Autore David Lagercrantz
Titolo Quello che non uccide
EdizioneMarsilio, Venezia, 2015, Farfalle , pag. 504, cop.fle., dim. 13,4x20,5x3 cm , Isbn 978-88-317-2199-8
OriginaleDet som inte dödar oss [2015]
TraduttoreLaura Cangemi, Katia De Marco
LettoreAngela Razzini, 2015
Classe narrativa svedese , gialli












 

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Pagina 9

Parte prima


L'occhio che tutto vede
1° - 21 novembre



L'Nsa, o National Security Agency, è un ente federale statunitense che dipende dal dipartimento della Difesa. La sede centrale è a Fort Meade, nel Maryland, lungo la Patuxent Freeway.

Sin dalla sua fondazione nel 1952, l'Nsa si occupa di spionaggio di segnali elettromagnetici, oggi soprattutto del traffico Internet e telefonico. I suoi poteri sono stati ripetutamente estesi nel corso degli anni, e attualmente intercetta oltre venti miliardi di conversazioni e messaggi al giorno.

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Pagina 11

1.
Inizi di novembre



Frans Balder si era sempre considerato un pessimo padre.

Malgrado August avesse già otto anni, non aveva praticamente mai provato ad assumersi quel ruolo, e non si poteva certo dire che fosse particolarmente a suo agio neanche all'idea di farlo. Ma era suo dovere, la vedeva così. Con la madre e quel suo compagno del cazzo, Lasse Westman, il bambino non stava bene.

Perciò Frans Balder aveva lasciato il lavoro nella Silicon Valley ed era tornato a casa. In quel momento si trovava ad Arlanda, quasi in stato di shock, in attesa di un taxi. C'era un tempo veramente di merda: la pioggia e il vento forte gli sferzavano il viso, e per la centesima volta si domandò se avesse davvero fatto la cosa giusta.

Non era assurdo che proprio lui, tra tutti i dementi egocentrici, avesse deciso di fare il papà a tempo pieno? Per lui era più o meno come andare a fare il guardiano allo zoo. Non sapeva niente di bambini e ben poco anche della vita in generale, e la cosa più strana era che nessuno gliel'aveva chiesto. Non c'erano una madre o una nonna che gli avessero telefonato per richiamarlo alle sue responsabilità.

Aveva deciso tutto da solo, e adesso, senza il minimo preavviso e andando contro una vecchia sentenza di affidamento esclusivo, aveva intenzione di presentarsi a casa dell'ex moglie e di portare via con sé il bambino. Sarebbe sicuramente scoppiato un bel casino. Probabilmente le avrebbe anche prese da quello stronzo di Lasse Westman. Ma le cose stavano come stavano, perciò saltò su un taxi guidato da una donna che masticava compulsivamente una gomma e i cui tentativi di fare conversazione sarebbero falliti anche se fosse stato più in forma: Frans Balder non era il tipo da mettersi a chiacchierare del più e del meno.

Seduto sul sedile posteriore, si limitò a pensare al figlio e a tutto ciò che era successo negli ultimi tempi. August non era l'unico, e forse nemmeno il primo, dei motivi per cui aveva lasciato la Solifon. Tutta la sua vita era in una fase di cambiamento, e per un attimo si domandò se davvero avrebbe avuto la forza di affrontarlo. Mentre si dirigevano verso Vasastan, si sentiva svuotato di ogni energia e dovette reprimere l'impulso di lasciar perdere e basta. Ormai non poteva più fare marcia indietro.

Arrivati in Torsgatan pagò il taxi, scaricò il bagaglio e lo lasciò nell'ingresso. Portò su per le scale solo la valigia vuota, quella con il planisfero a colori vivaci che aveva comprato all'aeroporto San Francisco International. Poi si fermò trafelato davanti alla porta e chiuse gli occhi, immaginandosi strepiti e scene isteriche. In realtà non avrebbe certo potuto biasimarli. Non ci si presenta all'improvviso per strappare un bambino al suo ambiente familiare, soprattutto se si è un padre che fino a quel momento si è limitato a trasferire fondi su un conto corrente. Ma era una situazione d'emergenza, la vedeva così, perciò si fece coraggio e suonò il campanello, pur avendo una gran voglia di scappare da tutto.

