|
|
| << | < | > | >> |Pagina 7La pesca dell'aragosta non era più quella di una volta, praticata da pescatori professionisti abituati al duro lavoro. Adesso anche i villeggianti estivi pescavano i grossi crostacei neri per divertimento, una settimana l'anno. Senza attenersi alle norme. Ne aveva viste di tutti i colori, negli anni: spazzole tirate fuori senza farsi notare per staccare dalle femmine le uova in modo da farle sembrare in regola, nasse svuotate da altri e una volta perfino da un sub. Si chiedeva dove si sarebbe andati a finire e se tra i pescatori non ci fosse più alcun senso dell'onore. In un'occasione, al posto delle aragoste sparite, aveva tirato su una bottiglia di cognac. Quel ladro aveva dimostrato di avere, se non il senso dell'onore, quello dell'umorismo.Frans Bengtsson fece un profondo sospiro, ma si rasserenò accorgendosi che già nella prima nassa c'erano due begli esemplari. Aveva occhio, sapeva dove sistemare le nasse da un anno all'altro. Tre nasse più tardi aveva a bordo un bel mucchietto di preziosi crostacei. A essere sincero non capiva perché si vendessero a prezzi così astronomici. Non che gli facessero schifo, ma potendo scegliere preferiva mangiare aringhe, per cena. Erano più buone e non c'era confronto quanto a rapporto qualità prezzo. Ma le entrate che registrava in quell'epoca dell'anno grazie alla pesca delle aragoste servivano ad arrotondare la pensione, ed erano più che benvenute. L'ultima nassa non voleva salire, e Frans appoggiò il piede sul bordo della barca per fare forza. Sentì che la resistenza diminuiva, e sperò che non fosse danneggiata. Si sporse per vedere in che stato era, ma non fu la nassa a spuntare: una mano bianca ruppe la superficie agitata del mare e per un attimo sembrò indicare il cielo. Il primo impulso fu di mollare la presa e lasciare che quella cosa, qualsiasi cosa fosse, risprofondasse nell'abisso insieme alla nassa, ma poi fu l'esperienza ad avere la meglio, e Frans ricominciò a tirare. Aveva ancora molta forza, ma per issare a bordo il macabro bottino dovette mettercela tutta. Perse la testa solo quando il pallido corpo bagnato cadde inanimato sul pagliolo con un tonfo. Quella che aveva tirato su dall'acqua era una bambina, con i lunghi capelli incollati al viso e le labbra blu come gli occhi, che fissavano il cielo senza vederlo.
Frans Bengtsson si sporse oltre il bordo e vomitò.
Patrik era più stanco di quanto non avesse mai pensato di poter essere. Ogni illusione sui lunghi sonni dei neonati si era frantumata nel corso degli ultimi due mesi. Si passò le mani sui corti capelli scuri, riuscendo soltanto a peggiorare la situazione. E se era stanco lui, non poteva neanche immaginare come doveva sentirsi Erica. Se non altro lui si risparmiava le poppate notturne. Era piuttosto preoccupato: non ricordava di averla vista sorridere da quando erano usciti dal reparto maternità, e sotto gli occhi aveva dei grossi cerchi scuri. Quando le leggeva la disperazione nello sguardo, la mattina, gli era difficile lasciarla lì con Maja, ma allo stesso tempo era un grande sollievo rifugiarsi nel familiare mondo degli adulti. Amava Maja sopra ogni cosa, ma ritrovarsi in casa un neonato era come entrare in un universo estraneo e sconosciuto, con tensioni sempre nuove appostate dietro ogni angolo. Perché non dorme? Perché piange? Ha troppo caldo? Ha troppo freddo? Non le sono venuti degli strani puntini? Se non altro, i delinquenti adulti gli erano familiari, e con loro sapeva come muoversi. Fissò senza vederle le carte che aveva davanti, cercando di spazzare via dal cervello le ragnatele almeno quel tanto che serviva per continuare a lavorare. Lo squillo del telefono lo fece saltare sulla sedia, e prima che si decidesse a rispondere ne arrivarono altri due. «Patrik Hedström.» Dieci minuti dopo strappò la giacca dal gancio accanto alla porta, corse nell'ufficio di Martin Molin e disse: «Martin, un tizio