Copertina
Autore Thomas S. Kuhn
Titolo La tensione essenziale
SottotitoloCambiamenti e continuità nella scienza
EdizioneEinaudi, Torino, 1985, Paperbacks 163 , pag. 390, dim. 125x205x28 mm , Isbn 978-88-06-58396-5
OriginaleThe Essential Tension
EdizioneUniversity of Chicago Press, Chicago, 1977
TraduttoreMario Vedacchino, Alberto e Giuliana Conte, Giulio Giorello
Classe epistemologia , scienze naturali , filosofia
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Indice


VII Prefazione

    La tensione essenziale

    Parte prima     Studi storiografici

  5 I.   Le relazioni tra la storia e la filosofia della
         scienza

 26 II.  La nozione di causalità nello sviluppo della fisica

 37 III. Tradizioni matematiche e tradizioni sperimentali
         nello sviluppo delle scienze fisiche
 42      Le scienze fisiche classiche
 48      L'emergere delle scienze baconiane
 60      Le origini della scienza moderna
 68      La genesi della fisica moderna

 75 IV.  La conservazione dell'energia come esempio di
         scoperta simultanea

115 V.   La storia della scienza
115      Sviluppo della disciplina
120      Storia interna
124      Storia esterna
126      La tesi di Merton
130      Storia interna e storia esterna
132      Le connessioni della storia della scienza

134      Bibliografia

139 VI.  Le relazioni tra la storia e la storia della
         scienza

    Parte seconda     Studi metastorici

179 VII. La struttura storica della scoperta scientifica

193 VIII.La funzione della misura nella scienza fisica
         moderna
195      La misura dei manuali
202      Motivazioni della misura normale
209      Le conseguenze della misura normale
219      Misure straordinarie
231      La misura nello sviluppo delle scienze fisiche
239      Appendice

244 IX.  La tensione essenziale: tradizione ed innovazione
         nella ricerca scientifica

261 X.   Una funzione per gli esperimenti mentali

290 XI.  Logica della scoperta o psicologia della ricerca?

321 XII. Nuove riflessioni sui paradigmi

351 XIII.Oggettività, giudizio di valore e scelta della
         teoria

375 XIV. Commento sulle relazioni tra scienza ed arte

 

 

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Pagina VII

Prefazione


[...]

Una narrazione storica conclusa consiste in gran parte di fatti del passato, la maggior parte dei quali a quanto pare fuori discussione. Molti lettori pensano quindi che il compito principale dello storico sia quello di esaminare i testi, estrarre da questi i fatti importanti, ed esporli in bello stile seguendo approssimativamente l'ordine cronologico. Durante gli anni in cui facevo il fisico, questa era la mia idea del lavoro di storico, che non avevo allora in gran considerazione. Quando cambiai idea (ed in breve professione) le narrazioni storiche che produssi erano presumibilmente, per la loro natura, causa dello stesso fraintendimento. Nella storia, piú che in ogni altra disciplina che conosca, il risultato concluso della ricerca tende a nascondere la natura del lavoro che lo ha prodotto.

Le mie idee in merito iniziarono a chiarirsi nel 1947, quando mi fu chiesto di soprassedere per un certo periodo ai programmi di ricerca in fisica che avevo in corso, per preparare una serie di lezioni sulle origini della meccanica del XVII secolo. Dovevo, a questo scopo, analizzare quello che i predecessori di Galileo e Newton conoscevano sull'argomento e le indagini iniziali mi condussero presto alle discussioni riguardanti il moto contenute nella Physica di Aristotele e ad alcuni lavori successivi, da questa derivati. Come la maggior parte degli storici precedenti, mi avvicinai a quei testi conoscendo la fisica e la meccanica newtoniana. Come loro, inoltre, ponevo ai miei testi la domanda: quanta meccanica era nota alla tradizione aristotelica e quanta fu lasciata da scoprire agli scienziati del XVII secolo? Poste in termini newtoniani, queste domande richiedevano risposte negli stessi termini e le risposte erano allora chiare. Anche al livello che sembrava puramente descrittivo gli aristotelici avevano conosciuto poco della meccanica: molto di ciò che essi avevano avuto da dire era chiaramente sbagliato. Una tradizione come questa non poteva aver fornito alcun fondamento al lavoro di Galileo e dei suoi contemporanei. Essi necessariamente la rifiutarono e ricominciarono lo studio della meccanica dall'inizio.

