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| << | < | > | >> |Indice3 Introduzione I. La vita è racconto 23 1. Una biografia «talmente esposta» 44 2. Amare secondo Agostino 64 3. Il senso di un esempio: Rahel Varnhagen 88 4. Arendt e Aristotele: un'apologia della narrazione 108 5. Raccontare il XX secolo II. L'umanità superflua 127 1. Essere ebrea 140 2. Tra gli elementi della struttura... 144 ...il caso francese 151 3. Che cos'è un antisemitismo moderno? 158 4. Imperialismo... 165 ...e totalitarismo 174 5. La banalità del male 186 6. Fede e rivoluzione... 191 ...nella società, questa amministratrice III. Pensare, volere, giudicare 207 1. «Chi» e il corpo 220 2. Il dialogo dell'Io pensante: «scissione», malinconia, tirannia 238 3. Dall'uomo interiore alla violenza del processo vitale 257 4. Il gusto dello spettatore: verso una filosofia politica 268 5. Il giudizio: tra perdono e promessa Appendice 281 Bibliografia 287 Indice delle opere di Hannah Arendt citate 291 Indice dei nomi e dei personaggi |
| << | < | > | >> |Pagina 3«Una delle passioni più intense è l'amore per la verità nell'uomo di genio». Laplace «Che genio!»: talento, dono naturale, ricerca eccezionale della verità; la recente pretesa degli esseri umani di riconoscere a se stessi elementi di «genio» abolisce l'antica divinizzazione della personalità. Lo spirito divino, che si riteneva vegliasse sulla nascita del futuro eroe, si è trasformato in una capacità notevole di innovazione: «Soprattutto la capacità inventiva sembrava un dono degli dèi, quell' ingenium quasi ingenitum, una specie di ispirazione divina» (Voltaire). In seguito, per semplice metonimia o per analogia, ci si accordò a chiamare «genio» anche la persona «che ha genio» o, semplicemente, influenza su qualcuno. Hannah Arendt, una delle protagoniste di quest'opera in tre parti, si prende allegramente gioco del «genio», inventato secondo lei dagli uomini del Rinascimento: frustrati perché si vedevano confusi con i frutti (pur se sempre più straordinari) delle proprie attività, stavano intanto perdendo Dio e ne avrebbero trasferito la trascendenza a quelli tra di loro che possedevano le qualità migliori.[...] Le tre donne delle quali ci occuperemo in questa trilogia non sono probabilmente le uniche a lasciare il segno nelle attività sempre più diversificate del nostro secolo. È per affinità personale che ho letto, amato e scelto Hannah Arendt (1906-1975), Melanie Klein (1882-1960) e Colette (1873-1954). Spero che il lettore si convincerà, alla fine dell'opera, che questa scelta personale corrisponde a un oggettivo riconoscimento. Il XX secolo è stato quello in cui i progressi affannosi della tecnica hanno rivelato, più e meglio di prima, l'eccellenza degli uomini e al tempo stesso i rischi di autodistruzione che l'umanità porta dentro di sé. La Shoah ne è la prova, è quasi superfluo aggiungervi la bomba atomica o i pericoli della globalizzazione. La vita ci appare di conseguenza come il bene ultimo, dopo il crollo dei sistemi di valori. Vita minacciata, vita desiderabile: ma quale vita? Hannah Arendt è stata totalmente assorbita da questo pensiero quando, di fronte ai due totalitarismi, ha scommesso su un'azione politica che rispettasse e rivelasse il «miracolo della natalità». Preferirà però non pensare che una lingua può impazzire e che il «buon senso» dell'umanità può celare in sé una minaccia di demenza. Sarà Melanie Klein a portare avanti l'indagine sugli abissi della psiche umana e, come una regina del romanzo giallo, a indagare senza posa la pulsione di morte che anima l'essere dotato di parola dal giorno in cui vede la luce, con la malinconia o la schizoparanoia a contendersi il primato del condizionamento. Le gaudenti, le seduttrici che si inebriano della polpa di un'albicocca come dell'aro del sesso di un innamorato o dei seni profumati di lillà di un'innamorata non hanno comunque disertato l'era atomica. Se questo secolo non è solo di sinistra memoria, probabilmente lo deve anche alla gioia e all'impudicizia di donne libere, come quelle che Colette è stata capace di raccontare con la grazia insolente della ribelle che fu. Il gusto delle parole, restituito a quegli individui robotizzati che siamo, è forse il più bel regalo che una scrittura