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| << | < | > | >> |Pagina 7Sapeva che prima o poí sarebbe venuto fuori. Una cosa del genere non la si poteva tenere nascosta. Ogni parola l'aveva avvicinato a ciò che era innominabile, spaventoso. Ciò che per tanti anni aveva cercato di rimuovere.Ora non poteva più fuggire. Mentre camminava il più velocemente possibile sentì l'aria del mattino riempirgli i polmoni. Il cuore batteva forte nel petto. Non voleva andarci, ma doveva. E così aveva stabilito di lasciare che fosse il caso a decidere. Se ci fosse stato qualcuno, avrebbe parlato. Se invece non avesse trovato nessuno, avrebbe proseguito per andare a lavorare, come se non fosse successo niente. Ma quando bussò la porta si aprì. Oltrepassò la soglia e socchiuse gli occhi nella luce fioca. La persona davanti a lui non era quella che si era aspettato. I capelli lunghi le ondeggiavano ritmicamente sulla schiena mentre lo precedeva nella stanza successiva. Lui cominciò a parlare, a chiedere, mentre i pensieri gli vorticavano nella mente. Niente era come sembrava. Era sbagliato, o forse era giusto così. D'un tratto si zittì. Qualcosa l'aveva colpito al diaframma con una violenza tale da troncare le parole a metà. Abbassò gli occhi e vide il sangue affiorare mentre la lama scivolava fuori dalla ferita. Poi una nuova coltellata, una nuova fitta, e l'acciaio tagliente che gli si muoveva nel corpo. Capì che era la fine. Che la sua ora era scoccata, anche se gli restavano tante cose da fare, vedere, vivere. Ma c'era anche una sorta di giustizia, in questo. Non si meritava la bella vita che aveva avuto, tutto l'amore ricevuto. Non dopo quello che aveva fatto. Quando il dolore gli stordì tutti i sensi e il coltello si fermò fu la volta dell'acqua. Il rollio di una barca. Poi sprofondò nel mare freddo e non sentì più nulla. L'ultimo ricordo fu quello dei capelli di lei. Lunghi, neri. | << | < | > | >> |Pagina 9«Sono passati tre mesi! Perché non lo trovate?»Patrik Hedström osservò la donna seduta davanti a lui, più stanca e sciupata ogni volta che la vedeva. Veniva alla stazione di polizia di Tanumshede ogni settimana dal giorno in cui suo marito era scomparso, all'inizio di novembre. Tutti i mercoledì. «Stiamo facendo il possibile, Cia. Lo sai.» Lei annuì in silenzio, le mani che le tremavano leggermente in grembo. Poi alzò su di lui gli occhi pieni di lacrime. Non era la prima volta che Patrik sosteneva quello sguardo. «Non tornerà più, vero?» Ora non erano solo le mani a tremare, ma anche la voce, e Patrik dovette trattenersi dall'alzarsi, fare il giro della scrivania e abbracciare quella donna fragile. Doveva mantenere un comportamento professionale, anche se questo voleva dire contravvenire al suo istinto protettivo. Rifletté sulla risposta da darle. Alla fine inspirò profondamente. «No, non credo.» Cia Kjellner non fece altre domande, ma lui si accorse che le sue parole avevano solo confermato ciò che lei già sapeva. Suo marito non sarebbe tornato a casa. Il 3 novembre Magnus si era alzato alle sei e mezza, aveva fatto la doccia, si era vestito, aveva salutato i due figli e poi la moglie, diretti rispettivamente a scuola e al lavoro. Lui era uscito di casa più tardi, poco dopo le otto, per andare alla Tanumsfönster. Da quel momento se ne erano perse le tracce. Non era mai arrivato dal collega che avrebbe dovuto dargli un passaggio in auto, svanendo nel nulla in un punto imprecisato tra la sua abitazione nella zona del campo sportivo e la casa del collega dalle parti del campo di minigolf di Fjällbacka. Avevano passato in rassegna tutta la sua vita. Avevano diramato avvisi di ricerca, parlato con più di cinquanta persone, sia colleghi che familiari e amici, frugato a caccia di debiti da cui poteva essere fuggito, amanti, frodi contabili o qualsiasi cosa potesse