Non aprì nessuno, almeno non subito. Poi la porta si spalancò e Frans si ritrovò davanti Lasse Westman, con i suoi intensi occhi azzurri, il torace massiccio e le mani enormi, che sembravano fatte apposta per far male alla gente ed erano il motivo per cui tanto spesso al cinema recitava la parte del cattivo. Anche se nessuno di quei personaggi – Frans ne era convinto – era cattivo come quello reale.

«Ma guarda che fortuna» disse Lasse Westman. «È venuto a trovarci il genio in persona.»

«Sono venuto a prendere August» rispose Frans.

«Cosa?»

«Ho intenzione di portarlo via con me, Lars.»

«Stai scherzando?»

«Non sono mai stato così serio» ribatté Frans. In quel momento la sua ex moglie spuntò da una porta sulla sinistra, e di sicuro non era più bella come una volta. C'erano stati troppi dolori, e probabilmente anche troppe sigarette e troppi bicchieri. Eppure Frans provò un'inattesa fitta di tenerezza, soprattutto quando notò che aveva un livido sul collo. Hanna sembrava voler dire qualche parola di benvenuto, nonostante tutto, ma non fece in tempo ad aprire bocca.

«Perché all'improvviso dovrebbe fregartene qualcosa?» riprese Lasse Westman.

«Perché adesso basta. August ha bisogno di un ambiente tranquillo.»

«E tu saresti in grado di offrirglielo, Einstein? Quando mai hai fatto qualcosa di diverso che fissare lo schermo di un computer?»

«Sono cambiato» disse Frans. Si sentiva patetico, e non solo perché non era per niente sicuro che fosse vero.

Vedendo Lasse Westman che si muoveva verso di lui con la sua mole e la sua rabbia repressa, rabbrividì. Era drammaticamente evidente che se gli si fosse scagliato contro non avrebbe potuto fare niente per difendersi e che tutta quell'idea era assurda fin dall'inizio. Ma stranamente non ci fu nessuna sfuriata, nessuna scenata, solo un sorriso sardonico accompagnato dalle parole: «Ah, ma è fantastico!»

«In che senso?»

«Nel senso che era ora, no, Hanna? Finalmente una prova di responsabilità da parte di Mister Superimpegnato. Bene, bravo!» proseguì applaudendo con fare teatrale. A posteriori, era stato proprio quello a spaventare di più Frans Balder: la facilità con cui avevano lasciato andare il bambino.

Senza protestare, se non simbolicamente, gli permisero di portare via August. Forse lo consideravano solo un peso. Chissà. Hanna gli lanciò alcuni sguardi difficili da decifrare, con le mani che le tremavano e le mascelle contratte. Ma fece troppo poche domande. Avrebbe dovuto sottoporlo a un interrogatorio incrociato, tirare fuori mille richieste e raccomandazioni, essere preoccupata per l'interruzione delle abitudini del bambino. Invece si limitò a dire: «Sei proprio sicuro? Ce la farai?»

«Sono sicuro» rispose Frans. Poi entrò in camera di August e, vedendolo per la prima volta dopo più di un anno, si vergognò.

Come poteva aver abbandonato un bambino simile? Era così bello e particolare, con quei capelli folti e ricci, il corpicino esile e gli occhi azzurri e seri, concentrati su un enorme puzzle che raffigurava un veliero. Tutto il suo essere sembrava gridare: «Non disturbatemi!», e Frans avanzò lentamente, come se si stesse avvicinando a una creatura sconosciuta e imprevedibile.

Eppure riuscì a distoglierlo dal gioco, a far sì che gli prendesse la mano e lo seguisse in corridoio. Non l'avrebbe mai dimenticato. Cosa pensava August, cosa gli passava per la testa? Non alzò gli occhi né su di lui né su sua madre, e ovviamente ignorò le parole e i cenni di saluto. Si limitò a infilarsi in ascensore insieme a lui. Tutto lì.


August era autistico. Probabilmente aveva un grave ritardo mentale, anche se su quel punto avevano ricevuto pareri discordi e a guardarlo da una certa distanza si sarebbe potuto dire il contrario. Con quel volto fine e concentrato emanava una nobiltà quasi regale, o almeno un'aura di distacco, come se pensasse che non valesse la pena di occuparsi di ciò che lo circondava. Ma osservandolo più da vicino si notava che aveva lo sguardo velato da una sorta di pellicola, e non aveva ancora imparato a parlare.

