardò fuori proprio mentre l'ascensore si apriva e ne emergeva il tizio calvo e grosso che aveva già visto, con il solito completo marrone. O forse era un altro completo. Per quanto ne sapeva Luke, Stackhouse poteva avere un intero armadio pieno di quei completi costosi. L'uomo aveva un fascio di fogli in una mano. Si avviò lungo il corridoio, scorrendoli rapidamente, e Luke si ritrasse appena in tempo. La C-4, la stanza con i macchinari per l'elettroencefalogramma e l'elettrocardiogramma, aveva una piccola nicchia piena di mensole sulle quali erano allineati i pezzi di ricambio. Luke vi si diresse, ignorando se il gesto di nascondersi fosse dettato dall'istinto, dai suoi nuovi poteri telepatici o da semplice paranoia. In ogni caso, fece appena in tempo. Stackhouse si affacciò alla porta, si guardò attorno e si allontanò. Luke aspettò qualche istante per essere certo che l'uomo non tornasse sui propri passi, poi riprese il suo posto accanto al macchinario per l'elettroencefalogramma.

Due o tre minuti dopo, Evans rientrò di corsa, con il camice bianco che gli svolazzava alle spalle. Aveva le guance arrossate e gli occhi sgranati. Afferrò Luke per la maglietta. «Che cos'ha detto Stackhouse quando ti ha visto qui da solo? Dimmelo!»

«Non ha detto niente perché non mi ha notato. Mi ero affacciato per vedere se lei stesse tornando, e quando ho visto il signor Stackhouse che usciva dall'ascensore mi sono nascosto là dentro.» Indicò la nicchia, poi tornò a guardare Evans con gli occhi innocenti e spalancati. «Non volevo metterla nei guai.»

«Bravo ragazzo», disse Evans, e gli diede una pacca sulla schiena. «Ho avuto un bisogno fisiologico impellente, ed ero sicuro di potermi fidare di te. Ora facciamo questo benedetto esame, okay? Così puoi tornare di sopra a giocare con i tuoi amici.»

Prima di chiamare Yolanda, un'altra sorvegliante (cognome: Freeman), perché lo riaccompagnasse a pianterreno, Evans diede a Luke una decina di gettoni, accompagnati da un'altra pacca sulle spalle. «È un segreto tra noi due, d'accordo?»

«D'accordo», disse Luke.

È davvero convinto di piacermi, pensò stupito. Roba da pazzi. Non vedo l'ora di raccontarlo a George.

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«D'accordo. Ora dormi.»

Avery prese sonno quasi subito, ma Luke rimase sveglio per parecchio.

Il giorno dopo, si decise finalmente a usare il portatile non solo per controllare che giorno fosse, scambiarsi messaggi con Helen o guardare Bofack Horseman. Andò su Mr. Griffin, e di lì sul sito del New York Times, appurando che poteva leggere un certo numero di articoli a titolo gratuito, prima che scattasse l'abbonamento obbligatorio. Luke non sapeva esattamente che cosa stesse cercando, ma era sicuro che lo avrebbe capito non appena se lo fosse trovato davanti. E così fu. Uno dei titoli di testa dell'edizione del 15 luglio recitava: IL DEPUTATO BERKOWITZ NON CE L'HA FATTA.

Invece di leggere l'articolo, Luke andò all'edizione del giorno precedente e trovò: IL CANDIDATO ALLA PRESIDENZA MARK BERKOWITZ FERITO GRAVEMENTE IN UN INCIDENTE STRADALE. C'era una fotografia di Berkowitz, un deputato dell'Ohio con i capelli neri e una cicatrice su una guancia, in seguito a una ferita di guerra in Afghanistan. Luke scorse velocemente l'articolo e scoprì che la Lincoln sulla quale Berkowitz stava viaggiando, diretto a una riunione con alcuni diplomatici polacchi e jugoslavi, aveva perso il controllo e si era schiantata contro il pilastro di cemento di un ponte. L'autista era morto sul colpo, e fonti anonime del MedStar Hospital descrivevano le ferite riportate da Berkowitz come «molto gravi». L'articolo non diceva se l'autista avesse i capelli rossi, ma Luke sapeva già che era così, ed era altrettanto sicuro che qualcuno, in uno dei tanti paesi arabi, sarebbe morto ben presto, se non era già accaduto. O forse, invece, quel qualcuno avrebbe ucciso un personaggio molto importante.

La certezza sempre più solida che lui e gli altri ragazzi venissero preparati per essere utilizzati come droni psichici - tutti quanti, incluso l'inoffensivo Avery Dixon, che non avrebbe mai fatto del male neppure a una mosca - cominciava a risvegliare Luke, ma ci volle il film horror con Harry Cross come protagonista perché si destasse definitivamente dal sonno doloroso nel quale era piombato.

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