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| << | < | > | >> |Pagina 9La casa era deserta, vuota. Il gelo penetrava in ogni recesso. Nella vasca si era formata una sottile pellicola di ghiaccio, e lei aveva cominciato ad assumere un aspetto leggermente bluastro.Gli parve che somigliasse a una principessa, lì stesa. Una principessa di ghiaccio. Il pavimento su cui stava seduto era gelido, ma il freddo lo lasciava indifferente. Allungò la mano e la sfiorò. Il sangue sui polsi si era seccato da tempo. L'amore che provava per lei non era mai stato così intenso. Le accarezzò il braccio, come se accarezzasse l'anima che aveva ormai lasciato quel corpo. Andandosene, non si voltò. Non era un addio, ma un arrivederci. | << | < | > | >> |Pagina 11Eilert Berg non era una persona felice. Il fiato bianco che gli usciva a sbuffi dalla bocca indicava che respirare gli costava un certo sforzo, ma il suo problema principale non era la salute.Svea era bellissima, da giovane, tanto che Eilert aveva fatto fatica a dominarsi fino alla fatidica prima notte di nozze. E lei pareva remissiva, gentile e un po' timida. Ma la sua vera natura era emersa dopo un periodo di passione giovanile durato decisamente troppo poco. Ormai erano quasi cinquant'anni che lo teneva nel suo pugno di ferro. Eilert però aveva un segreto. Per la prima volta intravedeva la possibilità di conquistarsi, nell'autunno dell'esistenza, un po' di libertà, e non aveva intenzione di lasciarsela scappare. Per tutta la vita si era sfiancato con la pesca, e le entrate erano bastate giusto giusto per mantenere Svea e i figli. Da quando poi aveva smesso di lavorare, avevano dovuto vivere della sua magra pensione. Senza un po' di soldi in tasca, non avrebbe avuto modo di rifarsi una vita altrove, da solo. Quella possibilità invece era giunta come un dono del cielo, e oltretutto era di una semplicità al limite del ridicolo. Ma se qualcuno era disposto a pagare una cifra esorbitante per un'oretta di lavoro alla settimana erano fatti suoi. Lui non se ne sarebbe certo lamentato. Nel giro di un solo anno le banconote nella cassetta di legno dietro il compost erano arrivate a formare un discreto gruzzolo, e tra poco gli avrebbero permesso di partire per latitudini più calde. Si fermò a prendere fiato lungo la ripida salita e si massaggiò le mani indolenzite dai reumatismi. La Spagna o forse la Grecia sarebbero state in grado di sciogliere quel gelo che veniva da dentro. Eilert calcolava di avere davanti almeno una decina d'anni prima di andare all'altro mondo, e aveva tutta l'intenzione di sfruttarli al massimo. Quindi, col cavolo che li avrebbe passati con quella befana che aveva a casa. La passeggiata alle prime luci dell'alba era da tempo il suo unico momento di calma, e in più gli dava l'occasione di fare quel po' di movimento di cui aveva sicuramente bisogno. Seguiva sempre lo stesso percorso, e chi conosceva le sue abitudini usciva spesso a scambiare due parole con lui. Un particolare piacere gli derivava dalle brevi chiacchierate con la bella ragazza della casa in cima alla salita che portava alla Håkebackenskola. Era lì esclusivamente nei fine settimana, sempre da sola, ma si concedeva volentieri qualche minuto per parlare del più e del meno. Tra l'altro la signora Alexandra era anche interessata alla Fjällbacka di un tempo, un argomento che Eilert affrontava volentieri. E poi, a guardarla c'era da rifarsi gli occhi: pur essendo vecchio, se ne intendeva ancora. Certo, si era spettegolato parecchio su di lei, ma se si fosse dato ascolto alle chiacchiere delle comari non sarebbe rimasto tempo per fare altro. Poco più di un anno prima gli aveva chiesto se gli andava l'idea di fare una capatina a casa sua ogni venerdì mattina, visto che comunque passava di lì. L'edificio era vecchio e sia la caldaia che le tubature erano inaffidabili, non le avrebbe fatto piacere trovare le stanze gelide arrivando per il fine settimana. Gli avrebbe dato la chiave in modo che potesse entrare e controllare che fosse tutto a posto. Nella zona c'erano stati diversi furti con scasso, quindi avrebbe dovuto accertarsi anche che non ci fossero state effrazioni. L'incarico non goivaera parso va nella pesante, e una volta al mese quando passava trovava nella cassetta della posta un busta per lui contenente quella che ai suoi occhi era una somma principesca. Oltretutto gli piaceva sentirsi utile in qualche modo. Era difficile stare con le mani in mano, dopo avere passato una vita intera a lavorare. Quel giorno, quando lo aprì