Copertina
Autore Camilla Läckberg
Titolo Il predicatore
EdizioneMarsilio, Venezia, 2011 [2010], Vintage , pag. 462, cop.fle., dim. 14x21,5x3,5 cm , Isbn 978-88-317-1049-7
OriginalePredikanten [2004]
TraduttoreLaura Cangemi
LettoreGiovanna Bacci, 2012
Classe narrativa svedese , gialli
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Pagina 9

La giornata cominciò in maniera promettente. Si svegliò presto, prima del resto della famiglia, e dopo essersi vestito il più silenziosamente possibile riuscì a sgattaiolare fuori senza farsi notare. Prese anche l'elmo da cavaliere e la spada di legno, che fece oscillare felice mentre percorreva di corsa i cento metri dalla casa all'imbocco di Kungsklyftan. Si bloccò per un attimo e guardò pieno d'ammirazione la spaccatura verticale nella roccia. La distanza tra le due pareti che si ergevano per una decina di metri verso il cielo, dove il sole aveva appena cominciato a sorgere, era di un paio di metri. I tre grandi blocchi di pietra rimasti sospesi in eterno proprio a metà erano uno spettacolo suggestivo. Quel luogo esercitava un magico potere d'attrazione su un bambino di sei anni, e il fatto che Kungsklyftan fosse territorio proibito ne aumentava il fascino.

Era stato battezzato Kungsklyftan, Gola del Re, quando Oscar II aveva visitato Fjällbacka alla fine dell'Ottocento, ma non era certo una cosa che lui sapesse o a cui avrebbe potuto dare qualche importanza quando s'insinuò lentamente nelle ombre, con la spada di legno pronta ad attaccare. Papà gli aveva però raccontato che le scene dell'antro infernale di Ronja erano state girate proprio lì, e quando aveva visto il film si era emozionato a veder cavalcare nella gola il brigante Matteo. A volte lì giocava a fare il brigante, ma quella mattina era un cavaliere. Un cavaliere della Tavola Rotonda, come nel grande libro illustrato che gli aveva regalato la nonna per il suo compleanno.

Strisciò fino ai massi che punteggiavano il terreno e si preparò ad attaccare il grande drago sputafuoco, armato di coraggio e di spada. Il sole estivo non arrivava ancora sul fondo della gola, il che la rendeva un luogo freddo e buio, perfetto per un drago. Presto gli avrebbe fatto sgorgare il sangue dalla gola: dopo una lunga lotta contro la morte sarebbe caduto senza vita ai suoi piedi.

Con la coda dell'occhio vide qualcosa che attirò la sua attenzione. Dietro un masso si scorgeva un lembo di stoffa rossa, e la curiosità prese il sopravvento. Il drago poteva aspettare. Magari proprio in quel punto si nascondeva un tesoro. Prese lo slancio e saltò sul masso, guardando giù sul lato opposto. Per un attimo rischiò di cadere all'indietro, ma dopo aver oscillato e roteato le braccia per qualche attimo ritrovò l'equilibrio. In seguito non avrebbe ammesso di essersi spaventato, ma in quel preciso istante, in quel breve spazio di un momento, provò una paura che non aveva precedenti nei suoi sei anni di vita. Una signora gli aveva teso un agguato. Era lì stesa sulla schiena e lo guardava con gli occhi fissi. Il primo impulso fu di scappare, prima che lei lo agguantasse e capisse che lui andava a giocare lì anche se era proibito. Forse lo avrebbe costretto a dire dove abitava e lo avrebbe portato a forza da mamma e papà che si sarebbero arrabbiati e gli avrebbero chiesto quante volte gli avevano detto che non doveva andare a Kungsklyftan senza un adulto.

Ma la cosa strana era che la signora non si muoveva. Era anche senza vestiti, e il bambino si sentì in imbarazzo pensando che stava guardando una donna nuda. La cosa rossa che aveva visto non era un lembo di stoffa ma una borsa, proprio accanto a lei, ma non vedeva vestiti da nessuna parte. Strano, starsene lì nudi. Faceva freddino.

