Copertina
Autore Camilla Läckberg
Titolo Il bambino segreto
EdizioneMarsilio, Venezia, 2013, Farfalle , pag. 528, cop.fle., dim. 13,5x20,5x3,3 cm , Isbn 978-88-317-1560-7
OriginaleTyskungen [2007]
TraduttoreLaura Cangemi
LettoreGiovanna Bacci, 2013
Classe narrativa svedese , gialli
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Pagina 9

Nel silenzio della stanza si sentiva solo il rumore delle mosche, il ronzio prodotto dal fremito convulso delle ali. L'uomo sulla poltrona non si muoveva, e non lo faceva da un pezzo. In effetti non era più neanche un uomo. Non se si definiva un uomo come qualcosa di vivo, che respirava e provava delle emozioni. Ormai era ridotto a nutrimento, a rifugio di insetti e larve.

Le mosche giravano a sciami intorno alla figura immobile per planare di tanto in tanto. Poi riprendevano a volare, ronzando e cercando un nuovo punto su cui posarsi. Procedevano urtandosi a vicenda. La ferita sulla testa era la zona più interessante. L'odore metallico del sangue era svanito da tempo per essere sostituito da un altro, più viziato e dolciastro.

Il sangue si era seccato. All'inizio scorreva verso il basso, lungo il collo dell'uomo e lo schienale della poltrona, fino al pavimento dove alla fine si era raggrumato in una pozza. Era rosso, pieno di globuli vivi. In seguito aveva cambiato colore, diventando nero. La pozza non era più riconoscibile come il liquido viscoso che scorre nelle arterie di un essere umano. Ormai era solo un ammasso nero e appiccicoso.

Alcune mosche cercavano di uscire, sazie e soddisfatte. Avevano deposto le uova e calmato la fame. Volevano tornare libere. Battevano le ali contro la finestra, tentando invano di oltrepassare quella barriera invisibile. Quando urtavano il vetro si sentiva un rumore simile a uno schiocco. Prima o poi rinunciavano, sentendo di nuovo la fame, e tornavano a quello che era stato un uomo ma ormai era solo carne.


Era tutta l'estate che Erica girava intorno a un pensiero senza riuscire a scacciarlo dalla mente, soppesando i pro e i contro e trovandosi ogni volta sul punto di salire in soffitta per poi fermarsi alla scala. Avrebbe potuto dare la colpa alle tante incombenze degli ultimi mesi: gli impegni del matrimonio, il caos in casa quando Anna e i bambini abitavano ancora con loro. Ma non era questo: aveva paura, ecco tutto. Paura di cosa avrebbe trovato. Paura di portare in superficie, scavando nel passato, informazioni che sarebbe stato meglio continuare a ignorare.

Sapeva che Patrik era stato più volte sul punto di chiederglielo. Gli leggeva in faccia che si domandava come mai non aveva voluto leggere i quaderni che avevano trovato in soffitta, anche se non si era arrischiato a dirlo esplicitamente. E lei non avrebbe avuto risposte da dargli. Ciò che più la spaventava era che forse avrebbe dovuto modificare la propria visione della realtà. L'immagine che aveva di sua madre, di chi era e di come aveva trattato le figlie, non era particolarmente positiva. Ma era la sua, era familiare. Era un'immagine durata negli anni, una verità inconfutabile a cui rapportarsi. Forse sarebbe stata confermata. Forse addirittura rafforzata. Ma se invece fosse stata ribaltata? Se Erica fosse stata costretta ad affrontare una realtà completamente diversa? Fino a quel momento non aveva trovato il coraggio di compiere quel passo.

Mise il piede sul primo gradino. Dal soggiorno arrivò la risata allegra di Maja scatenata dal solletico di Patrik. Era un suono confortante che la indusse a spostare l'altro piede sulla scala. Ancora cinque passi e sarebbe arrivata.

Quando spinse la botola e salì sul pavimento della soffitta sollevò una nuvola di polvere. Lei e Patrik avevano parlato di arredarla, un giorno o l'altro, magari facendone una tana per Maja quando, una volta cresciuta, avesse sentito il bisogno di un po' di intimità. Per il momento, tuttavia, era ancora al grezzo, con il pavimento di larghe assi di legno e il tetto spiovente con le travi a vista. Per metà era ingombra di cianfrusaglie: decorazioni natalizie, vestiti di Maja ormai piccoli, diverse casse piene di cose troppo brutte per essere messe in mostra ai piani inferiori ma troppo belle o troppo intrise di ricordi per essere buttate via.