Generalizzazioni di questo tipo erano molto comuni ed apparentemente inevitabili. Ma esse avevano anche aspetti imbarazzanti. Nello studio di discipline che non fossero la fisica, Aristotele era stato un osservatore acuto e realistico. Nello studio della biologia o della politica inoltre la sua interpretazione dei fenomeni era stata sovente sia accurata che profonda. Come era possibile che queste sue peculiari doti gli fossero mancate quando aveva studiato il moto? Come mai aveva detto su questo argomento tante cose evidentemente assurde? E soprattutto perché le sue idee erano state prese cosí sul serio, per un tempo tanto lungo, da un cosí gran numero di coloro che vennero dopo? Piú lo leggevo, piú le mie idee divenivano confuse. Aristotele poteva naturalmente avere torto - ed io non avevo dubbi che lo avesse - ma non si poteva pensare che i suoi errori fossero cosí clamorosi.

Un memorabile (e caldissimo) giorno d'estate queste perplessità svanirono di colpo. Improvvisamente intuii la traccia di uno schema logico per una lettura alternativa dei testi sui quali ero stato impegnato. Per la prima volta detti la dovuta importanza al fatto che l'argomento di Aristotele era il mutare della qualità in generale, comprendendo sia la caduta di una pietra che il passaggio dalla fanciullezza alla maturità. Nella sua fisica i temi che sarebbero poi divenuti la meccanica erano al piú un caso particolare non ancora completamente isolabile. Piú importante il riconoscimento, da parte mia, che gli elementi costanti del mondo di Aristotele, i suoi componenti ontologicamente primari ed ineliminabili, non erano i corpi materiali, ma piuttosto le qualità che, quando erano applicate ad una qualche porzione della materia neutra onnipresente, individuavano un corpo materiale o sostanza. La stessa posizione era pure, nella fisica aristotelica, una qualità, ed un corpo che si sposta era perciò sempre lo stesso, solo nel senso problematico nel quale un bambino è l'adulto che diverrà. In un mondo nel quale sono primarie le qualità, il moto era necessariamente un mutamento di stato piuttosto che uno stato.

Per quanto largamente incompleti ed enunciati molto semplicemente, questi aspetti della mia nuova comprensione del lavoro di Aristotele dovrebbero indicare che cosa intendo per scoperta di un modo nuovo di leggere un insieme di testi. Dopo aver compreso ciò, le metafore forzate divennero spesso descrizioni naturalistiche e molte apparenti assurdità sparirono. Non sono diventato per questo un fisico aristotelico, ma ho imparato in certo qual modo a pensare come se lo fossi. Da quel momento non ho avuto molti problemi a capire perché Aristotele avesse detto quello che ha detto sul moto o perché le sue affermazioni fossero state prese cosí sul serio. Individuavo ancora delle difficoltà nella sua fisica, ma esse non erano clamorose e poche potevano realmente essere definite come errori puri e semplici.

Da quel decisivo episodio dell'estate del 1947, la ricerca della lettura migliore, o di quella piú accessibile, è stata elemento centrale del mio lavoro di storico (ed è stata anche sistematicamente eliminata dalle relazioni dei risultati delle mie ricerche). Le lezioni apprese leggendo Aristotele mi hanno inoltre guidato nelle mie letture di scienziati come Boyle e Newton, Lavoisier e Dalton, o Boltzmann e Planck. Enunciate in breve, queste lezioni sono due. Primo, vi sono vari modi di leggere un testo e quelli piú accessibili ad un lettore moderno, sono spesso inadatti se applicati al passato. Secondo, che la plasmabilità dei testi non pone tutti i modi di leggerli sullo stesso piano, perché alcuni di questi modi (uno solo, in ultima analisi si spera) possiede una credibilità ed una coerenza assente negli altri. Tentando di trasmettere queste lezioni agli studenti, enuncio loro una regola: quando si leggono i lavori di un grande pensatore bisogna inizialmente cercare nel testo quei passi che sembrano assurdi e chiedersi come un pensatore acuto possa averli scritti. Quando avete trovato una risposta, concludo, quando questi passi hanno acquistato significato, allora potete accorgervi che passi piú importanti, che prima pensavate di avere capito, hanno cambiato il loro significato.