Poi fu colpito da quell'idea impensabile, che la signora fosse morta! Non riuscì a farsi venire in mente altra spiegazione per quella strana immobilità. L'intuizione lo indusse a saltare giù dal masso e ad arretrare lentamente verso l'imbocco della gola. Quando fu a un paio di metri dalla signora fece dietrofront e corse fino a casa alla massima velocità possibile. Della sgridata che lo aspettava non gli importava più niente.


Il sudore le appiccicava le lenzuola alla pelle. Si girava e rigirava nel letto, ma era impossibile trovare una posizione comoda. La luminosa notte estiva non facilitava le cose, ed Erica prese mentalmente nota, per la millesima volta, di comprare delle tende scure da appendere alle finestre, o meglio, di convincere Patrik a farlo.

Il suo respiro regolare e sereno accanto a lei la mandava in bestia. Aveva un bel coraggio a starsene lì a ronfare mentre lei passava sveglia una notte dopo l'altra! Il bambino era anche suo. Non avrebbe dovuto condividere la sua insonnia per simpatia, o qualcosa del genere? Lo toccò, nella speranza che si svegliasse. Neanche un segno di vita. Lo toccò un po' più forte. Lui grugnì, si tirò su il lenzuolo e le girò le spalle.

Con un sospiro, Erica si mise supina, le braccia incrociate sul petto, gli occhi fissi al soffitto. La pancia si ergeva come un grosso mappamondo davanti a lei. Cercò di immaginare il piccolo nuotare nel liquido, al buio, magari con il pollice in bocca, ma era ancora tutto troppo irreale perché l'immagine prendesse forma nella sua mente. Era all'ottavo mese ma non riusciva ancora a credere che lì dentro ci fosse un piccolo essere umano. Be', in ogni caso in un futuro piuttosto prossimo sarebbe diventato una realtà più che palpabile. Erica era combattuta tra il desiderio e il timore. Era difficile andare oltre il parto con il pensiero. Anzi, a essere sinceri in quel momento era difficile andare oltre il fatto di non riuscire più a dormire sulla pancia. Guardò le cifre fosforescenti sulla sveglia. Le quattro e quarantadue. Che fosse il caso di accendere la luce e leggere un pochino?

Tre ore e mezza e un brutto poliziesco più tardi, stava per alzarsi dal letto quando il telefono si mise a squillare. Con un gesto abituale, passò il ricevitore a Patrik.

«Pronto?» La voce era impastata di sonno.

«Sì, certo... oh merda... sì, posso essere lì tra un quarto d'ora. Ci vediamo.»

Si girò verso Erica. «Abbiamo ricevuto una chiamata. Devo andare.»

«Ma sei in ferie! Non può occuparsene qualcun altro?» Si accorse da sola di avere la voce lagnosa, ma una notte di veglia non contribuiva certo a metterla di buon umore.

«Si tratta di un omicidio. Mellberg mi ha chiesto di raggiungerlo. Sta andando sul posto anche lui.»

«Un omicidio? E dove?»

«Qui a Fjällbacka. Un bambino ha trovato una donna morta a Kungsklyftan, stamattina.»

Patrik si vestì rapidamente, operazione facilitata dal fatto che si era a metà luglio e bastavano pochi capi leggeri. Prima di precipitarsi giù dalla scala tornò verso il letto e le diede un bacino sulla pancia, in un punto dalle parti del quale le sembrava di ricordare di aver avuto, in passato, un ombelico.

«Ciao ciao, piccolino. Fai il bravo con la mamma, e vedrai che tra poco torno.»