Il baule era in fondo a uno dei lati corti. Era di legno, di foggia antiquata. A Erica sembrava di ricordare che quelli fatti così si chiamassero bauli americani. Si avvicinò e si sedette sul pavimento, passando una mano sul coperchio. Dopo un profondo sospiro afferrò la maniglia e lo sollevò. Sentendosi investire da un odore stantio, arricciò il naso. Si chiese cosa fosse a dare origine a quel sentore greve e caratteristico di vecchio. Probabilmente la muffa, pensò, sentendo subito che cominciava a pruderle il cuoio capelluto.

Ricordava ancora la sensazione provata quando lei e Patrik avevano trovato il baule e ne avevano passato in rassegna il contenuto. Lentamente, aveva tirato fuori un oggetto dopo l'altro. Disegni suoi e di Anna. Lavoretti realizzati nelle ore di applicazioni tecniche e conservati dalla madre, Elsy, quella stessa madre che era sempre sembrata indifferente quando, da bambine, le portavano tutte infervorate i piccoli risultati del loro impegno. Erica ripeté gli stessi gesti, estraendo dal baule un oggetto dopo l'altro e appoggiandoli sul pavimento di fianco a sé. Quello che le interessava davvero era in fondo al baule. Maneggiò delicatamente il lembo di stoffa che riusciva a sentire con le dita. La camicina da neonato era stata bianca, un tempo, ma portata alla luce si rivelava ingiallita dagli anni. Quelle da cui non riusciva a staccare gli occhi erano però le macchie scure. All'inizio l'aveva presa per ruggine, ma poi si era resa conto che doveva essere sangue secco. C'era un che di struggente nel contrasto tra la minuscola camicina e le chiazze di sangue. Com'era finita lì dentro? Di chi era? E perché sua madre l'aveva conservata?

Erica la appoggiò delicatamente accanto a sé. Quando lei e Patrik l'avevano trovata, avvolgeva un oggetto che ora non si trovava più li. Era l'unica cosa che aveva tolto dal baule. Quella celata dalla stoffa macchiata della camicina era una medaglia nazista. Le emozioni che aveva scatenato in lei la prima volta che l'aveva vista l'avevano sorpresa. Il cuore aveva accelerato i battiti, la bocca le si era seccata e sulla retina avevano preso a scorrere le immagini dei cinegiornali e dei documentari che aveva visto sulla seconda guerra mondiale. Cosa ci faceva a Fjällbacka una medaglia nazista? In casa sua, per giunta, tra i ricordi personali di sua madre! Le era sembrato assurdo. Voleva rimetterla nel baule e chiudere il coperchio, ma Patrik l'aveva convinta a portarla a un esperto per vedere se si poteva scoprire qualcosa di più. Lei aveva accettato a malincuore. Era come se dentro di sé sentisse dei bisbigli, delle voci sinistre e ammonitrici. Qualcosa le diceva che avrebbe dovuto nascondere la medaglia e dimenticarla. Ma la curiosità aveva avuto la meglio sulle voci. All'inizio di giugno l'aveva consegnata a un esperto di storia della seconda guerra mondiale e con un po' di fortuna presto avrebbero saputo qualcosa sulla sua provenienza.

A interessare Erica più di tutto era stata però l'ultima cosa tirata fuori dal baule: quattro quadernini azzurri. Aveva riconosciuto la grafia della madre sulle copertine, raffinata, leggermente inclinata a destra, ma in una versione più arrotondata e giovanile. Estrasse i quaderni dal baule e passò l'indice sulla copertina del primo. Diario si leggeva su tutti e quattro. La parola risvegliava in lei sentimenti contrastanti. Curiosità, eccitazione, impazienza. Ma anche paura, incertezza e la forte sensazione di essere sul punto di invadere la sfera privata di qualcuno. Aveva il diritto di leggere i quaderni e di frugare nei pensieri e nelle emozioni più intime di sua madre? Un diario non è, per sua stessa natura, destinato a occhi di estranei. Sua madre non lo aveva scritto perché qualcun altro ne scoprisse il contenuto. Forse non voleva assolutamente che sua figlia lo leggesse. Ma Elsy era morta ed Erica non poteva chiederglielo. Era costretta a prendere una decisione da sola, a stabilire la posizione da assumere.

«Erica?» La voce di Patrik s'intromise nei suoi pensieri.

«Sì?» rispose.

«Sono arrivati gli ospiti!»