che stava svuotando le nasse per le aragoste ha tirato su un cadavere.» «Dove?» Martin sembrava confuso. La tragicità di quella notizia aveva interrotto di colpo il tran tran del lunedì mattina alla stazione di polizia di Tanumshede. «Al largo di Fjällbacka. Ha attraccato al pontile di Ingrid Bergmans Torg. Muoviamoci. L'ambulanza è già partita.» Martin non se lo fece ripetere. Prese anche lui la giacca, necessaria in quel poco clemente ottobre, e seguì Patrik. Il tragitto fino a Fjällbacka durò poco, quando le gomme sfioravano il ciglio della strada nelle curve più strette Martin doveva aggrapparsi alla maniglia sopra il finestrino. «Annegamento?» chiese. «Come faccio a saperlo?» sbottò Patrík, pentendosi subito del tono rabbioso. «Scusami, è che non dormo abbastanza.» «Tranquillo» rispose Martin. Considerando l'aspetto stravolto del collega nelle ultime settimane, lo scusava più che volentieri. «Sappiamo soltanto che è stata trovata un'ora fa e che a sentire il pescatore non poteva essere in acqua da molto tempo, ma tra poco lo vedremo con i nostri occhi» disse Patrik mentre imboccavano Galärbacken in direzione del pontile, dove era attraccata una barca di legno. «Hai detto trovata?» «Sì. È una femmina. Una bambina.» «Oh, cazzo» mormorò Martin, pentendosi di non essere rimasto a casa, a letto con Pia, invece di andare al lavoro. Parcheggiarono all'altezza del Café Bryggan e si affrettarono verso la barca. Incredibilmente, nessuno si era ancora accorto dell'accaduto e non ci fu bisogno di allontanare i curiosi. «È lì» disse l'uomo che veniva loro incontro lungo il pontile. «Non ho voluto toccarla più del necessario.» Patrik riconobbe senza difficoltà il pallore sul viso dell'uomo. L'aveva visto sul proprio ogni volta che era stato costretto a guardare un corpo privo di vita. «Dove l'ha tirata su?» chiese, rimandando di qualche secondo, con quella domanda, il confronto con la piccola. Ancora non l'aveva vista e già sentiva uno sgradevole rimescolamento nello stomaco. «Dalle parti di Porsholmen, a sud dell'isolotto. Era nell'ultima nassa che ho tirato su. Altrimenti sarebbe passato un bel pezzo prima di trovarla. E se le correnti l'avessero portata al largo, non sarebbe mai tornata a riva.» Il fatto che il vecchio conoscesse bene gli effetti del mare su un cadavere non sorprese affatto Patrik. Tutti quelli della vecchia guardia sapevano che il corpo prima sprofondava, poi risaliva in superficie via via che si riempiva di gas, poi si inabissava definitivamente. Un tempo quello dell'annegamento era un rischio quanto mai concreto per un pescatore e Frans aveva sicuramente partecipato, nella sua vita, alle ricerche di colleghi sfortunati. A conferma del ragionamento di Patrik, il vecchio disse: «Non doveva essere in acqua da molto. Non galleggiava ancora.» Patrik annuì. «Sì, me l'aveva detto al telefono. Be', è meglio che diamo un'occhiata.» Si avviò lentamente insieme a Martin. Solo quando ebbero raggiunto l'estremità del pontile riuscirono a scorgere il corpo sul pagliolo. Quando il pescatore l'aveva issata a bordo, la bambina era finita a pancia in giù, e non si vedeva altro che una massa di capelli bagnati e spettinati. «Tra poco sarà qui l'ambulanza. La gireranno loro.» Martin annuì debolmente. Le lentiggini e i capelli rossi risaltavano più del solito sul viso bianco, e si vedeva che stava cercando di controllare la nausea. Il grigiore del cielo e il vento che aveva cominciato a sferzare il pontile creavano un'atmosfera cupa. Patrik fece un cenno con la mano in direzione degli uomini che, senza troppa fretta, stavano scaricando la barella. «Annegamento?» chiese il primo dei due, accennando con la testa alla barca. «Così sembrerebbe» rispose Patrik. «Ma sarà l'autopsia a stabilirlo. Comunque, non c'è niente da fare per lei, se non portarla via.» «Già, ce l'hanno detto» disse l'uomo. «Tiriamola su.» Patrik annuì. I casi in cui erano coinvolti