femminile possa fare alla lingua materna. | << | < | > | >> |Pagina 12[...]Queste tre esperienze, queste tre opere dalla verità rivelatrice si sono prodotte nel bel mezzo del secolo e insieme ai suoi margini. Non proprio escluse, non proprio marginali, Arendt, Klein e Colette sono però «fuori dal coro». Realizzano la loro libertà di esploratrici fuori dalle correnti dominanti, dalle istituzioni, dai partiti e dalle scuole. Il pensiero della Arendt si situa nel punto di intersezione tra più discipline (filosofia? politologia? sociologia?), è trasversale rispetto alle religioni e alle appartenenze etniche o politiche, ribelle all'establishment sia di «destra» sia di «sinistra». La ricerca della Klein sfida il conformismo dei freudiani e, senza temere il rischio di infedeltà all'ortodossia psicoanalitica dell'epoca, introduce una vera e propria rottura nell'esplorazione dell'Edipo, dell'immaginazione, del linguaggio e del prelinguaggio. Provinciale e scandalosa, poi mondana, ma sempre popolare, Colette raggiunge in definitiva l'accademismo letterario solo perseverando nella sua perspicace analisi della commedia sociale e nella sua ribellione sensuale. Innovatrici perché non conformi, il loro genio ha un prezzo. Questo: se le ribelli ne ricavano motivo di esaltazione, ne pagano anche le spese subendo ostracismo, incomprensione e disprezzo. Destino comune ai geni... e alle donne? La vita, la follia, le parole: queste donne se ne sono fatte esploratrici lucide e appassionate, impegnando la loro vita e il loro pensiero e illuminando per noi di una luce singolare i rischi e le opportunità maggiori della nostra epoca. Cercheremo di leggerle senza fermarci ai pochi argomenti ormai celebri che i loro nomi richiamano subito alla mente. Hannah Arendt non si riduce alla «banalità del male» e al «processo Eichmann», o all'identificazione tra nazismo e stalinismo. Melanie Klein non si ferma alla «proiezione paranoica precoce», alla «invidia e gratitudine» indotte da quell'«oggetto parziale» che è il seno materno o alla «scissione multipla» che genera la psicosi endogena. Neppure la provocazione della donna indipendente che scandalizza per regnare più agevolmente all'Academie Goncourt esaurisce la magia di Colette. Quelli sono solo dettagli, che spesso impediscono di vedere insiemi assai più attraenti, ma anche pericolosamente più complessi. | << | < | > | >> |Pagina 19«È come se determinate persone si trovassero nella loro propria vita (e soltanto in tale dimensione, non in se stesse in quanto persone!) talmente esposte da poter essere paragonate nello stesso tempo a punti d'incrocio e a oggettivazioni concrete "della" vita». Hannah Arendt (1906-1975) scrive queste righe, che prefigurano il suo proprio destino, quando ha solo ventiquattro anni. Ha già incontrato e amato Heidegger, fascinosa presenza per tutta la sua vita, e ha già discusso la sua tesi di dottorato a Heidelberg: Der Liebesbegriff bei Augustin [Il concetto d'amore in Agostino], sotto la guida dello stesso Karl Jaspers, con il quale si confida. Fin dal primo momento sa di essere «esposta» al punto da cristallizzarsi in «punto di incrocio e oggettivazione "della" vita».Dopo avere pensato di dedicarsi alla teologia ed essersi poi data allo studio e allo «smantellamento» della metafisica, il pensiero della giovane filosofa è impegnato ben presto sostanzialmente dalla vita. Dapprima, la vita di per sé: perché Hannah Arendt, per sopravvivere, nel 1933 deve lasciare la Germania, sfuggendo così alla Shoah con l'esilio. Soggiorna dapprima a Parigi e sbarca infine, nel 1941, a New York, dove dieci anni dopo otterrà la cittadinanza americana. Diventata politologa, scrive qui un testo importante sulla storia dell'antisemitismo e le origini del totalitarismo, per ritornare poi a meditazioni fondamentali sulla vita della mente. Presa immediatamente da quella singolare passione in cui vita e pensiero sono tutt'uno, il suo itinerario movimentato, ma profondamente coerente, non cessa di collocare al centro la vita, in sé e come concetto da chiarire. Perché Hannah Arendt, lungi dall'essere una «pensatrice di professione», agisce il proprio pensiero nel cuore della propria vita: si è quasi tentati di vedere in questo tratto tipicamente arendtiano anche una