Copertina
Autore Herman Koch
Titolo Villetta con piscina
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2011, Bloom 48 , pag. 368, cop.fle., dim. 13x21,4x3 cm , Isbn 978-88-545-0544-5
OriginaleZomerhuis met zwembad
EdizioneAmbo Anthos Uitgevers, Amsterdam, 2011
TraduttoreGiorgio Testa
LettoreGiulia di Stefano, 2011
Classe narrativa olandese
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Pagina 5

1.


Sono un medico di famiglia. Ricevo la mattina, dalle otto e mezza all'una. Faccio le cose con calma: venti minuti a paziente. Sono il mio biglietto da visita, quei venti minuti. Quanti dottori ti tengono venti minuti, di questi tempi?, dice la gente. E la voce gira. Preferisce non avere troppi pazienti. Dedica a ognuno il tempo che ci vuole. Ho una lista d'attesa: quando un paziente muore o si trasferisce, basta una telefonata e ne trovo altri cinque al suo posto.

I pazienti confondono il tempo con l'attenzione: credono che io dia loro piú attenzione degli altri medici, quando in realtà gli do solo piú tempo. Quello che c'è da capire lo capisco in un minuto; gli altri diciannove li occupo concedendo attenzione, o meglio una parvenza di attenzione. Faccio le solite domande: Come sta suo/a figlio/a? E lei, ha ripreso a dormire bene? Mangi un po' di più/meno, eh! Appoggio lo stetoscopio sul petto, poi sulla schiena. Un bel respiro, dico. Espiri lentamente. Ma mica ausculto davvero. O per lo meno ci provo, a non auscultare. All'interno del corpo umano i rumori sono sempre gli stessi: primo fra tutti, ovviamente, il battito del cuore. Non sa nulla, il cuore; lui pompa, è la sala macchine. Serve solo a tenere la nave in movimento, non sulla giusta rotta. Poi ci sono i rumori dei visceri, degli organi. Un fegato sovraccarico emette un suono diverso da un fegato sano. Geme. E supplica di avere un giorno libero, uno solo, un giorno in cui poter eliminare il grosso delle scorie, perché è sommerso di arretrati. Il fegato sovraccarico è come la cucina di un ristorante aperto ventiquattr'ore su ventiquattro: le stoviglie si accumulano, le lavastoviglie vanno a pieno ritmo, ma le pile di piatti sporchi e di padelle incrostate continuano a crescere, a moltiplicarsi. Il fegato sovraccarico spera che arrivi quell'unico giorno libero, che invece non arriva mai. Ogni pomeriggio, tra le quattro e mezza e le cinque (ma a volte anche prima), la speranza si scontra con la dura realtà. Se il fegato è fortunato, all'inizio si tratta solo di un po' di birra, e gran parte del lavoro lo può rifilare ai reni. Ma ci sono sempre quelli a cui la birra non basta, e ci devono bere sopra qualche altra cosa: gin, vodka, whisky, qualcosa da buttare giú in un sorso. Il fegato sovraccarico resiste fin quando non si spacca. Prima si indurisce, come uno pneumatico piú gonfio del normale. E a quel punto basta una minima imperfezione del fondo stradale per farlo esplodere.

Ausculto con lo stetoscopio e premo con il dito sul punto duro sotto pelle. Fa male? Se spingo un po' piú a fondo si spacca direttamente qui nel mio studio, e non è proprio il caso. Sarebbe un bel casino, un'enorme ondata di sangue spinta verso l'alto tutta insieme. Nessun medico di famiglia vuole che si muoia nel suo studio. A casa va bene tutto; a casa propria, nel cuore della notte, nel proprio letto. Se si spacca il fegato, di solito non si riesce neanche a raggiungere il telefono. Ma tanto l'ambulanza arriverebbe troppo tardi.