dei bambini erano sempre stati i peggiori per lui, ma da quando aveva avuto Maja il disagio era diventato mille volte più intenso. Gli si spezzava il cuore al pensiero del compito che li attendeva. Non appena fosse stata portata a termine l'identificazione, sarebbero stati costretti a mandare in pezzi la vita dei genitori. I barellieri erano saltati nella barca e si stavano preparando a issare la bambina sul pontile. Uno dei due la girò delicatamente. I capelli bagnati si sparsero a ventaglio intorno al viso pallido, e gli occhi parvero fissare, vitrei, le nuvole grigie che si rincorrevano nel cielo. Patrik, che aveva distolto lo sguardo, lo riportò riluttante sulla bambina. Una mano gelida gli attanagliò il cuore. «Oh, no, no! Non è possibile.» Martin lo guardò sbigottito. Poi capì. «Sai chi è?» Patrik annuì, muto. | << | < | > | >> |Pagina 43Stava sfrecciando nello spazio, in caduta libera tra i pianeti e i corpi celesti che al suo passaggio diffondevano una luce tenue. Scene di sogno si mescolavano a brevi sprazzi di realtà. Nei sogni vedeva Sara. Sorrideva. Il corpicino di neonata era perfetto: bianco come alabastro, con lunghe dita sensibili. Fin dai primi istanti di vita aveva afferrato l'indice di Charlotte stringendolo come l'unica cosa che potesse tenerla ancorata a quel nuovo mondo pauroso. E forse era così: quella presa salda era stata la premonizione di una stretta ancora più salda sul suo cuore. Una stretta che, come sapeva già allora, sarebbe durata per tutta la vita.Nel suo andare attraverso la volta celeste oltrepassò il sole, il cui fulgore le ricordò il colore dei capelli di Sara, rossi come il fuoco. Rossi come il diavolo in persona, aveva detto qualcuno per scherzo, e nel sogno ricordò di non aver apprezzato la battuta. Non c'era niente di diabolico nella bambina che stringeva tra le braccia. Niente di diabolico in quei capelli rossi che prima le stavano ritti in testa come quelli di un punk ma poi si erano infoltiti e crescendo avevano preso a ricaderle morbidi sulle spalle. Ma un incubo scacciò sia la sensazione delle dita sul cuore che l'immagine dei capelli rossi che rimbalzavano sulle spalle magre quando Sara saltellava piena di vita. Vide invece i capelli sparsi nell'acqua intorno alla testa della bambina come un'aureola deformata. Ondeggiavano, e sotto si vedevano lunghe braccia verdi di alghe che sembravano tendersi per afferrarli. Anche il mare si era compiaciuto alla vista dei capelli di sua figlia, pretendendoli per sé. Nell'incubo vide il biancore alabastrino incupirsi fino a diventare blu e viola, gli occhi chiusi e morti. Lentamente, la bambina cominciò a ruotare nell'acqua, con le dita dei piedi puntate verso il cielo e le mani allacciate sul ventre. Poi la velocità aumentò e quando nell'acqua grigia intorno a lei si formarono le onde le braccia verdi si ritrassero e la bambina spalancò gli occhi. Erano bianchi, completamente bianchi. Il grido che la svegliò sembrava venire dal baratro. Solo quando si sentì scuotere per le spalle dalle mani di Niclas si rese conto che la voce era la sua. Per un breve istante si sentì invadere dal sollievo. Era stato tutto un sogno. Sara stava bene, era viva, era stato solo un incubo. Poi però guardò Niclas negli occhi e la consapevolezza che ne derivò fece sì che nel petto le prendesse forma un secondo grido. Lui la prevenne attirandola a sé, e il grido si trasformò in singulti profondi e scomposti. La maglia di Niclas era bagnata, e Charlotte avvertì l'odore poco familiare delle lacrime di lui. «Sara, Sara» gemette. Pur essendo sveglia, era ancora in caduta libera nello spazio, e l'unica cosa che la tratteneva era la stretta delle braccia di Niclas intorno al corpo. «Lo so, lo so.» La cullò, la voce rotta. «Dove sei stato?» singhiozzò lei piano. Lui continuava a cullarla e le passò una mano tremante sui capelli. «Shh... Adesso sono qui. Dormi ancora un po'.» «Non ci riesco...»