Poi le baciò leggero la guancia e si affrettò a uscire. Con un sospiro, Erica si sollevò dal letto e si mise uno di quei tendoni da circo che ormai rappresentavano gli unici capi di abbigliamento tra cui poteva scegliere. Nonostante si fosse ripromessa di non farlo, aveva letto una montagna di libri sulla gravidanza, e ora pensava che tutti quelli che scrivevano dello stato di grazia connesso all'attesa di un bambino avrebbero dovuto essere trascinati in piazza e presi a bastonate. Insonnia, dolori articolari, varici, emorroidi, sudorazione e scompensi ormonali nell'accezione più ampia: tutto questo era ben più vicino alla realtà. E col cavolo che ci si ritrovava a risplendere di una luce interiore. Brontolando, scese lentamente la scala per bersi la prima tazza di caffè della giornata, sperando che servisse a diradare la nebbia.


Sul posto regnava già un'attività febbrile. L'imbocco di Kungsklyftan era stato delimitato con il nastro giallo, e poco lontano si contavano tre auto della polizia e un'ambulanza. I tecnici di Uddevalla erano già al lavoro e Patrik sapeva di non dover mettere piede sulla scena del crimine. Sarebbe stato un errore da principianti, il che non impediva al suo capo, il commissario Mellberg, di passeggiare con la grazia di un elefante in mezzo ai tecnici che, disperati, guardavano le sue scarpe e i suoi vestiti che a ogni istante trasferivano migliaia di fibre e particelle nel loro fragile ambiente di lavoro. Quando Patrik si fermò prima del nastro di plastica e lo chiamò, osservarono sollevati il commissario allontanarsi e uscire dalla zona delimitata.

«Ciao, Hedström.»

La voce era cordiale, al limite del gongolante, e Patrik trasalì, sorpreso. Per un attimo pensò che Mellberg stesse per abbracciarlo, ma fu solo una fuggevole quanto allarmante impressione. Il suo capo sembrava trasformato! Patrik era in ferie da una sola settimana, ma l'uomo che aveva davanti era davvero un altro rispetto a quello che aveva lasciato seduto alla scrivania, tutto rannuvolato, a brontolare che le ferie avrebbero dovuto essere abolite come concetto in sé.

Mellberg strinse vigorosamente la mano a Patrik e gli assestò una pacca sulla spalla.

«Come va con la chioccia che è a casa a covare, eh? Verrà fuori qualcosa o no?»

«Non prima di un mese, pare.»

Patrik non riusciva ancora a capire cos'avesse scatenato tutta quell'allegria nel suo capo, ma mise da parte la curiosità e cercò di concentrarsi sul motivo per cui era stato convocato.

«Cos'avete trovato esattamente?»

Mellberg fece uno sforzo per cancellarsi il sorriso dalla faccia e indicò le viscere scure della gola.

«Stamattina presto un bambino sui sei anni è uscito di casa di nascosto mentre i suoi dormivano ancora, con l'intenzione di giocare ai cavalieri qui tra i blocchi di pietra, e invece ci ha trovato una donna morta. L'allarme è stato dato alle sei e un quarto.»

«Da quanto tempo sono qui i tecnici della scientifica?»

«Un'oretta. Il personale sanitario è arrivato per primo e ha potuto confermare subito che non c'era più nulla da fare, per cui i tecnici hanno avuto modo di lavorare liberamente. Un po' rompicoglioni, a dire il vero... Sono entrato soltanto a dare un'occhiatina e quelli si sono comportati da veri cafoni. D'altra parte a forza di strisciare dalla mattina alla sera con una pinzetta in mano a cercare fibre non è strano che si venga colpiti da fissazioni anali...»

Ecco, adesso il suo capo era tornato quello di sempre. Quest'ultima affermazione era decisamente nel suo stile. D'altra parte Patrik sapeva anche, per esperienza, che non valeva la pena tentare di correggere le sue convinzioni. Era più semplice lasciarle semplicemente entrare da un orecchio e uscire dall'altro.

«Cosa sappiamo della donna?»