Se questo volume fosse indirizzato principalmente agli storici, questo cenno autobiografico non avrebbe meritato di essere fatto. Ciò che io, come fisico, dovetti scoprire da solo, viene appreso dalla maggior parte degli storici con l'esempio nel corso della loro preparazione professionale. Coscienti o no, essi sono tutti dei professionisti del metodo ermeneutico. Nel mio caso tuttavia, la scoperta dell'ermeneutica ha prodotto qualcosa di piú che farmi apparire la storia come importante. Il suo piú immediato e decisivo influsso si ebbe invece sulla mia concezione della scienza. Questo è l'aspetto del mio incontro con Aristotele che mi ha spinto a parlarne qui.

Uomini come Galileo e Descartes, che fondarono la meccanica del XVII secolo, crebbero nell'ambito della tradizione aristotelica, ed essa ha dato contributi essenziali ai loro risultati. Tuttavia, un aspetto essenziale di questi risultati fu la loro invenzione del modo di leggere i testi, che mi aveva inizialmente cosí ingannato, ed essi spesso furono vittime di queste stesse confusioni. Descartes, ad esempio, all'inizio di Le monde, ridicolizza Aristotele citando in latino la sua definizione di moto senza tradurla, sostenendo che la definizione aveva ugualmente poco significato in francese e quindi dimostrando la sua opinione col riportare la traduzione prima non fatta. La definizione di Aristotele tuttavia aveva avuto un significato per secoli prima, probabilmente ad un certo momento per lo stesso Descartes. Ciò che il mio modo di leggere Aristotele sembrava perciò rivelare era un certo mutamento globale di come gli uomini guardavano alla natura ed usavano la lingua rispetto ad essa, mutamento che non poteva essere semplicemente descritto come costituito da aggiunta alla conoscenza o dalla semplice correzione di singoli errori. Questo tipo di mutamento doveva poco dopo essere descritto da Herbert Butterfield come «mutamento dell'atteggiamento mentale» e la mia perplessità su di esso mi condusse rapidamente ai libri sulla psicologia del Gestalt e sulle relative discipline. Scoprendo la storia, avevo individuato la mia prima rivoluzione scientifica e la mia ricerca ulteriore di una migliore lettura è stata spesso una ricerca di altri episodi di questo tipo. Essi sono quelli che possono essere individuati e compresi solo recuperando i modi non piú utilizzati di leggere testi non piú utilizzati.

Poiché uno dei suoi argomenti centrali è la natura e la rilevanza per la filosofia del mestiere di storico, il primo dei saggi ripubblicati piú innanzi è una conferenza intitolata Le relazioni tra la storia e la filosofia della scienza. Tenuta nella primavera del 1968, non è mai stata prima pubblicata, perché ho sempre avuto l'intenzione di allargarne prima le considerazioni conclusive su ciò che i filosofi hanno da guadagnare nel tenere in maggior considerazione la storia. Per gli scopi attuali tuttavia, pongono rimedio a questa mancanza altri saggi del volume, ed il testo della conferenza può essere letto come un tentativo di approfondire maggiormente i temi già introdotti in questa prefazione. I lettori piú informati possono pensare che sia datata, ciò che in un certo senso è vero. Nei quasi nove anni trascorsi da quando fu tenuta, un sempre maggior numero di filosofi della scienza ha ammesso la pertinenza della storia per il loro lavoro. Ma, per quanto sia benvenuto l'interesse per la storia che ne è derivato, è stata fino ad ora dimenticata quella che credo sia la questione filosofica centrale: la revisione concettuale fondamentale richiesta allo storico per comprendere il passato o, viceversa, al passato per svilupparsi verso il presente.

Tre dei restanti cinque saggi della prima parte non richiedono che una semplice menzione. Il lavoro Concetti di causa nello sviluppo della fisica è chiaramente un sottoprodotto dello studio di Aristotele descritto sopra. Se questo studio non mi avesse insegnato l'integrità della sua analisi quadripartita delle cause, non avrei mai potuto individuare le modalità con le quali il rifiuto settecentesco delle cause formali a favore di quelle meccaniche o efficenti ha condizionato la successiva discussione sulla spiegazione scientifica. Il quarto saggio, che tratta della conservazione dell'energia, è il solo della prima parte scritto prima del mio libro sulle rivoluzioni scientifiche e le poche mie osservazioni su di esso sono sparse nel seguito, tra quelle sugli altri lavori dello stesso periodo. Il sesto, Le relazioni tra la storia e la storia della scienza, è in un certo senso collegato con il lavoro che apre la prima parte. Un certo numero di storici lo hanno considerato ingiusto ed è senza dubbio sia personale che polemico. Ma sin dalla sua pubblicazione ho scoperto che le frustrazioni che esprime sono comuni a quasi tutti coloro il cui principale interesse è lo sviluppo delle idee scientifiche.

