Copertina
Autore Elizabeth Kolbert
Titolo Cronache da una catastrofe
SottotitoloViaggio in un pianeta in pericolo: dal cambiamento climatico alla mutazione della specie
EdizioneNuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena, 2006 , pag. 176, cop.fle., dim. 17,4x21x1 cm , Isbn 978-88-89091-36-4
OriginaleField notes from a catastrophe: man, nature and climate change
EdizioneBloomsbury, -, 2006
PrefazioneRoberto Della Seta
TraduttoreDaniela Conti
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe ecologia , scienze della terra , evoluzione
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Indice

Prefazione all'edizione italiana
di Roberto Della Seta                             7
Prefazione                                       13

PARTE I
La Natura

Capitolo 1 - Shishmaref, Alaska                  19
Capitolo 2 - Un cielo più caldo                  41
Capitolo 3 - Sotto il ghiacciaio                 49
Capitolo 4 - La farfalla e il rospo              67

PARTE II
L'Uomo

Capitolo 5 - La maledizione di Akkad             87
Capitolo 6 - Case galleggianti                  109
Capitolo 7 - I soliti affari                    118
Capitolo 8 - Il giorno dopo Kyoto               131
Capitolo 9 - Burlington, Vermont                149
Capitolo 10 - L'uomo nell'Antropocene           157

Cronologia                                      162
Ringraziamenti                                  165
Bibliografia e note                             167

 

 

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Pagina 41

Capitolo 2

Un cielo più caldo


Si può dire che il riscaldamento globale sia diventato motivo di allarme a partire dagli anni '70, ma dal punto di vista puramente scientifico è un concetto molto più vecchio. Verso la fine degli anni '50 del XIX secolo, un fisico britannico di nome John Tyndall iniziò a studiare le proprietà di assorbimento dei gas. Ciò che scoprì lo portò a formulare la prima teoria accurata del funzionamento dell'atmosfera.

Tyndall, che era nato nella contea di Carlow, Irlanda, nel 1820, lasciò la scuola all'età di 17 o 18 anni e cominciò a lavorare come ispettore per il Governo britannico, posto dal quale fu allontanato per avere reclamato contro i maltrattamenti di cui erano vittime gli irlandesi. Allora proseguì la propria formazione studiando di notte e divenne insegnante di matematica; poi, sebbene non parlasse tedesco, partì alla volta di Marburg per studiare con Robert Wilhelm Bunsen (lo scienziato da cui più tardi prese il nome il becco Bunsen). Dopo avere conseguito un Ph.D. a Marburg - all'epoca, il titolo era stato appena istituito - Tyndall attraversò un periodo di notevoli difficoltà economiche fino a quando, nel 1853, fu invitato a tenere una conferenza alla London's Royal Institution, che allora era uno dei più prestigiosi istituti scientifici della Gran Bretagna. Grazie al successo di quella conferenza, Tyndall venne invitato a tenerne un'altra, e poi un'altra ancora, e qualche mese più tardi gli fu assegnata una cattedra di filosofia naturale. Le sue conferenze ebbero un'enorme popolarità - molte furono raccolte e poi pubblicate - fatto che testimonia sia le notevoli capacità oratorie di Tyndall sia gli interessi culturali che animavano la classe media dell'epoca vittoriana. Infine Tyndall partì alla volta degli Stati Uniti per un giro di conferenze molto ben retribuito, di cui versò il ricavato in uno speciale fondo fiduciario destinato a finanziare l'avanzamento della scienza americana.

Il campo d'indagine di Tyndall coprì una gamma di discipline incredibilmente ampia, dall'ottica all'acustica al movimento dei ghiacciai (Tyndall era un appassionato scalatore di montagne e fece numerosi viaggi sulle Alpi per studiare il ghiaccio). Uno dei suoi interessi più duraturi fu la termodinamica, scienza che verso la metà del XIX secolo era in rapido sviluppo. Nel 1859 Tyndall costruì il primo spettrofotometro, un apparecchio che gli permetteva di confrontare le diverse proprietà dei gas nell'assorbire e trasmettere le radiazioni. Quando Tyndall esaminò col suo apparecchio i gas più comuni presenti nell'aria - azoto e ossigeno - trovò che questi erano trasparenti sia alla radiazione visibile che all'infrarosso, da lui chiamato "ultrarosso". Invece altri gas, come l'anidride carbonica, il metano e il vapore acqueo, non lo erano. La CO2 e il vapore acqueo erano trasparenti alle radiazioni della parte visibile dello spettro elettromagnetico, ma parzialmente opachi a quelle dell'infrarosso. Tyndall colse immediatamente le implicazioni della sua scoperta: i gas selettivamente trasparenti, affermò, erano fra i principali responsabili del clima del pianeta. Tyndall paragonò il loro effetto a quello di una diga costruita su un fiume: come una diga "provoca a livello locale un aumento di profondità nel corso d'acqua, così la nostra atmosfera, che si interpone come una barriera ai raggi riflessi dalla Terra, produce un innalzamento locale della temperatura sulla superficie terrestre".