«Al momento niente. È sui venticinque anni, a spanne. L'unico capo di abbigliamento, ammesso che lo si possa definire tale, è una borsetta. Per il resto è nuda come mamma l'ha fatta. Belle tette, tra l'altro.»

Patrik chiuse gli occhi e ripeté tra sé e sé, come un mantra interiore: tra non molto andrà in pensione... tra non molto andrà in pensione...

Imperturbabile, Mellberg continuò: «La causa della morte non è evidente, ma in generale è piuttosto malconcia. Ematomi su tutto il corpo e anche qualche ferita, apparentemente dovuta a delle coltellate. Ah, un'altra cosa: è stesa su una coperta grigia. Il medico legale è qui e la sta esaminando, per cui speriamo di avere un primo parere abbastanza rapidamente.»

«Non abbiamo nessuna denuncia di scomparsa di una persona più o meno di quell'età?»

«No. Soltanto un tizio di mezza età, l'altra settimana, ma poi si è scoperto che si era semplicemente stufato di starsene gomito a gomito con la moglie in una roulotte ed era scappato con una tipa conosciuta al Galären.»

Patrik vide che quelli della scientifica stavano infilando delicatamente il cadavere nel sacco per il trasporto. Mani e piedi erano avvolti in sacchetti, come da regolamento, per non disperdere eventuali tracce. I tecnici di Uddevalla, abituati a lavorare in squadra, si diedero da fare per completare l'operazione in modo rapido. Subito dopo, anche la coperta sarebbe stata infilata in un sacchetto di plastica, per essere esaminata meglio.

La sorpresa che si disegnò sui loro volti e il modo in cui si bloccarono di colpo rivelarono a Patrik che era successo qualcosa di inaspettato.

«Cosa c'è?»

«Non ci crederete, ma qui ci sono delle ossa. E due teschi. Potrebbe benissimo trattarsi di due scheletri.»

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Pagina 60

Il ragazzino brufoloso davanti a lui era il ritratto della letargia. Aveva lo sconforto disegnato nei lineamenti del viso e ormai dovevano essere passati anni dall'ultima volta che la vita gli era sembrata degna di essere vissuta. Jacob riconobbe al volo i sintomi e non poté fare a meno di raccogliere la sfida. Sapeva di avere la capacità di indirizzarlo su un binario completamente diverso, e la possibilità di riuscirci dipendeva unicamente dal fatto che il ragazzo stesso nutrisse o meno il desiderio di essere riportato sulla retta via.

Nella comunità di fedeli il lavoro che Jacob portava avanti con i giovani era conosciuto e rispettato. Erano state molte le anime spezzate entrate lì per uscirne trasformate in cittadini produttivi e reinseriti a tutti gli effetti nella società. Tuttavia, dato che non si poteva contare più di tanto sui finanziamenti statali, all'esterno il carattere religioso della comunità veniva sfumato. C'erano sempre persone prive di fede pronte a gridare alla setta appena qualcosa si allontanava dal significato che nei loro rigidi schemi aveva la parola "religione".

Gran parte del rispetto di cui godeva se l'era conquistato grazie ai propri meriti, ma non poteva negare che qualcosa era anche da ascrivere al fatto che il suo nonno paterno era Ephraim Hult, il Predicatore. Non aveva fatto parte della stessa congregazione, ma sulla costa del Bohuslän la sua fama era talmente diffusa da essere riconosciuta in tutti i gruppi nonconformisti. Naturalmente la chiesa di stato, chiusa com'era, considerava il Predicatore un ciarlatano, ma lo facevano anche tutti quei predicatori che si limitavano a pronunciare il sermone della domenica davanti a file di banchi vuoti, quindi non era una cosa a cui i gruppi cristiani più indipendenti dessero un gran peso.

