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| << | < | > | >> |Pagina 5Il lettore di filosofia Giovanni Maria Onofri alzò gli occhi verso il vano della finestra attraverso il quale entrava la luce di quella calda mattina di agosto. Aveva sul tavolo di fronte a sé i volumi fin allora editati in Amsterdam, a partire dal 1650, dell' Opera philosophica di Cartesio. Benché la Sapienza fosse chiusa per la lunga vacanza estiva, egli si era recato di buon'ora nella biblioteca dell'ateneo per proseguire, nella sua veste di consultore della Congregazione dell'Indice, l'esame di quei testi. Il razionalismo cartesiano lo convinceva in più parti, ma sapeva di non poter spendere pubblicamente la sua opinione in favore di quelle idee. Nonostante l'autore avesse adoperato ogni cautela per non incorrere nella censura ecclesiastica, il nostro consultore si trovava costretto a segnalare tutti quei passi che mal si conciliavano con il magistero della Chiesa cattolica. Dopo aver fissato su un foglio alcune note, il professore s'immerse nuovamente in quelle pagine e continuò la lettura fino a quando i rintocchi di mezzodì delle campane non lo distolsero. Chiuse il volume che esaminava lasciando un foglio fra le pagine, radunò le carte sul tavolo e rimase in attesa che arrivasse il custode per chiudere a chiave la porta della biblioteca. Si lasciò distrarre per alcuni minuti dai rumori che giungevano dalla strada sottostante, poi si alzò, indossò il giustacuore nero, prese il cappello e si avviò verso l'uscita. Percorrendo il loggiato superiore sinistro, chiamò a voce alta il giovane Matteo, guardiano da circa un anno dell'edificio. Non udì risposta. Allora si affacciò per guardare nel cortile. Non scorgendo alcuna presenza, scese le scale e quando fu al pianoterra, dopo aver abbracciato con una rapida occhiata la doppia fila di arcate saldate in fondo dalla chiesa non ancora consacrata di S. Ivo, elegante frutto del genio di Borromini, attraversò il cortile e si diresse verso l'alloggio del custode. Ne trovò la porta chiusa. Bussò con insistenza, ma inutilmente. Quindi procedette lungo il perimetro del porticato battendo con le nocche ad altre porte, compresa quella di S. Ivo, ma del guardiano non trovò traccia. Ritenendo a quel punto che costui si fosse allontanato dalla Sapienza per una improvvisa necessità, abbandonò l'ateneo, chiudendone il portone con il saliscendi, e si diresse verso casa. Il percorso da fare era breve, poiché la sua abitazione si trovava vicino alla chiesa di S. Agostino, accanto al palazzo Baldassini. Si tuffò nell'andirivieni della folla, impegnato tra una riflessione su Cartesio e una sull'insolito comportamento di Matteo, senza prestare attenzione ai ciarlatani, ai carri, ai richiami ossessivi dei venditori ambulanti. Non fece neppure caso a due ragazzini che giocavano con una cavalletta legata a un filo: nel suo procedere distratto inciampò nel filo e lo spezzò, suscitando la protesta dei piccoli aguzzini. Quel gioco crudele, praticato all'occasione da tanti adolescenti, appariva agli occhi degli adulti come una sorta di rivalsa per le frequenti invasioni di quegli insetti che provocavano gravissimi danni ai raccolti. Alla cerca di un rimedio per tale piaga biblica, sei anni prima i contadini della campagna romana avevano fatto ricorso a Sua Santità per supplicarlo di intervenire. E papa Innocenzo si era prodigato, incaricando tre vescovi di andare a scomunicare e maledire quegli animali. I solerti prelati si erano quindi recati nelle campagne, armati di efficaci apparati, per escludere i famelici insetti dalla comunità dei fedeli e per comandare loro di andarsene "al mare per il Tevere". Un cronista dell'epoca riferì che le cavallette, dopo aver spogliato le campagne, si erano trasferite effettivamente nella zona del fiume, dove purtroppo avevano sostato alquanto, dandosi a devastare l'orto dei frati di S. Bartolomeo a ponte Quattro Capi, rosicchiandone persino le cortecce degli alberi. Poi, non avendo più nulla da divorare, in obbedienza al comando di Sua Santità, se n'erano andate per la via del Tevere. Quando il professore giunse nei pressi della sua abitazione, sgombrò la mente da ogni pensiero e affrettò il passo, mettendo mano alle chiavi. Ma il portone di casa si aprì inaspettatamente, facendo apparire la figura della serva Caterina. "Bontà divina: finalmente!", proruppe agitata costei. L'esuberanza del suo giovane corpo guerreggiava con un abito piuttosto