Autore Camilla Läckberg
Titolo Il domatore di leoni
EdizioneMarsilio, Venezia, 2016, Farfalle , pag. 466, cop.fle., dim. 13,5x20,5x2,8 cm , Isbn 978-88-317-2489-0
OriginaleLejontämjaren [2014]
TraduttoreLaura Cangemi
LettoreAngela Razzini, 2016
Classe narrativa svedese , gialli












 

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Pagina 9

Lo stallone percepì l'odore della paura ancora prima che la ragazza uscisse dal bosco. La cavallerizza lo spronò premendo i talloni contro il fianchi, ma non sarebbe stato necessario: erano talmente affiatati che l'animale aveva intuito da solo il suo desiderio.

Il silenzio fu rotto dal rumore sordo e ritmato degli zoccoli che tracciavano solchi nello strato uniforme di neve sottile caduta durante le notte, sollevando una nuvola impalpabile intorno alle zampe del cavallo.

La ragazza non correva. Si muoveva a singhiozzo, seguendo un percorso irregolare, le braccia strette al corpo.

La cavallerizza gridò, un forte richiamo che fece capire allo stallone che qualcosa non andava. Invece di rispondere, la ragazza continuò ad avanzare incespicando.

Le si stavano avvicinando, sempre più veloci. L'odore acre e intenso della paura si mescolò a qualcos'altro, qualcosa di indefinibile e talmente spaventoso da indurlo a tirare indietro le orecchie. Voleva fermarsi, voltarsi e tornare al galoppo alla sua posta protetta nella scuderia. Quello non era un luogo sicuro.

Ormai li separava solo la strada, deserta e spazzata dalla neve impalpabile.

La ragazza continuò ad avanzare. Era scalza e il rosso sulle braccia e sulle gambe nude si stagliava nitido sullo sfondo candido, gli abeti innevati simili a una scenografia bianca alle sue spalle. Erano vicini, ai due lati della strada. Lo stallone sentì di nuovo il richiamo della cavallerizza, la sua voce familiare e insieme, in qualche modo, diversa.

Di colpo la ragazza si fermò, restando in mezzo alla strada con la neve che le vorticava intorno ai piedi. C'era qualcosa di strano nei suoi occhi, simili a buchi neri nel volto bianco.

L'auto si materializzò dal nulla. Il rumore della frenata lacerò il silenzio e poi si sentì il tonfo di un corpo che urtava il terreno. La cavallerizza tirò le briglie così forte che il morso gli ferì la bocca. Ubbidì, fermandosi di botto. Lei era lui e lui era lei. Era quanto aveva imparato.

La ragazza giaceva a terra, immobile, quegli strani occhi rivolti al cielo.




Erica Falck si fermò davanti al penitenziario e per la prima volta lo osservò con una certa attenzione. In occasione delle visite precedenti era così presa dal pensiero di chi avrebbe incontrato da non riflettere sulla costruzione e sul circondario, ma per scrivere il libro su Laila Kowalska, la donna che molti anni prima aveva brutalmente assassinato il marito Vladek, le servivano tutte le impressioni che si potevano raccogliere.

Rifletté su come avrebbe potuto trasmettere l'atmosfera che aleggiava intorno all'edificio simile a un bunker e far percepire ai lettori il senso di soffocamento e rassegnazione. Il penitenziario era a poco più di mezz'ora di macchina da Fjällbacka, in posizione isolata e protetto da recinzione e filo spinato ma senza le torrette con le guardie armate che si vedevano nei film americani. Era stato costruito in base alla sua funzione, cioè rinchiudere delle persone.

Dall'esterno sembrava completamente vuoto, ma Erica sapeva che era vero il contrario. La febbre del risparmio a tutti i costi e i tagli al bilancio facevano sì che a dividersi lo spazio dovesse essere il numero più alto possibile di detenuti. Nessun politico comunale sembrava particolarmente interessato a rischiare di perdere voti investendo fondi in una nuova struttura penitenziaria, e così ci si faceva bastare quella.