Erano dieci anni che il lavoro con i disadattati e i tossicodipendenti riempiva la vita di Jacob. Ma ultimamente non gli dava più lo stesso senso di appagamento di un tempo. Pur avendo contribuito di persona a mettere in piedi la comunità di Bullaren, sentiva che il lavoro non bastava più a riempire il vuoto con cui conviveva dalla nascita. Gli mancava qualcosa, e la ricerca di questo qualcosa lo spaventava. Dopo anni in cui gli era sembrato di poggiare su un terreno solido ora lo sentiva ondeggiare sotto i piedi in maniera preoccupante, e il pensiero del baratro che avrebbe potuto aprirglisi davanti per inghiottirlo tutto intero, anima e corpo, lo atterriva. Quante volte, forte delle sue certezze, aveva predicato in tono saccente che il dubbio è il principale strumento del diavolo, senza sapere che un giorno si sarebbe trovato lui stesso in quella condizione!

Si alzò e girò le spalle al ragazzo. Si mise a guardare dalla finestra rivolta verso il lago, vedendo però solo il proprio riflesso nel vetro. Un uomo forte e sano, pensò amaramente. I capelli scuri erano molto corti. Glieli tagliava Marita, ed era davvero brava. Il viso era ben disegnato, con lineamenti fini ma non per questo meno virili. Non era né magro né particolarmente grosso: rispondeva perfettamente alla definizione di "corporatura normale". Il suo pezzo forte erano però gli occhi, di un azzurro intenso, dotati della capacità quasi unica di apparire contemporaneamente miti e penetranti. Occhi che l'avevano aiutato a riportare molte persone sulla retta via. Lo sapeva, e li sfruttava.

Non quel giorno, però. I suoi demoni privati gli impedivano di concentrarsi sui problemi di qualcun altro, e comunque gli risultava meno difficile assorbire quello che gli diceva il ragazzo se non era costretto a fissarlo. Distolse lo sguardo dalla propria immagine riflessa e lo spostò sul lago e sui boschi che gli si aprivano intorno per chilometri, e chilometri. Faceva così caldo che vedeva l'aria vibrare al di sopra della distesa d'acqua. La grande fattoria era costata poco, visto lo stato in cui versava dopo anni di mancata manutenzione, e solo grazie a moltissime ore di lavoro comune erano riusciti a ristrutturarla trasformandola in quello che era adesso. Niente di lussuoso, ma le costruzioni erano state rinfrescate, pulite e rese accoglienti. I rappresentanti del comune restavano sempre molto colpiti dall'edificio principale e dalla splendida area intorno e facevano lunghe tirate sugli effetti positivi che potevano esercitare su dei poveri ragazzi disadattati. Fino a quel momento non avevano mai avuto problemi con i finanziamenti, e nei dieci anni trascorsi da quando aveva aperto la comunità l'attività era sempre proseguita senza intoppi. Dunque il problema era solo nella sua testa. O forse era l'anima?

Poteva essere stata la pressione della quotidianità a dargli una spinta nella direzione sbagliata quando si era trovato a un bivio determinante. Non aveva avuto il minimo dubbio sul fatto di accogliere in casa propria la sorella. Chi, se non lui, poteva essere in grado di lenire la sua irrequietezza interiore e calmare il suo temperamento ribelle? Invece lei gli si era dimostrata superiore, in quella lotta psicologica, e mentre l'ego di Linda si rafforzava di giorno in giorno lui sentiva che il costante senso d'irritazione minava le fondamenta di tutto il suo essere. A volte si sorprendeva a pensare, le mani chiuse a pugno, che quella era solo una ragazzina stupida e sciocca che meritava che la famiglia ritirasse la propria mano protettiva dalla sua testa. Ma non era un modo cristiano di ragionare, e quei pensieri non portavano che a lunghe ore di esami di coscienza e appassionati studi biblici nella speranza di trovare la forza che gli serviva.

