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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione di Letizia Jervis Comba 13 Prefazione dell'autore all'edizione originale 15 Prefazione dell'autore all'edizione Pelikan L'io diviso Parte prima 21 I. Le basi fenomenologico-esistenziali di una scienza delle persone 33 II. Le basi fenomenologico-esistenziali per la conoscenza della psicosi 47 III. L'insicurezza ontologica Parte seconda 75 IV. L'io corporeo e l'io incorporeo 90 V. L'io interiore nella condizione schizoide 108 VI. Il sistema del falso io 122 VII. «La coscienza di sé» 138 VIII. Il caso di Peter Parte terza 157 IX. Sviluppi psicotici 181 X. L'io e il falso io dello schizofrenico 200 XI. Lo spirito del giardino delle erbacce. (Un caso di schizofrenia cronica) |
| << | < | > | >> |Pagina 21Capitolo primo
Le basi fenomenologico-esistenziali
di una scienza delle persone
Si designa col termine «schizoide» un individuo la cui totalità di esperienza personale è scissa a due livelli principali: nei rapporti con l'ambiente, e nei rapporti con se stesso. Da una parte questo individuo non è capace di sentirsi insieme con gli altri, né di partecipare al mondo che lo circonda, ma, al contrario, si sente disperatamente solo e isolato; dall'altra non si sente una persona completa e unitaria, bensí si sente «diviso» in vari modi: per esempio vive se stesso come una mente e un corpo uniti fra loro da legami incerti, oppure come due o piú persone distinte. In questo libro si tenterà di descrivere e comprendere alcune persone schizoidi e schizofreniche da un punto di vista fenomenologico-esistenziale. Prima però è necessario mettere a confronto questo punto di vista e quello della psichiatria clinica e della psicopatologia ufficiali. La fenomenologia esistenziale si propone di precisare la natura dell'esperienza che si ha del proprio ambiente e di se stessi. Non si tratta tanto di descrivere i diversi oggetti particolari di questa esperienza, quanto di porre tutte le varie esperienze singole entro il contesto di un globale «essere-nel-mondo». Le cose dette e fatte da uno schizofrenico sono destinate a restare, essenzialmente, assurde e inspiegabili se non si comprende il loro contesto esistenziale. Come tenterò di mostrare descrivendo un modo particolare di impazzire esiste una transizione comprensibile da un modo schizoide (ma sano) a un modo psicotico di essere nel mondo. Naturalmente, pur conservando i termini «schizoide» e «schizofrenico» per indicare rispettivamente lo stato sano e lo stato psicotico, non li userò nel loro significato clinico consueto, bensí in senso fenomenologico ed esistenziale. | << | < | > | >> |Pagina 47Capitolo terzo
L'insicurezza ontologica
A questo punto possiamo definire con maggior precisione la natura della nostra ricerca clinica. Un uomo può avere il senso della sua presenza nel mondo come persona reale, viva, intera e, in senso temporale, continua. Come tale vive nel mondo e ne fa parte, e incontra gli altri; e sia questi che quello vengono vissuti come altrettanto reali, vivi, interi e continui. Questa persona, fondamentalmente sicura in senso ontologico, è in grado di affrontare la vita e le sue difficoltà di ordine sociale, etico, spirituale e biologico, armata di questo suo senso, solido e centrale, della realtà e della identità di se stessa e degli altri. Ed è spesso difficile, per una persona con un tale senso della sua identità personale, col senso della permanenza e della interezza di sé e delle cose, col senso della stabilità e della sostanzialità dei processi naturali; è spesso difficile per una persona cosí trasporsi nel mondo di un individuo, nella cui esperienza manchi invece completamente ogni certezza al di là del dubbio, ogni certezza di per sé evidente. Il nostro studio riguarda le cose che succedono quando vi è un'assenza o un difetto delle certezze derivanti da una condizione esistenziale che ora possiamo chiamare sicurezza ontologica primaria, e quando al loro posto vi sono ansietà e pericoli che, come qui suggerisco, provengono soltanto da una insicurezza antologica primaria; riguarda infine i tentativi, conseguenti a questa condizione, di affrontare quelle ansietà e quei pericoli. | << | < | > | >> |Pagina 108Capitolo sesto
Il sistema del falso io
L'«io interiore» fantastica ed osserva: osserva i processi della percezione e dell'azione. L'esperienza non tocca direttamente questo io, o almeno questa è l'intenzione, e gli atti dell'individuo non ne sono espressione. I rapporti diretti col mondo rientrano nella provincia del sistema del falso io: esamineremo ora le caratteristiche di questo sistema. Occorre comprendere che la descrizione che si darà qui del sistema del falso io vuole riferirsi specificamente al problema di quel modo particolare di essere-nel-mondo che abbiamo chiamato schizoide. Ogni uomo ha il problema personale di essere fedele o no, entro certi limiti, alla sua vera natura. Per fare un esempio preso dalla clinica: la persona isterica, o quella in stato ipomaniacale, hanno ciascuna il proprio modo di non essere se stessi. Invece il sistema del falso io che verrà qui descritto esiste come complemento di un io «interiore», che è occupato a conservare la sua identità e la sua libertà mediante la trascendenza, mediante l'essere incorporeo, e che pertanto non può mai essere afferrato, fermato, o posseduto. È sua finalità essere un puro soggetto, senza nessuna esistenza oggettiva. Perciò tranne in certi eventuali momenti di sicurezza, l'individuo cerca di considerare tutto l'insieme della sua esistenza oggettiva come espressione di un io falso. Naturalmente, come è già stato accennato, e come si vedrà meglio piú avanti, se un uomo non ha due dimensioni, se non possiede una identità a due dimensioni, stabilita da