Guardò l'orologio. Caspita, già le tre! Era il giorno del primo compleanno di Maja e avevano invitato i familiari e una ristretta cerchia di amici. Patrik doveva aver pensato che si fosse addormentata, lassù.

«Arrivo!»

Si spazzolò via la polvere dai vestiti. Dopo un attimo di esitazione prese quaderni e camicina e scese lungo la ripida scala della soffitta. Da sotto arrivavano delle voci.

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Pagina 105

«Maltrattamenti, due rapine in banca e qualche altra cosuccia, ma nessuna condanna per incitamento all'odio razziale» disse Paula chiudendo la portiera dalla parte del passeggero. «Ho trovato alcune cose anche su un ragazzo che si chiama Per Ringholm, ma per il momento è roba insignificante.»

«È il nipote» disse Martin chiudendo l'auto. Erano appena arrivati a Grebbestad, la cittadina dove Frans Ringholm abitava in un appartamento di fianco al Gästis.

«Ah ah, qui si veniva a ballare spesso, una volta» disse Martin accennando con la testa all'ingresso del locale.

«Me lo immagino. Ma i bei tempi sono finiti, giusto?»

«Puoi dirlo forte. Non vedo una pista da ballo da più di un anno.» Non sembrava particolarmente infelice. In realtà era così follemente innamorato della sua Pia che, a meno di esserne costretto, preferiva non mettere piede fuori dalla porta di casa. Ma per trovare la sua principessa aveva dovuto baciare una serie di ranocchi, anzi, di veri e propri rospi.

«E tu?» chiese Martin guardando Paula curioso.

«Io cosa?» rispose lei fingendo di non capire la domanda. Erano già davanti alla porta di Frans. Martin bussò deciso e fu ricompensato da uno struscio di passi all'interno dell'appartamento.

«Sì?» La porta fu aperta da un uomo con i capelli grigio argento tagliati a spazzola. Indossava dei jeans e una camicia a scacchi del genere ostinatamente esibito da Jan Guillou, con totale sprezzo del variare delle mode.

«Frans Ringholm?» Martin lo osservò curioso. Da una ricerca su internet fatta da casa aveva ricavato che si trattava di un personaggio conosciuto, e non solo in quella zona. Era tra i fondatori di una delle organizzazioni xenofobe più in crescita del paese che, a dar retta alle chiacchiere in diversi forum in rete, godeva di notevole considerazione nell'ambiente.

«Sono io. In cosa posso essere utile...» fece passare lo sguardo da Martin a Paula «... a lor signori?»

«Abbiamo qualche domanda da farle. Possiamo entrare?»

Frans si scostò senza fare commenti. Martin si guardò intorno sorpreso. Non sapeva esattamente cosa si fosse aspettato. Forse qualcosa di più sporco, disordinato, trasandato. Invece l'appartamento era così lindo e ben organizzato che in confronto il suo sembrava una tana di drogati.

«Accomodatevi.» Frans indicò con la mano un salotto che si trovava a destra dell'ingresso. «Ho appena messo su un caffè. Latte? Zucchero?» La voce era calma e cortese e Martin e Paula si guardarono con la stessa espressione stupita.

«Nessuno dei due, grazie» rispose Martin.

«Solo latte, niente zucchero» disse Paula precedendo il collega nel salotto. Presero posto uno accanto all'altra sul divano bianco e si guardarono intorno. La stanza era luminosa e ariosa, con grandi finestre affacciate sul mare. L'impressione generale non era di pedanteria, ma di un ordine e una pulizia che risultavano accoglienti.

«Ecco qui.» Frans entrò nel salotto con un vassoio carico. Mise tre tazze di caffè fumante sul tavolino e appoggiò di fianco un piatto di biscotti.

«Prego, servitevi» disse facendo un gesto d'invito e prendendo a sua volta una tazza prima di sedersi su una grande poltrona. «Allora, in che modo posso esservi utile?»

Paula bevve un sorso di caffè e poi disse: «Avrà sicuramente saputo di un uomo trovato morto alle porte di Fjällbacka.»

«Sì, Erik» rispose Frans annuendo con aria triste prima di bere un sorso di caffè. «Quando l'ho saputo ci sono rimasto malissimo. Terribile, per Axel. Dev'essere stato un duro colpo.»

«Sì, certo, in effetti...» Martin si schiarì la voce. Era stato preso in contropiede dai modi cortesi di quell'uomo che si stava dimostrando l'esatto contrario di come se l'era aspettato. Si ricompose e disse: «Il motivo per cui volevamo parlare con lei è che abbiamo trovato alcune sue lettere a casa di Erik Frankel.»