spiegare la scomparsa nel nulla da un giorno all'altro di un quarantenne dotato di una posizione solida, con moglie e figli adolescenti. Non avevano trovato niente. Non risultava che fosse andato all'estero e neanche che avesse prelevato denaro dal conto cointestato con la moglie. Magnus Kjellner si era trasformato in un fantasma. Dopo aver accompagnato Cia all'uscita, Patrík bussò piano alla porta di Paula Morales. «Avanti» sentì rispondere subito. Entrò e se la chiuse alle spalle. «Di nuovo sua moglie?» «Sì» rispose Patrik con un sospiro, sedendosi davanti alla scrivania e mettendoci sopra i piedi. Ma l'occhiataccia della collega lo indusse a toglierli subito. «Pensi che sia morto?» «Sì, purtroppo» rispose. Era la prima volta che esprimeva ad alta voce il timore nutrito fin dai primi giorni. «Abbiamo controllato tutto e non c'è nessuna delle solite motivazioni che possono giustificare una scomparsa. Pare che sia solo uscito di casa e poi... svanito nel nulla!» «Ma niente cadavere.» «No, niente cadavere. E dove dobbiamo cercarlo? Non possiamo dragare il mare intero, o perlustrare palmo a palmo tutti í boschi intorno a Fjällbacka. Possiamo solo girare i pollici e sperare che qualcuno lo trovi, vivo o morto. Perché adesso non so proprio più cosa fare. E neanche so cosa dire a Cia quando viene qui tutte le settimane aspettandosi che abbiamo fatto progressi.» «È solo il suo modo di affrontare la tragedia, vuole reagire invece di starsene a casa ad attendere. Fossi nei suoi panni, l'inattività mi farebbe impazzire.» Paula lanciò un'occhiata alla foto accanto al computer. «Sì, lo so» disse Patrik. «Ma non per questo mi pesa meno.» «Be', certo.» Dopo qualche attimo di silenzio Patrik si alzò. «Non resta che sperare che salti fuori, in un modo o nell'altro.»
«Già» concordò Paula, con lo stesso tono rassegnato.
«Cicciona!» «Senti chi parla!» Anna guardò la sorella indicando con un gesto eloquente la sua pancia. Erica Falck si girò di profilo verso lo specchio, come Anna, e dovette ammettere che aveva ragione. Dio santo, era davvero enorme. Sembrava una pancia gigantesca a cui fosse stata appiccicata un po' di Erica per pura formalità. E il peso si sentiva tutto. In confronto, quando era incinta di Maja era un prodigio di agilità. D'altra parte questa volta i bambini erano due. «Non ti invidio per niente» disse Anna con la brutale sincerità tipica delle sorelle minori. «Ah, grazie davvero!» esclamò Erica spintonandola con la pancia. Anna la imitò e per poco non persero entrambe l'equilibrio. Ridevano tutte e due così forte che dovettero sedersi sul pavimento. «Non è possibile!» disse Erica asciugandosi qualche lacrima. «Non si può sembrare un incrocio tra Barbapapà e quel signore dei Monty Python che esplode dopo aver mangiato una mentina.» «In effetti sono proprio contenta dei tuoi gemelli. In confronto mi sento una silfide.» «Mi fa piacere per te» disse Erica cercando di alzarsi, con scarso successo. «Aspetta, ti aiuto io» intervenne Anna, ma anche lei, sconfitta dalla legge di gravità, ricadde pesantemente sul sedere. Si scambiarono un'occhiata d'intesa e gridarono all'unisono: «Dan!» «Cosa c'è?» si sentì dal piano di sotto. «Non riusciamo ad alzarci!» rispose Anna. «Cos'hai detto?» Lo udirono salire le scale in direzione della camera da letto. «Ma cosa state combinando?» esclamò divertito vedendo la compagna e la cognata sedute a terra davanti allo specchio a parete. «Non riusciamo ad alzarci» rispose Erica con tutta la dignità che riuscì a chiamare a raccolta, tendendo una mano. «Aspettate che vado a prendere il muletto» disse Dan fingendo di scendere di nuovo. «Ehi, tu!» lo ammonì Erica mentre Anna continuava a ridere. «E va bene, forse ce la faccio da solo.» Dan le afferrò la mano e tirò. «Oh... issa!» «Lascia perdere gli effetti sonori, per favore.» Erica si