Per quanto scritti con altri scopi, i saggi La storia della scienza e Tradizioni sperimentati e tradizioni matematiche hanno un rapporto piú diretto con i temi sviluppati nel mio La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Le pagine iniziali del primo, ad esempio, possono aiutare a spiegare perché l'approccio alla storia che è alla base del libro cominci ad essere applicato alle scienze solo dopo i primi trenta anni di questo secolo. Contemporaneamente esse possono far pensare ad una contraddizione rivelatrice: i primi modelli del tipo di storia che ha cosí influenzato me ed i miei colleghi storici è il prodotto di una tradizione europea postkantiana che io ed i miei colleghi filosofi continuiamo a trovare oscura. Nel mio caso particolare, per esempio, anche il termine «ermeneutica» al quale sono ricorso poco sopra, non faceva parte del mio vocabolario fino a cinque anni fa. Sono sempre di piú propenso a credere che chiunque pensi che la storia possa avere profonde influenze filosofiche dovrà imparare a superare l'antica divisione tra le tradizioni filosofiche europee e quelle dei popoli di lingua inglese.

Nel suo penultimo paragrafo, La storia della scienza fornisce anche l'inizio di una risposta ad un certo tipo di critica costantemente rivolta al mio libro. Sia gli storici che gli storici della scienza hanno qualche volta lamentato che la mia spiegazione dello sviluppo scientifico è basata troppo esclusivamente su fattori interni alle scienze stesse: che non sono riuscito a collocare le comunità scientifiche nelle società che le mantengono e dalle quali sono tratti i loro membri; e che sembro perciò credere che lo sviluppo della scienza sia immune dalle influenze dell'ambiente sociale, economico, religioso e filosofico nel quale si verifica. Evidentemente il mio libro ha poco da dire su queste influenze esterne, ma non deve essere letto come se negasse la loro esistenza. Al contrario, può essere inteso come un tentativo di spiegare perché l'evoluzione delle scienze piú altamente sviluppate, è piú ampiamente, anche se mai completamente, isolato dall'ambiente sociale di quanto non sia quello delle discipline come l'ingegneria, la medicina, la giurisprudenza, e le arti (eccetto forse la musica). Inoltre, se letto in questo modo, il libro può fornire alcuni strumenti preliminari a coloro che intendono studiare le modalità ed i canali attraverso i quali le influenze esterne divengono manifeste.

La prova dell'esistenza di tali influenze può essere trovata in altri lavori ristampati qui di seguito, specialmente in La conservazione dell'energia e Tradizioni sperimentali e tradizioni matematiche. Ma l'importanza particolare del secondo nei riguardi del mio libro sulle rivoluzioni scientifiche è di altro tipo. Esso sottolinea l'esistenza di un significativo errore nella mia prima enunciazione e contemporaneamente indica come l'errore possa essere alla lunga eliminato. Lungo tutta La struttura delle rivoluzioni scientifiche identifico e caratterizzo le comunità scientifiche per argomento supponendo per esempio, che termini come «ottica fisica», «elettricità » e «calore» possano servire ad individuare singole comunità scientifiche, proprio perché individuano settori di ricerca. Una volta individuato, l'anacronismo è ovvio. Insisterei ora che le comunità scientifiche devono essere individuate analizzando i canali educativi e di comunicazione prima di chiedersi in quali particolari problemi di ricerca ciascun gruppo è impegnato. La conseguenza di tale approccio sul concetto di paradigma è mostrato nel sesto dei saggi della parte seconda ed è sviluppato, tenendo conto di altri aspetti del mio libro, nel capitolo aggiuntivo della sua seconda edizione. Il saggio Tradizioni sperimentali e tradizioni matematiche mostra il medesimo approccio applicato ad alcune vecchie controversie storiche.