«Ah, le aveva tenute.» Frans ridacchiò allungando la mano per prendere un biscotto. «Sì, gli piaceva conservare le cose. Voi giovani trovate sicuramente antiquata l'usanza di scrivere a mano, ma noi vecchi gufi fatichiamo a perdere le antiche abitudini.» Fece l'occhiolino a Paula, che per poco non gli rispose con un sorriso, prima di ricordare a se stessa che l'uomo che aveva di fronte aveva dedicato una vita intera a rendere la vita difficile a quelli come lei.

«Nelle lettere si parla di minacce...» disse seria.

«Bah... non le definirei proprio minacce.» Frans la osservò tranquillo, appoggiandosi allo schienale della poltrona e accavallando le gambe, per poi continuare: «Mi sembrava semplicemente il caso di avvertire Erik che all'interno dell'organizzazione ci sono certi... elementi che non sempre agiscono... come dire... in maniera razionale.»

«E ha ritenuto opportuno informarne Erik perché...»

«Erik e io eravamo amici quando portavamo ancora i pantaloni corti. Non ho difficoltà a riconoscere che successivamente ci siamo allontanati e che non si può parlare di una vera e propria amicizia ormai da molti anni. Abbiamo... scelto strade diverse, nella vita.» Frans sorrise. «Ma non ho mai voluto male a Erik e quando mi si è presentata la possibilità di metterlo in guardia l'ho colta. Alcuni faticano a capire che non bisogna ricorrere alle maniere forti una volta sì e l'altra anche.»

«A quanto ci risulta anche lei è ricorso alle maniere forti, in diverse occasioni» osservò Martin. «Tre condanne per maltrattamenti, qualche rapina in banca, e mi sembra di capire che non abbia scontato la pena con un atteggiamento da dalai lama.»

Frans non si lasciò turbare dall'osservazione di Martin e si limitò a un sorriso, tra l'altro non troppo dissimile da quello del dalai lama. «Ogni cosa ha il suo momento. La prigione ha regole proprie e spesso lì dentro esiste una sola lingua per farsi capire. Inoltre, la saggezza sopraggiunge con gli anni, ho sentito dire. Ho imparato la lezione strada facendo.»

«E suo nipote l'ha imparata?» Mentre faceva quella domanda, Martin si allungò per prendere un biscotto. Con un guizzo la mano di Frans gli bloccò il polso in una morsa di ferro. Inchiodandolo con lo sguardo, sibilò: «Mio nipote non ha niente a che vedere con tutto questo. Intesi?»

Martin non distolse lo sguardo, ma dopo un attimo liberò il braccio con uno strattone e si massaggiò il polso. «Non lo faccia più» disse a voce bassa.

Frans rise e si riappoggiò allo schienale. Era tornato quello di prima, un uomo affabile di una certa età. Per qualche attimo, però, la facciata si era incrinata: dietro la calma si nascondeva una grande collera. La domanda era se Erik poteva averne subito le conseguenze.

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L'irritazione scatenata dalla conversazione con il padre non gli era passata. Frans aveva sempre quell'effetto su di lui. Anzi no, non sempre. Da piccolo la sensazione prevalente era la delusione. Delusione mista ad affetto che con gli anni si era trasformata in un grumo duro di odio e collera. Era consapevole di aver permesso che quei sentimenti governassero tutte le sue scelte e che, in questo modo, suo padre indirizzasse la sua vita. Ma non poteva fare niente contro l'emozione provata la prima volta che la madre l'aveva trascinato con sé in occasione di una delle innumerevoli visite a Frans in prigione. La sala colloqui grigia e fredda, del tutto impersonale, del tutto vuota di sentimenti. I goffi tentativi del padre di parlare con lui, di fingere di prendere parte alla sua vita non limitandosi a osservarla a distanza. Da dietro le sbarre.

Erano passati anni dall'ultima volta che suo padre era finito dentro, ma questo non significava che fosse diventato un uomo migliore, solo più furbo. Aveva scelto un'altra strada. E di conseguenza Kjell aveva scelto quella opposta, denunciando dalle pagine del giornale le organizzazioni xenofobe con una frenesia e una passione che gli avevano dato un nome e una reputazione ben oltre le pareti del Bohusläning. Gli era capitato spesso di andare in aereo da Trollhättan a Stoccolma per partecipare a un talk show e parlare delle energie distruttive che si agitavano all'interno del neonazismo e del modo migliore di affrontarle da parte della società. A differenza di altri che, nello spirito accondiscendente dell'epoca, volevano inserire le organizzazioni neonaziste negli spazi pubblici e coinvolgerle in una discussione aperta, lui era per la linea dura. Non dovevano essere tollerati, punto e basta. Dovevano essere avversati a ogni passo che facevano, contrastati ovunque avessero scelto di pronunciarsi e semplicemente messi alla porta come gli insetti infestanti che erano.