rizzò faticosamente in piedi. «Mamma mia se sei grossa!» esclamò Dan, e lei gli diede una sberla sul braccio. «Ormai l'avrai detto almeno cento volte, e non sei il solo. Mi fai il piacere di piantarla? Guardati la tua, di cicciona.» «Molto volentieri.» Dan tirò su Anna e ne approfittò per stamparle un bacio sulla bocca. «Sciò, a casa» gli disse Erica dandogli di gomito. «Veramente ci siamo già, a casa» rispose lui baciando di nuovo la compagna. «Giusto, ma allora vediamo di concentrarci sul motivo per cui mi trovo qui» concluse Erica andando verso l'armadio della sorella. «Non capisco cosa ti fa pensare che io possa aiutarti» disse Anna seguendola. «Dubito di avere qualcosa che ti vada bene.» «Be', e cosa faccio, allora?» Erica passò in rassegna i capi sulle grucce. «Stasera c'è la festa per il lancio del libro di Christian e l'unica alternativa che ho è la tenda degli indiani di Maja.» «Okay, okay, qualcosa dovremmo riuscire a inventarci. I pantaloni che hai addosso non sono niente male e credo di avere una camicia che forse potrebbe contenerti tutta. A me era un po' grande, almeno.» Tirò fuori dall'armadio una tunica lilla ricamata. Erica si tolse la maglietta e con l'aiuto della sorella se la infilò. Abbassandola sulla pancia si sentì un po' una salsiccia, ma ci stava dentro. Si girò verso lo specchio e scrutò critica la propria immagine. «Stai d'incanto» commentò Anna, ed Erica le rispose con un grugnito. Considerando l'ingombro del momento, essere un incanto le sembrava un po' un'utopia, ma se non altro aveva un aspetto dignitoso e sembrava quasi elegante. «Va bene» disse cercando di togliersela da sola, per poi rassegnarsi e farsi aiutare dalla sorella. «Dov'è la festa?» chiese Anna lisciando la tunica e riappendendola alla gruccia. «All'albergo centrale.» «Be', l'editore è stato carino a organizzare una festa per un esordiente» commentò Anna andando verso la scala. «Sono esaltatissimi. E le vendite vanno alla grande, considerando che è la sua prima esperienza letteraria, per cui lo fanno ben volentieri. A quanto ho sentito, anche la stampa sembra sostenerlo.» «E tu cosa ne pensi del libro? Immagino che ti piaccia, altrimenti non lo avresti raccomandato al tuo editore. Ma è davvero bello?» «Lo definirei...» Erica rifletté mentre scendeva cauta i gradini alle spalle della sorella. «Magico. Cupo e bello, inquietante e intenso e... insomma, magico è la descrizione migliore che ho.» «Christian dev'essere strafelice.» «Mah...» Erica sembrò esitare mentre andava in cucina e si metteva a preparare il caffè con i gesti sicuri di chi conosceva bene quella casa. «Immagino di sì. Però...» Smise di parlare per non perdere il conto dei misurini. «Quando il libro è stato accettato era molto contento, ma ho l'impressione che scrivendolo abbia fatto venire a galla qualcosa. È difficile dire cosa, anche perché in realtà non lo conosco bene. Non so perché si sia rivolto a me, ma naturalmente quando mi ha chiesto aiuto mi sono resa disponibile. Anche se non scrivo romanzi, una certa esperienza con i testi ce l'ho. E all'inizio è andato tutto benissimo. Christian aveva un atteggiamento positivo ed era aperto ai miei suggerimenti. Ma alla fine, quando volevo discutere certi punti, a volte si chiudeva in se stesso. Non saprei spiegarlo esattamente. Comunque è un tipo piuttosto eccentrico, forse è solo questo.» «Allora ha scelto il mestiere giusto» osservò Anna serissima, ed Erica si girò verso di lei. «Ah, quindi adesso non sono più solo una balena, ma anche un'eccentrica?» «E pure distratta.» Anna accennò alla macchina del caffè che Erica aveva appena acceso. «Metterci anche l'acqua in genere aiuta.»
L'apparecchio borbottò come per dire che era d'accordo e,
con un'occhiataccia alla sorella, Erica spense l'interruttore.
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