Il fenomeno identificato da Tyndall oggi viene chiamato "effetto serra naturale". Nessuno lo mette neanche lontanamente in discussione; di fatto, è riconosciuto come una condizione essenziale per la vita sul nostro pianeta. Per capirne il funzionamento, può essere utile immaginare come sarebbe il nostro pianeta se l'effetto serra non ci fosse. In tal caso, la Terra riceverebbe costantemente energia dal sole e, allo stesso tempo, la rifletterebbe costantemente nello spazio. Tutti i corpi caldi irradiano energia e la quantità di tale energia è una funzione della loro temperatura (l'esatta relazione è espressa da una formula conosciuta come Legge di Stefan-Boltzmann, la quale afferma che la radiazione emessa da un corpo è proporzionale alla sua temperatura assoluta elevata alla quarta potenza: P/A = σT^4). Perché la Terra sia in equilibrio, la quantità di energia che il pianeta irradia verso lo spazio deve essere uguale alla quantità di radiazione che esso riceve. Quando, per qualsiasi motivo, l'equilibrio viene turbato, la Terra si riscalda o si raffredda finché la sua temperatura non è di nuovo tale da riequilibrare i due flussi di energia.

Se non ci fossero gas serra nell'atmosfera, l'energia radiante dalla superficie terrestre, non più trattenuta, scorrerebbe via. In quel caso, sarebbe relativamente facile calcolare quale temperatura potrebbe raggiungere il pianeta se riflettesse nello spazio la stessa quantità di energia che riceve dal sole (tale quantità varia ampiamente a seconda del luogo e del periodo dell'anno; facendo una media fra tutte le latitudini e tutte le stagioni, si ottiene una stima di circa 235 watt per m^2, ovvero all'incirca la potenza di quattro lampadine per uso domestico). Questo calcolo porta al risultato di zero gradi. Per usare il linguaggio vittoriano di Tyndall, se si rimuovessero dall'atmosfera terrestre i gas che intrappolano la radiazione termica, "il calore dei nostri campi e dei nostri giardini, non trattenuto, si riverserebbe nello spazio e il sole si leverebbe su un'isola serrata in una ferrea morsa di gelo".

Grazie alle loro proprietà di assorbimento selettivo, i gas serra modificano questo quadro. Essi consentono alla radiazione solare (che arriva soprattutto sotto forma di luce visibile) di passare liberamente, mentre bloccano parzialmente la radiazione terrestre, emessa nella parte infrarossa dello spettro. I gas serra assorbono la radiazione infrarossa e poi la emettono nuovamente - una parte all'esterno, verso lo spazio, e una parte nella direzione opposta, verso la Terra. Questo processo di assorbimento e riemissione ha l'effetto di limitare il flusso di energia verso l'esterno; di conseguenza, la superficie della Terra e gli strati più bassi dell'atmosfera devono essere molto più caldi prima che il pianeta possa irradiare verso l'esterno 235 watt per m^2. La presenza dei gas serra è in gran parte responsabile del fatto che la temperatura media del globo, anziché essere zero, sia quella, ben più confortevole, di 14°C.

[...]

Dopo la morte di Arrhenius, avvenuta nel 1927, l'interesse per i cambiamenti climatici venne a cadere del tutto. La maggior parte degli scienziati continuò a credere che i livelli di anidride carbonica aumentavano molto lentamente, sempre ammesso che lo facessero. Poi, a metà degli anni '50, senza alcuna ragione particolare, un giovane chimico di nome David Keeling decise di mettere a punto un nuovo e più preciso metodo di misurazione della CO2 atmosferica (in seguito egli avrebbe spiegato questa sua decisione affermando che "si era divertito" a montare l'apparecchiatura necessaria). Nel 1958 Keeling convinse l'U.S. Weather Bureau a iniziare a usare la sua tecnica per controllare la CO2 nel nuovo osservatorio costruito a più di 3.000 metri sul livello del mare, sulle pendici del Mauna Loa, un vulcano nella Grande Isola di Hawaii. Da allora in poi, queste misurazioni della CO2 sono state effettuate in modo quasi continuo nella stazione sul Mauna Loa. I risultati, noti col nome di "curva di Keeling", rappresentano probabilmente l'insieme di dati scientifici naturali a cui è stata data la più ampia pubblicazione tra quanti siano mai stati raccolti.