Parcheggiò davanti alla casa dell'ex moglie. Non si era preso la briga di telefonare. Di solito, se lui preannunciava la propria visita lei faceva in modo di uscire prima del suo arrivo. Questa volta invece aveva voluto assicurarsi che fosse in casa. Era rimasto per un pezzo nell'auto, a una certa distanza, in attesa. Dopo un'ora era arrivata in macchina e aveva parcheggiato sul passo carraio. Evidentemente era stata al supermercato, perché l'aveva vista tirare fuori dal bagagliaio un paio di sacchetti della Konsum. Kjell aveva aspettato che entrasse in casa e poi aveva percorso in auto gli ultimi cento metri.

Scese e bussò deciso alla porta. Vedendolo, Carina assunse un'espressione stanca.

«Sei tu? Cosa vuoi?» Il tono era sbrigativo. Kjell sentì montare l'irritazione. Possibile che non capisse la gravità della situazione? Che non si rendesse conto che era il momento di ricorrere alle maniere forti? Il senso di colpa gli bruciava nel petto, contribuendo ad aumentare la rabbia. Doveva proprio avere sempre quella faccia maledettamente... annientata? Ancora. Dopo dieci anni.

«Dobbiamo parlare. Di Per.» Le passò davanti e cominciò ostentatamente a slacciarsi le scarpe e sbottonarsi la giacca. Per un attimo Carina sembrò voler protestare, ma poi alzò le spalle e andò in cucina, mettendosi con la schiena appoggiata al piano di lavoro e le braccia conserte come se si preparasse a combattere. Era una danza ballata già molte volte.

«E adesso cosa c'è?» Scosse la testa facendosi andare negli occhi la frangia del paggetto scuro e scostandola poi con l'indice. Quante volte le aveva visto fare quel gesto. Era una delle cose che aveva amato di lei da quando si erano conosciuti. I primi anni. Prima che la quotidianità e lo squallore prendessero il sopravvento, prima che l'amore si sbiadisse inducendolo a scegliere un'altra strada, ancora non sapeva se giusta o sbagliata.

Kjell avvicinò una delle sedie. «Dobbiamo affrontare la situazione. Devi capire che non si risolverà da sola. Se si entra in quel giro...»

Carina lo interruppe sollevando una mano. «Chi ha detto che penso che si risolverà da sola? Ho solo un'altra opinione su come risolverla. Mandare via Per non è una soluzione e dovresti capirlo anche tu.»

«Quello che non capisci è che deve allontanarsi da questo ambiente!» Si passò rabbioso una mano tra i capelli.

«E con "questo ambiente" intendi tuo padre.» La voce di Carina grondava disprezzo. «Io invece penso che dovresti risolvere tu i tuoi problemi con Frans prima di immischiare Per.»

«Quali problemi?» Kjell si accorse di aver alzato la voce e si costrinse a inspirare a fondo più volte per calmarsi. «Prima di tutto non è solo a mio padre che mi riferisco quando dico che deve cambiare ambiente. Credi che non mi accorga di cosa succede qui? Credi che non veda che hai bottiglie nascoste un po' dappertutto, nei pensili e nella dispensa?» Indicò con un gesto i mobili della cucina. Carina prese fiato per protestare, ma lui sollevò una mano per fermarla. «E tra me e Frans non c'è niente da risolvere» continuò a denti stretti. «Per quanto mi riguarda preferirei non avere proprio a che fare con lui e non ho intenzione di permettergli di influenzare Per. Ma dato che non possiamo sorvegliarlo ogni minuto della giornata e che tu non sembri particolarmente interessata a tenerlo d'occhio, non vedo altra soluzione che trovare una scuola dove possa essere ospitato e dove il personale sia capace di gestire una situazione come questa.»

«E come penseresti di fare, scusa?» gridò Carina mentre la frangia le ricadeva sugli occhi. «Non si mandano i ragazzi nei riformatori così a caso, bisogna che abbiano fatto qualcosa, ma forse ti stai fregando le mani in attesa che succeda, così da...»