Con ciò aveva smentito tutte le prognosi formulate quando aveva due anni. All'epoca i medici avevano detto che probabilmente August faceva parte della minoranza di bambini autistici senza ritardo mentale, e che se avesse seguito la corretta terapia comportamentale le possibilità erano piuttosto buone, malgrado tutto. Ma niente era andato come avevano sperato, e sinceramente Frans Balder non sapeva cosa ne fosse stato di tutte quelle terapie di sostegno e riabilitazione, o anche solo della frequenza scolastica del bambino. Lui aveva sempre vissuto nel suo mondo, e poi se n'era andato negli Stati Uniti, dove era riuscito a mettersi contro tutto e tutti.

Era stato un idiota. Ma da quel momento in poi avrebbe ripagato il suo debito e si sarebbe preso cura del figlio. In effetti ci si era messo d'impegno: aveva richiesto le cartelle cliniche e parlato con specialisti e educatori, e subito era apparso chiaro che i soldi che aveva mandato a Hanna non erano andati a beneficio di August. Erano stati usati per altro, probabilmente per le sregolatezze e i debiti di gioco di Lasse Westman. Il bambino sembrava essere stato abbandonato a se stesso, finendo per cristallizzarsi nelle sue abitudini compulsive e probabilmente per subire cose anche peggiori. Ed era questo il vero motivo per cui Frans era tornato in Svezia.

L'aveva chiamato una psicologa preoccupata per alcuni lividi misteriosi sul corpo di August, lividi che aveva visto anche Frans. Ne aveva un po' dappertutto sulle braccia, le gambe, le spalle e il torace. Secondo Hanna erano la conseguenza degli attacchi del bambino, quando si dondolava violentemente avanti e indietro. In effetti già il secondo giorno anche Frans aveva assistito a uno di quegli attacchi, e la cosa l'aveva spaventato a morte. Però non gli sembrava che potesse essere la causa dei lividi.

Sospettava che August avesse subito delle violenze, perciò si rivolse a un medico e a un poliziotto che conosceva personalmente. Non riuscirono a confermare con certezza i suoi sospetti, ma Frans si mise a scrivere una serie di lettere e denunce, così preso dalla propria indignazione che a volte quasi si dimenticava della presenza del bambino. In effetti non era difficile scordarsi di lui: August passava gran parte del tempo seduto sul pavimento della camera con la finestra affacciata sul mare che Frans gli aveva preparato nella villetta di Saltsjöbaden, immerso nei suoi puzzle; quei puzzle mostruosamente difficili, con centinaia di pezzi, che componeva con abilità da virtuoso, solo per poi smontarli subito dopo e ricominciare da capo.

All'inizio Frans lo studiava affascinato. Era come osservare un grande artista all'opera, e a volte si lasciava prendere dall'illusione che da un momento all'altro il bambino potesse alzare lo sguardo su di lui e dirgli qualcosa di assolutamente adulto. Ma August non diceva mai una parola. Quando alzava la testa dal puzzle, i suoi occhi si limitavano a sfiorarlo, per poi fissarsi sulla finestra e sulla luce del sole riflessa sull'acqua fuori. Frans finì quindi per lasciarlo in pace, lì seduto nella sua solitudine, e in realtà non lo faceva nemmeno uscire molto spesso, anche solo in giardino.

Dal punto di vista formale non aveva il diritto di occuparsi di lui e non voleva correre rischi prima di avere sistemato le questioni giuridiche, e per questo lasciava che fosse Lottie Rask, la governante, a occuparsi della spesa, oltre che della cucina e delle pulizie. Frans Balder non era molto bravo in quelle cose. Se la cavava egregiamente con computer e algoritmi, ma poco altro. E più il tempo passava, più ci restava seduto davanti, o chino sulla corrispondenza con gli avvocati. Di notte dormiva male come negli Stati Uniti.

Lo aspettavano querele e casini, e ogni sera si beveva una bottiglia di vino, in genere Amarone, anche se nemmeno quello era di grande aiuto, se non a breve termine. Stava sempre peggio e cominciava a fantasticare di svanire nel nulla o di fuggire in qualche luogo inospitale, dimenticato da Dio. Poi un episodio lo riscosse dal suo torpore. Era una sera fredda e ventosa, e lui e August camminavano intirizziti lungo Ringvägen.