Presentata in forma di grafico, "la curva di Keeling" assomiglia al filo di una sega tenuta inclinata. Ogni dente della sega corrisponde a un dato anno. I livelli di CO2 scendono al minimo d'estate, la stagione in cui nell'emisfero settentrionale gli alberi assorbono anidride carbonica per il processo di fotosintesi, e crescono fino al massimo d'inverno, quando gli alberi perdono le foglie e diventano quiescenti (nell'emisfero meridionale ci sono meno foreste). L'inclinazione del grafico è dovuta al fatto che la media annuale va aumentando nel tempo.

Il primo anno in cui furono registrati i dati della CO2 sul Mauna Loa, la media annuale risultò essere di 316 parti per milione (ppm). L'anno seguente la media arrivò a 317 ppm, il che indusse Keeling a osservare che l'assunto dominante a quell'epoca, riguardo all'assorbimento della CO2 da parte degli oceani, probabilmente era sbagliato. Nel 1970 il livello aveva raggiunto 325 ppm e nel 1990 era salito a 354 ppm. Nell'estate del 2005, il livello della CO2 è arrivato a 378 ppm e a quest'oggi, quasi certamente, avrà raggiunto le 380 parti per milione. A questo tasso di crescita, il valore di 500 ppm - quasi il doppio dei livelli pre-industriali - sarà raggiunto per la metà di questo secolo, vale a dire circa 2.850 anni prima di quanto Arrhenius aveva previsto.

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"Da questo ghiacciaio si può capire che cosa sta accadendo al clima", dice Sigurdsson. "È più sensibile delle misure meteorologiche più sensibili". Sigurdsson mi presentò una sua collega, Kristjana Eythórsdóttir, che risultò essere la nipote del fondatore della Società Islandese di Glaciologia. La signora Eythórsdóttir tiene monitorato un ghiacciaio chiamato Leidarjókull, distante quattro ore di cammino dalla strada più vicina. Le chiesi come stava andando. "Oh, sta diventando sempre più piccolo, come tutti gli altri". Sigurdsson mi ha detto che, secondo le previsioni dei modelli climatici, entro la fine del prossimo secolo l'Islanda sarà praticamente libera dai ghiacci. "Ci saranno piccoli cappucci di ghiaccio sulle montagne più alte, ma la massa dei ghiacciai sarà scomparsa". Si ritiene che l'Islanda sia stata coperta di ghiacci per gli ultimi milioni di anni. "Forse anche più a lungo", mi ha detto Sigurdsson.

Nell'ottobre del 2000 in una scuola media di Barrow, in Alaska, funzionari governativi degli otto paesi dell'Artico - Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia e Islanda - si incontrarono per discutere del riscaldamento globale. Al termine dell'incontro il gruppo annunciò l'avvio di un progetto articolato in tre parti, con uno stanziamento di due milioni di dollari, per studiare il cambiamento climatico nella regione. Nel novembre 2004 le prime due parti dello studio - un corposo documento tecnico e un suo riassunto di 140 pagine - furono presentate durante un congresso a Reykjavik.

Il giorno dopo il mio colloquio con Sigurdsson, andai ad assistere alla seduta plenaria del convegno. Oltre a circa 300 scienziati, il congresso aveva richiamato un notevole contingente di rappresentanti delle popolazioni indigene dell'Artico: allevatori di renne, cacciatori di sussistenza e rappresentanti di gruppi organizzati come l'Inuvialuit Carne Council. Mescolati fra il pubblico in giacca e cravatta, notai due uomini con le tuniche dai vivaci colori dei Sami e altri che indossavano giubbotti di pelle di foca. Nel corso della riunione vennero affrontati temi differenti - si passò dall'idrologia e dalla biodiversità alla pesca e alle foreste - ma il messaggio rimase sempre lo stesso. Quasi ovunque si guardasse, nell'Artico le condizioni stavano cambiando, e a una velocità che sorprendeva persino chi già si aspettava di trovare chiari segni di riscaldamento. Robert Corell, un oceanografo americano, ex vicedirettore della National Science Foundation, aveva coordinato lo studio. Nel suo discorso di presentazione, Corell ne passò in rassegna i risultati principali - la riduzione del ghiaccio marino, il ritirarsi dei ghiacciai, lo scioglimento del permafrost - e li sintetizzò con queste parole: "Il clima artico oggi si sta scaldando velocemente, e sottolineo oggi". Particolarmente allarmante, secondo Corell, erano i dati più recenti raccolti in Groenlandia, i quali indicano che la calotta di ghiaccio si sta sciogliendo molto più velocemente "di quello che ritenevamo possibile anche solo un decennio fa".