«Furto con scasso» la interruppe Kjell. «Si è introdotto in un'abitazione.»

«Ma che cazzo dici? Quale scasso?»

«All'inizio di giugno. Il proprietario della casa l'ha colto sul fatto e mi ha telefonato. Sono andato io là a prenderlo. Era entrato da una finestra del seminterrato e quando è stato sorpreso stava prendendo della roba. Il proprietario l'ha chiuso dentro e ha minacciato di chiamare la polizia se lui non gli avesse dato il numero di telefono dei genitori. E così Per gli ha dato il mio.» Non poté fare a meno di provare una certa soddisfazione leggendo in faccia a Carina lo sgomento e la delusione.

«Gli ha dato il tuo? E perché non il mio?»

Kjell alzò le spalle. «Chi lo sa. Il padre è sempre il padre.»

«Dove?» Carina sembrava faticare ad accettare che Per avesse scelto di far chiamare il padre.

Kjell esitò un paio di secondi prima di rispondere. Poi disse: «Hai presente il vecchio che hanno trovato morto a Fjällbacka la settimana scorsa? È stato a casa sua.»

«Ma perché?» Stava scuotendo la testa.

«È quello che sto cercando di dirti! Erik Frankel era un esperto della seconda guerra mondiale, in casa aveva una quantità di oggetti di quell'epoca, e Per avrà pensato di far colpo sui suoi amici sfoggiando qualche oggetto autentico.»

«La polizia lo sa?»

«No, non ancora» rispose lui freddo. «Però dipende...»

«Faresti questo a tuo figlio? Lo denunceresti per furto con scasso?» sussurrò Carina fissandolo.

Di colpo gli si formò un nodo allo stomaco. Se la vide davanti com'era la prima volta che si erano incontrati, a una festa della scuola di giornalismo. Carina aveva accompagnato un'amica che studiava lì, ma l'altra si era dileguata con un ragazzo e lei si era ritrovata sola su un divano, come un pesce fuor d'acqua. Se n'era innamorato appena l'aveva vista. Portava un vestito giallo e un nastro giallo nei capelli, che all'epoca erano lunghi, scuri come adesso ma senza i fili grigi che cominciavano a notarsi. In lei c'era qualcosa che gli aveva fatto venire voglia di prendersene cura, proteggerla, amarla. Ricordava il matrimonio, l'abito che lei considerava bellissimo ma che ormai sarebbe stato classificato come una reliquia degli anni ottanta, con le maniche a sbuffo e troppi volant. Per lui, comunque, era stata una specie di visione. E la prima volta che l'aveva vista con Per, poi. Stanca, struccata e avvolta nell'orribile camicia da notte dell'ospedale. Ma con il neonato tra le braccia aveva alzato gli occhi su di lui e sorriso, e Kjell si era sentito capace di combattere i draghi o affrontare un esercito intero, e vincere.

Ora, in piedi in quella cucina, fronteggiandosi come due sfidanti entrambi avevano visto balenare negli occhi dell'altro uno sprazzo del passato. Per un attimo ricordarono i momenti in cui avevano riso insieme e amato insieme, prima che l'amore fosse dimenticato e diventasse fragile, vulnerabile, con le conseguenze che Kjell ben conosceva. Il nodo allo stomaco si strinse ancora di più.

Cercò di scacciare quei pensieri. «Se devo, farò in modo che la polizia ottenga quest'informazione» disse. «O ci organizziamo in modo che Per si allontani da quest'ambiente, oppure lascerò che ci pensino loro.»

«Bastardo!» esclamò Carina con la voce incrinata dal pianto e dalla delusione per tutte le promesse mancate.

Kjell si alzò, sforzandosi di mantenere lo sguardo gelido, e disse: «Così stanno le cose. Ho alcune proposte su dove spedire Per. Te le mando via mail, così le guardi. E non deve assolutamente avere contatti con mio padre, intesi?»

Carina non rispose ma abbassò la testa in segno di capitolazione. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva osato mettersi contro Kjell. Il giorno in cui lui aveva rinunciato a lei, lei aveva rinunciato a se stessa.

Kjell salì in macchina, guidò per qualche centinaio di metri e parcheggiò. Appoggiò la fronte al volante e chiuse gli occhi. Dietro le palpebre gli balenarono delle immagini di Erik Frankel mentre nella mente gli scorrevano le informazioni che aveva avuto da lui. Il problema era cosa farne.

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