«Sì che ci riesci. Shh...» La cullò ancora, finché il buio
e i sogni si chiusero nuovamente su di lei.
Durante la loro assenza la notizia si era sparsa in tutta la stazione di polizia. Era raro che morissero dei bambini, a eccezione di qualche incidente d'auto, e non c'era nulla che rendesse l'atmosfera così lugubre. Quando le passò davanti insieme a Martin, Annika rivolse a Patrik un'occhiata interrogativa, ma lui non aveva la forza di parlare e voleva solo andare nel suo ufficio e chiudere la porta. In corridoio incrociarono Ernst Lundgren, ma neanche lui disse niente, e così sia Patrik che Martin si rifugiarono rapidamente ciascuno nel proprio bugigattolo. Nella formazione di un poliziotto non erano previste lezioni che preparassero a situazioni come quella. Dare notizia della morte di un parente ai familiari rientrava tra i compiti più detestabili per chi faceva quel lavoro, ma dare a un genitore la notizia della morte di un figlio era peggio di qualsiasi altra cosa. Andava contro ogni logica e contro ogni decenza. Nessun essere umano avrebbe mai dovuto essere sottoposto a una prova del genere. Patrik si sedette alla scrivania, appoggiò la testa sulle mani e chiuse gli occhi. E li riaprì subito, perché l'immagine che gli si era incollata dietro le palpebre era quella della pelle pallida e bluastra di Sara e dei suoi occhi che fissavano il cielo senza vederlo. Prese invece la cornice che aveva sulla scrivania e se la portò vicino al viso. Era la prima foto di Maja. Stanca e frastornata, tra le braccia di Erica nel letto dell'ospedale. Bruttina e stupenda, in quel modo unico che conosce solo chi ha visto il proprio figlio per la prima volta. E poi Erica, esausta e con un sorriso pallido, ma con la schiena dritta e la fierezza di chi ha realizzato qualcosa che non può essere descritto se non come un miracolo. Patrik sapeva di essere sentimentale e patetico, ma solo quella mattina si era reso conto della responsabilità che la nascita di un figlio comportava, e insieme dell'amore e del terrore che implicava. Quando aveva visto la bambina annegata, immobile come una statua sul pagliolo della barca, per un attimo aveva desiderato che Maja non fosse mai nata. Come avrebbe potuto vivere rischiando di perderla? Rimise delicatamente a posto la cornice e si appoggiò allo schienale con le mani allacciate dietro la testa. Riprendere in mano gli incartamenti di cui si stava occupando prima della telefonata da Fjällbacka gli parve improvvisamente privo di senso. Più di ogni altra cosa avrebbe desiderato tornare a casa, andare a letto tirandosi la coperta sulla testa e restarci tutto il giorno. Un colpetto alla porta interruppe il corso dei suoi cupi pensieri. «Avanti!» Annika aprì la porta con discrezione. «Ciao Patrik, scusa se ti disturbo. Volevo solo dirti che hanno chiamato dall'unità di medicina legale per dire che hanno ricevuto il corpo e che invieranno il rapporto sull'autopsia dopodomani.» Patrik annuì stancamente. «Grazie, Annika.» Lei esitò. «La conoscevi?» «Sì, negli ultimi tempi ho visto più volte sia Sara, la bambina, che sua madre. Charlotte ed Erica si frequentano da quando è nata Maja.» «E che impressione hai? Come può essere andata?» Patrik sospirò e si mise a giocherellare con le carte che aveva davanti senza guardare Annika. «È annegata, come avrai saputo. Probabilmente stava giocando vicino all'acqua, è caduta dentro e non è più riuscita a risalire. L'acqua è gelida, quindi è probabile che la temperatura corporea sia scesa molto rapidamente. Dirlo a Charlotte è stata la cosa più orribile...» La voce gli s'incrinò, e Patrik girò la testa per impedire ad Annika di vedere che le lacrime rischiavano di traboccargli dagli occhi. Annika richiuse piano la porta, lasciandolo tranquillo. Neanche lei sarebbe riuscita a combinare granché, in una giornata così. | << | < | > | >> |Pagina 57«Non dovremmo andare a trovare Niclas?» La voce di Asta era implorante, ma nel viso di pietra del marito non c'era traccia di compassione.