I pazienti gi presentano da me a intervalli di venti minuti. Lo studio è al pianoterra. Alcuni arrivano con le stampelle o in carrozzella, altri sono sovrappeso, altri ancora hanno il fiato corto. In ogni caso non sono piú in grado di fare le scale: una rampa e sarebbe morte certa. Per altri invece è tutta immaginazione: al primo gradino si convincono che la loro fine sia già segnata. Sono la stragrande maggioranza. Quasi sempre non hanno niente: si lagnano, fanno versi da credere che vedano la morte in faccia ogni istante della giornata, e si abbandonano sbuffando sulla sedia davanti alla mia scrivania, ma in realtà non hanno alcun disturbo. Ascolto i sintomi: mi fa male qui, e anche qui, e a volte arriva fino a qui... Mostro un'espressione interessata e nel frattempo scarabocchio qualcosa su un foglio, poi gli chiedo di alzarsi e di seguirmi in ambulatorio. Ogni tanto li faccio spogliare dietro il separé, ma in genere non è necessario. Li trovo già abbastanza tremendi da vestiti, quei corpi: non ho nessun bisogno di vedere anche i punti dove non batte il sole, le pieghe della pelle dove la temperatura è sempre troppo alta e i batteri hanno via libera, le muffe e le infiammazioni fra le dita dei piedi o sotto le unghie, le dita che grattano, che sfregano un punto fino a farlo sanguinare... Qui dottore, qui mi prude tanto... No, non voglio vedere. Faccio finta di guardare, ma intanto penso ad altro: all'ottovolante di un parco giochi, che sul primo vagoncino ha la testa verde di un drago, e tutti alzano le braccia al cielo strillando come forsennati. Con la coda dell'occhio vedo ciuffi umidicci di peli pubici, chiazze rosse spelacchiate dove non crescerà mai piú nulla, e penso a un aereo che esplode in volo, e ai passeggeri con le cinture ancora allacciate che iniziano un tuffo chilometrico nell'ignoto: fa freddo, l'aria è rarefatta, laggiú c'è l'oceano che li aspetta. Quando vado al bagno mi brucia, dottore, come se urinassi spilli... Un treno salta in aria subito prima di entrare in stazione, la navicella spaziale Columbia si disintegra in milioni di pezzi, il secondo aereo si conficca nella South Tower. Mi brucia qui, dottore, qui...

Si rivesta, dico io, ho visto abbastanza, le preparo la ricetta. Alcuni pazienti non nascondono la delusione: la ricetta? Per qualche secondo rimangono interdetti, con le mutande alle ginocchia. Si sono presi la mattinata libera, pagano ergo pretendono, anche se il denaro con cui pagano è estorto alla comunità delle persone sane. Vogliono per lo meno che il dottore li palpi, che tiri fuori i guanti di lattice e stringa qualcosa – una parte del corpo qualunque – fra le sue dita esperte, che ficchi almeno un dito da qualche parte. Vogliono essere esaminati; non si accontentano della sua esperienza pluriennale, del suo occhio clinico che individua istantaneamente il problema perché lo ha già visto altre centomila volte e perché sa per esperienza che di tirare fuori i guanti di lattice per la centomila-e-unesima volta non c'è proprio bisogno.

A volte è inevitabile, tocca entrare; di solito con un dito o due, raramente con tutta la mano. Mi infilo il guanto di lattice. Si sdrai su un fianco, per favore... Per il paziente è la svolta: finalmente qualcuno lo prende sul serio: l'ispezione si farà. Ma la sua attenzione non è piú rivolta al mio viso, ora guarda solo le mie mani coperte dai guanti di lattice. Si domanda com'è possibile che si sia arrivati a questo punto; se lo voglia veramente. Prima di mettermi i guanti, mi lavo le mani. Il lavabo è di fronte al lettino, quindi per lavarmi le mani devo dare le spalle al paziente. Me la prendo comoda. Mi rimbocco le maniche. So che mi sta puntando con lo sguardo. Apro il rubinetto e mi faccio scorrere l'acqua sui polsi, mi lavo per bene le mani e poi risalgo lungo gli avambracci, fino ai gomiti. Il rumore dell'acqua mi impedisce di sentire, ma so che quando arrivo ai gomiti il respiro del paziente si fa piú rapido, o addirittura si blocca per qualche secondo. L'ispezione si farà. Piú o meno consciamente, è stato il paziente a volerlo, non accontentandosi di una ricetta. Ma in lui si insinua un dubbio: come mai il dottore si lava e si disinfetta le mani e gli avambracci fino ai gomiti? Il corpo del paziente ha uno spasmo, propria quando dovrebbe rilassarsi il piú possibile: il rilassamento è il segreto per un'ispezione senza problemi.