Erano stati a cena da Farah Sharif in Zinkens väg, e August avrebbe dovuto essere a letto da un pezzo. Ma la serata si era protratta più del previsto, e Frans aveva decisamente parlato troppo. Farah aveva quella caratteristica: sapeva spingere la gente ad aprirsi. Lei e Frans si conoscevano da quando entrambi studiavano informatica all'Imperial College di Londra, e ormai era una delle poche persone al suo livello in tutto il paese, o quanto meno una delle poche in grado di seguire i suoi ragionamenti senza difficoltà. Per lui era un sollievo incredibile incontrare qualcuno che lo capisse.

Ma era anche attratto da lei, malgrado non fosse mai riuscito a sedurla, nonostante diversi tentativi. Frans Balder non era molto bravo con le donne. Però quella volta Farah l'aveva salutato con un abbraccio che era quasi diventato un bacio, cosa che poteva essere considerata un grande passo avanti, come si diceva Frans mentre passava davanti ai campi sportivi di Zinkensdamm insieme ad August.

Decise che la volta successiva avrebbe chiamato una baby-sitter, e allora... chissà? Sentì abbaiare un cane un po' più avanti. Una voce di donna alle sue spalle gridò qualcosa, difficile dire se fosse allegra o incazzata. Frans guardava verso l'incrocio di Hornsgatan, dove intendeva prendere un taxi o la metro verso Slussen. C'era aria di pioggia, e una volta arrivati all'incrocio il semaforo diventò rosso. Dall'altro lato della strada c'era un uomo sulla quarantina, con l'aria trasandata e un viso vagamente familiare.

Prese August per mano, per assicurarsi che non scendesse dal marciapiede, e la sentì contratta, come se il bambino avesse reagito violentemente a qualcosa. Anche il suo sguardo era limpido e intenso, quasi che il velo che solitamente lo copriva fosse stato cancellato da un colpo di bacchetta magica, e invece di guardarsi dentro August cogliesse qualcosa di grande e profondo sull'incrocio e le strisce pedonali, più di quanto potesse fare chiunque altro.

Per questo Frans non badò al semaforo, diventato verde, e lasciò che il figlio restasse lì a osservare la scena. Provò una forte emozione senza sapere bene perché. In fondo era solo uno sguardo, nient'altro, e non era nemmeno uno sguardo particolarmente allegro o felice. Eppure gli ricordò qualcosa di dimenticato e sepolto nella sua memoria, e per la prima volta da molto tempo si sentì davvero fiducioso.

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4.
20 novembre



Edwin Needham, o Ed the Ned come era soprannominato, non era forse il tecnico della sicurezza più pagato degli Stati Uniti, ma probabilmente il migliore e il più orgoglioso. Suo padre Sammy era stato un farabutto della peggior specie, un ubriacone scalmanato che ogni tanto trovava qualche lavoretto al porto, ma più spesso si perdeva in forsennate bevute che non di rado si concludevano in cella o al pronto soccorso.

Ovviamente non era un bel vivere, ma per la sua famiglia i giri di bettola in bettola di Sammy erano i momenti migliori. Quando usciva a bere a volte la moglie Rita aveva un attimo di tregua in cui poteva stringere a sé i due figli e dir loro che sarebbe andato tutto bene. Il resto del tempo era un disastro. La famiglia viveva nel quartiere di Dorchester, a Boston, e quando il padre li degnava della sua presenza in genere riempiva di botte Rita, che spesso passava ore, se non intere giornate, chiusa nel bagno a piangere e tremare.

Nei periodi peggiori vomitava sangue, perciò nessuno restò particolarmente stupito quando morì per un'emorragia interna a soli quarantasei anni, né quando la sorella maggiore di Ed iniziò a farsi di crack, né tanto meno quando padre e figli si ritrovarono sulla soglia della miseria.

Con un'infanzia del genere, Ed era chiaramente instradato verso una vita incasinata, e in effetti per tutta l'adolescenza aveva fatto parte di una gang che si faceva chiamare "The Fuckers" e seminava il terrore a Dorchester, dedicandosi a guerre tra bande, aggressioni e rapine a negozi di alimentari. Uno dei suoi migliori amici, un ragazzo di nome Daniel Gottfried, era morto appeso a un gancio da macellaio, sventrato con un machete. In quegli anni Ed era stato davvero sull'orlo dell'abisso.