spingendolo in dentro sul vialetto d'ingresso, il cancello sbilenco protestò. La neve non era stata spalata ed Eilert pensò che la signora Alexandra avrebbe dovuto chiedere aiuto a uno dei ragazzi. Non era un lavoro da donne, quello. Armeggiò con la chiave, stando ben attento a non lasciarla cadere nella neve alta. Se fosse stato costretto a inginocchiarsi, non sarebbe più riuscito a tirarsi su. I gradini della verandina erano ghiacciati e scivolosi, ma per fortuna c'era il corrimano. Eilert stava per infilare la chiave nella toppa quando si accorse che la porta era socchiusa. Perplesso, l'aprì ed entrò nell'ingresso. «C'è qualcuno in casa?» Possibile che la signora Alexandra fosse arrivata prima del previsto? Non rispose nessuno. Eilert vide il respiro condensato uscire dalla bocca e si rese improvvisamente conto che la casa era gelida. D'un tratto non seppe che pesci pigliare. Qualcosa non andava, e non sembrava che si trattasse solo di una caldaia rotta. Attraversò l'ingresso. Non era stato toccato niente. La casa era in ordine come al solito. Videoregistratore e televisore erano al loro posto. Dopo avere passato in rassegna tutto il pianterreno, Eilert imboccò la scala per salire a quello superiore. Era ripida, tanto che dovette tenersi al corrimano. Una volta di sopra, andò prima di tutto in camera da letto. Era una stanza femminile, ma di buon gusto e in ordine come il resto della casa. Ai piedi del letto, rifatto, c'era una valigia ancora chiusa. D'un tratto si sentì vagamente stupido. Forse era arrivata un po' prima del solito, si era accorta del guasto alla caldaia ed era uscita a cercare qualcuno che potesse ripararla. No, non credeva neanche lui alla propria spiegazione. Qualcosa non andava: lo sentiva nelle giunture, come a volte percepiva l'avvicinarsi di una tempesta. Proseguì cauto il suo sopralluogo. La stanza successiva era una grande mansarda con il tetto spiovente e le travi di legno. Ai lati di un camino, due divani uno davanti all'altro. Alcuni giornali sparsi sul tavolino, per il resto tutto al suo posto. Tornò al piano inferiore. Anche lì gli parve di non notare niente fuori dal normale. L'unica stanza rimasta era il bagno. Qualcosa lo indusse a esitare prima di aprire la porta. Regnava ancora il silenzio più assoluto. Rimase lì, incerto, ma poi si rese conto di essere ridicolo e spinse deciso la porta.
Qualche secondo dopo stava correndo verso l'ingresso
alla massima velocità consentitagli dall'età. All'ultimo momento si ricordò che
i gradini erano scivolosi e si afferrò
al corrimano un attimo prima di precipitare a capofitto.
Arrancò nella neve lungo il vialetto e imprecò contro il
cancello che non voleva aprirsi. Una volta sul marciapiede si fermò, spaesato.
Poco più giù, lungo la salita, vide
avvicinarsi a passo veloce una figura, e subito dopo riconobbe la figlia di
Tore, Erica. La chiamò, gridandole di fermarsi.
Era stanca. Stanca da morire. Erica Falck spense il computer e andò in cucina a riempirsi di caffè la tazza per la seconda volta. Si sentiva sotto pressione su tutti i fronti. L'editore voleva una prima bozza del libro entro agosto e lei aveva appena cominciato. Il libro su Selma Lagerlöf, la sua quinta biografia su una scrittrice svedese, doveva essere il migliore di tutti, ma Erica aveva esaurito la voglia di scrivere. Sebbene fosse trascorso più di un mese dalla morte dei suoi genitori, il dolore era ancora palpabile come il giorno in cui le era stata data la notizia. Oltretutto, sgombrare la casa della sua infanzia si era rivelato un compito molto meno facile di quanto avesse sperato. Tutto risvegliava in lei ricordi. Ogni scatolone che preparava richiedeva ore di lavoro: qualsiasi oggetto le capitasse tra le mani le riversava addosso immagini di una vita che a tratti le pareva vicinissima e a tratti incredibilmente lontana. Ma era giusto che ci mettesse il tempo che ci voleva. Per il momento aveva subaffittato l'appartamento a Stoccolma: poteva benissimo scrivere lì, nella casa dei genitori a Fjällbacka. Era ai margini del paese, nella frazione di Sälvik, dove regnavano pace e tranquillità. Erica si sedette nella veranda e spaziò con lo sguardo sull'arcipelago. Il panorama non smetteva mai di toglierle il respiro. Ogni cambio di stagione portava con sé un nuovo spettacolare scenario, e quel giorno sfoggiava un sole accecante che proiettava sul ghiaccio spesso una cascata di bagliori. Suo padre avrebbe adorato una giornata come quella. La gola le si chiuse e l'aria le parve improvvisamente soffocante. Decise di