«Ti ho detto che non voglio più che si pronunci il suo nome in casa mia!» Arne teneva lo sguardo ostinatamente fisso sulla finestra della cucina. «Ma dopo quello che è successo alla bambina...» «È la punizione divina. Non avevo forse detto che sarebbe successo, un giorno? È colpa sua. Se mi avesse dato retta... Le persone timorate di Dio non subiscono questi castighi. E adesso non parliamone più!» concluse battendo il pugno sul tavolo. Asta sospirò. Rispettava il marito, che in genere era una persona molto avveduta, ma in questo caso si chiedeva se non sbagliasse. In cuor suo qualcosa le diceva che Dio non poteva volere che i genitori non stessero a fianco del figlio in un momento così difficile. Non aveva neanche conosciuto la piccola, ma in fondo era sempre sangue del loro sangue, e il regno dei cieli era dei bambini, così era scritto nella Bibbia. Naturalmente, però, quelle erano solo riflessioni di una donna che non contava nulla. Arne era un uomo, e di conseguenza sapeva quello che diceva. Era sempre stato così. Come tante altre volte, tenne per sé i propri pensieri e si alzò per sparecchiare. Erano passati troppi anni dall'ultima volta che aveva incontrato il figlio. Certo, adesso che lui era tornato a stare a Fjällbacka ogni tanto s'incrociavano, ma lei non si azzardava certo a fermarsi a parlare con lui. Niclas ci aveva provato, un paio di volte, ma lei aveva distolto lo sguardo e tirato dritto, come le era stato detto di fare, anche se, purtroppo, non così velocemente da non accorgersi del dolore che gli si leggeva negli occhi. Dopotutto, però, nella Bibbia era scritto che si doveva onorare il padre e la madre, e quello che era successo quel giorno, tanto tempo prima, rappresentava anche ai suoi occhi una violazione della parola di Dio. Per questo non poteva riaccoglierlo nel suo cuore. Osservò Arne, ancora con la schiena dritta come un fuso e i capelli folti, sebbene entrambi avessero superato i settant'anni. Eh già, pensò. Le ragazze gli correvano dietro quando era giovane, ma Arne non se ne curava. Quando si erano sposati lei aveva diciotto anni e, per quanto ne sapeva, lui non aveva neanche mai guardato un'altra. E in realtà l'aspetto carnale del matrimonio non l'aveva mai interessato particolarmente, ma sua madre le aveva insegnato che quella parte della vita in comune per la donna era un dovere, non un piacere, e di conseguenza Asta si riteneva fortunata di non aver dovuto rispondere a troppe aspettative. Un figlio l'avevano avuto, comunque. Un bel ragazzone biondo, che somigliava in tutto e per tutto a sua madre e ben poco al padre. Forse era quello il motivo per cui era andato tutto storto. Se si fossero somigliati, magari Arne si sarebbe affezionato di più al figlio. Invece non era stato così: il bambino era stato suo fin dall'inizio, e lei l'aveva colmato di tutto l'amore possibile. Ma non era bastato, perché il giorno in cui aveva dovuto scegliere tra lui e suo padre, lei l'aveva tradito. E come avrebbe potuto fare altrimenti? Una moglie deve stare a fianco del marito, questo le avevano insegnato quando era ancora piccolissima. Ma a volte, nei momenti più bui, quando la luce era spenta e lei stesa sul letto guardava il soffitto, arrivavano i pensieri e le domande. Possibile che una cosa che le era stata insegnata come giusta potesse sembrarle tanto sbagliata? Per questo era confortante che Arne sapesse sempre cosa si doveva fare. Le aveva detto molte volte che non c'era da fidarsi delle donne, perché non avevano buon senso, e che guidarle era compito