Fin da ragazzo aveva un'aria rozza e brutale, impressione che non veniva certo mitigata dal fatto che non sorrideva mai e gli mancavano due denti nell'arcata superiore. Era alto e muscoloso e non aveva paura di niente; il suo viso spesso mostrava segni di lotta a causa delle liti con il padre o di qualche scontro con una banda rivale. La maggior parte dei suoi insegnanti ne era a dir poco terrorizzata, e tutti quanti erano convinti che sarebbe finito in galera o con una pallottola in testa. Ma c'erano anche adulti che avevano iniziato a occuparsi di lui, forse perché si erano accorti che nei suoi ardenti occhi azzurri non c'erano solo aggressività e violenza.

Ed aveva anche una smisurata fame di scoperte, un'energia che gli faceva divorare un libro con la stessa grinta con cui distruggeva i sedili di un autobus di linea. Spesso non aveva nessuna voglia di tornare a casa e restava seduto per ore nella cosiddetta aula tecnica, davanti a uno dei rari computer in dotazione. Un insegnante di fisica di nome Larson aveva notato l'abilità di Ed e, dopo un'attenta analisi della sua situazione che aveva coinvolto anche i servizi sociali, era riuscito a fargli assegnare una borsa di studio, dandogli la possibilità di trasferirsi in una scuola con alunni più motivati.

Ed aveva iniziato a brillare negli studi e ottenuto nuove borse di studio e riconoscimenti, arrivando a studiare Electrical Engineering and Computer Science al Mit di Boston – un piccolo miracolo, tenuto conto dei presupposti di partenza. Dopo una tesi di dottorato su alcuni timori riguardanti i nuovi sistemi di crittografia asimmetrica come il protocollo Rsa, aveva ricoperto posizioni di responsabilità alla Microsoft e alla Cisco, per poi essere reclutato dalla National Security Agency, l'Nsa, con sede a Fort Meade nel Maryland.

In realtà il suo curriculum non sarebbe stato abbastanza immacolato per avere quel posto, e non solo per via dei reati minori commessi durante l'adolescenza. Al college aveva fumato parecchia marijuana e aveva mostrato tendenze socialiste se non addirittura anarchiche, e in realtà era stato arrestato due volte anche da adulto, per aggressione, per quanto si trattasse di banali risse da bar. Aveva mantenuto il suo temperamento violento, e chi lo conosceva evitava di litigarci.

Ma all'Nsa avevano visto anche le sue altre qualità, senza contare che era l'autunno del 2001. I servizi segreti americani avevano talmente bisogno di esperti informatici da assumere praticamente chiunque, e negli anni successivi nessuno aveva avuto motivo di mettere in dubbio la lealtà o il patriottismo di Ed, e se per caso qualcuno lo aveva fatto, erano sempre prevalsi i suoi pregi.

Ed infatti non era solo estremamente dotato. Possedeva anche una sorta di ossessività, una precisione maniacale e un'efficienza feroce a dir poco perfette per un uomo incaricato di proteggere la sicurezza informatica di uno degli organismi più segreti d'America. Nessuno stronzo doveva essere in grado di forzare i suoi sistemi, per lui era una questione personale. A Fort Meade si era rapidamente reso indispensabile, e la gente faceva la coda per consultarlo. A molti continuava a fare paura, anche perché strapazzava senza pietà i suoi collaboratori. Aveva mandato all'inferno perfino il direttore dell'Nsa, il leggendario ammiraglio Charles O'Connor.

«Occupati di cose che capisci» aveva ululato Ed una volta che l'ammiraglio aveva tentato di esprimere un'opinione sul suo lavoro.

Ma Charles O'Connor aveva lasciato correre, come facevano tutti. Sapevano che Ed aveva i suoi buoni motivi se urlava e strepitava: qualcuno aveva trascurato le procedure di sicurezza o parlato di cose che non capiva. Non si era mai intromesso nel resto dell'attività dell'agenzia di spionaggio, sebbene grazie alle sue prerogative godesse di una visione d'insieme quasi completa e negli ultimi anni l'organismo si fosse trovato al centro di una violenta tempesta mediatica in cui sia da destra che da sinistra lo si dipingeva come il male personificato, l'incarnazione del Grande Fratello di Orwell. Ma per quanto riguardava Ed, l'Nsa poteva fare quel cazzo che voleva, purché i suoi sistemi di sicurezza restassero rigorosi e intatti.