Il riscaldamento globale viene di solito descritto come una questione di dibattito scientifico - una teoria la cui validità deve ancora essere dimostrata. La sessione di apertura del congresso di Reykjavik durò più di nove ore, durante le quali molti interventi sottolinearono le incertezze che ancora permangono circa il riscaldamento globale e i suoi effetti - la circolazione termoalina, la distribuzione della vegetazione, la sopravvivenza delle specie che prediligono i climi freddi, la frequenza degli incendi delle foreste. Ma questo genere di interrogativi, così fondamentali per il discorso scientifico, non venne mai esteso alla relazione fra anidride carbonica e aumento delle temperature. Nelle conclusioni ufficiali dello studio si affermava, inequivocabilmente, che gli esseri umani si sono trasformati nel "fattore dominante" che influenza il clima. Nel pomeriggio, durante una pausa caffè, riuscii a prendere in disparte Corell.

"In quest'aula ci sono, diciamo, 300 persone", mi disse. "Penso che non riuscirebbe a trovarne cinque disposte ad affermare che il riscaldamento globale è soltanto un processo naturale"; mentre ero alla conferenza, in effetti, parlai con più di 20 scienziati, e non ne trovai neppure uno che definisse in quel modo il cambiamento climatico.

La terza parte dello studio sul clima dell'Artico, non ancora terminata all'epoca di quel congresso, consisteva nel cosiddetto "documento politico" che avrebbe dovuto delineare gli interventi pratici da attuare in risposta ai risultati scientifici, compresa - presumibilmente - la riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera. Il documento politico rimase inconcluso perché i negoziatori americani si rifiutarono di sottoscrivere gran parte del testo proposto dalle altre sette nazioni dell'Artico (qualche settimana più tardi, gli Stati Uniti approvarono un testo formulato in termini piuttosto vaghi, che si limitava a richiedere l'adozione di misure "efficaci" - ma non obbligatorie - per combattere il problema). L'atteggiamento recalcitrante dei rappresentanti ufficiali mise gli altri americani convenuti a Reykjavik in una posizione alquanto difficile. Parlando con me, alcuni di loro tentarono - con poca convinzione - di difendere la scelta dell'Amministrazione Bush; la maggior parte, tra cui molti funzionari governativi, espressero forti critiche contro di essa. A un certo punto Corell osservò che, dalla fine degli anni '70 a oggi, la perdita di banchisa aveva raggiunto un'estensione pari "a Texas e Arizona messi insieme. I motivi per la scelta di questa analogia sono piuttosto ovvii".

Quella sera, al bar dell'hotel, feci una chiacchierata con un cacciatore Inuit di nome John Keogak, che vive a Banks Island, un'isola nei Territori del Nordovest canadesi, circa 800 km a nord del Circolo Polare Artico. Keogak mi raccontò che lui e gli altri cacciatori avevano iniziato a notare che il clima stava cambiando verso la metà degli anni '80. Poi qualche anno fa, per la prima volta, avevano cominciato a farsi vedere da quelle parti i pettirossi, uccelli che non avevano neanche un nome tra gli Inuit della sua regione. "Allora pensammo soltanto 'Ehi, sta diventando un po' più caldo'", ricordava il cacciatore Inuit. "All'inizio ci parve una bella cosa - inverni più caldi, sa com'è - ma adesso tutto sta andando così in fretta... Le cose che abbiamo visto accadere per la prima volta all'inizio degli anni '90 non hanno fatto che moltiplicarsi". "Di tutte le popolazioni coinvolte nel riscaldamento globale, penso che noi siamo in cima alla lista di quelle che ne risentiranno gli effetti maggiori", continuò Keogak. "Il nostro modo di vivere, le nostre tradizioni, forse le nostre famiglie. I nostri figli forse non hanno un futuro. Intendo dire tutti i giovani, mettiamola così. Perché non sta succedendo solo nell'Artico. Succederà dappertutto. Tutto il mondo sta andando troppo in fretta".