Il freddo cominciò a penetrarle sotto i vestiti. Erica si mosse verso l'ingresso. Quando entrò, la guardia allo sportello lanciò un'occhiata distratta al suo documento e annuì senza sollevare lo sguardo. Poi si alzò e lei la seguì lungo il corridoio ripensando alla sua mattinata infernale, del resto quasi uguale a tutte le altre di quel periodo. Dire che i gemelli erano entrati nella fase dei capricci era un eufemismo. Non ricordava che Maja fosse stata così pestifera intorno ai due anni, e neanche in qualche altra fase, in realtà. Noel era il più scatenato. Era sempre stato il più vivace dei due, ma Anton lo seguiva a ruota. Se suo fratello strillava, strillava anche lui. Con quel livello di decibel in casa, era un miracolo che lei e Patrik avessero ancora i timpani intatti.

E il flagello della vestizione mattutina, poi, con tutti i capi che servivano d'inverno. Si annusò discreta un'ascella. Cominciava già a puzzare di sudore. Una volta messi tutti i vestiti ai gemelli per portarli all'asilo con Maja, non le era rimasto il tempo per cambiarsi. Pazienza, tanto non è che stesse propriamente andando a una festa.

La guardia aprì facendo tintinnare il mazzo di chiavi e la fece entrare nella sala colloqui. Sapeva un po' di antiquato che avessero ancora serrature tradizionali, ma naturalmente era più semplice scoprire un codice che rubare una chiave, per cui non era forse così strano che le vecchie soluzioni avessero la meglio su quelle più moderne.

Laila era seduta all'unico tavolo della stanza, il viso rivolto alla finestra e il sole invernale che le formava un'aureola intorno ai capelli biondi. Le inferriate creavano riquadri di luce sul pavimento e le particelle di polvere sospese nell'aria mostravano che le pulizie non erano state troppo scrupolose.

«Ciao» disse Erica sedendosi.

In realtà si chiedeva perché Laila avesse accettato di incontrarla di nuovo. Era la terza volta che si vedevano ed Erica non era ancora arrivata da nessuna parte. All'inizio Laila si era categoricamente rifiutata di riceverla, a prescindere dal numero di lettere imploranti e di telefonate per cercare di farle cambiare idea. Qualche mese prima, però, di colpo aveva acconsentito. Probabilmente quelle visite rappresentavano una piacevole interruzione nella monotona vita in carcere e, finché Laila avesse continuato a riceverla, Erica aveva intenzione di andarci. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che aveva provato una voglia così intensa di raccontare una storia, e senza il suo aiuto non poteva farlo.

«Ciao, Erica.» Laila fissò il suo strano sguardo azzurro su di lei. Al loro primo incontro le aveva fatto venire in mente i cani da slitta, e dopo la visita aveva cercato il nome della razza: husky. Laila aveva gli occhi di un husky siberiano.

«Perché accetti di vedermi, se poi non vuoi parlare del caso?» chiese Erica andando subito al sodo, ma si pentì immediatamente di aver usato una parola così asettica. Per Laila si trattava di una tragedia che ancora la tormentava, non di un caso.

Laila alzò le spalle.

«Non ricevo altre visite» rispose confermando il suo ragionamento di poco prima.

Erica tirò fuori dalla borsa il raccoglitore con gli articoli, le foto e gli appunti.

«Non mi sono ancora arresa» disse battendoci sopra le nocche.

«È il prezzo che mi tocca pagare per un po' di compagnia» rispose Laila lasciando trasparire quell'inaspettata venatura ironica che Erica aveva già colto in qualche occasione. Il sorriso appena abbozzato le trasformò completamente il viso. Dalle foto risalenti a prima della tragedia si vedeva che non era bella ma graziosa in un modo tutto suo, e che aveva fascino. I capelli biondi erano lunghi, all'epoca, e nella maggior parte delle foto sciolti e lucenti. Nella versione attuale, invece, erano molto corti, praticamente a spazzola su tutta la testa: non un vero taglio, ma solo un modo di portarli che mostrava quanto poco si curasse ormai del proprio aspetto fisico. E perché avrebbe dovuto? Erano molti anni che non metteva più piede nel mondo esterno. Per chi avrebbe potuto farsi bella lì dentro? Per dei visitatori che non arrivavano mai? Per gli altri detenuti? Per le guardie?