A questo punto io mi giro e mi asciugo le mani, gli avambracci, i gomiti. Continuo a non guardare il paziente, neanche mentre tiro fuori da un cassetto la bustina di plastica che contiene i guanti. La apro, schiaccio il pedale del secchio e la butto via. Solo ora, mentre m'infilo i guanti, torno a guardare il paziente. Il suo sguardo è, come dire, diverso da quello che aveva prima che mi girassi per lavarmi le mani. Intanto si stenda, gli dico prima che possa formulare le sue perplessità circa l'ispezione. Faccia al muro. Un corpo nudo è meno umiliante di un corpo con i pantaloni e le mutande intorno alle caviglie, meno indifeso di due gambe con i calzini e le scarpe ancora infilati, ma con le caviglie bloccate dai pantaloni e dalle mutande, come un detenuto incatenato insieme agli altri in una chain gang. Con i pantaloni alle caviglie, uno non può scappare. Gli puoi fare un'ispezione, ma gli puoi anche tirare un pugno in faccia, oppure gli puoi svuotare un caricatore nel cervello. Ne ho abbastanza delle tue stronzate! Conto fino a tre: uno... due... Cerchi di rilassarsi, ripeto, si giri su un fianco. Mi sistemo meglio i guanti sulle dita e lungo i polsi. Il suono della gomma che si tende mi fa sempre pensare ai palloncini, quelli che si usano alle feste di compleanno e vengono gonfiati la sera prima per fare una sorpresa al festeggiato. Potrebbe avvertire un certo fastidio, dico, ma l'importante è respirare tranquillamente. Il paziente è del tutto consapevole della mia presenza dietro il suo corpo parzialmente denudato, ma non può vedermi. Questo è il momento in cui mi soffermo a studiare quel corpo, o almeno la parte scoperta, un po' piú da vicino.

Fino a questo momento ho descritto un uomo: nel caso specifico, disteso sul lettino c'è un uomo con i pantaloni e le mutande abbassati. Le signore sono un discorso diverso, sul quale ritornerò piú avanti. L'uomo in questione cerca di voltare lo sguardo verso di me, ma ormai, come ho detto, non può vedermi bene. Tenga giú la testa, dico, si rilassi. Intanto, ora che il paziente non può controllarmi, gli osservo la schiena nuda. Gli ho appena detto che potrebbe sentire un certo fastidio. Fra il mio avvertimento e il fastidio non c'è nulla: è un momento di vuoto, il momento piú vuoto di tutto l'esame. I secondi scorrono senza fare rumore, come un metronomo col silenziatore, il metronomo sul pianoforte in un film muto. Non c'è stato ancora alcun contatto fisico. All'altezza della vita si vedono le strisce rosse lasciate dall'elastico delle mutande; a volte anche dei foruncoli o qualche neo. Spesso lí la pelle è pallidissima: è uno di quei punti su cui il sole batte raramente. Ma quasi sempre ci sono peli, e piú si va giú e piú i peli aumentano. Io sono mancino: poso la mano destra sulla spalla del paziente e attraverso il lattice del guanto sento il suo corpo irrigidirsi. Tutto il corpo si tende e si contrae, vorrebbe rilassarsi ma l'istinto è piú forte, si oppone, resiste all'imminente intrusione.

E finalmente la mia mano arriva a destinazione. Mentre il mio medio si fa strada all'interno, la bocca del paziente si apre, le labbra si allargano, tra i denti stretti sfugge un sospiro, un suono a metà tra un sospiro e un gemito. Calma, dico, passa subito. Cerco di non pensare a nulla, ma è sempre difficile. Allora penso a quella volta che ho perso la chiave della bici nel fango del campo da calcetto, di notte: era una pozza di fango grande neanche un metro, ed ero sicuro che la chiave fosse finita li dentro. Sente qualcosa?, chiedo. Intanto aggiungo l'indice al medio: unendo le forze la chiave si trova prima. Un po'... Dove? Qui...? O qui? Sul campo di calcio pioveva, c'era ancora qualche luce accesa, ma non ci si vedeva molto bene. Di solito è la prostata: un cancro o un semplice ingrossamento; dal primo esame si capisce poco. Potevo andare a casa a piedi e tornare il giorno dopo per continuare a cercare con la luce, ma ormai ci avevo infilato le dita dentro e mi ero riempito di fango fin sotto le unghie: tanto valeva insistere. Ahi! Lí, dottore! Dio santo! Mi scusi... Oddio! E poi arriva quell'attimo, l'attimo preciso in cui le mie dita percepiscono qualcosa di duro in mezzo alla poltiglia umida. Bisogna fare attenzione, potrebbe anche essere un pezzo di vetro... Lo tengo contro luce, sfruttando il timido bagliore del lampione accanto al campo, ma ne sono già sicuro. Splende, brilla, non dovrò andare a casa a piedi. Senza guardarmi le mani mi tolgo i guanti e li butto nel secchio a pedale. Si sieda, si rivesta, è ancora presto per azzardare conclusioni, dico.