Visto dall'esterno era ancora una roccia, la serenità e la fiducia fatte persona. Jacob sapeva che i ragazzi che aveva intorno avevano bisogno di trovare in lui qualcuno a cui potersi comunque appoggiare e non era ancora pronto a sacrificare quell'immagine di sé. Anche dopo avere sconfitto la malattia che per un lungo periodo aveva imperversato nel suo corpo, aveva continuato a lottare per non perdere il controllo sull'esistenza. Ma il mero sforzo di mantenere una facciata impeccabile stava consumando le sue ultime risorse, e il baratro si avvicinava a grandi passi. Di nuovo rifletté sull'ironia insita nel fatto che, dopo tanti anni, il cerchio si stava chiudendo. La notizia l'aveva indotto, per un secondo, a fare ciò che non si doveva fare: dubitare. Era durato solo un istante, ma il dubbio aveva aperto una piccolissima crepa nel robusto pilastro che teneva in piedi la sua vita, e quella crepa si stava allargando sempre di più.

Jacob scacciò quei pensieri e si costrinse a concentrarsi sul ragazzo che aveva davanti e sulla sua miserevole vita. Le domande gli vennero fuori automaticamente, così come il sorriso empatico che riservava alle nuove pecore nere che si univano al gregge.

Un altro giorno. Un altro essere umano a pezzi da rimettere insieme. Non finiva mai. Eppure perfino Dio aveva potuto riposare, il settimo giorno.

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Pagina 141

Laine aveva paura del buio. Una paura terribile. Nonostante tutte le notti passate alla tenuta senza Gabriel, non si era mai abituata. Prima, se non altro, aveva con sé Linda, e prima ancora Jacob, ma adesso era completamente sola. Sapeva che Gabriel doveva viaggiare per lavoro, ma non poteva fare a meno di sentirsi amareggiata. Non era quella la vita che sognava quando si era sposata e aveva acquisito beni e ricchezze. Non che i soldi in sé fossero poi così importanti: era stato il senso di sicurezza ad attirarla. La sicurezza derivante dalla prevedibilità di Gabriel e quella rappresentata dal conto in banca. Voleva una vita completamente diversa da quella di sua madre.

Da bambina aveva vissuto nel terrore della furia che si scatenava in suo padre quando era ubriaco. Aveva tiranneggiato tutta la famiglia trasformando i figli in persone insicure, assetate di affetto e di amore. Adesso era rimasta solo lei. Sia il fratello che la sorella avevano finito per soccombere alle tenebre che avevano dentro, il primo rivolgendole contro di sé, la seconda contro l'esterno. Quanto a lei, era la figlia di mezzo, né carne né pesce. Solo debole. Non forte abbastanza da riuscire a esprimere la propria insicurezza: l'aveva semplicemente lasciata covare per tutti quegli anni.

Ed eccola risvegliarsi, più palpabile che mai, quando vagava da sola, la sera, per le stanze silenziose. Era allora che tornavano a farsi nitidi i ricordi dell'alito pesante, dei colpi e delle carezze che la tormentavano la notte.

Quando si era sposata con Gabriel pensava davvero di aver trovato la chiave per aprire lo scrigno buio che aveva nel petto. Ma non era una stupida: sapeva benissimo di essere un premio di consolazione. Una che lui aveva preso in mancanza di quella che avrebbe voluto veramente. Ma non importava. In un certo senso era più facile così. Niente emozioni che potessero increspare quella superficie liscia. Solo noiosa prevedibilità in una catena infinita di giorni che si susseguivano uno dopo l'altro. Era l'unica cosa che pensava di desiderare.

Trentacinque anni dopo, sapeva quanto si era sbagliata. Non c'era nulla di peggio della solitudine nella vita a due, e pronunciando il suo sì nella chiesa di Fjällbacka era proprio questo che aveva conquistato. Avevano vissuto due vite parallele, occupandosi della tenuta, educando i figli e parlando del tempo in mancanza di altri argomenti di conversazione.