«Oggi hai l'aria stanca.» Laila la stava studiando attentamente. «Brutta mattinata?»

«Brutta mattinata, brutta serata ieri e probabilmente brutto pomeriggio. Ma quando si hanno figli piccoli è così...» Erica fece un respiro profondo e cercò di rilassarsi, rendendosi conto da sola della tensione accumulata.

«Peter era sempre bravissimo» disse Laila, e sugli occhi chiari calò un velo. «Non ricordo un solo giorno di capricci.»

«La volta scorsa mi dicevi che era piuttosto taciturno.»

«Sì, all'inizio pensavamo che avesse qualcosa che non andava. A tre anni non aveva ancora detto una parola. Volevo portarlo da uno specialista, ma Vladek si mise di traverso.» Sbuffò e strinse le mani a pugno sul tavolo senza rendersene conto.

«E poi cosa successe?»

«Un giorno si mise semplicemente a parlare. Frasi complete. Ottima proprietà di linguaggio. Aveva un lieve difetto di pronuncia, ma per il resto era come se parlasse da sempre. Come se gli anni di imperturbabile silenzio non fossero mai esistiti.»

«Non avete avuto una spiegazione?»

«No. Chi avrebbe dovuto darcela? Vladek non voleva chiedere aiuto a nessuno. Gli estranei non dovevano ficcare il naso nelle questioni familiari, diceva sempre.»

«Secondo te perché era rimasto in silenzio così a lungo?»

Laila rivolse il viso alla finestra e il sole le formò di nuovo un'aureola intorno alla peluria bionda. I solchi scavati dagli anni sul viso erano impietosamente messi in evidenza dalla luce, simili a una mappa delle sofferenze che aveva dovuto patire.

«Probabilmente capiva che era meglio rendersi il più possibile invisibile, non attirare l'attenzione. Peter era un bambino saggio.»

«E Louise? Fu più precoce nel parlare?» Erica trattenne il respiro. Fino a quel momento Laila aveva sempre finto di non sentire le domande sulla figlia.

E così fece anche quella volta.

«Peter adorava disporre in fila gli oggetti. Gli piacevano l'ordine e la simmetria. Quando faceva le torri, da piccolissimo, i cubetti erano perfettamente allineati, e ci rimaneva sempre male...» S'interruppe di colpo.

Erica la vide stringere le mascelle e tentò con la forza del pensiero di indurla a continuare, a far uscire ciò che teneva prigioniero lì dentro, ma l'attimo passò, esattamente come nelle visite precedenti. A volte aveva l'impressione che Laila si trovasse sull'orlo di un precipizio e che, in fondo in fondo, volesse gettarcisi. Come se desiderasse lasciarsi cadere ma fosse trattenuta da forze più potenti che la costringevano a ritirarsi nella sicurezza dell'ombra.

Non era una metafora casuale: fin dal primo incontro aveva avuto l'impressione che Laila vivesse un'esistenza fatta di ombre. Una vita che correva parallela a quella che avrebbe potuto avere e che invece era stata fagocitata da tenebre senza fondo quel giorno di molti anni prima.

«Ti capita mai di sentire che stai per perdere la pazienza con i gemelli? Che stai per oltrepassare quel confine invisibile?» Laila sembrava sinceramente interessata, ma nella voce c'era anche una sfumatura implorante.

Non era facile rispondere a quella domanda. Probabilmente tutti i genitori si accorgevano a volte di sfiorare il confine tra concesso e proibito, e si fermavano a contare fino a dieci mentre nella testa esplodevano le immagini di cosa avrebbero potuto fare per mettere fine a capricci e ribellioni, ma c'era una bella differenza tra il sentire e l'agire, per cui Erica scosse la testa.

«Non potrei mai fare loro del male.»

All'inizio Laila non rispose, limitandosi a guardarla con quegli occhi azzurri e luminosi. Ma quando la guardia bussò comunicando che il tempo era scaduto disse a voce bassa, lo sguardo ancora fisso su di lei: «È quello che credono tutti.»

Erica pensò alle foto nel raccoglitore e rabbrividì.

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