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I climatologi, quando discutono dei rischi che comportano le nostre scelte attuali, usano l'espressione "interferenza antropica pericolosa" o, in sigla, D.A.I [da dangerous anthropogenic interference]. Il termine non si riferisce a un disastro in particolare, sebbene, si concorda in genere, siano molti gli scenari che potrebbero corrispondere alla definizione - un cambiamento climatico abbastanza drammatico da distruggere interi ecosistemi, o causare estinzioni di massa o sconvolgere la produzione alimentare mondiale. Il disintegrarsi di una delle calotte di ghiaccio ancora presenti nel pianeta è spesso indicato come la catastrofe esemplare. La WAIS (da West Antarctic Ice Sheet, la zona occidentale della calotta antartica) è, a questo punto, l'unica calotta di ghiaccio marino del mondo, il che significa che poggia su terra al di sotto del livello del mare. Per questo motivo è considerata particolarmente vulnerabile al crollo. Se la calotta di ghiaccio della WAIS o quella della Groenlandia andasse distrutta, il livello dei mari in tutto il pianeta aumenterebbe di almeno cinque metri. Se entrambe le calotte si sciogliessero, l'aumento del livello dei mari sarebbe di almeno dieci metri. Le calotte di ghiaccio potrebbero impiegare secoli prima di scomparire completamente, ma, una volta che la loro disintegrazione avesse inizio, il processo comincerebbe ad autoalimentarsi, diventando molto probabilmente irreversibile. Altre catastrofi hanno analoghi meccanismi ritardanti incorporati, che dipendono dalla straordinaria inerzia del sistema del clima. La D.A.I., quindi, non si riferisce alla conclusione del processo - il momento in cui il disastro si verifica effettivamente - ma al suo inizio: il momento in cui il disastro diventa inevitabile.

Quale forzante, o temperatura, o livello di CO2 costituisca esattamente la D.A.I. è una questione di estrema importanza, che ancora non ha, però, una risposta. Gli studi sulla politica dei provvedimenti per il clima spesso assumono come soglia il valore di 500 ppm di CO2, approssimativamente il doppio del livello pre-industriale. Ma questo valore è stato determinato più in base a quello che sembra essere un obiettivo politico che ai dati scientificamente dimostrati (o, almeno, nella stessa misura).

Nell'ultimo decennio si è scoperto molto sul funzionamento del clima, sia attraverso le misurazioni effettuate in tempo reale sia per mezzo di ricostruzioni basate sulle prove storiche. Praticamente tutto ciò che si è appreso - dall'accelerazione del ghiaccio alla complessità della circolazione termoalina - ha portato a spostare verso il basso il livello della D.A.I. Molti studiosi del clima oggi ritengono che 450 ppm di CO2 costituiscano una stima più oggettiva della soglia di rischio, mentre per altri la soglia è rappresentata da 400 ppm o da un valore persino più basso. Probabilmente la più significativa delle scoperte recenti è avvenuta nell'Antartide, in una base di ricerca chiamata stazione di Vostok. Fra il 1990 e il 1998 in questa località è stata estratta una carota di ghiaccio della lunghezza di 3.532 metri. Poiché in Antartide cade meno neve che in Groenlandia, gli strati in una carota di ghiaccio antartico sono più sottili e le informazioni sul clima in essi contenute sono meno dettagliate. Tuttavia, questi carotaggi risalgono molto più indietro nel tempo. La carota di Vostok, che ora è conservata, divisa in vari pezzi, a Denver, a Grenoble e in Antartide, contiene una registrazione continua del clima che copre interamente quattro cicli glaciali. Come per i carotaggi della Groenlandia, è possibile stabilire le temperature misurando la composizione isotopica del ghiaccio, mentre la composizione dell'atmosfera può essere determinata analizzando le minuscole bolle d'aria intrappolate nel ghiaccio.


La carota estratta a Vostok dimostra che il pianeta sta per arrivare a una temperatura mai raggiunta negli ultimi 420.000 anni. Una conseguenza possibile di un ulteriore aumento della temperatura anche solo di due o tre gradi - il valore minimo delle proiezioni per la fine di questo secolo - è che il mondo entrerà in un regime climatico completamente nuovo, del quale l'uomo moderno non ha mai avuto esperienza. Se poi si considera l'anidride carbonica, le prove sono ancora più forti. La carota di Vostok dimostra che gli attuali livelli di CO2 (378 parti per milione) non hanno precedenti nella storia geologica recente. Il precedente picco, di 299 parti per milione fu raggiunto circa 325.000 anni fa. Attualmente si ritiene che livelli di anidride carbonica paragonabili agli attuali siano stati raggiunti per l'ultima volta tre milioni e mezzo di anni fa, durante quello che viene chiamato il periodo caldo di metà Pliocene, ed è probabile che i livelli di CO2 non siano mai stati alti come oggi per decine di milioni di anni. Uno scienziato della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) mi ha descritto la situazione (scherzando solo in parte) in questi termini: "È vero che in passato ci sono stati livelli di CO2 più alti. Ma allora, naturalmente, c'erano anche i dinosauri".