degli uomini. Questo le dava sicurezza. Avendo avuto un padre sotto molti aspetti simile ad Arne, quello in cui erano gli uomini a decidere era l'unico mondo che conoscesse. E poi il suo Arne era così avveduto! Lo dicevano tutti. Persino il nuovo pastore aveva parlato bene di lui, ultimamente. Aveva detto che era il sacrestano più affidabile con cui avesse mai lavorato, e che Dio era sicuramente contento di avere servitori del genere. Gliel'aveva raccontato Arne quando, gonfio d'orgoglio, era tornato a casa. Non per niente era il sacrestano di Fjällbacka da vent'anni. Se non si contava il disgraziato periodo in cui la parrocchia era stata affidata a quel pastore donna, naturalmente. Erano stati anni che Asta non avrebbe voluto rivivere per nulla al mondo. Per fortuna, alla fine aveva capito di essere indesiderata e si era trasferita, lasciando il posto a un pastore come si deve. Che periodo per il suo Arne! Per la prima volta in cinquant'anni e più di matrimonio, Asta l'aveva visto con le lacrime agli occhi. L'idea di una donna sul pulpito della sua amata chiesa l'aveva quasi distrutto. Però aveva detto che Dio alla fine avrebbe cacciato i mercanti dal tempio, e come tutte le altre volte i fatti gli avevano dato ragione. Desiderava soltanto che il marito trovasse un modo per perdonare il figlio. Altrimenti, lei non sarebbe più riuscita a essere felice. Ma si rendeva anche conto che, se non lo faceva adesso, dopo quanto era successo, non c'era più speranza. Se solo avesse avuto modo di conoscere la bambina. Ma ormai era troppo tardi. | << | < | > | >> |Pagina 129Era come vivere in un mondo di ombre senza alcun collegamento con la realtà. Non aveva avuto scelta, eppure era continuamente assalita dal dubbio: aveva davvero agito nel modo giusto? Anna sapeva che nessuno avrebbe capito. Perché, dopo essere finalmente riuscita a rompere con Lucas, era tornata da lui? Perché, considerato quello che aveva fatto a Emma? La risposta era che la riteneva l'unica possibilità di sopravvivere, per lei e per i bambini. Lucas era sempre stato pericoloso, ma anche controllato. Adesso era come se dentro di lui qualcosa si fosse rotto, e l'autocontrollo aveva ceduto il passo a una follia strisciante. Non trovava altro modo per definirla: follia. C'era sempre stata, lei l'aveva sempre intuita. Forse era addirittura stata quella corrente sotterranea di potenziale pericolo ad attrarla, all'inizio. Ma adesso era emersa, e lei ne aveva una paura tremenda.Il fatto che l'avesse lasciato portandosi via i bambini non era tutto. Anche altri fattori avevano contribuito a far scattare quell'interruttore dentro di lui. Il lavoro, per esempio, in cui aveva sempre avuto grande successo. Qualche affare sbagliato e la carriera era andata a rotoli. Poco prima di tornare da lui Anna aveva trovato un suo collega, il quale le aveva raccontato che Lucas si era abbandonato a un comportamento irrazionale e aggressivo. Quando poi aveva sbattuto contro il muro un cliente importante era stato licenziato con effetto immediato. Oltretutto il cliente lo aveva denunciato, il che significava che sarebbe stata avviata una procedura a suo carico. Tutto questo la preoccupava non poco, ma era stato solo quando in sua assenza le aveva devastato l'appartamento che aveva capito di non avere scelta. Se non lo avesse assecondato le avrebbe fatto del male, o peggio, ne avrebbe fatto ai bambini. L'unico modo per mettere al sicuro Emma e Adrian era stare il più possibile vicino al nemico. Anna lo sapeva, eppure si sentiva come se fosse caduta dalla padella nella brace. Era prigioniera in casa, con un Lucas aggressivo e irrazionale come carceriere. Lui l'aveva costretta a rinunciare alla collaborazione part time con una casa d'aste di Stoccolma, lavoro che le