castigato. Onofri si arrestò: "Che accade?". "Oh, signor mio, la padrona è uscita e non è ancora tornata". L'uomo corrugò la fronte: "Spiegati meglio". "Ebbene, stamattina sono andata al mercato di piazza Navona, lasciando la signora Giuditta in casa. Quando sono rientrata non ho trovato nessuno". "E allora?". "Allora ho preparato il pranzo e dopo ho aspettato che la padrona si facesse viva, ma finora...", s'interruppe, allargando le braccia. "Non è il caso di allarmarsi: avrà avuto i suoi motivi per uscire", obiettò lui. "Intanto togliamoci dalla strada e andiamo dentro". Il professore, appesi nell'ingresso cappello e giustacuore, salì nello studio. Ne scese subito dopo ed entrò nella grande sala del pianoterra, scostò una sedia dal tavolo di noce e vi si accomodò. Istintivamente il suo sguardo cadde sull'orologio posato sopra la mensola del camino. "Speriamo che questa non sia la giornata dei misteri", pronunciò a bassa voce. Poi poggiò le mani sulle ginocchia e restò in silenzio. | << | < | > | >> |Pagina 12Arrivato all'altezza di palazzo Chigi, il professore sentì levarsi una voce. Si scosse e, quando percepì che qualcuno faceva il suo nome, si arrestò e si voltò verso la fonte del suono."O signor Gian Maria, mi avete già tanto nel culo da non rispondere più al mio saluto?", lo apostrofò il pittore Salvator Rosa, parandosi di fronte a lui con un largo sorriso. "Amico mio, perdonatemi", si giustificò Onofri. "Sto attraversando un brutto momento e la mia testa va per conto suo". "Che vi accade?". "Mi accade che la mia Giuditta è sparita". "Che dite mai professore?". "Eh dico, dico, purtroppo". Ancora una volta Onofri dovette raccontare della misteriosa scomparsa di sua moglie e della visita da lui fatta nell'abitazione dei genitori della donna rivelatasi infruttuosa. "Ora sono diretto a casa per vedere se è tornata", concluse. "Allora, se non vi dispiace, vengo con voi", propose Salvatore. "Potrei esservi d'aiuto". "Mio caro Rosa, vi ringrazio", disse il professore, posando una mano su una spalla dell'artista. "Da un animo come il vostro non mi aspettavo di meno". Si avviarono, continuando a parlare dell'argomento, formulando diverse possibili cause di tale scomparsa. Quando imboccarono la strada delle Coppelle, incontrarono Caterina appena uscita dalla chiesa di San Salvatore. La ragazza trasmise ai due uomini, con un eloquente atteggiamento mesto, il risultato delle proprie ricerche. Tuttavia Onofri non riuscì a trattenere l'ormai ovvia domanda: "Niente, vero?". "Niente, padrone mio, niente", rispose Caterina, scuotendo la testa. "Ho cercato dappertutto, anche nelle chiese del rione. Ho interrogato almeno venti persone, ma nessuno l'ha vista". Poi, coprendosi il viso con le mani, aggiunse: "Dio mio, che fine ha fatto la mia signora?". "Non fare così", la esortò il professore, "vedrai che la troveremo. Sei stata a casa?". "Ci sono stata due volte". "Ora tornaci e rimani lì, perché è quasi l'ora dell'Ave Maria. Io e il signor Rosa andremo al Santo Spirito e all'Ospedale dei fiorentini nel caso che Giuditta si fosse sentita male". "Signor Gian Maria," intervenne Salvatore, mentre la giovane serva si allontanava, "andrò io in quegli ospedali. Voi, intanto, andate a esplorare altri luoghi. Ci rivedremo stasera a casa vostra, con buone nuove, speriamo". "D'accordo, facciamo come dite. E ancora grazie per la mano che mi date". "Questo mio aiuto è una sciocchezza in confronto ai favori che voi fate a me". Il pittore alludeva a certi libri proibiti che il lettore di filosofia gli passava sottobanco, in omaggio alla lunga amicizia che li legava. Testi di Luciano di Samosata, di Erasmo, di Niccolò Franco, del "perniciosissimo" Lucrezio e di vari altri autori dannati. Operazione rischiosa per entrambi, dati i tempi. Da cento anni la Chiesa di Roma vietava la produzione, la vendita e la lettura dei libri che esprimevano idee o visioni religiose in conflitto con la dottrina cattolica. Fin dal 1559, infatti, ossia dall'anno della promulgazione del primo Indice dei libri proibiti voluto da papa Paolo IV, chi stampava, divulgava o leggeva i testi compresi in quel nutrito elenco (che negli anni si era notevolmente rimpolpato) correva seri rischi. Se scoperto, il malcapitato veniva processato e condannato a pene differenti, secondo la gravità del 'reato'. Ad alcuni autori di libri vietati, invece, era toccata sorte ben peggiore: il carcere a vita o il rogo. Erano trascorsi cinquantanove anni dalla morte tra