Dato che non si era mai fatto una famiglia, viveva praticamente in ufficio. Era una risorsa su cui si poteva sempre contare, e malgrado tutti i controlli a cui ovviamente anche lui era stato sottoposto, non era mai emerso niente di sospetto, tranne forse qualche sbronza colossale in cui tendeva a farsi prendere dal sentimentalismo e a rivangare i brutti momenti che aveva passato. Ma niente indicava che si fosse mai lasciato sfuggire di cosa si occupava. Nel mondo esterno era chiuso come un'ostrica, e se per caso qualcuno insisteva a chiedergli del suo lavoro, si atteneva sempre alle solite bugie confermate da Internet e dai database pubblici.

Non era quindi un caso, né il risultato di intrighi o macchinazioni, se aveva fatto carriera fino a diventare il responsabile della sicurezza della sede centrale, che aveva rivoltato come un guanto per evitare «di farci prendere a pesci in faccia dalla gola profonda di turno». Grazie a interminabili notti di veglia, Ed e la sua squadra avevano rafforzato la sorveglianza interna da tutti i punti di vista, arrivando a creare quello che lui stesso a seconda dei momenti definiva come «un muro impenetrabile» o «un piccolo segugio assatanato».

«Nessuno stronzo può entrare e frugare qua dentro senza permesso» diceva, e ne era infinitamente orgoglioso.

O almeno lo era stato fino a quella maledetta mattina di novembre. Era una bella giornata serena, nel Maryland non c'era traccia delle tempeste che infuriavano sull'Europa e la gente andava in giro in camicia e giubbotto leggero. Ed, che negli ultimi anni aveva messo su una discreta pancetta, stava tornando dal distributore di caffè con la sua caratteristica andatura caracollante.

Grazie alla posizione che ricopriva, se ne fregava del codice di abbigliamento e indossava un paio di jeans e una camicia a scacchi rossi che gli tirava sullo stomaco. Si sedette alla scrivania con un sospiro. Non era in gran forma: gli facevano male la schiena e il ginocchio destro, e maledisse la collega Alona Casales, l'affascinante e linguacciuta lesbica con un passato all'Fbi, che due giorni prima era riuscita a trascinarlo a correre, probabilmente per puro sadismo.

Per fortuna non aveva niente di particolarmente urgente da fare, doveva solo spedire un memo interno con alcune nuove regole di condotta ai responsabili del Cost, un programma di collaborazione con le grandi aziende informatiche. Ma non riuscì ad andare molto avanti. Fece solo in tempo a scrivere, nella sua prosa come al solito irriverente: Perché a nessuno venga la tentazione di fare l'idiota, ma continuiate tutti a comportarvi da buoni agenti paranoici, voglio raccomandarvi... Dopodiché fu interrotto da uno dei segnali d'allarme che lui stesso aveva installato.

Sul momento non si preoccupò più di tanto. L'allarme era talmente sensibile da reagire alla minima alterazione nei flussi informatici. Di sicuro si trattava solo di una piccola anomalia, probabilmente qualche utente che aveva cercato di forzare i propri limiti di autorizzazione, o qualcosa del genere.

Ma non fece in tempo a verificarlo, perché un attimo dopo accadde qualcosa di talmente inquietante che per diversi secondi rifiutò semplicemente di crederci. Rimase lì seduto a fissare lo schermo, anche se sapeva benissimo cosa stava succedendo. O almeno lo sapeva la parte del suo cervello che riusciva ancora a pensare razionalmente. C'era un Rat nell'NsaNet, la rete Intranet dell'Nsa. Se fosse stato in qualunque altro punto del sistema, avrebbe pensato: brutti stronzi, adesso gliela faccio vedere io! Ma lì, nella parte più chiusa e controllata, che il suo team aveva passato al setaccio diecimila volte solo nel corso dell'ultimo anno per eliminare anche la minima vulnerabilità, lì no, non era possibile, proprio non era possibile.