peculiarità femminile; è proprio vero, infatti, che la «rimozione», detta «problematica», impedisce alla donna di isolarsi nelle torri d'avorio ossessive del pensiero puro, per ancorarla alla concretezza dei corpi e ai legami con gli altri. Più ancora, però, il tema della vita guida il suo pensiero in tutti i suoi scritti, nella disamina sia della storia politica sia di quella della metafisica, anche se da un'occorrenza all'altra, comparendo così spesso, si affina e si cesella. Il pensiero della Arendt lo sottende quando l'autrice stabilisce con grande coraggio intellettuale — quanto contestato! — che nazismo e stalinismo sono le due facce di un medesimo orrore, il totalitarismo, perché convergono nella stessa negazione della vita umana. Sotto la spinta del progresso tecnologico a partire dalla prima guerra mondiale, il disprezzo che distrugge la vita, già noto in altre civiltà, raggiunge un livello di parossismo fino ad allora sconosciuto: mossi a monte da quella medesima negazione, ma in una maniera diversa, i due totalitarismi si ritrovano nel fenomeno concentrazionario. Hannah Arendt scrive dunque: «il senso della superfluità degli uomini, tipico delle masse (e assolutamente nuovo in Europa, un fenomeno associato alla disoccupazione generale e all'incremento demografico degli ultimi centocinquant'anni) ha dominato per secoli incontrastato [nei paesi del tradizionale dispotismo orientale] nel disprezzo della vita umana». O ancora: «La vecchia massima secondo cui i poveri e gli oppressi non avevano nulla da perdere all'infuori delle loro catene non si applicava più a questi uomini, che avevano perso ben più delle catene della miseria quando avevano smarrito l'interesse per se stessi: era venuta meno la fonte delle ansie e delle preoccupazioni che rendono la vita umana penosa e tormentata. In confronto del loro non materialistico distacco dal mondo, il monaco cristiano faceva la figura dell'uomo assorbito dagli affari terreni». Questo tono grave, in cui la rabbia si colora d'ironia, tradisce un'ansietà dagli accenti talvolta apocalittici, quando la Arendt diagnostica che il «male radicale» risiede nella «volontà perversa», nel senso di Kant, di rendere gli «uomini superflui»: in altre parole, l'uomo del totalitarismo, passato e latente, distrugge la vita umana dopo avere abolito il senso di ogni vita, compresa la propria. Peggio ancora, questa «superfluità» della vita umana, che la studiosa di storia insiste nell'individuare nel successo dell'imperialismo, non scompare — tutt'altro — nelle democrazie moderne invase dall'automazione: «possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati ugualmente superflui. I governanti totalitari sono convinti della propria superfluità non meno di quella altrui; e i carnefici sono così pericolosi perché gli è indifferente vivere o morire, esser nati o non avere mai visto la luce. Il pericolo delle invenzioni totalitarie è che oggi, con la popolazione e lo sradicamento in rapido aumento dovunque, intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell'epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue». Di fronte a una minaccia del genere, una difesa veemente della vita si leva in The Human Condition [Vita activa]. Agli antipodi rispetto alla vita banalmente riprodotta dall'accanimento vitalistico del consumismo e dalla tecnica moderna applicata al «processo vitale», la Arendt intona un inno alla singolarità di ogni nascita, qualunque essa sia, capace di inaugurare quello che non esita a chiamare il «miracolo della vita»: «Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, della sua normale, "naturale" rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell'azione. E, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l'azione di cui essi sono capaci in virtù dell'esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell'esperienza umana che l'antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la "lieta novella" dell'avvento: "Un bambino è nato per noi"». Oggi è molto difficile per noi accettare che la vita, valore sacro delle democrazie cristiane e post-cristiane, sia il frutto recente di un'evoluzione storica, e prendere in considerazione l'eventualità che possa essere minacciata. Proprio l'interrogativo su questo valore