una congiunzione fra «identità per gli altri» e «identità per se stesso»; se non esiste tanto oggettivamente quanto soggettivamente, ma possiede invece solo una identità soggettiva, solo «identità per sé», allora quest'uomo non può essere reale. È assai raro incontrare un uomo «senza maschera»: si può anche dubitare che un tale uomo possa esistere. Tutti portiamo, in qualche misura, una maschera; sono molte le situazioni nelle quali non vogliamo entrare completamente. Nella vita «comune» sembra quasi impossibile che succeda altrimenti. Ma il falso io dello schizoide differisce per molti versi dalla maschera indossata dalla persona «normale», e anche dalla falsa facciata caratteristica dell'isterico. A evitare confusioni sarà utile esaminare brevemente queste differenze. Nella persona «normale» può aversi un buon numero di azioni che si svolgono in modo virtualmente meccanico. Le zone di comportamento meccanico, però, non coprono necessariamente ogni aspetto dell'attività, né impediscono in modo assoluto l'emergenza di espressioni spontanee; d'altra parte non sono cosí completamente estranee all'individuo da indurlo a tentare attivamente di ripudiarle, come se fossero corpi ostili alloggiati nel suo organismo. Inoltre esse non assumono caratteristiche proprie, autonome e costrittive, tali che l'individuo possa sentirle vive per conto proprio, e a lui dannose, anziché sentire che è lui che le sta vivendo. La questione, comunque, non si pone con tale penosa intensità da spingere l'individuo a combattere e distruggere questa realtà estranea, che esiste dentro di sé come se avesse un'esistenza separata e quasi personale. Tutte queste caratteristiche, invece, che sono assenti nella persona «normale», sono vivacemente presenti nel sistema del falso io schizoide. | << | < | > | >> |PaginaCapitolo settimo
«La coscienza di sé»
Il termine «coscienza di sé», abbraccia due aspetti: l'essere consapevoli di se stessi e l'essere consapevoli di sé come oggetto dell'osservazione di un'altra persona. I due aspetti sono strettamente legati fra loro. Nello schizoide assumono entrambi una forma acuta, ed entrambi si presentano in modo coatto. Lo schizoide è assai spesso tormentato da questa consapevolezza involontaria per tutto ciò che si svolge entro di lui, e da questo senso, ugualmente involontario, che il suo corpo sia un oggetto che si trova nel mondo percettivo degli altri: il senso di essere continuamente visto, o almeno di essere potenzialmente sempre visibile. La sensazione può riguardare principalmente il proprio corpo, ma può anche essere associata all'idea della penetrabilità, e della vulnerabilità, del proprio io mentale, e allora l'individuo ha l'impressione che la propria «mente» o «anima» possa essere vista facilmente, come se fosse trasparente. Di solito il paziente parla di questa sensazione di trasparenza in termini metaforici, ma nelle psicosi lo sguardo scrutatore dell'altro può essere vissuto come una penetrazione reale nell'io «interiore». Negli adolescenti questa sensazione acuta e intensa è praticamente universale, e si accompagna ai ben noti fenomeni di timidezza, rossori, imbarazzi. È facile invocare una forma o l'altra di «senso di colpa» per spiegare l'origine di tutto questo. Ma il dire, per esempio, che l'individuo è eccessivamente consapevole di sé «perché» si sente segretamente colpevole di qualche cosa (per esempio di masturbazione), non ci porta molto lontano. Quasi tutti gli adolescenti si masturbano, e non di rado vivono nel timore che la loro attività segreta traspaia in qualche modo dal viso. Ma perché, se la «colpa» è la chiave del fenomeno, essa ha proprio queste conseguenze e non altre? Vi sono molti modi di sentirsi colpevoli, oltre a un senso acuto di se stesso come oggetto imbarazzato e ridicolo agli occhi degli altri. La «colpa» in quanto tale non ci aiuta a comprendere il fenomeno. Molte persone schiacciate da un profondo senso di colpa non si sentono affatto eccessivamente consapevoli di sé. Inoltre è possibile, per esempio, dire una bugia e sentirsi colpevoli nel dirla, ma senza affatto temere che la bugia possa esser letta in viso, e nemmeno che il proprio naso possa allungarsi. Perciò per il bambino è una importante conquista raggiungere la certezza che gli adulti non hanno modo di sapere ciò che egli sta facendo, se non lo vedono, e possono solo fare congetture sui suoi pensieri, se non è lui a parlarne; che le azioni che nessuno ha visto e i pensieri tenuti nascosti sono assolutamente inaccessibili agli altri, a meno che non sia lui stesso a tradirsi. Il bambino che non sa tenere un segreto o che è incapace di dire una bugia a causa di timori magici primitivi non ha stabilito in pieno la sua identità e la sua autonomia. Senza dubbio vi sono molte circostanze in cui esistono buone ragioni per non dire bugie, ma l' incapacità di dirle non è la migliore di queste ragioni. La persona consapevole di sé ha l'impressione di essere oggetto dell'altrui interesse piú di quanto lo sia in realtà. Se, camminando per la strada, si trova di fronte un gruppo di persone, deve farsi forza per riuscire a oltrepassarlo, e preferisce traversare la strada. Entrare in un ristorante e sedersi a un tavolo è un'impresa terribile. Se va a ballare, prima di entrare nella pista deve attendere che altre coppie l'abbiano preceduto, e cosí via. È curioso che le persone che soffrono di ansia intensa quando devono presentarsi a un pubblico non siano, in generale, «coscienti di sé», mentre coloro che di solito lo sono in grado estremo possano invece perdere ogni preoccupazione morbosa del genere proprio quando si trovano di fronte a un pubblico: situazione, si direbbe a prima vista, che dovrebbe risultare la piú difficile da superare. |
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