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Capitolo 8

Il giorno dopo Kyoto


L'entrata in vigore del protocollo di Kyoto, il 16 febbraio 2005, in molte città del mondo è stata giudicata un evento da festeggiare. Il sindaco di Bonn ha dato un ricevimento ufficiale alla Rathaus; l'Università di Oxford ha tenuto per l'occasione un banchetto speciale, dal titolo "L'entrata in vigore", e a Hong Kong è stata organizzata una veglia di preghiera per Kyoto. Proprio quel giorno - un giorno particolarmente caldo a Washington - avevo appuntamento per un colloquio con il Sottosegretario di Stato per gli Affari Globali, Paula Dobriansky.

La Dobriansky è una donna snella, con capelli castani che le scendono sulle spalle e modi vagamente ansiosi. Tra i suoi compiti vi è quello di spiegare al resto del mondo la posizione dell'Amministrazione Bush sul riscaldamento globale, un compito che, nel giorno dell'entrata in vigore del protocollo di Kyoto, appariva particolarmente poco invidiabile. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il più grande emettitore mondiale di gas serra, sia complessivamente come paese - gli USA producono quasi un quarto del totale mondiale di queste emissioni - sia su base pro capite; soltanto una manciata di nazioni, tra cui il Qatar, contendono all'America questo primato, e l'americano medio produce circa 5.400 kg all'anno di emissioni di CO2.

Eppure, gli Stati Uniti sono uno degli unici due paesi industrializzati che hanno respinto il protocollo di Kyoto e, con esso, l'obbligo di adottare misure per il taglio delle emissioni (l'altro paese che si è tirato fuori è l'Australia). Due assistenti della Dobriansky mi accompagnarono nel suo ufficio. Ci mettemmo tutti a sedere in cerchio.

La Dobriansky esordì assicurandomi che, nonostante quello che poteva sembrare, l'Amministrazione Bush prende il problema del cambiamento climatico "molto sul serio". Poi continuò: "Mi consenta inoltre di aggiungere, per chiarire che prendiamo davvero la questione seriamente, e non è soltanto una cosa che dico adesso con lei, che siamo impegnati nel portare avanti proposte e trattative con molti paesi: oltre alle iniziative bilaterali - al momento ne abbiamo in piedi circa quattordici - abbiamo avviato anche vari progetti multilaterali. È chiaro quindi che prendiamo il problema seriamente". A quel punto le chiesi in che modo, allora, l'Amministrazione riusciva a giustificare con gli alleati la sua posizione su Kyoto. "Abbiamo uno scopo e un obiettivo comuni", mi rispose. "Le nostre posizioni differiscono su quello che riteniamo sia, e possa essere, l'approccio più efficace". Qualche attimo più tardi aggiunse, come se volesse chiarire meglio questa affermazione: "Il punto essenziale, qui, nell'affrontare questo serio problema, è che riteniamo di avere uno scopo e un obiettivo comune, ma che per realizzarlo possiamo scegliere approcci diversi".

Il resto della nostra breve conversazione si mantenne più o meno su questa linea. A un certo punto chiesi al sottosegretario in quali circostanze l'Amministrazione avrebbe potuto decidere di fissare limiti obbligatori per le emissioni. "Il nostro approccio si fonda sul seguente principio: noi agiamo, impariamo, e agiamo di nuovo", fu la sua risposta. Alla mia domanda su quanto fosse urgente il problema di stabilizzare le emissioni, rispose: "Noi agiamo, impariamo, e agiamo di nuovo", e alla domanda su quale potrebbe essere un livello "pericoloso" di CO2 in atmosfera, la sua risposta fu: "Mi perdoni, ma devo ripetermi: noi agiamo, impariamo e agiamo di nuovo". Paula Dobriansky ripeté un paio di volte che l'approccio dell'Amministrazione al problema del riscaldamento globale comprendeva sia "azioni a breve termine sia azioni a lungo termine", e ripeté per ben tre volte che l'Amministrazione vedeva la crescita economica come "la soluzione, e non come il problema". Ero stata preavvisata che la Dobriansky non avrebbe potuto dedicarmi più di venti minuti. Stando al mio registratore digitale, dopo quindici minuti e trentacinque secondi uno dei suoi assistenti annunciò che era tempo di chiudere. Mentre mi preparavo ad andarmene, chiesi alla Dobriansky se desiderasse aggiungere altro.