stava dando grandi soddisfazioni, e non le permetteva di uscire di casa se non per fare la spesa e accompagnare i bambini. Non si era trovato un altro impiego e neanche ci aveva provato. Aveva dovuto lasciare l'appartamento di Östermalm, e adesso stavano in un bilocale in periferia. Ma finché non avesse picchiato i bambini, lei avrebbe sopportato qualsiasi cosa. Aveva di nuovo lividi un po' dappertutto, ma era stato come rimettersi una vecchia tuta. Aveva vissuto a quel modo per molti anni e la parentesi di libertà che aveva avuto le sembrava irreale. Faceva del suo meglio perché i bambini non si accorgessero di quello che stava succedendo. Era riuscita a convincere Lucas che dovevano continuare ad andare alla scuola materna e davanti a loro cercava di fingere che fosse tutto come al solito. Ma non era certa che ci credessero: almeno non Emma, che aveva ormai quattro anni. Era stata felice oltre ogni dire all'idea di ritrasferirsi dal papà, ma Anna l'aveva sorpresa più di una volta, negli ultimi tempi, a osservarla con occhi indagatori. E sebbene cercasse di convincersi che quella era la scelta giusta, si rendeva conto che non potevano passare il resto della vita a quel modo. Più Lucas diventava irrazionale, più lei ne aveva paura. Era sicura che un giorno o l'altro avrebbe passato il limite, e l'avrebbe uccisa. La domanda era: come sfuggirgli? Aveva valutato l'idea di chiamare Erica per chiederle aiuto, ma Lucas sorvegliava il telefono come un falco, e poi c'era qualcos'altro che la tratteneva. Si era affidata a sua sorella in tante occasioni prima di allora e per una volta sentiva di dover affrontare la situazione da sola, da adulta. Lentamente, aveva messo a punto un piano. Doveva raccogliere prove sufficienti contro Lucas così che i maltrattamenti non potessero essere messi in discussione. In quel caso, lei e i bambini avrebbero potuto rientrare in un programma di protezione. A volte era sopraffatta dalla voglia di prendere i bambini e fuggire nella più vicina casa di accoglienza per donne vittime di violenze, ma sapeva che senza prove anche quella sarebbe stata una soluzione provvisoria. Poi sarebbero dovuti tornare al loro inferno. Così, si era messa a documentare tutto. In uno dei grandi magazzini tra l'appartamento e la scuola materna c'era una cabina per le fototessere, dove si infilava per fotografare i lividi. Aggiungeva la data e nascondeva il tutto nella cornice con la foto del matrimonio. Una scelta simbolica. Presto avrebbe avuto materiale sufficiente per mettere il destino suo e dei bambini nelle mani della società. Ma fino a quel momento, avrebbe dovuto resistere. E fare in modo di sopravvivere. Quando svoltarono nel parcheggio, c'era la ricreazione. I bambini erano fuori a giocare nel vento, e imbacuccati com'erano sembravano indifferenti al freddo, mentre Patrik affrettava il passo per andare a ripararsi al più presto. Nel giro di qualche anno anche sua figlia avrebbe frequentato quella scuola. Era un'idea piacevole, tanto che riusciva a vedersi davanti Maja che saltellava con i codini biondi e senza i denti davanti, esattamente come Erica nelle foto di quando era piccola. Sperava che Maja somigliasse a sua madre. Da bambina era graziosissima, e ai suoi occhi lo era ancora. Procedendo a caso, si avvicinarono a un'aula e bussarono sulla porta aperta. La stanza era accogliente, con grandi finestre e disegni alle pareti. Dietro la cattedra era seduta una giovane insegnante, immersa nelle carte che aveva davanti. Sentendo bussare trasalì. «Sì?» Il tono era interrogativo e nonostante l'età aveva già una voce che per poco non indusse Patrik a mettersi sull'attenti o a fare un inchino. «Siamo della polizia. Cerchiamo la maestra di Sara Klinga.» Sul viso della donna si disegnò