È passato un anno e mezzo, ormai, da quando Ralph Meier si è presentato nella mia sala d'aspetto. Ovviamente l'ho riconosciuto subito. Mi ha chiesto se poteva passare avanti: era una cosa da niente. Appena l'ho fatto entrare, è andato subito al dunque: voleva sapere se era vero quello che gli avevano raccontato Tizio e Caio, cioè che io prescrivevo abbastanza facilmente la... Prima di dirlo si è guardato attorno timoroso, come se avesse paura che qualcuno potesse sentirci. «Tizio e Caio» erano due miei pazienti fissi. Le voci girano, e cosí anche Ralph Meier era arrivato da me. Be', dipende, ho risposto, devo farle qualche domanda sul suo stato di salute generale per evitare sorprese piú avanti. Ma poi?, ha insistito. Se è tutto a posto, sarebbe davvero disposto a... Ho annuito. Sí, ho detto, si può fare.

È passato un anno e mezzo, e Ralph Meier è morto. E domani mattina devo presentarmi davanti alla commissione disciplinare medica. Ma non per la storia di quel giorno; per una cosa successa oltre sei mesi dopo, che si potrebbe definire un "errore medico". La commissione non mi preoccupa piú di tanto: fra noi medici ci si conosce tutti, in molti casi siamo anche ex colleghi di università. Non siamo mica negli Stati Uniti, dove per una diagnosi sbagliata un avvocato ti può rovinare. In Olanda bisogna proprio averla fatta grossa, e comunque anche in quel caso, cosa potrà mai succedere? Un avvertimento, una sospensione di qualche mese, ma niente di piú.

L'unico aspetto che mi richiede un po' di impegno è fare in modo che anche la commissione disciplinare lo consideri un errore medico. Devo mettercela tutta, devo continuare io per primo a crederci al cento per cento, a questo errore medico.

Qualche giorno fa c'è stato il funerale, in un bel cimitero immerso nel verde lungo un'ansa del fiume: altissimi alberi secolari, il vento che soffiava tra i rami e faceva frusciare le foglie, il cinguettio degli uccelli. Me n'ero rimasto per quanto possibile in disparte; mi sembrava piú prudente. Ma non ero assolutamente preparato a ciò che sarebbe successo di lí a poco.

«Come ti permetti di farti vedere qui?».

Un istante di assoluto silenzio: sembrava quasi che il vento si fosse placato all'improvviso. A un tratto anche gli uccelli si erano acquietati.

«Brutto stronzo! Come ti permetti? Come?».

Judith Meier aveva una voce da cantante professionista, una di quelle voci che devono raggiungere anche le ultime file dell'auditorium. Tutte le teste si sono girate verso di me. Lei era in piedi davanti al portellone del carro funebre ancora aperto, dove i necrofori avevano appena posato la bara di suo marito.

È venuta verso di me, facendosi strada fra le centinaia di presenti, che hanno creato un varco per lasciarla passare. Per trenta secondi, il rumore dei suoi tacchi sulla ghiaia del vialetto è stato l'unico suono in quel silenzio sospeso.

Mi si è fermata davanti. Mi aspettavo che mi stampasse cinque dita sulla guancia o che mi strattonasse per il bavero della giacca. Insomma, mi aspettavo una scenata delle sue. Le riuscivano cosí bene.

Invece non ha fatto nulla di tutto ciò.

Mi ha guardato. Il bianco dei suoi occhi era diventato tutto rosso.

«Stronzo» mi ha ripetuto, molto piú piano.

E mi ha sputato in faccia.

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