Chiuse gli occhi senza rendersene conto, come se sperasse che in quel modo il problema sarebbe svanito. Ma quando tornò a guardare lo schermo, la frase che stava scrivendo era stata completata. Il suo ... voglio raccomandarvi... proseguiva con le parole: ... che smettiate di compiere azioni illegali. In realtà è molto semplice: chi sorveglia il popolo alla fine sarà sorvegliato dal popolo. C'è una fondamentale logica democratica in questo.

«Cazzo, cazzo» borbottò tra sé, segno che stava almeno iniziando a reagire.

Ma poi il testo proseguì ancora: Non agitarti, Ed. Fatti un giro insieme a me, piuttosto. Ho preso il controllo del root, e a quel punto Ed lanciò un urlo. Nel leggere la parola "root" si sentì morire, e per circa un minuto, mentre il suo computer viaggiava alla velocità della luce attraverso le parti più segrete del sistema, pensò sul serio che gli sarebbe venuto un infarto, solo confusamente consapevole delle persone che iniziavano a radunarsi attorno a lui.

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Seduto di fronte a Farah Sharif davanti a una tazza di tè, Mikael Blomkvist guardò in direzione degli alberi di Tantolunden che si vedevano dalla finestra e, pur sapendo che era un segno di debolezza, desiderò di non avere un articolo da scrivere e di poter stare semplicemente lì senza doverla mettere sotto pressione.

Sfogarsi non sembrava averla fatta sentire meglio. Aveva il viso stravolto e gli occhi scuri dallo sguardo intenso, che sulla porta l'avevano trafitto, sembravano disorientati. Di tanto in tanto Farah mormorava il nome di Frans, come in un mantra o uno scongiuro. Forse lo amava. Sicuramente lui doveva avere amato lei. Aveva cinquantadue anni e un grande fascino. Non era dotata di una bellezza classica, ma sicuramente di un portamento regale.

«Che tipo era?» le chiese.

«Frans?»

«Sì.»

«Era un paradosso.»

«In che senso?»

«In ogni senso possibile, ma forse soprattutto perché lavorava con tutto se stesso a ciò che lo angosciava di più in assoluto. Come Oppenheimer a Los Alamos, insomma: si occupava di quella che pensava potesse rivelarsi la nostra rovina.»

«Non ti seguo.»

«Frans voleva ricreare l'evoluzione biologica a livello digitale. Lavorava sugli algoritmi di autoapprendimento che, grazie al metodo del trial and error, riescono a migliorare se stessi. Ha contribuito anche allo sviluppo dei cosiddetti computer quantistici su cui lavorano Google, la Solifon e l'Nsa. Il suo obiettivo era realizzare l'AGI, l'Artificial General Intelligence.»

«E cosa sarebbe?»

«Qualcosa che è intelligente quanto l'essere umano ma nello stesso tempo possiede la velocità e la precisione del computer in tutte le discipline meccaniche. Una creazione del genere ci darebbe enormi vantaggi in ogni campo della scienza.»

«Certo.»

«Nel settore la ricerca è molto ampia e, anche se non tutti hanno l'esplicita ambizione di arrivare all'AGI, la concorrenza ci porta in quella direzione. Nessuno può permettersi di non creare le applicazioni più intelligenti possibili o di impedire in qualche modo l'evoluzione del segmento. Pensa soltanto a quello che abbiamo realizzato finora, a quello che c'era nel tuo cellulare cinque anni fa e a quello che c'è oggi.»

«Già.»

«In passato, prima di cominciare a fare il misterioso, Frans calcolava che potessimo arrivare all'AGI nel giro di trenta o quarant'anni, e forse sembra una valutazione drastica. Personalmente però mi chiedo se non sia stato troppo prudente. La capacità dei computer raddoppia ogni diciotto mesi e il nostro cervello fatica a concepire le implicazioni di un'evoluzione esponenziale di questo genere. È un po' come il chicco di riso sulla scacchiera, hai presente? Si mette un chicco sulla prima casella e due sulla seconda e quattro sulla terza e otto sulla quarta.»

«E ben presto i chicchi di riso sommergono il mondo.»