fondamentale, su come si sia formato nell'escatologia cristiana e sui pericoli che corre nel mondo moderno, attraversa da un capo all'altro tutta l'opera della Arendt – dalla sua «tesi» su Agostino al manoscritto incompiuto sulla capacità di giudicare –, sempre che segretamente non le dia una struttura. | << | < | > | >> |Pagina 42Possiamo parlare di un'opera? Certamente. Le nostre consuetudini accademiche ed editoriali indicano senza ombra di dubbio Hannah Arendt come l'autrice di un'opera (politica? filosofica? femminile? Per il momento lasciamo la questione aperta) tra le più importanti del XX secolo. Lo stile incisivo, la concisione, la rapidità, l'erudizione immensa, ma mai esaustiva dei suoi scritti sono stati riconosciuti: le ripetizioni e l'eterogeneità del loro stile hanno infastidito gli specialisti di ogni tendenza; ma è soprattutto perché ancorati all'esperienza personale e alla vita del secolo che i suoi testi non dànno tanto l'impressione di un' opera, ma di un' azione. L'incontestabile singolarità della Arendt si rivela in questo: non rifinisce e non conclude, né dà al suo pensiero una forma rigida al di sopra delle parti. Colei che comprende prende la palla al balzo, interroga i «dati», dialoga con gli «autori», palesi o nascosti, interagendo continuamente con gli altri e, per cominciare, con se stessa. All'interno di questo labirinto polemico il pensiero rinuncia forse alla precisione e ai tecnicismi, ma lo fa per entrare meglio in sintonia con le memorie precedenti (al plurale) e incidere sul mondo attuale.Una foto della fine degli anni cinquanta fornisce, secondo me, l'immagine più sconcertante di «colei che comprende». La tensione di penetrare (Heidegger dice: durchschauen, Durchsichtigkeit), di svelare, conferisce al suo volto un'aria mascolina e una voracità ironica. Tuttavia, il sorriso e lo sguardo conquistatore restano illuminati da una furtiva dolcezza che traduce e trasmette fiducia e complicità insieme. La maturità e la battaglia intellettuale hanno però fatto scomparire la ragazza soave dai capelli lunghi che, a diciotto anni, aveva sedotto il suo Platone di Marburg. Anche la ragazza con la sigaretta, che si rivolgeva con un profilo concentrato al pubblico di una conferenza di New York nel 1944, si è brutalmente irrigidita. | << | < | > | >> |Pagina 127Hannah Arendt deve la propria celebrità all'opera di antropologia politica intitolata Le origini del totalitarismo. Il saggio cerca di descrivere la cristallizzazione di un male assoluto: l'idea e la sua pratica attuazione nel XX secolo che l'umanità sia superflua. Facendo leva sull'economia, la politica, la sociologia, persino sulla psicologia sociale, attingendo alla letteratura e alla filosofia, la Arendt racconta una Storia fatta di storie personali e collettive: i «dati» transitano attraverso l'immaginario e sono strumentalizzati dall'ideologia più mortifera che l'umanità abbia mai conosciuto, poiché arriva al punto di decretare che alcuni esseri umani sono superflui. Alcuni, oppure, sotto la spinta dell'utilitarismo e dell'automazione e a lungo andare tutti gli esseri umani? Questo è il timore, per nulla dissimulato, della Arendt. L'ambizione di rintracciare le «origini» o la «natura» di tale orrore è temperata dalla sua perspicacia intellettuale: poiché la categoria della «causalità» è estranea al campo delle discipline storiche e politiche, bisogna individuare alcuni «elementi» che divengono un'«origine degli eventi solo quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo allora, sarà possibile seguire all'indietro la loro storia. L'evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso». L'autrice ammette dunque che la «cristallizzazione», da lei individuata ripercorrendo gli eventi a ritroso, alla ricerca nel passato degli «elementi» premonitori, è simile a un processo dell'immaginazione. Stendhal non parlava forse della nascita dell'amore come di una «cristallizzazione»? Per altro verso, rivela che la sua intenzione era quella di fornire gli «elementi» (the elemental structure) «che alla fine si cristallizzano» nel totalitarismo. Claude Lévi-Strauss aveva appena pubblicato Le strutture elementari della parentela (1949) e lo strutturalismo cominciava ad assumere importanza, analizzando gli elementi