I rapporti tra la Struttura ed i saggi ristampati nella seconda parte sono troppo ovvi per richiedere una discussione e li affronterò quindi in modo diverso, dicendo ciò che posso sul loro ruolo o sulle tappe che essi rappresentano nello sviluppo delle mie idee sui mutamenti scientifici. Di conseguenza, questa prefazione diventerà di nuovo per un poco esplicitamente autobiografica. Dopo essermi imbattuto nel concetto di rivoluzione scientifica nel 1947, passai prima un certo periodo di tempo per finire la mia dissertazione di fisica ed iniziai quindi ad approfondire le mie conoscenze di storia della scienza. La prima occasione di esporre le mie idee in evoluzione fu data da un invito a tenere nella primavera del 1951 le conferenze Lowell, ma il principale risultato di questa impresa fu di convincermi che non conoscevo abbastanza né la storia né le mie idee per pubblicare qualcosa. Per un periodo che pensavo breve, ma che durò invece sette anni, lasciai da parte i miei interessi piú strettamente filosofici e lavorai direttamente alla storia. Soltanto alla fine degli anni '50, dopo aver finito un libro sulla rivoluzione copernicana ed aver ottenuto un lavoro all'università ritornai consapevolmente ad essi.

Lo stadio raggiunto dalle mie idee a quell'epoca è mostrato dal lavoro che apre la parte seconda, La struttura storica delle scoperte scientifiche. Per quanto non scritto fino alla fine del 1961 (quando il mio libro sulle rivoluzioni era sostanzialmente finito) le idee che illustra ed i principali esempi che utilizza erano tutti vecchi per me. Lo sviluppo scientifico dipende in parte da un processo non incrementale ovverosia rivoluzionario di mutamento. Alcune rivoluzioni sono grandi, come quelle associate ai nomi di Copernico, Newton o Darwin, ma la maggior parte sono molto piú piccole, come la scoperta dell'ossigeno o del pianeta Urano. Il preludio abituale a mutamenti di questo tipo è, penso, la consapevolezza di una anomalia, di un fatto o di un insieme di fatti che non si adatta al modo esistente di ordinare i fenomeni. Le modifiche che ne derivano richiedono quindi «un mutamento di atteggiamento mentale» che renda l'anomalia adatta ad essere ordinata e che, nel processo, trasformi anche l'ordine, che precedentemente non aveva problemi, mostrato da qualche altro fenomeno. Per quanto solo implicitamente, questa concezione della natura dei mutamenti rivoluzionari è anche alla base del lavoro Conservazione dell'energia ristampato nella parte prima, particolarmente nelle pagine introduttive. Fu scritto durante l'estate del 1957 e sono sicuro che La struttura storica della scoperta scientifica avrebbe potuto essere scritta a quel tempo, probabilmente molto prima.

Un progresso importante nella mia comprensione dell'argomento fu strettamente associato alla preparazione del secondo lavoro della parte seconda La funzione della misura, argomento che precedentemente non ero stato per nulla incline a prendere in considerazione. La sua origine sta nell'invito a tenere un discorso al «Colloquio di Scienze Sociali» all'Università di California, Berkeley, nell'ottobre del 1956 e fu revisionato e scritto, quasi nella sua forma attuale, durante la primavera del 1958. La seconda sezione, Motivazioni della misura normale, fu un prodotto di queste revisioni ed il suo secondo paragrafo contiene la prima descrizione di ciò che, nel suo titolo, giunsi molto vicino a chiamare «scienza normale». Rileggendo quel paragrafo sono ora molto colpito dall'affermazione: «La maggior parte della pratica scientifica è quindi una complessa ed impegnativa operazione di rastrellamento che consolida il terreno reso disponibile dalla piú recente avanzata teorica e fornisce cosí la preparazione essenziale per la successiva avanzata». La transizione da questo modo di impostare la questione al titolo del capitolo IV della Struttura, La scienza normale come soluzione di rompicapo, non richiede molti passi ulteriori. Per quanto abbia accettato per alcuni anni che tra rivoluzioni debbano necessariamente esservi periodi governati da uno o da un altro modo tradizionale di pratica, mi sfuggiva in gran parte, precedentemente, il carattere particolare di questa pratica legata alla tradizione.

Il lavoro successivo, La tensione essenziale, dà il titolo a questo volume. Preparato per una conferenza che si svolse nel giugno del 1959 e pubblicata per la prima volta negli atti di quella conferenza, mostra un ulteriore modesto sviluppo della nozione di scienza normale. Da un punto autobiografico, tuttavia, la sua principale importanza sta nel fatto che introduce il concetto di paradigma. Avevo acquisito questo concetto solo pochi mesi prima di presentare questo lavoro e quando lo impiegai di nuovo nel 1961 e nel 1962 il suo significato si era allargato a proporzioni globali, travisando le mie intenzioni originali. Il paragrafo finale di Nuove riflessioni sui paradigmi anche qui ristampato, accenna come ebbe luogo tale allargamento.

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