fare una passeggiata. Dato che il termometro segnava meno quindici si coprì bene, uno strato dopo l'altro. Quando si ritrovò fuori dalla porta rabbrividi ugualmente, ma le bastò percorrere un breve tratto a passo sostenuto per scaldarsi. Fuori regnava una pace rigenerante. In giro non c'era nessuno. L'unico rumore che sentiva era quello del suo respiro. Il contrasto con i mesi estivi, quando il paesino brulicava di vita, era netto. Erica preferiva restare alla larga nel periodo delle ferie. Pur sapendo benissimo che la sopravvivenza della comunità dipendeva dal turismo, non riusciva a scuotersi di dosso la sensazione che ogni estate Fjällbacka venisse invasa da un gigantesco sciame di cavallette, un mostro dalle tante teste che lentamente, un anno dopo l'altro, fagocitava il vecchio paesino di pescatori acquistando case vicino al mare e trasformandolo in un villaggio fantasma per nove mesi all'anno. Per secoli la pesca aveva rappresentato per Fjällbacka l'unico mezzo di sostentamento. Le asperità dell'ambiente e la continua lotta per la sopravvivenza in cui tutto dipendeva dagli spostamenti dei banchi di aringhe avevano forgiato una popolazione temprata e forte. Ma da quando Fjällbacka, a mano a mano che la pesca perdeva la sua importanza come fonte di reddito, era diventata un luogo pittoresco che attirava turisti dai portafogli gonfi, a Erica sembrava che i residenti camminassero con la schiena sempre più curva. I giovani si trasferivano e i vecchi sognavano i tempi andati. Lei stessa era una dei tanti che avevano scelto di andarsene. Accelerò ulteriormente l'andatura e svoltò a sinistra verso la salita che portava alla Håkebackenskola. Avvicinandosi alla cima, sentì Eilert Berg che le gridava qualcosa, ma non riuscì a distinguere le parole. Agitava le braccia e le andava incontro.
«È morta!»
Eilert aveva íl respiro corto e affannoso, e dal petto gli usciva un fischio preoccupante. «Si calmi, Eilert! Cos'è successo?» «È là dentro, è morta!» Stava indicando la grande casa di legno verniciata d'azzurro in cima alla salita, guardandola implorante. Erica impiegò qualche secondo a registrare le parole, ma quando le si furono impresse nella coscienza spinse il cancello recalcitrante e avanzò arrancando nella neve fino alla porta d'ingresso. Il vecchio l'aveva lasciata aperta ed Erica oltrepassò cauta la soglia, chiedendosi cosa doveva aspettarsi di trovare. Per qualche motivo non aveva pensato di chiederlo a lui. Eilert la seguì esitante, indicando con un gesto muto il bagno. Erica evitò mosse precipitose. Si girò verso il vecchio e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Era pallido, e la voce gli s'incrinò. «Lì dentro.» Era passato un sacco di tempo dall'ultima volta che Erica aveva messo piede in quella casa, ma la conosceva e sapeva da che parte si trovava il bagno. Rabbrividì, nonostante fosse ben coperta. La porta si aprì lentamente e lei entrò. Non sapeva esattamente cosa si fosse aspettata di trovare, ma non era preparata al sangue. Il bagno era piastrellato di bianco e l'effetto del sangue dentro la vasca e tutt'intorno risultava tanto più intenso. Per un brevissimo istante fu colpita dalla bellezza di quel contrasto, ma subito si rese conto che quello che si trovava immerso nell'acqua era un essere umano. Nonostante il biancore innaturale e le sfumature bluastre della pelle, la riconobbe subito: era Alexandra Wijkner, nata Carlgren, figlia dei proprietari della casa in cui si trovavano in quel momento. Da piccole erano state amiche del cuore, ma le sembrava che fosse passata una vita. In quel momento la donna nella vasca le pareva un'estranea. Gli occhi del cadavere erano misericordiosamente chiusi, ma le labbra erano di un blu intenso. Sul corpo si era formata una sottile crosta di ghiaccio che ne nascondeva completamente la parte inferiore. Il braccio destro pendeva, floscio e striato di rosso, fuori dalla vasca, con le dita immerse nella pozza di sangue rappreso sul pavimento. Lì vicino, una lametta da barba. L'altro braccio si vedeva solo dal gomito in su, il resto era nascosto dal ghiaccio. Anche le ginocchia spuntavano dalla superficie congelata. I capelli lunghi e chiari di Alex erano sparsi a ventaglio sul bordo della vasca, ma in quel gelo avevano un'aria fragile, quasi fossero fatti di ghiaccio.
Erica rimase a lungo a guardarla, rabbrividendo di
freddo e del senso di solitudine irradiato da quella scena
macabra. Poi, lentamente, uscì dalla stanza camminando
all'indietro.
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