costitutivi del «pensiero selvaggio». Solo lo sfociare parossistico degli «elementi» in «eventi» porta a indicare i primi come ingredienti dei secondi. Quanto al processo della «cristallizzazione» in sé, il ricercatore non può che raccontarne la storia, basata su fatti incontestabili e su interpretazioni determinate dalle proprie personali implicazioni, dalle proprie scelte politiche e dai propri giudizi personali, che non sono direttamente morali, ma dipendono da una serie di parametri. La Arendt ha rifiutato ogni «impegno» alla maniera di Sartre o di qualunque altra «nuova sinistra», per rivendicare unicamente il ruolo dello «spettatore» esterno all'azione; solo lo spettatore può giudicarla con imparzialità: è questa la condizione necessaria che permette al giudizio di diventare un'azione, la più pertinente di tutte. La lucidità della Arendt su tale conseguenza, la sua passione per la verità, rivelata come se fosse al tempo stesso una verità personale (quella di un'ebrea sfuggita alla Shoah) e una necessità storica universale (quella del giudizio più informato e più rigoroso, perché non si limita a essere coerente, ma si basa su un imperativo morale che altro non è che l'amore per il prossimo), fanno di questo libro una testimonianza unica. Oggi, a distanza di tempo, senza trascurare la pertinenza delle analisi storiche e il vigore del pamphlet moralista – salutati o criticati fin dalla pubblicazione – la qualità essenziale di questo testo ci sembra consistere prima di tutto nell'arte di raccontare il romanzo del secolo: Le origini del totalitarismo si presenta infatti come una serie di storie individuali e collettive intervallate dalla storia personale della narratrice, anche lei alle prese con la «cristallizzazione». | << | < | > | >> |Pagina 207Non sarebbe possibile cogliere l'originalità della concezione arendtiana dell' azione politica senza tenere conto del fatto che essa è pensata come l'attualizzarsi – ipotetico, arrischiato, votato alla speranza più che fondato su un'improbabile constatazione – di un «chi». Benché l'attualità del liberalismo e della tecnica condanni all'insuccesso qualunque azione pretenda di modificare l'alienazione, la reificazione o 1'«impianto [Gestell]», l'esperienza personale e politica della Arendt la spinge comunque ad adeguare la propria attenzione e le proprie critiche al mondo moderno a partire da un'appropriazione dell'ontologia fondamentale incentrata sull'«essenza dell'uomo», e a intravedere qualche avvio di azione politica portatrice del «chi». Pensare, volere e giudicare la inducono a meditazioni in apparenza filosofiche che, di fatto, smantellano sia la filosofia, sia la politica e delineano uno sguardo nuovo, specificamente arendtiano, sulla libertà. Le aporie del «chi» e del corpo guideranno il nostro ingresso in quest'ultima decostruzione della metafisica secondo la Arendt, costituita dalla rifusione dell'antinomia filosofia-politica da lei realizzata in La vita della mente. «Chi siamo?» si contrappone a «Che cosa siamo?»: questa è l'inquietante rivelazione che anima l'opera politica e filosofica della Arendt. L'aveva preceduta il quesito heideggeriano «Chi è il Dasein?». Tuttavia, a differenza della riflessione solitaria, la Arendt radica le azioni e le parole che rivelano il «chi» nella pluralità del mondo. Ha forse operato un'antropologizzazione dell'ontologia fondamentale – simmetrica alla sua lettura «abusivamente sociologica» di Kant, come le rimprovera qualcuno?
Il pensiero della Arendt riprende e mette in discussione la
rivoluzione heideggeriana: il
«chi»
è sottratto alla vita trascendentale della coscienza, nella quale si colloca
l'Ego husserliano; si apre agli essenti e a se stesso e raggiunge il proprio
essere nell'eccesso; il
Dasein
si appropria dell'Essere con la «vista»
(Sicht)
e, trascurando le preoccupazioni intramondane per situarsi nella «cura»
(Sorge),
si orienta verso la sua possibilità più intrinseca, che è la propria finitezza;
l'angoscia del suo essere al mondo lo rivela alla sua mortalità come
poter-essere più proprio. Lungi dal venire rifiutata dalla Arendt, questa
rivelazione sottintende da cima a fondo la distinzione fatta in
Vita activa
tra
«chi»
e
«ciò
che».
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