"Le vorrei dire questo. Noi vediamo la cosa come un problema serio. Stiamo portando avanti con vigore e decisione una politica sul cambiamento climatico tesa ad affrontare questi problemi, e continueremo a lavorare con gli altri paesi sul problema del cambiamento climatico. Sostanzialmente e fondamentalmente abbiamo uno scopo e un obiettivo comune, ma lo perseguiamo con approcci differenti".

[...]

È in questo contesto, e soltanto in questo contesto, che le dichiarazioni dell'Amministrazione Bush sulle basi scientifiche del riscaldamento globale trovano un senso. I funzionari dell'Amministrazione puntano a mettere in rilievo che esistono ancora incertezze scientifiche sul riscaldamento globale, ed è vero che ce ne sono ancora molte. Ma sono riluttanti a riconoscere i punti su cui esiste invece un vasto consenso.

"Quando prendiamo le nostre decisioni, vogliamo essere sicuri di farlo sulla base di solide prove scientifiche", dichiarò il Presidente nel febbraio del 2002, nell'annunciare il suo nuovo approccio al problema del riscaldamento globale. Pochi mesi più tardi, l'Environmental Protection Agency (EPA) consegnò all'ONU un rapporto di 263 pagine in cui si affermava: "è probabile che la continua crescita di emissioni di gas serra porti a un aumento delle temperature medie annuali negli Stati Uniti, aumento che nel corso del XXI secolo potrebbe essere di alcuni gradi centigradi (circa 3 - 9 gradi Fahrenheit)". Il Presidente respinse quel rapporto, che era il risultato di anni di lavoro da parte di ricercatori federali, definendolo "un prodotto della burocrazia". La primavera seguente l'E.P.A. tentò nuovamente di far uscire un resoconto imparziale sullo stato della scienza del clima, nell'ambito di un rapporto sull'ambiente. La Casa Bianca interferì così pesantemente sulla stesura della sezione dedicata al riscaldamento globale - a un certo punto cercò di farvi inserire dei brani tratti da uno studio finanziato in parte dall'American Petroleum Institute - che, stando a quanto lamenta il personale dell'agenzia in una nota interna, quella sezione "non forniva più un'accurata rappresentazione del grado di consenso scientifico".

Quando infine l'E.P.A. arrivò a pubblicare il rapporto, la sezione dedicata alla scienza del clima era stata completamente stralciata. Nel giugno del 2005, The New York Times ha rivelato che un funzionario della Casa Bianca, Philip Cooney, era intervenuto ripetutamente a modificare i rapporti sul cambiamento climatico destinati al governo, in modo da far apparire meno allarmanti i loro risultati. In un caso, Cooney aveva ricevuto un rapporto che diceva: "Molte osservazioni scientifiche portano alla conclusione che la Terra stia attraversando un periodo di cambiamento relativamente rapido", e lo aveva modificato in: "Molte osservazioni scientifiche suggeriscono che la Terra potrebbe essere interessata da un periodo di cambiamento relativamente rapido". Un altro rapporto concludeva che "gli esseri umani sono diventati agenti del cambiamento ambientale, perlomeno su una scala temporale che va dai decenni ai secoli"; Cooney aveva suggerito di aggiungere la frase "e la qualità degli standard di vita è migliorata in misura enorme per miliardi di persone nell'ultimo secolo e mezzo". Poco tempo dopo che i suoi interventi di 'editing' erano stati scoperti, Cooney si è dimesso dal suo incarico alla Casa Bianca ed è stato assunto alla Exxon Mobil.

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Capitolo 10

L'uomo nell'Antropocene


Qualche anno fa, il chimico olandese Paul Crutzen, vincitore di un premio Nobel, ha coniato un nuovo termine in un articolo apparso su Nature. Non dovremmo più pensare - egli scriveva - di stare vivendo nell'Olocene, poiché ormai ha avuto inizio un'epoca diversa da tutte quelle che l'hanno preceduta. Questa nuova era prende il suo nome da una creatura - l'uomo - che è diventata a tal punto dominante da essere capace di alterare il pianeta su scala geologica. Crutzen dava a quell'era il nome di Antropocene.