le fiamme di Giordano Bruno, quaranta dal taglio della lingua e dal rogo inflitti a Giulio Cesare Vanini, ventisei dall'imposta umiliante abiura di Galilei e dalla sua condanna agli arresti domiciliari perpetui, appena quindici da quando era stato arso in Avignone Ferrante Pallavicino. I due amici, dunque, si mossero. Le loro strade si divisero davanti alla scalinata di Sant'Agostino. | << | < | > | >> |Pagina 37"Chi desìa non marcir servo a gli incomodi, a dir rosso il turchino e chiaro il fosco convien che spesso la sua lingua accomodi; esser muto bisogna e sordo e losco, e chi genio non ha da far la scimia lasci Babelle e si ritiri al bosco; qui non è del mentire arte più esimia, del simular più fertile semenza, de l'adulazion più certa alchìmia. Finger bisogna il santo in apparenza, e col goffo ugualmente e con l'accorto parlar sempre di cielo e di coscienza. Quanti vedrai col volto serio e smorto nel tempio, e sospirar senz'intervallo, piangere e salmegiare a collo torto!"."State dipingendo proprio un bel panorama", osservò Bandinelli. "In sostanza intendete dire che per vivere tranquillamente o per far carriera in questa città è necessario fingere e adulare, o quantomeno mettersi la maschera, poiché onestà e verità sono virtù pericolose da manifestare". "Tale situazione esiste ovunque, non solo a Roma", intervenne Rasponi. "Qualsiasi potere, imponendo servitù, inevitabilmente genera questi comportamenti nei sudditi". L'artista, sollecitato da quelle parole, non si trattenne: "Eh, dite, dite voi. La verità nuda e cruda è che da secoli la Curia romana convive con nepotismo, dissolutezza, impostura e altre nefandezze di ogni genere. Tutto il guaio è nato dall'essersi il vescovo di Roma vestito di istituzione, di un potere politico dal quale, invece, doveva tenersi ben lontano, poiché dal potere discendono menzogna, violenza e corruzione. Cristo non fu, infatti, né re né papa. Insomma: i successori degli apostoli dovevano limitarsi a predicare la parola di Nostro Signore e a imitarlo, invece si sono incamminati, tranne alcuni, sulla strada di Satana. Si sono permessi perfino di correggere Dio: quando Egli comanda per esempio di non uccidere senza alcuna eccezione, ecco saltar fuori i sofismi dei tanti Bellarmino intesi a definire giustizia l'omicidio ordinato dalle istituzioni, così che la Chiesa possa ammazzare liberamente, al coperto delle sue ipocrisie". "Attento Rosa, queste sono parole da libertino o, peggio, da eretico", lo ammonì Rasponi, alzando le mani al cielo. "Per la stima che ho di voi farò finta di non aver sentito". "Monsignore, chi pensa senza paraocchi è solitamente considerato un eretico. Infatti così in molti mi definiscono, a causa delle mie scelte. E non pochi si augurano ch'io finisca nelle mani del Sant'Offizio. Nonostante ciò io non rinuncerò mai a usare la mia testa". "Il discorso s'è fatto pericoloso", rilevò Bandinelli. "Torniamo piuttosto a coloro che simulano e a quelli che dissimulano, perché lì eravamo. Il mondo così come è fatto li contempla, caro Salvatore, e ogni sforzo per cambiarlo è risultato sempre vano". "Apparentemente, amico mio", obiettò Rosa. "Il mondo cambia, invece, pur se i nostri occhi sul momento non l'avvertono, e quando cambia in bene lo si deve alle persone che ne denunciano i mali e gli errori, anche a costo di lasciarci la pelle. La presenza in una società del servilismo ipocrita e della dissimulazione delle proprie idee, sono segni appunto della sua degenerazione e quindi della necessità di doverla cambiare. In quanto poi all'argomento iniziale, quando dicevo che la cosiddetta fortuna in questa città abbevera quasi esclusivamente gl'immeritevoli, desidero farvi vedere com'è fatta, a parer mio, tale fortuna". Detto ciò posò i fogli e, con l'indignazione che gli montava dentro, andò a scoprire una grande tela addossata a una parete. I due ecclesiastici si alzarono e si piantarono davanti al quadro. Furono subito colpiti dall'immagine di una fanciulla bionda e avvenente, con il seno e le gambe scoperte, che versava da una grande cornucopia i doni più preziosi su vari animali. Poi osservarono le monete, le corone, gli scettri, i gioielli, le spighe di grano e i mantelli di porpora riprodotti nell'atto di ricadere in abbondanza su un asino che calpestava libri, allori, pennelli e tavolozze di colori, su un porco che mangiava perle premendo una zampa sopra una rosa, su una volpe, un lupo, un uccello rapace, un castrone, un allocco, un