un'espressione triste. Annuì. «Sono io.» Si alzò e andò loro incontro con la mano tesa. «Beatrice Lind. Insegno in prima, seconda e terza.» Con un gesto della mano indicò che potevano accomodarsi sulle sedie dietro i banchi, e Patrik si sentì un gigante quando lo fece. La vista di Ernst che cercava di raccogliere il corpo dinoccolato lo fece sorridere. Rivolgendosi di nuovo alla maestra ricompose però immediatamente i tratti del viso e si concentrò sul motivo della visita. «È una tragedia immensa» disse Beatrice con voce tremante. «Che una bambina possa essere qui un giorno e non esserci più il giorno dopo...» Prese a tremarle anche il labbro. «E annegata, poi...» «Ecco, vede, il fatto è che non è stata una disgrazia.» Patrik pensava che lo sapesse già tutto il paese. Invece Beatrice aveva un'espressione inequivocabilmente stupita. «Ma come? Non è stato un incidente? Ma se è annegata...?» «Sara è stata uccisa» disse Patrik, accorgendosi di essere stato troppo brusco. In tono più dolce, aggiunse: «Non è stata una disgrazia e per questo abbiamo bisogno di scoprire qualcosa in più. Com'era lei, com'era la famiglia e cose del genere.» Beatrice era ancora sconvolta dalla notizia, ma stava cominciando a riflettere. Poco dopo, ricompostasi, disse: «Mah, cosa dire di Sara? Era...» esitò scegliendo le parole «... una bambina molto vivace. Nel bene e nel male. Quando era presente, non c'era un attimo di silenzio, e a essere sinceri a volte facevo fatica a tenere la classe. Era una trascinatrice e sapeva conquistare i compagni, e se non li fermavo in tempo si scatenava il caos. Allo stesso tempo...» Beatrice si fermò di nuovo quasi volesse pesare ogni parola con il bilancino «... allo stesso tempo questa energia che aveva dentro produceva una capacità particolare. Era bravissima a disegnare e in tutto ciò che aveva a che fare con la creatività e la fantasia. Era una bambina molto attiva, che si trattasse di combinare guai o di produrre qualcosa di concreto.» Agitandosi sulla sedia, Ernst disse: «Abbiamo sentito dire che soffriva di uno di quei disturbi, damp, o come si chiama.» Il tono irrispettoso che aveva usato indusse Beatrice a rivolgergli un'occhiata severa, e con soddisfazione di Patrik Ernst rimpicciolì leggermente sotto il suo sguardo. «Sì, damp. A Sara era stato diagnosticato un deficit di attenzione, controllo motorio e apprendimento. Aveva delle ore di lezione in più, visto che ormai abbiamo ottime competenze in materia e siamo in grado di dare a questi bambini ciò di cui hanno bisogno per consentire loro di raggiungere ottimi risultati.» Sembrava quasi che stesse tenendo una lezione, e Patrik capì che era una questione che le stava molto a cuore. «Come si manifestava il problema in Sara?» chiese. «Come vi ho detto. Aveva una grande energia e a volte le capitava di avere degli scatti d'ira davvero spaventosi. Ma era anche una bambina molto creativa. Non era cattiva né dispettosa né maleducata, come purtroppo molte persone che non conoscono questi disturbi dicono dei bambini che li presentano. Semplicemente, Sara faceva fatica a controllare i suoi impulsi.» «Come reagivano gli altri bambini?» Patrik era incuriosito. «In modi diversi. Alcuni non la sopportavano proprio e si tenevano in disparte, altri sembravano invece in grado di affrontare i suoi scatti e andavano abbastanza d'accordo con lei. Direi che la sua migliore amica era Frida Karlgren. Tra l'altro abitavano nella stessa zona.» «Sì, le abbiamo parlato» disse Patrik, annuendo. Cambiò posizione sulla sedia. Sentiva un fastidioso formicolio alle gambe e aveva l'impressione che stesse per venirgli un crampo al polpaccio destro. Sperava che anche Ernst non ne potesse più.
«E la famiglia?» chiese il collega. «Sa se Sara avesse
dei problemi a casa?»
|