«Il tasso di crescita aumenta in continuazione e a un certo punto va fuori controllo. L'aspetto interessante, in realtà, non è quando arriveremo all'AGI ma cosa succederà dopo. Gli scenari sono molteplici, anche a seconda del modo in cui si sarà raggiunto il traguardo, ma sicuramente useremo programmi che si aggiornano e si migliorano da soli, e qui non dobbiamo dimenticare che avremo davanti un nuovo concetto di tempo.»

«In che senso?»

«Nel senso che ci lasceremo alle spalle i limiti umani e verremo proiettati in un nuovo ordine in cui le macchine si aggiorneranno da sole alla velocità del fulmine, ventiquattr'ore su ventiquattro. Solo pochi giorni dopo aver realizzato l'AGI avremo l'ASI.»

«Cioè?»

«L'Artificial Super Intelligence, un'entità più intelligente di noi. Da quel momento tutto procederà sempre più in fretta. I computer cominceranno a migliorarsi a ritmo accelerato, forse con un fattore dieci, e diventeranno cento, mille, diecimila volte più intelligenti di noi, e cosa succederà in questo caso?»

«Chissà.»

«Esatto. L'intelligenza in sé non è prevedibile. Non sappiamo dove ci porterà l'intelligenza umana, e ancora meno quello che accadrà con una superintelligenza.»

«Nella peggiore delle ipotesi, per i computer non saremo più interessanti di una manciata di topolini bianchi» s'inserì Mikael, ricordando quello che aveva scritto a Lisbeth.

«Nella peggiore delle ipotesi? Noi abbiamo in comune con i topi il novanta per cento del nostro dna e si calcola che siamo circa cento volte più intelligenti. Cento volte, non di più. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che secondo i modelli matematici non ha inibizioni e forse può diventare più intelligente di milioni di volte rispetto a noi. Riesci a immaginarlo?»

«Sto tentando» rispose Mikael con un sorriso appena accennato.

«Quello che intendo dire» continuò lei, «è questo: come pensi che si senta un computer che si sveglia e si trova imprigionato e controllato da insettini primitivi come noi? Perché dovrebbe adeguarsi? Perché dovrebbe mostrare nei nostri confronti un riguardo esagerato, o addirittura permetterci di frugare dentro di lui per fermare il processo? Rischiamo di ritrovarci nel bel mezzo di un'esplosione di intelligenza, una singolarità tecnologica, come l'ha chiamata Vernor Vinge. Tutto ciò che succederà di lì in poi è al di là del nostro orizzonte degli eventi.»

«Quindi nel momento stesso in cui creiamo una superintelligenza, perdiamo il controllo.»

«Il rischio è che tutto ciò che sappiamo del nostro mondo smetta di valere e che si assista alla fine dell'esistenza umana.»

«Stai scherzando?»

«So che alle orecchie dei non addetti suona come una follia, ma è una questione estremamente concreta. Oggi migliaia di persone in tutti i continenti lavorano per impedire un'evoluzione del genere. Molti sono ottimisti o addirittura utopisti. Si parla di "Friendly ASI", di superintelligenze amichevoli programmate fin dall'inizio per aiutarci e basta. Insomma, qualcosa di simile a quanto immaginato da Asimov in Io, Robot , con leggi incorporate che impediscono alle macchine di danneggiarci. L'inventore e scrittore Ray Kurzweil prefigura un mondo meraviglioso in cui, con l'aiuto della nanotecnologia, ci integriamo con i computer e condividiamo con loro il futuro, ma naturalmente non ci sono garanzie. Le leggi possono essere abrogate. Il significato iniziale delle programmazioni può cambiare ed è facilissimo commettere errori dal punto di vista antropomorfico, attribuendo alle macchine caratteri umani e fraintendendo la spinta propulsiva intrinseca. Frans era ossessionato da queste domande e come dicevo era anche combattuto, desiderando e insieme temendo i computer intelligenti.»

«Non riusciva a fare a meno di costruire i suoi mostri.»

«Diciamo così, anche se è una formulazione un po' drastica.»

«A che punto era arrivato?»

«Credo più avanti di quanto potesse immaginare chiunque, e penso che fosse un'altra delle ragioni per cui era così riservato sul suo lavoro alla Solifon. Aveva paura che il programma finisse nelle mani sbagliate e perfino che entrasse in contatto con Internet finendo per confluirvi. L'aveva chiamato August, come suo figlio.»

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