bufalo e un bue. Quando il loro sguardo ritornò alla donna che simboleggiava la Fortuna, notarono che non era affatto bendata, come spesso la si rappresentava, e che vedeva bene su chi faceva ricadere i suoi benefici. La satira pittorica era così eloquente da non richiedere alcuna spiegazione. Davanti a loro, in piena evidenza, era mostrato uno dei meccanismi vitali per ogni potere. I due monsignori restarono senza fiato. "È davvero un'opera magnifica che ben si accoppia ai versi che finora ci avete letto", disse Bandinelli. "Come l'avete intitolata?". "Vogliamo chiamarla La Fortuna?", suggerì Rosa con un sorriso malizioso. I due ecclesiastici si scambiarono uno sguardo significativo. | << | < | > | >> |Pagina 159"Toglietemi una curiosità: voi siete credente?", disse Carlo de' Rossi contemplando ancora una volta La Fortuna. Deciso ad acquistare il quadro in questione a qualunque prezzo, quella mattina, dopo gli inutili tentativi fatti nei giorni precedenti, il banchiere aveva finalmente trovato Salvatore in casa. Doveva averlo interrotto mentre dipingeva perché il pittore era andato ad aprirgli con addosso una vecchia sopravveste di tela sporca di vari colori. Al banchiere la domanda era sorta fulminea, quasi fosse stata suggerita dal dipinto. "Confusamente", rispose Rosa. "Certi aspetti della realtà m'invitano a dire di sì, certi altri a negare l'esistenza di Dio. La matematica dell'universo, splendido in qualche sua parte, mi fa chinare la testa. Le pestilenze, i terremoti, le inondazioni, le carestie, le tante stragi di innocenti, le mille sofferenze che vengono inflitte al genere umano dalla natura mi obbligano a dire di no. Non è possibile, infatti, che dalla volontà di un Essere, per definizione buono e misericordioso, si originino questi mali. Oltre a ciò, trovo difficile accettare la schiavitù del credente, il dover pregare e adorare in continuazione, rinunciando al dubbio e ai liberi percorsi dell'intelletto, l'assumere le sofferenze come un valore, un accumulo di meriti per guadagnarsi il paradiso. Per quanto riguarda poi la nostra Chiesa che sembra essersi messa al posto del Padreterno, mi chiedo continuamente cosa vogliano dire le sue imposizioni dottrinali, l'invenzione dei sacramenti e del purgatorio, le beatificazioni e le santificazioni, la compravendita delle indulgenze, le cascate di vantati miracoli, le fastose cerimonie, gli ori, i paramenti, le processioni con trecento cavalli al seguito, il prostrarsi a baciare la santa pantofola, lo stomachevole culto dei cadaveri, i digiuni, i cilici, il dover fare trenta volte il giro delle quattro basiliche per un totale di duecentocinquanta miglia al fine di ottenere il Giubileo, pagando spesso con la vita quel sacrificio... A cosa serve tutto ciò se non ad alimentare la nostra credulità, le nostre paure, il nostro servilismo? Se ben ricordate, nella mia sesta satira ho scritto: 'quanto a Babilonia agrada / tutto a spese si fa del nostro credere' ". "Santi numi", lo interruppe sorridendo l'amico de' Rossi, alzando gli occhi e le braccia al cielo. "Il vostro aver letto quel sofista di Luciano vi ha fatto marcire la zucca". "Al contrario. Io dico, invece, che quello scrittore antico mi ha aperto la mente, mi ha fatto riflettere su tante cose, e mi ha tolto, vivaddio, tutti i fumi della superstizione. Vi par poco? Apposta i corvi l'hanno ficcato nell'Indice, dove si trova il meglio del pensiero umano. E voi, signor Carlo, che tanto amate i miei dipinti 'scandalosi', credete in Dio? Siete un buon cattolico?". "Quanto chiedete, dunque, per La Fortuna?", s'informò de' Rossi, eludendo le domande. Il pittore sorrise a fior di labbra: "Se il pennello di un 'reprobo' non vi crea problemi, ritengo sia sufficiente il doppio del prezzo dell'ultimo quadro che vi ho venduto". Il banchiere assentì e, trovato l'accordo anche sul giorno della consegna del dipinto, si avviò, seguito da Salvatore, verso l'uscita. Quando si affacciò in strada vide avvicinarsi a passo svelto don Girolamo Mercuri, allora si voltò verso l'amico e disse: "A proposito di corvi: ne sta arrivando uno". Rosa allungò il collo. "Magari tutti i corvi fossero come lui", osservò. "Voi non avete idea dell'affetto immutato che porto a quell'uomo fin da quando mi fece venire qui da Napoli".
Don Girolamo, che aveva sentito bene le parole dei due,
si fermò davanti a loro e si rivolse divertito a Salvatore:
"Chi sarebbe il corvo?".
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