Solo lei sapeva che dentro Gabriel si celava un uomo diverso da quello che mostrava quotidianamente al mondo circostante. Nel corso degli anni l'aveva osservato e studiato di nascosto, imparando un po' alla volta a conoscere l'uomo che sarebbe potuto essere. Si era sorpresa rendendosi conto della forza del desiderio che quella scoperta aveva risvegliato in lei. Quell'uomo era sepolto talmente in profondità che era convinta che neanche lui lo conoscesse, eppure sotto quella superficie noiosa e controllata si nascondeva la passione. Laine vedeva un'immensa rabbia accumulata, ma sapeva che c'era anche altrettanto amore. Se solo fosse riuscita a farglielo esprimere.

Neanche durante la malattia di Jacob si erano avvicinati. Uno di fianco all'altra, erano rimasti a vegliarlo accanto a quello che pensavano sarebbe stato il suo letto di morte, ma senza riuscire a consolarsi a vicenda. E spesso aveva avuto la sensazione che lui non la volesse nemmeno vicina.

Gran parte del carattere introverso di Gabriel era da imputare a suo padre. Ephraim Hult era un uomo dotato di una forte personalità, che faceva sì che tutti coloro che venivano a contatto con lui si dividessero in due fazioni: amici e nemici. Nessuno restava indifferente al Predicatore, e Laine capiva che doveva essere stato difficile crescere all'ombra di un uomo del genere. I suoi figli non sarebbero potuti essere più diversi. Johannes era stato un bambinone per tutta la sua breve vita, un gaudente che prendeva quello che voleva e non si fermava mai a considerare le tracce del caos che lasciava dietro di sé. Gabriel aveva scelto di voltarsi dalla parte opposta. Lei sapeva quanto si vergognava del padre e di Johannes, dei loro gesti enfatici, della loro capacità di attirarsi addosso tutti gli sguardi in ogni situazione. Quanto a lui, desiderava sparire in un anonimato che chiarisse una volta per tutte che non aveva nulla in comune con suo padre. Gabriel aspirava alla rispettabilità, all'ordine e alla giustizia più che a ogni altra cosa. Dell'infanzia e degli anni passati a viaggiare insieme a Ephraim e Johannes non parlava mai. Ma lei sapeva parecchio, e capiva quanto fosse importante per il marito nascondere quella parte del suo passato, che strideva in modo così acuto con l'immagine di sé che voleva mostrare all'esterno. Il fatto che fosse stato Ephraim a salvare Jacob e a restituirlo alla vita aveva scatenato in lui emozioni contrastanti. La gioia di aver trovato un modo per sconfiggere la malattia era stata intorbidita dalla consapevolezza che il cavaliere accorso in aiuto a Jacob con l'armatura scintillante era il padre e non lui. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di essere un eroe per suo figlio.

Laine fu interrotta nel suo rimuginare da un rumore proveniente dall'esterno. Con la coda dell'occhio vide prima un'ombra e poi un'altra attraversare rapidamente il giardino. La paura l'attanagliò. Cercò il telefono portatile e prima di trovarlo, al suo posto, in carica, si era già fatta prendere dal panico. Con dita tremanti compose il numero del cellulare di Gabriel. Qualcosa batté sulla finestra e lei cacciò un urlo. Il vetro era stato mandato in frantumi da un sasso, che ora si trovava sul pavimento in mezzo alle schegge. Un secondo sasso spaccò il vetro di fianco. Laine corse singhiozzando fuori dalla stanza e su per la scala e si chiuse in bagno, aspettando, tesissima, di sentir rispondere Gabriel. Ma quella che udì era una monotona voce registrata. Mentre gli lasciava un messaggio sconclusionato si accorse da sola del panico che trapelava dalla sua voce.

Poi si sedette tremando sul pavimento con le braccia strette intorno alle gambe e le orecchie tese ad ascoltare i rumori oltre la porta. Non sentiva più niente, ma non osò muoversi di lì.

Quando arrivò la mattina, era ancora seduta in bagno.

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