Crutzen non è stato il primo a usare questo neologismo. Già nel 1870 il geologo Antonio Stoppani aveva sostenuto che l'influenza dell'uomo stava aprendo una nuova era, chiamata dallo studioso italiano "era antropozoica". Alcuni decenni più tardi, il geochimico russo Vladimir Ivanovich Vernadsky avanzò la teoria che la Terra stesse entrando in una nuova fase dominata dal pensiero umano, la "noosfera". Ma anche se quei termini sottintendevano un significato sostanzialmente positivo ("Guardo in avanti con grande ottimismo... Viviamo in un'epoca di transizione verso la noosfera", scriveva Vernadsky), la connotazione dell'Antropocene costituiva un deciso richiamo alla cautela. Gli esseri umani erano diventati le forze trainanti del pianeta, ma non era affatto chiaro se sapessero dove lo stavano portando.

Crutzen ha vinto il premio Nobel per le sue ricerche sull'erosione dello strato di ozono, un fenomeno che presenta molti parallelismi, sia dal punto di vista sociale che scientifico, con il problema del riscaldamento globale. I composti chimici che hanno gli effetti più dannosi sullo strato di ozono - i clorofluorocarburi o CFC - sono inodori, incolori, non reattivi e, in modo molto simile alla CO2, apparentemente innocui (per dimostrare che erano sicuri, una volta il loro inventore inalò un po' di CFC e quindi usò i vapori per spegnere una fila di candeline di compleanno). A partire dagli anni '30 "il gas meraviglioso" venne impiegato come refrigerante, e negli anni '40 come ingrediente del polistirene espanso. La prima indicazione del fatto che i clorofluorocarburi erano qualcosa di cui preoccuparsi arrivò solo a metà degli anni '70, quando alcuni ricercatori chimici iniziarono a considerare - come esercizio puramente accademico - che cosa accade ai CFC negli strati superiori dell'atmosfera. Essi arrivarono così a determinare che questi composti, pur essendo stabili vicino alla superficie terrestre, nella stratosfera non lo sono affatto. Una volta avviata la degradazione dei CFC, il risultato finale è cloro libero che, ipotizzarono gli studiosi, poteva agire da catalizzatore per convertire l'ozono, O3, in ossigeno, O2. I ricercatori lanciarono l'allarme: poiché lo strato di ozono della stratosfera protegge la Terra dalle radiazioni ultraviolette, l'uso continuato di CFC poteva avere conseguenze disastrose. Sherwood Rowland, che ha ricevuto il premio Nobel ex aequo con Crutzen, una sera arrivò a casa e disse alla moglie, "Il lavoro sta andando bene, ma sembra che potrebbe essere la fine del mondo".

Gli effetti dannosi dei CFC furono poi confermati - in modo molto più drammatico di quanto i ricercatori avevano previsto - negli anni '80, in seguito alla scoperta che nello strato di ozono sopra l'Antartide si era aperto "un buco". Questa conferma sarebbe potuta arrivare anche prima, se i calcolatori della NASA non fossero stati programmati per respingere come errato qualsiasi valore apparentemente troppo basso dei livelli dell'ozono. Nonostante le prove sugli effetti dannosi dei clorofluorocarburi si andassero accumulando, le industrie chimiche americane produttrici dei CFC (che fornivano più di un terzo di tutta la produzione mondiale) continuarono a opporsi all'introduzione di qualsiasi regolamentazione, sostenendo da un lato che il problema necessitava di studi ulteriori e dall'altro che soltanto un'azione unificata, a livello mondiale, poteva risolverlo. A un certo punto Donald Hodel, il Segretario agli Interni del Presidente Reagan, suggerì che se i CFC stavano davvero distruggendo lo strato dell'ozono, allora la gente doveva semplicemente cominciare a portare gli occhiali da sole e comprarsi un cappello. "Le persone che non stanno all'aperto, in pieno sole, non ne risentiranno affatto", dichiarò. Infine si arrivò all'approvazione di un trattato internazionale, il protocollo di Montreal, e alla decisione di avviare l'eliminazione progressiva dei CFC. Si prevede che a un certo punto, nei prossimi anni, l'ozono toccherà il livello più basso per poi ricominciare lentamente a salire. A seconda di come si guardano le cose, questo finale può rappresentare un trionfo della scienza, o l'esatto contrario. Come lo stesso Crutzen ha osservato, se fosse risultato che negli strati superiori dell'atmosfera il cloro si comportava in modo diverso, anche solo di poco, o se al suo posto fosse stato usato il bromo, un suo stretto parente chimico, allora, quando a qualcuno fosse venuto in mente di esaminare cosa stava avvenendo nello strato dell'ozono, il "buco" avrebbe potuto già essere esteso da un polo all'altro. "Dobbiamo più alla fortuna che alla nostra saggezza se non siamo arrivati a una catastrofe", ha scritto Crutzen.

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